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Autore Discussione: MONICELLI, la freschezza a 93 anni "Ma l'Italia ora è alla deriva"  (Letto 9024 volte)
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« inserito:: Agosto 31, 2008, 12:25:45 am »

 Mostra di Venezia 2008Il grande vecchio del cinema alla Mostra presenta un corto sul quartiere in cui vive

"Ci arrivai quando c'era il fascismo, che ora sta tornando in abiti nuovi"

Monicelli, la freschezza a 93 anni "Ma l'Italia ora è alla deriva"

Il regista rievoca il '68: "Fu una sciagura, portò al consumismo"

E sul cinema: "Mi piacciono Garrone e Sorrentino, ai giovani consiglio semplicità"


dal nostro inviato CLAUDIA MORGOGLIONE



 VENEZIA - L'Italia di oggi? "Una barca alla deriva, dominata dal pensiero unico". Il Sessantotto? "Divertente qui alla Mostra del cinema, ma per il resto fu una sciagura". La situazione politica attuale? "Sta tornando il fascismo, sotto altre forme". Il cinema di casa nostra? "Garrone e Sorrentino sono bravi, e tra vent'anni li celebrete come adesso fate con me". E' un fiume in piena, Mario Monicelli. Classe 1915, maestro indiscusso della settima arte, porta una ventata di freschezza al Lido. Con la sua lucidità intatta, la sua verve, le sue battute da toscanaccio. Ma anche con il suo cinema: il cortometraggio Vicino al Colosseo c'è Monti, presentato oggi fuori concorso e da lui diretto, è stato adorato da pubblico e critici. Un omaggio al rione romano in cui il regista vive da tanto tempo, nato da un'idea di sua moglie, Chiara Rapaccini.

Monicelli, è davvero così affezionato a Monti?
"Sì, ci sto da anni. Anzi, la prima volta ci sono stato negli anni Trenta - lei non ci crederà, ma allora avevo già l'età che ha lei adesso. Trovai in affitto una camera ammobiliata: aveva l'ingresso scala, cioè indipendente, in modo da poterci portare anche persone non frequentabili. E poi ancora adesso, entrando nei negozi del rione, tutti mi accolgono in modo civile, senza particolare riguardo, e senza pretendere nulla da me. Mentre giravamo gli abitanti sono stati molto collaborativi, ma senza smancerie".

La Roma di oggi è tanto diversa da quella della sua gioventù?
"E' più grande, più affollata, con più divertimenti. Quando ci arrivai io, negli anni Trenta, dopo le nove e mezzo di sera era già tutto buio".

Allora c'era il fascismo, come descriverebbe la situazione politica attuale?
"Forse il fascismo sta tornando: non esplicitamente, ma con un altro vestito. E sta tornando anche la povertà di allora: ma allora eravamo tutti poveri, oggi la povertà non viene accettata".

Torniamo un momento sulla situazione politica italiana.
"L'Italia è una barca che due generazioni di classe dirigente hanno ormai portato alla deriva. Per salvarla ci vorrebbe un nuovo equipaggio. Dalla generazione precedente abbiamo ereditato la corruzione, che si prolunga fino a ora. Non c'è più musica, non c'è più letteratura, non c'è danza, c'è solo qualche sussulto al cinema. Ma in generale non c'è più nulla".

Pensa che ci vorrebbe un altro Sessantotto, di cui quest'anno ricorre il quarantennale?
"No. Quella è stata una rivolta dei figli contro i padri: i genitori insegnavano loro a rispettare la scuola, a tirare la cinghia, mentre i ragazzi hanno detto 'basta, divertiamoci, consumiamo'. E' stata quella la generazione che ci ha trascinato nel consumismo attuale: la gente, invece di imparare a lavorare, pensa a comprarsi la Ducati".

Eppure lei c'era, alla protesta sessantottina qui alla Mostra di Venezia.
"Sì, c'ero. Facevo parte dell'Anac, l'associazione degli autori che contestava la gestione dell'epoca. Facemmo una manifestazione alternativa, volevamo fare un cinema diverso. Fu divertente: ricordo Zavattini trascinato via, i distinguo di Pasolini... Allora almeno era un'Italia molto combattiva, oggi c'è il pensiero unico".

E il cinema di adesso? Oggi qui a Venezia in concorso c'è il film di Ferzan Ozpetek...
"Lui è una persona stimabile, e poi la Sandrelli ha dichiarato che il suo è un film 'potente': un aggettivo meraviglioso".

Eppure, finora, qui al Lido le opere più applaudite sono state il suo corto e quello di un regista centenario, Manoel De Oliveira.
"Aspettiamo che diventino vecchi anche Garrone e Sorrentino, ho visto i loro ultimi film, belli, o Virzì, Marra, Amoruso: e vedrete che applaudirete anche loro. Bisogna avere pazienza, ci vogliono altri vent'anni. Certo, non tutti i film possono venir bene: io ne ho fatti 65 ma ne vengono ricordati al massimo due, quindi 63 non erano buoni. Il problema è anche la distribuzione, gli esercenti sono dei bottegai. Insomma, siamo in mano ai salumai".

E di De Oliveira, cosa pensa?
"E' la mia ossessione: è più vecchio, più bravo di me, e ha fatto anche più festival. E più sveglio e attivo, perché viene dal circo equestre: non vedo l'ora che scompaia (scherza)! Io invece vengo dalla portineria, e faccio fatica anche a camminare a Monti".

Ha altri progetti dietro la macchina da presa?
"Per adesso non sto lavorando. Ma spero ancora di realizzare un'idea che ho in mente da cinquant'anni, senza riuscire mai a farla. Non ho voglia però di parlarne, sembrerei presuntuoso".

Un consiglio ai giovani cineasti?
"Scegliere storie di una semplicità elementare, che è la cosa più difficile. Non mettere troppe cose e troppi personaggi nel tentativo di renderle interessanti. Sono le storie semplici che nel tempo continuano a emozionare".


(30 agosto 2008)


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« Ultima modifica: Aprile 05, 2010, 11:32:46 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 20, 2009, 11:41:35 pm »

Monicelli: «Il regista? Un comandante che deve saper sfidare i tifoni»
 
 di Roberto Gervaso


ROMA (20 aprile) - È l’ultimo grande patriarca del grande cinema italiano. Un patriarca di novantaquattro anni che ne dimostra venti di meno, e vive come un saggio che ama la solitudine.Un saggio solitario, ma non misantropo, spietatamente sincero e ironicamente paradossale.

Vive, anche lui di ricordi, ma niente intorno, nel suo lillipuziano appartamento nel cuore del cuore di Roma, li risuscita. A parte i due leoni d’oro, che distrattamente m’indica come se non fossero d’oro (e non lo sono). Mario Monicelli ha una memoria inesorabile e un’amabilità incantevolmente rispettosa.

E’ vero che è figlio d’arte?
«Mio padre, giornalista famoso, fondò la prima rivista di cinema: Lux et umbra».

Ed è vero che lei debuttò sul set come ciacchista?
«Sì. Battevo con l’assicella contro la tavoletta che segnava l’inizio di una ripresa cinematografica».

Il suo primo giro di manovella come regista?
«Un cortometraggio per i Littoriali della cultura nello scorcio degli anni Trenta».

Quanti film ha firmato come regista?
«Sessantacinque, compresi quelli a passo ridotto».

E come sceneggiatore?
«Con Gentilomo, regista ebreo negli anni Trenta. Ero anche suo assistente».

Che genere di film?
«Un giallo con Umberto Melnati e Maria Mercader, spagnola, seconda moglie di De Sica».

Rivede i suoi film, almeno i più famosi: I soliti ignoti, Guardie e ladri, Un borghese piccolo piccolo, L’armata Brancaleone, La grande guerra?
«A volte sì; a volte no. M’infastidiscono gli stacchi pubblicitari».

Conserva i copioni dei suoi film ?
«Non conservo niente. Nemmeno le foto».

Deve il successo più alla critica o al pubblico?
«Per l’ottanta per cento al pubblico; per il venti, alla critica. All’inizio, gli autori della commedia all’italiana furono ignorati. Solo dopo gli elogi e gli applausi dei francesi spopolarono nei cinema».

I suoi maestri, se ne ha avuti?
«Oltre a Gentilomo, Camerini e Blasetti».

I suoi allievi?
«Non sono così presuntuoso da rivendicare un magistero».

Cos’è stato per il cinema di Fellini?
«Stranamente, pur non essendo neorealista, la critica lo ha sempre celebrato. Ma che immaginazione».

E Rossellini?
«È diventato un’icona. Grande successo però lo ebbe solo con Roma città aperta».

E De Sica?
«Che attore, che autore, che regista. Sciuscià, il suo primo film del dopoguerra, furoreggiò negli Stati Uniti».

E Visconti?
«Nessuno, forse, ha dato più rigore al nostro cinema e teatro. Era l’antitesi della trasandatezza e dell’improvvisazione. Aveva un grande rispetto per il lavoro ed era di un perfezionismo implacabile».

E che cosa è stato per il cinema italiano?
«Sono stato autore, sceneggiatore, regista della commedia italiana, così diversa da quella americana e da quella francese. Ho sempre cercato di raccontare storie tragiche con toni ironici. Il macabro, la vista di un cimitero, in certe situazioni, fanno sorridere. O, addirittura, ridere».

Il cinema è stato più talento o mestiere?
«Un po’ questo, un po’ quello. Sono come la forma e la sostanza. Diceva D’Annunzio “Se la forma è perfetta, lo è anche il contenuto”».

Il cinema deve lanciare messaggi?
«Mai. E nemmeno la letteratura. Le risulta che nell’Iliade e nell’Odissea Omero abbia lanciato messaggi?».

Cosa rende un film di culto?
«Nell’immaginario collettivo, il film che dopo anni continua ad esercitare sul pubblico l’appeal del debutto. Quando diventa un classico».

Cosa è stata la commedia all’italiana?
«Un grande momento che mostrò un’importante realtà».

Quale realtà?
«Quella di un’Italia drammatica, squallida, corrotta, raccontata ed evidenziata dalla commedia all’italiana».

Che cosa resta di questa povera Italia?
«Quella buona, quella onesta».

Quale Italia lei ha voluto rappresentare nei suoi film?
«Un popolo di arruffoni, d’intrallazzatori, di pressappochisti, di menefreghisti, di gente che tira a campare pensando solo a fare ciccia per sé e per i propri cari. Un popolo che accomoda tutto, si accontenta di tutto, senza principi, senza morale, senza carattere».

La più dramamtica delle sue commedie all’italiana?
«La grande guerra».

Perché?
«Per i due protagonisti. Due vigliacchi che muoiono coraggiosamente. Gassman perché offeso dai nemici. Sordi perché vuole emularlo».

Da cosa nasce la risata?
«Da un contrasto improvviso, dalla soluzione inaspettata di un fatto che sembrava senza via di scampo».

La risata è sempre aggressiva?
«La risata sa di dileggio, soprattutto se intrisa di sarcasmo. Ed è anche vile».

Perché?
«Perché infierisce sul vinto».

E da cosa nasce il sorriso?
«Dall’ironia. Sempre ispirata da un sentimento gentile».

Jules Renard, nel suo stupendo Diario, la definì il ”pudore della verità”
«Bella».

Perché tanto turpiloquio nel cinema d’oggi?
«Perché fa successo».

Solo per questo?
«Direi proprio di sì. Come la pornografia».

E’ sempre stato soddisfatto dei suoi film?
«Sempre, forse no. Qualcuno talvolta mi ha lasciato perplesso».

La fase più difficile nella confezione di un film?
«Per quanto mi riguarda, il tono».

Cioè?
«Quello che Verdi chiamava la tinta del Rigoletto, della Traviata, dell’Aida. Io lo chiamo il pedale giusto da pigiare. Se lo sbagli o lo pigi male (troppo o troppo poco) non ottieni il risultato voluto».

Le doti di un regista?
«Innanzitutto, la capacità di fantasticare, di immaginare».

Altre doti?
«La capacità di tenere in mano la situazione e la troupe. Il regista è come il comandante di una nave che deve saper sfidare i tifoni».

Quando un regista diventa un grande regista?
«Quando raggiunge meglio degli altri questa coralità».

Si può fare un buon film con un mediocre regista?
«No. Come non lo si può fare senza un buon sceneggiatore».

E si può fare un mediocre film con un ottimo regista?
«Sì. E sempre con un buon sceneggiatore».

Era più libero il regista ai suoi tempi o è più libero oggi?
«Certamente, ai miei tempi. Allora il cinema tirava, come si dice, molto. In Italia se ne producevano circa duecento all’anno».

I maestri del cinema americano del Novecento?
«Buster Keaton, Wilder, Chaplin, Capra e Ford (con che ironia e con che pacatezza di toni descriveva i grandi spazi e vi ambientava le sue storie».

Il produttore ideale?
«Quello che ama il cinema, che legge, capisce ciò che gli proponi…».

E che ti fa anche buone offerte economiche?
«Badando non solo al successo di cassetta, al profitto, ma anche al valore artistico del film in cui ha investito il proprio denaro».

L’attore ideale?
«Chi ama trasformarsi. Al vero attore piace diventare un altro e immedesimarsi nel ruolo. Il vero attore non recita».

L’attore deve essere necessariamente intelligente?
«Penso di sì. Perché è un truffatore, un ingannatore, senz’anima. Lo sa che nel Settecento gli attori venivano sepolti in terra sconsacrata?».

Come si lavorava con Totò?
«Era un grande professionista. Ma c’era in lui un’anima sotterranea. Era una specie di Pulcinella inquietante».

Com’era Sordi sul set?
«Amava diventare un altro e lo diventava dentro. Senza bisogno di parrucche e parrucchini. Con pochissimi tratti si trasformava».

Hollywood non l’ha mai tentata?
«No. Pur se era, ed è, una grande vetrina, anche economica. Quanti registi italiani hanno accettato proposte dai produttori hollywoodiani? Le parlo di registi, non di attori. E sa perché?»

Perché?
«Perché i nostri registi, quelli bravi, fanno solo ciò che conoscono e sanno fare al meglio».

Com’è arrivato a novantaquattro anni?
«Vivendo solo»

Ma la solitudine non sempre è una buona compagnia
«Nel mio caso, lo è stata, e lo è. Ti tiene sempre in esercizio».

In che senso?
«Nel senso che devi fare tutto da te: tenere in ordine la casa, fare la spesa, cucinare. Sa cosa si rischia se si vive in famiglia?»

Di essere seguito e, in caso di necessità, accudito
«No: si rischia il rincoglionimento su una sedia a rotelle. La famiglia, mi creda, accorcia la vita».

Solo i vent’anni hanno le ali?
«No, le puoi mettere anche a settanta. Certo, a vent’anni, è più facile spiccare i grandi voli».

Meglio vivere bene o vivere a lungo?
«Vivere bene».

Con che animo guarda al passato?
«Sono soddisfatto del mio passato, anche se non mi sono state risparmiate sofferenze e lutti. Non mi scambierei con nessuno».

Come vive il presente?
«Abbastanza bene perché il mondo, l’Europa, l’Italia, viste da casa mia, m’interessano ancora molto».

Il futuro la sgomenta?
«No. Non credo all’aldilà, alla vita eterna. Vorrei essere politeista».

Come passa la giornata?
«La mattina mi alzo piuttosto tardi e sempre malvolentieri. Potrei stare a letto anche ventiquattro ore, ascoltando musica e leggendo libri che m’interessano».

Il suo più adorabile difetto?
«Il narcisismo, temperato dall’ironia. Quel che faccio e dico, lo faccio e lo dico a mio vantaggio».

La sua più insopportabile virtù?
«Riconoscere, sempre per narcisismo, i miei torti. Una forma, se vuole, di ostentazione».

Le persone che più ha amato e che ama?
«Mio padre e due, tre donne».

Vale più l’entusiasmo dei giovani o l’esperienza degli adulti?
«Ma i giovani non hanno più entusiasmi. Non vogliono soffrire e faticare e cercano rifugio nella droga».

Perché tanto conformismo fra i giovani?
«I giovani sono sempre stati conformisti. Preferiscono appartenere al loro gregge che ubbidire ai genitori e seguirne i buoni consigli».

Le piace questa Italia?
«E come potrebbe? È quella di sempre. Quella di Metternich che la definì “espressione geografica”. Quella di Dante nel Purgatorio: “Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello”».

Lei è sempre stato di sinistra. Si riconosce in quella attuale?
«Sono sempre stato di sinistra, ma in questa non mi riconosco. È tutto un camuffamento dell’Idea per esibirsi nei vari talk-show. Tutti sono sempre in campagna elettorale, litigano nel salotto di questo o di quel conduttore, poi, a telecamere spente, tutti insieme in trattoria».

Cosa non le piace di questa destra?
«La sua illusione che l’Italia sia ormai pronta per essere governata in modo intelligente da un gruppo di benpensanti».

Cosa rimprovera alle femministe?
«Di avere tradito».

Tradito che cosa?
«Nel 1968 finalmente si liberarono dell’antica, anacronistica sudditanza al maschio. Poi, quando si andò a votare, votarono per i vecchi partiti».

Una sua vecchia amica, Luciana Castellina, ha detto che lei è “cattivissimo”.
«L’ha detto in modo affettuoso»

Cosa intendeva?
«Inflessibile e intransigente, non solo sul set, ma anche nella vita privata».


da ilmessaggero.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 30, 2010, 11:18:38 pm »

30/11/2010 - LA MORTE DI UN MEAESTRO

L'ultima guerra di Mario Monicelli

Si getta nel vuoto una delle ultime coscienze italiane.

E' appena finito un giorno terribile. Una delle ultime coscienze critiche di questo paese se n'è andata. Per sua stessa mano.

Mario Monicelli si è ucciso. Diranno che non doveva. Si chiederanno come possa uccidersi un uomo di 95 anni. Scriveranno che il suicidio è peccato. Come se uno, anche da morto, debba beccarsi gli strali del bigottismo più palloso. Quello che ha sbertucciato per una vita intera. Diranno anche che un uomo di 95 anni non si piange. Che la morte fa parte della vita (sempre originali, i coccodrilli).

E invece no. Questa è una morte che fa più male di quella di un bambino. Perché Monicelli era un bambino.
E non era un bambino come gli altri.

E' vero, non faceva più grandi film. Poteva permetterselo: uno che gira La grande guerra, ad sola, può anche smettere di pensare.
E lui non aveva mai smesso. Non solo nei Soliti Ignoti.

Non so se l'avrebbe preso come complimento - non credo -, ma le sue cose migliori ultimamente erano le interviste. Neanche sei mesi fa, aveva raccontato in due minuti lo schifo dell'Italia contemporanea. Uno dei momenti più alti mai visti nel piccolo schermo.

A Raiperunanotte, mentre in studio c'era un quasi cantante che si metteva i baffi finti e col suo inutile narcisismo faceva capire - per contrasto - quanta differenza passi tra gli Artisti di ieri e i Furbastri di oggi (sì, parlo di Morgan).
Riguardatevi quei due, tre minuti. Quelli in cui Monicelli parla di noi, degli italiani: è il nostro autoritratto. Quello che non ci piace guardare, perché siamo brutti e stupidi. Ignoranti e pavidi. E lui ce lo ricordava. Nei film, nelle interviste. In ogni cosa che diceva e pensava.

Era vivo, Monicelli. Anche troppo. Andava in tivù e amava dire che faceva ancora sesso. Che la morte non gli aveva mai fatto paura. Che Dio non l'aveva mai visto, quindi non c'era motivo di temerlo.
Era così vivo che ha deciso di scegliersela, la morte. Non meno di suo padre. Dall'alto, come Primo Levi. In controtempo, come Cesare Pavese. Uno schiaffo alla stasi italica, come Luigi Tenco.

Un'ultima inquadratura geniale, irriverente. Quasi come una commedia. Un lancio nel vuoto ad anticipare una trama scontata. A sporcare la retorica che non avrebbe sopportato. A dare inchiostro ai soliti bacchettoni. A riderne, chissà dove. Se esiste un Dove.
E' un anno implodente. Se ne vanno tutti. Quasi che il pensiero fosse da noi un bagaglio fuori luogo. Quasi che l'Italia non se li meritasse.

Mario Monicelli ha vissuto come ha voluto e così è morto. Senza rimpianti. Con la certezza che non c'era più niente da perdersi.

Senza lui farà ancora più freddo. Freddo dentro. Circondati da politicanti schifosi, italiani medi ampiamente al di sotto della deficienza. Tutti amici miei senza supercazzola. Tutte comparse immeritevoli di un Regista troppo arguto per scendere a patti con la banalità di un pensiero scomparso.

Ciao, Maestro. E grazie.

ANDREA SCANZI

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti/hrubrica.asp?ID_blog=241
« Ultima modifica: Novembre 30, 2010, 11:25:09 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 30, 2010, 11:25:38 pm »

Monicelli, ultimo saluto al rione e Casa del cinema

Prima il saluto al rione Monti, dove viveva e che amava. Poi dalle 12 proseguirà il commiato di Roma a Monicelli alla Casa del Cinema, nel parco di Villa Borghese. La famiglia ha spiegato che la salma resterà alla Casa del Cinema da mezzogiorno fino alla sera. Due cerimonie sobrie. Non ci saranno funerali religiosi. E il suo corpo sarà cremato.

Aperta un'inchiesta per il suicidio, ma nel frattempo la moglie Chiara ha fatto sapere che l'ospedale «ha aiutato moltissimo» il regista.
Che non avrebbe lasciato biglietti.


MONICELLI. L'ULTIMO GIGANTE ITALIANO di Alberto Crespi

La notizia è arrivata ieri sera verso le 22, ed era la notizia che non avremmo mai voluto sentire, anche se lo scorrere inesorabile del tempo la rendeva sempre più probabile. Mario Monicelli ha detto basta. A 95 anni, e con il cervello sempre lucidissimo, al punto che ci eravamo ormai illusi che fosse immortale. Ma se la testa lo è, il fisico arriva a un punto in cui non si riesce più ad andare avanti.

Era ricoverato all’ospedale San Giovanni, come ultimamente capitava spesso, per controlli che regalavano sempre ulteriori speranze. Non questa volta. Questa volta Mario ha deciso che il momento era propizio. Si è lanciato dalla finestra, mettendo la parola “fine” alla sua straordinaria avventura artistica e umana. Toscano d’acciaio Mario Monicelli era un toscano d’acciaio. Piccolo e indistruttibile. Era già morto parecchi anni fa, in un incidente d’auto: era in macchina da solo, in una strada di campagna, a sera tarda. La macchina era uscita di strada e lui era rimasto nell’abitacolo, ferito e sanguinante, fino al mattino dopo.

Lo avevano portato in ospedale e si era rimesso perfettamente. Sembrava Gassman in Brancaleone alle Crociate , quando sfida ripetutamente la morte – che era “interpretata”, pochi lo sanno, da Gigi Proietti, coperto dal sudario nero e con la falce in mano – e riesce sempre a sfangarla. Aveva parlato tante volte della morte, Mario Monicelli, nei suoi film. Era stato il primo a far morire un personaggio in una commedia all’italiana: I soliti ignoti , 1958. Il ladro Cosimo, intepretato da Memmo Carotenuto.

Finiva sotto il tram durante una rapina, e al suo funerale si radunava tutta la banda di cialtroni che si accingevano a rapinare il Monte di Pietà. Fra loro c’era anche Totò, il maestro di scasso Dante Cruciani, che uscito dalla camera ardente mormorava “pare che dorme”, il che ci sembra anche oggi il commento più giusto. Poi, forte del successo di quel film, era riuscito a convincere il produttore più potente dell’epoca, Dino De Laurentiis, a far morire entrambi i protagonisti della Grande guerra . Alberto Sordi e Vittorio Gassman erano i due fantaccini fannulloni della prima guerra mondiale, costretti nel finale a diventare eroi loro malgrado, e ad affrontare il piombo del plotone d’esecuzione austriaco.

Quel film contribuì, più di mille saggi, a demolire il mito patriottardo della “grande guerra”, a denunciare come i conflitti siano bagni di sangue a cui politici corrotti e militari imbecilli costringono i poveri cristi, i figli del popolo. È la stessa storia che Monicelli ha raccontato nel suo ultimo film di pochi anni fa, Le rose del deserto, fortissimamente voluto per tornare nell’Africa dove era stato da ragazzo (come assistente di Genina nel film di regime Lo squadrone bianco ) e per rinnovare la sua denuncia sulla follia della guerra.

Anche in L’armata Brancaleone , film superbo in cui viene distrutta l’immagine arcadica del Medioevo, una delle scene più belle è una scena di morte. È quella in cui muore Abacuc, “tesoriere della truppa e maestro di mercati”, il piccolo ebreo interpretato da quel Carlo Pisacane che era già stato l’immortale Capannelle dei Soliti ignoti. Abacuc muore perché i cristiani, a lui tanto superiori, hanno voluto battezzarlo, immergendolo in un fiume gelido.

La polmonite se lo porta via, e i suoi compagni di sventura lo seppelliscono nel cassone che lui si trascinava sempre appresso, non dopo avergli preannunciato un aldilà laico, addirittura pagano, in cui scorrono i ruscelli, c’è da bere e mangiare, belle fanciulle ti porgono “prosciutti e caci e coppe di vino e ti dicono, prendi vecchio, saziati”, e soprattutto – è la frase più toccante di tutta la scena – non ci sono più “spaventi”. Ecco, Monicelli è stato molto di più di un comico.

È stato un narratore epico, ma la sua epica è stata quella dei poveracci che trascorrono la vita tra fame, stenti e spaventi, e possono rendere grazie a Dio – o a chi per lui – se alla fine dell’avventura li aspetta un piatto di pasta e fagioli, anziché il fuoco nemico. Poi, certo, molti suoi film erano spassosi e divertenti. La chiave era (quasi) sempre quella della commedia, nella quale ha avuto straordinari complici: scrittori come Age & Scarpelli, Benvenuti & De Bernardi, Suso Cecchi D’Amico; attori come tutti i grandissimi della commedia tranne Nino Manfredi (con il quale curiosamente non lavorò mai), ma anche altri: il citato Proietti, che può raccontare su di lui aneddoti fantastici; Monica Vitti, che inventò attrice comica nella Ragazza con la pistola; Alessandro Haber, che di divertiva a torturare sul set e che negli ultimi film era una presenza fissa; Michele Placido, che lanciò in Romanzo popolare , un film che amava moltissimo e che gli faceva sempre piacere citare.

Ma sotto la “crosta” della commedia si nascondeva una visione pessimista del mondo, una lettura quasi darwiniana dei rapporti umani, osservati con lucidità e con un pizzico di sano cinismo. Varrà la pena ricordare, tra i film (tanti, troppi) che non riusciamo a citare, Il borghese piccolo piccolo tratto da un libro duro, breve e bellissimo di Vincenzo Cerami. In una delle prime scene, il pensionato-pescatore Sordi ammazzava con una pietra, con grande indifferenza, il pesce che aveva appena catturato. Alla fine del film, riservava lo stesso trattamento al ragazzo che aveva accidentalmente ucciso suo figlio. Come scrisse Ugo Casiraghi su questo giornale, la commedia all’italiana diventava tragedia davanti ai nostri occhi, e in un anno non casuale, il 1977. Ma tale mutazione era già avvenuta. In mano a Monicelli erano tutte tragedie, anche quando facevano morir dal ridere.

29 novembre 2010
http://www.unita.it/culture/monicelli-ultimo-saluto-br-al-rione-e-casa-del-cinema-1.257241
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 01, 2010, 06:13:39 pm »

Come lui Primo Levi e Franco Lucentini

30 novembre, 17:23
 
di Massimo Lomonaco

Cercare la morte già in là con l'età: quello di Mario Monicelli - suicida ieri a 95 anni - non é l'unico caso. Prima di lui, in molti hanno voluto essere 'padroni' anche dell'ultimo momento, quello finale. Ernest Hemingway, ad esempio, mise fine alla sua esistenza nel 1961 (era nato nel 1899) sparandosi un colpo alla tempia, dopo una serie di ricoveri in cliniche per malattie nervose e una fortissima depressione che lo portava ad alternare stati di lucidità mentale con stati maniaco-depressivi e allucinazioni. Uno stato 'naturale' che il grande scrittore americano non tollerava come disse chiaramente, tanto che quello di domenica 2 luglio fu l'ennesimo tentativo, questa volta riuscito. La storia di Primo Levi è diversa, anche se può richiamare alla mente quella del regista toscano: a lungo si è parlato di un suo suicidio, anche se ufficialmente lo scrittore torinese è morto, nel 1987 (era del 1919), cadendo dalla tromba delle scale del suo palazzo nel capoluogo piemontese. Il suicidio fu invocato a causa della difficile situazione personale di Levi, che si era fatto carico della madre e della suocera malate. Il pensiero ed il ricordo del lager avrebbero, inoltre, continuato a tormentare Levi anche decenni dopo la liberazione, sicché egli sarebbe in un qualche modo una vittima ritardata della detenzione ad Auschwitz. Ipotesi, quella del suicidio, comunque contestata da molti, poiché lo scrittore non aveva dimostrato in alcun modo l'intenzione di uccidersi. Infine Franco Lucentini - storico partner di Carlo Fruttero - il cui suicidio nel 2002 ricordò a molti le modalità della morte di Levi: anche lui si lanciò nella tromba delle scale del suo palazzo torinese. Aveva 82 anni ed era malato di un tumore ai polmoni. "Ha fatto un suicidio da bricoleur", disse allora Fruttero che aggiunse: "Il suo non è stato un suicidio metafisico, romantico. Franco trovava mille soluzioni in situazioni difficili. Di fronte al dolore, all'umiliazione che gli aveva procurato la malattia, ha trovato questa soluzione. Sono sicuro che prima di buttarsi abbia detto 'che sara' mai la morte, facciamola finità". Parole che, nei commenti di ieri e oggi, in molti potrebbero ascrivere al caustico e irriverente Mario Monicelli.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2010/11/30/visualizza_new.html_1675335861.html
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 01, 2010, 06:14:25 pm »

Monti ricorda sor Mario, morto come ha vissuto

30 novembre, 20:35
 
di Emanuela De Crescenzo


ROMA - "E' morto laicamente come è vissuto".
Non hanno dubbi sul suicidio di Mario Monicelli gli abitanti del rione Monti, un angolo di paese nel cuore di Roma, a due passi dal Colosseo, dove tutti si conoscono, in tanti si frequentano e molti ancora bevono un bicchiere di vino insieme e seduti ad un tavolo commentano le notizie della giornata. Saranno loro a dare l'addio laico al regista domani alla 10 in piazza Maria dei Monti, proprio dove ad agosto furono proiettati i suoi film più vecchi. L'angolo di Suburra a cui il regista aveva dedicato un documentario e quei negozianti avevano ricambiato proiettandolo nei locali. L'ultimo saluto sarà diviso fra i due amori della sua una vita: Monti, la gente normale, e il cinema. E proprio nella Casa del Cinema il mondo dei "famosi" lo saluterà. "Vivere a Monti un tempo era una filosofia di vita, voleva dire essere di sinistra - dice il titolare di un bar - credere in certi valori e per questo Mario Monicelli aveva scelto di vivere qui, amava questo rione perché era uno di noi". Era il "Maestro" per quanti lo conoscevano superficialmente e lo vedevano andare a fare la spesa, lo incontravano per strada, anche se il regista detestava quest'appellativo che provoca le sue proverbiali smorfie. Ma per chi lo frequentavano abitualmente era "er sor Monicelli o sor Mario" come amava farsi chiamare "perché maestro - diceva sarcasticamente - mi ricorda la scuola".

E a Monti chi trascorreva del tempo con lui non era gente famosa, ma i negozianti di via dei Serpenti, dove abitava. Soprattutto i proprietari di 'Al vino, al Vino', dove tutte le mattine - quando il regista ancora stava bene - ricevevano la visita de "Er sor Monicelli". "Tutte le mattine si commentavano le notizie lette sul giornale - ricorda Alessandro - e poi la sera si beveva un bicchiere di vino. Veniva sempre da solo. Era curiosissimo, voleva sempre sapere quali nuovi negozi o locali avevano aperto e soprattutto desiderava informarsi sui residenti, i nuovi arrivati, chi erano, che facevano, come vivevano. Insomma una persona tranquilla, simpatica, sarcastica, burbero solo per chi non lo conosceva. Qualche volta si parlava di politica, lo dipingevano come uno di sinistra ma lui era proprio oltre...era anarchico".Uno dei registi più anziani d'Europa, osannato con premi e fama mondiale, odiava i favoritismi e si arrabbiava anche quando riguardavano la sua persona. "Non capì - ricorda sempre Alessandro - quando a 92 anni gli ridiedero la patente 'honoris causa' disse: 'Che me ne faccio?''. Da due anni a questa parte la vecchiaia lo aveva costretto a rinunciare al bicchiere di vino rosso, e lo aveva sostituito con il chinotto dicendo che "almeno nel colore si assomigliavano". Niente caffé ma solo gianduiotti e tavolette di cioccolata al latte comprate nella torrefazione sotto casa, qualche zucchina e carota acquistate dalla frutteria di fronte, dove amava conversare con la proprietaria, ma anche a questo aveva dovuto rinunciare: al suo posto andava la badante dell'est alla cui presenza in casa si era dovuto arrendere.

Tante lenti di ingrandimento comprate per continuare a leggere poiché la vista diventava sempre più flebile. Tante rinunce e poi il tumore, la paura di "rimanere allettato" come dice il presidente dell' Associazione culturale e ricreativa del Rione Monti Sergio Perotti che, insieme all'architetto Cesare Esposito, per domani sera organizzeranno una fiaccolata. Per i monticiani il suicidio non è una sorpresa. Perché Er sor Monicelli, spiegano "é morto come ha vissuto, libero fino alla fine".

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/spettacolo/2010/11/30/visualizza_new.html_1675301299.html
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 02, 2010, 12:15:18 pm »

L’ultima guerra di Mario Monicelli

di Andrea Scanzi, da lastampa.it, 30 novembre 2010

E' appena finito un giorno terribile. Una delle ultime coscienze critiche di questo paese se n'è andata. Per sua stessa mano.
Mario Monicelli si è ucciso. Diranno che non doveva. Si chiederanno come possa uccidersi un uomo di 95 anni. Scriveranno che il suicidio è peccato. Come se uno, anche da morto, debba beccarsi gli strali del bigottismo più palloso. Quello che ha sbertucciato per una vita intera. Diranno anche che un uomo di 95 anni non si piange. Che la morte fa parte della vita (sempre originali, i coccodrilli). E invece no. Questa è una morte che fa più male di quella di un bambino. Perché Monicelli era un bambino. E non era un bambino come gli altri.
E' vero, non faceva più grandi film. Poteva permetterselo: uno che gira La grande guerra, da sola, può anche smettere di pensare. E lui non aveva mai smesso. Non solo nei Soliti Ignoti.

Non so se l'avrebbe preso come complimento - non credo -, ma le sue cose migliori ultimamente erano le interviste. Neanche sei mesi fa, aveva raccontato in due minuti lo schifo dell'Italia contemporanea. Uno dei momenti più alti mai visti nel piccolo schermo. A Raiperunanotte, mentre in studio c'era un quasi cantante che si metteva i baffi finti e col suo inutile narcisismo faceva capire - per contrasto - quanta differenza passi tra gli Artisti di ieri e i Furbastri di oggi (sì, parlo di Morgan).
Riguardatevi quei due, tre minuti. Quelli in cui Monicelli parla di noi, degli italiani: è il nostro autoritratto. Quello che non ci piace guardare, perché siamo brutti e stupidi. Ignoranti e pavidi. E lui ce lo ricordava. Nei film, nelle interviste. In ogni cosa che diceva e pensava.

Era vivo, Monicelli. Anche troppo. Andava in tivù e amava dire che faceva ancora sesso. Che la morte non gli aveva mai fatto paura. Che Dio non l'aveva mai visto, quindi non c'era motivo di temerlo.
Era così vivo che ha deciso di scegliersela, la morte. Non meno di suo padre. Dall'alto, come Primo Levi. In controtempo, come Cesare Pavese. Uno schiaffo alla stasi italica, come Luigi Tenco.
Un'ultima inquadratura geniale, irriverente. Quasi come una commedia. Un lancio nel vuoto ad anticipare una trama scontata. A sporcare la retorica che non avrebbe sopportato. A dare inchiostro ai soliti bacchettoni. A riderne, chissà dove. Se esiste un Dove.
E' un anno implodente. Se ne vanno tutti. Quasi che il pensiero fosse da noi un bagaglio fuori luogo. Quasi che l'Italia non se li meritasse.

Mario Monicelli ha vissuto come ha voluto e così è morto. Senza rimpianti. Con la certezza che non c'era più niente da perdersi.
Senza lui farà ancora più freddo. Freddo dentro. Circondati da politicanti schifosi, italiani medi ampiamente al di sotto della deficienza. Tutti amici miei senza supercazzola. Tutte comparse immeritevoli di un Regista troppo arguto per scendere a patti con la banalità di un pensiero scomparso.

Ciao, Maestro. E grazie.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/lultima-guerra-di-mario-monicelli/
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:24:33 am »

Monicelli racconta Monicelli, il centenario del grande Maestro

A cura di Paolo Mereghetti, ricerca fotografica Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi

Gli inizi
Io nasco al cinema facendo l’assistente. Proprio il più miserabile degli assistenti, quello che comincia ad accendere la sigaretta al regista, che lo aiuta a mettersi il paltò. Ho cominciato così, avevo circa diciott’anni, erano gli anni tra il ’32 e il ’34.

 Il lavoro di sceneggiatore
Ho cominciato a scrivere tardi poco prima della guerra, tra il ’38 e il ’39, dopo aver fatto l’assistente. La prima esperienza di scrittura fu proprio per il regista per il quale lavoravo, che era Camerini. Dopo essere stato a lungo suo assistente ho scritto la sceneggiatura per un suo film. E poi per Gentilomo, che era molto bravo. Da lui ho imparato moltissimo, perché era un regista che aveva fatto il montatore. E senza dubbio è quello da cui ho capito di più come si costruisce un film mentre si gira. Perché Gentilomo venendo dal montaggio, girava pensando a come avrebbe messo insieme il film, come l’avrebbe montato, esattamente, un’inquadratura dietro l’altra.

Steno
L’incontro con Steno avvenne grazie a Freda che chiese ad entrambi di lavorare alla sceneggiatura di Aquila nera. Fu un colpo di fulmine. Ci trovammo subito simpatici e nel lavoro si creò una simbiosi immediata. Sia nella suddivisione dei compiti, sia nello spirito di fondo. Steno era un attore straordinario ma non gliene importava niente. Aveva esordito facendo a dodici o tredici anni Pinocchio! Purtroppo non gliene importava niente e più tardi non gliene importò niente neanche del mestiere. Avrebbe potuto essere un grande regista, era certamente più dotato di me, e se non avvenne fu per colpa delle persone che aveva intorno. Era bravissimo anche come sceneggiatore, intelligente, pieno di idee. Era un uomo molto preciso, molto pragmatico, molto spiritoso. Andava in giro, guardava cose e persone, raccontava, era sempre a contatto con la realtà e sapeva tradurla in divertimento, in ironia. Ed era anche un uomo molto acculturato, un intellettuale, leggeva moltissimo, gli piaceva scrivere, stare al tavolino, prendere appunti o fare dei ritrattini. Insieme abbiamo scritto oltre venti sceneggiature, tra cui spiccano i tre film di Borghezio con Macario, Come persi la guerra, L’eroe della strada e Come scopersi l’America. La nostra era una comicità surreale sulla quale innestammo elementi neorealistici. Scrivendo quei film, Steno e io trovammo la nostra vera cifra stilistica. Rappresentavamo un disagio reale, quello dell’uomo comune dopo la guerra, che ebbe molta presa sul pubblico. Era la direzione che avremmo preso con più decisione con Totò.

Totò
Il primo film che ho scritto per Totò era Fifa e arena di Mattoli, nel 1949. Poi, l’anno dopo, l’ho diretto in Totò cerca casa. Sceneggiare Totò era un gran divertimento. All’epoca tutti parlavamo come lui. Le battute erano quasi sempre opera degli sceneggiatori, ma una volta pronunciate da Totò diventavano sue, anche perché lui aveva un modo di recitarle unico, sempre un po’ spiazzante. Erano copioni bislacchi dove inserivamo pezzi di repertorio dell’avanspettacolo e sketch di commedie teatrali. In Totò cerca casa partimmo dalla “Famiglia Sfollantini” delle celebri vignette di Attalo, inserimmo il numero di avanspettacolo della stanza affittata a tre persone e rielaborammo una scena della commedia napoletana Il custode di Moscariello, che chiede e giustamente ottenne i diritti. In Un turco napoletano attingemmo alla farsa di Scarpetta. Totò a colori era letteralmente una collezione dei suoi migliori pezzi teatrali. Totò ha sempre detto che la comicità ha un fondo macabro, tragico, e che la sua era una comicità di questo tipo. Su questo io non potevo che trovarmi d’accordo, credo che la nostra sintonia sia nata da questa convinzione comune. Aggiungo che la comicità di Totò a me ha rivelato una profondità su cui ho cercato di ragionare: come se venisse da un mondo lontanissimo, primitivo, arcaico. La sua voce, per esempio, a me a volte dava i brividi, come se esprimesse qualcosa di demoniaco, di preumano…

 Misurarsi con i generi
È stata una fortuna potermi misurare con generi molto diversi, dal melodramma al film d’avventure a quello storico, dal comico alla commedia musicale all’adattamento dei grandi romanzi di Stendhal, Puskin, Sue, Verga e Hugo. Mi ha permesso di padroneggiare i meccanismi di un racconto, imparare a catturare l’attenzione dello spettatore, sperimentare vari tipi di linguaggio.

 Sceneggiatore e registi
Nel cinema è sempre molto difficile individuare l’autore del film, anche perché quasi sempre è più d’uno. Ognuno ha il suo apporto. Dagli attori ai musicisti agli scenografi, che nel mio caso sono stati più di una volta fondamentali. È chiaro che gli sceneggiatori danno il primo impulso creativo al film, inventano la storia. Se nella sceneggiatura sono guidati dal regista, il risultato diventa già un compromesso tra due punti di vista diversi. In genere il merito attribuito al regista oscura il lavoro degli sceneggiatori. È sempre stato così, ma allora non ci si faceva caso. I lavori di Age e Scarpelli con me hanno una connotazione precisa. A partire da I soliti ignoti abbiamo condiviso un modo di guardare la realtà sempre più attento al contesto sociale. Con Scola hanno fatto grandi affreschi epocali, con me hanno seguito la strada di una storia minore.

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Il set del film “I Compagni” nel reportage realizzato da Evaristo Fusar, inviato del settimanale L’Europeo, nel 1963. Nella fotografia il regista Mario Monicelli discute una scena con i due protagonisti: Renato Salvatori e Marcello Mastroianni (Archivio RCS/Evaristo Fusar)

Scene madri e scene figlie
La regola che ricordo sempre ai miei sceneggiatori è quella di scrivere solo «scene figlie». Non mi trovo a mio agio con gli eccessi delle scene madri. Il dolore come l’amore mostrati nelle loro manifestazioni violente diventano ricattatori. Preferisco svelarli attraverso un piccolo gesto o una reazione secondaria, che non sminuisce il dramma ma ne fornisce un’altra prospettiva.

 Guardie e ladri
I soliti ignoti è il punto d’arrivo di un percorso intrapreso con Totò cerca casa e già definito in Guardie e ladri, che può essere considerato un film di confine. A volte viene indicato come capostipite, altre come precursore della commedia all’italiana. Un fatto però è certo: l’evoluzione dalla farsa alla commedia di costume ormai è compiuta. La storia si regge ancora sulle figure di Totò e Fabrizi, inserite però in un contesto sempre più realistico. La meccanicità della farsa lascia il posto alla dimensione umana. E tra le pieghe della vicenda emerge una rappresentazione «democratica» dei personaggi: le disgrazie, la vita grama e i battibecchi familiari che accomunano la guardia e il ladro.

 I soliti ignoti
Con I soliti ignoti viene abbozzata un’analisi sociale. Nel senso di un’attenzione sempre più minuziosa per i risvolti ambientali, psicologici e materiali della realtà. Passavamo al setaccio il costume, la cronaca, l’attualità per smascherare debolezze e sotterfugi, piccolezze e difetti della gente di strada. Rovesciando luoghi comuni e abbattendo miti, senza pietà e con cattiveria. Perché la commedia è cattiva, anzi spietata. In questa ottica la verosimiglianza assume un ruolo decisivo. È un’esigenza ma anche un’arma nel nostro gioco al massacro.

 Attori
Io guardo la commedia all’italiana dal punto di vista degli autori, senza i quali non sarebbe mai esistita. Ma aggiungo subito che le nostre storie non avrebbero visto la luce senza gli attori straordinari di cui disponevamo. Erano tutti di bravura eccezionale, dal caratterista a Sordi. E noi fummo bravi a servirci di loro. Il tratto innovativo nel comportamento di Gassman ne I soliti ignoti è la prevaricazione. Il suo raggiro nei confronti di Carotenuto contiene una dose di spietatezza contraria alla natura di Totò, Fabrizi, Macario, Scotti. Loro appartenevano a un mondo in cui il comico era una vittima. La risata scattava ogni volta che gli toccava subire angherie, botte, insulti. La commedia all’italiana invece è crudele. I nuovi comici ribaltano la loro condizione che spesso diventa aggressiva. Adesso è la sopraffazione a suscitare la risata. L’inettitudine non è più accompagnata alla sfortuna, ma si abbina alla viltà, alla turpitudine talvolta, o soltanto alla stupidità. Arrogante con i deboli e deferente con i potenti, la nuova figura del comico spiazza lo spettatore e non gli permette più di essere ingenuo. Noi ci muovevamo proprio in questa direzione. Puntando lo sguardo sulla gente che incontravamo per strada, al ristorante, in tram. In questo senso Sordi fu grandissimo nel cogliere l’anima dell’italiano. La furbizia, per esempio, non coincideva più con la secolare arte di arrangiarsi. Sordi svelò il suo retroscena di grettezza, ipocrisia, egoismo, fino a mettere in scena personaggi antipatici se non proprio odiosi. E infatti fu durissima farsi accettare dal pubblico. Totò invece non poteva essere antipatico. Lui era una maschera.

 La commedia all’italiana
La commedia all’italiana è la forma espressiva che più ha contribuito a cambiare l’antropologia dell’italiano nel dopoguerra. La commedia trasformò il dialetto in un elemento narrativo. Noi lavorammo su una commistione di dialetti che riproducevano la mescolanza linguistica della società di allora. Age e Scarpelli avevano in questo un orecchio straordinario, ma tutti ci divertivamo a recitare le battute mentre le rileggevamo. Il dialetto in sé imprime una nota comica alle battute. L’abbassamento del linguaggio al livello della gente comune fu uno dei punti trainanti della commedia all’italiana in contrasto con tutto un cinema borghese in cui si parlava l’italiano dei libri. Poi la commedia all’italiana è animata da uno spirito laico. Per me i due unici grandi libri educativi scritti in Italia sono “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di Collodi, dove i preti non compaiono. È un peccato, e anche un segnale, che oggi siano spariti dalla circolazione. I preti li abbiamo sempre usati come macchiette. Per anni sono stati i custodi della mentalità degli italiani, un popolo di parrocchiani: contadini, bottegai e piccolo-borghesi devoti. Attraverso il cinema abbiamo fotografato questa realtà e seguito la sua evoluzione. La scuola, il benessere, la televisione hanno contribuito a modificare la maniera di comportarsi. Il cinema, soprattutto grazie alla commedia, ha svolto una funzione emancipatrice.

 La morte
La morte è fonte sublime di comicità. Innesca dinamiche familiari e personali che possono prendere qualsiasi direzione. Sfuggendo alle logiche della normalità. Rovesciando rapporti ed equilibri. Suscitando clamorose rivelazioni. Aprendo il capo a soluzioni di umor nero dalle sfumature grottesche o persino blasfeme. La presenza stessa della morte, con l’obbligo sociale del cordoglio, genera le soluzioni più impensate. E il riso assume talvolta forme isteriche, liberatorie, difensive. Accompagnato a rivalse, improvvise confessioni, liti furibonde. La morte è comica. Non ha quasi nulla di eroico. E quando lo sembra, spesso rivela un equivoco come in fondo era la fucilazione di Sordi e Gassman nella Grande guerra. Anzi, il più delle volte la morte ti coglie sempre nel momento meno opportuno. Dalla veglia funebre al funerale, con tutto quello che può accadere durante l’interramento, la morte fornisce materia comica straordinaria.

 La comicità
Il mio modo di fare cinema non ha mai tradito la comicità, anche se i toni si sono fatti inevitabilmente più cupi. La comicità è la misura giusta con cui raccontare il mondo. Senza eccessi sentimentalistici, fa luce sul senso dell’umanità filtrandola con un occhio disincantato. Ingrandendo magari un particolare, spostando l’attenzione su un dettaglio secondario che portato in primo piano cambia il senso della scena.

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Mario Monicelli nel 1949 dirige con il collega Steno (Stefano Vanzina) per la prima volta Totò nel film “Totò cerca casa”. Il film sarà un grande successo della coppia di sceneggiatori passati per un caso fortuito alla regia: il produttore Carlo Ponti aveva sotto contratto il comico napoletano e decise di affidare a Monicelli e Steno sceneggiatura e regia della commedia

Il finale
A me piacciono i finali netti, il più possibile rapidi e privi di equivoci. Possono essere drammatici come nella Grande guerra, mesti come nei Soliti ignoti, speranzosi come nei Compagni, beffardi come in Renzo e Luciana, aperti come in Brancaleone: l’importante è che abbiano una compiutezza che si rifletta a posteriori su tutto il tono del film. Il finale soprattutto deve essere uno, non come capita in molti film in cui per far quadrare i troppi fili scoperti l’ultimo quarto d’ora è una successione di spiegazioni. La sua riuscita sta nell’immagine che rimane negli occhi dello spettatore fuori dal cinema: senza dubbi.
 Nazional-popolare

Il mio cinema è nazional-popolare nel senso più stretto del termine. Si rivolge alle masse. Ma non c’è alcun intento educativo esplicito. Diciamo piuttosto una necessità di raccontare il più semplicemente possibile, in una chiave veristica ma allo stesso tempo irridente, un fatto che può essere accaduto o meno, ma che risulti come fosse accaduto davvero. I personaggi si muovono nella stessa dimensione realistica, colta però in un’ottica divertente. Divertente e drammatica. Questa visione nazional-popolare è rinforzata dalla sua natura provinciale, che non aspira a verità massime né a piacere a tutti. Il punto di vista del mio cinema è di sinistra ma si potrebbe anche definire democratico per il suo stare dalla parte dei deboli e mettere in luce le ingiustizie. Fino all’avvento di Craxi, io sono sempre stato socialista. Ma nel mio cinema non c’è alcuna rivendicazione ideologica. Prevale sempre lo spirito anticonformista.
 Oggi

Oggi mi sembra che manchi la responsabilità critica. Il buonismo e il politically correct strozzano all’origine ogni intento dissacratorio. La satira invece si regge sul suo contrario: il principio è abbattere le ipocrisie del senso comune.
 Leopardi

C’è una frase che ho trovato e copiato dai Pensieri di Leopardi, per l’esattezza è il numero 78, una frase che condivido e che ho cercato, qualche volta forse riuscendovi, di mettere in pratica nei miei film che considero riusciti: «Grande tra gli uomini e di grande terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire».

Riferimenti bibliografici
Sebastiano Mondadori, La commedia umana, Conversazioni con Mario Monicelli, il Saggiatore 2005
Mario Monicelli, Il mestiere del cinema (a cura di Steve Della Casa e Francesco Ranisero Martinotti), Donzelli 2009
Mario Monicelli. Con il cinema non si scherza. Conversazione con Goffredo Fofi, Edizioni Cineteca di Bologna 2011

Da - http://reportage.corriere.it/cultura/2015/monicelli-racconta-monicelli-il-centenario-del-grande-maestro/
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