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Autore Discussione: Ossezia del Sud,la festa a colpi di kalashnikov  (Letto 3497 volte)
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« inserito:: Agosto 27, 2008, 07:47:11 pm »

Ossezia del Sud,la festa a colpi di kalashnikov

Margherita Belgiojoso


Nella piazza Teatralnaya dozzine di kalashnikov sparano in aria festeggiando l´indipendenza, uomini e donne si abbracciano, sventolano bandiere ossete, abkhaze e soprattutto russe. Solo la Russia ha riconosciuto la loro indipendenza, eppure per gli ossetini i giochi oramai sono fatti. Diciassette anni di attesa, dicono. Sulle piastrelline colorate della fontana vuota nel centro della piazza e costruita dai sovietici piovono i bossoli delle munizioni sparate, il rumore è frastornante, l´eccitazione al massimo. Anche i bambini strappano gli automatici agli adulti e si fanno fotografare, pieni di orgoglio, sparando in aria.

Una ragazza sorride in posa ai fotografi stranieri con il kalashnikov in mano. Tskhinvali, il giorno dell´atteso riconoscimento dell´indipendenza da parte della Federazione Russa. Un nugolo di preti ortodossi appare ai margini della piazza, salutati a gran voce dal pubblico. «Ero qui durante tutto il bombardamento. Posso confermare che si è trattato di un piano satanico dei georgiani per spazzare via il popolo osseto: certamente il riconoscimento da parte della Russia è un passo importante verso la nostra sicurezza. Del resto tutto rimane nelle mani di Dio» spiega Yakov Xhetagurov, panzuto sacerdote nella vicina chiesa ortodossa. Il ritiro delle truppe russe è in teoria completato, eppure sulla strada che da Vladikavkaz porta in Ossezia del Sud sono centinaia i mezzi russi che risalgono verso la sede, lentamente, uno dopo l´altro. I soldati dormono sdraiati sui carrarmati, a dorso nudo, biondi e con il naso bruciato dal sole, salutano e ringraziano acchiappando al volo le bottiglie d´acqua che gli vengono lanciate da terra. Terminato il passaggio della colonna militare, dopo un´ora di attesa, si infila nel fumo del Rokski Tunnel anche il traffico civile, le Ziguli che dondolano malferme sull´asfalto rovinato. Lungo la strada le splendide montagne del Caucaso, frastagliate come le Dolomiti, il granito coperto da boschi di abeti. Il panorama cambia appena fuori dal tunnel Rokski, e compaiono le vallate dell´Ossezia Meridionale, punteggiate da decine di alveari e covoni di fiero, i chioschi degli alimentari lungo strada. Chiusi, i proprietari guardano il traffico a braccia conserte e con gli occhi vuoti.

Che Tskhinvali si avvicina si capisce quando appaiono decine di case distrutte, e giardini bruciacchiati da cui sporgono le piante di vite che hanno reso famoso il vino caucasico. Tutti i ponti che si avvicinano alla capitale sono guardati da una sentinella russa, e l´acquedotto sventrato rovescia l´acqua nel fiume. Tskhinvali è quasi vuota, pendono dal cielo i fili divelti dell´elettricità, la maggioranza della popolazione non è più qui, fuggita a Vladikavkaz o più a nord ancora. I russi stanno già mandando camion carichi di mattoni e lamiere per riparare le case. In città c´è il coprifuoco alle 9, ma ieri sera le famiglie della capitale della nuova repubblica del Sud Ossezia hanno festeggiato a lungo. Perche se lunedì le due camere del parlamento russo hanno chiesto a Medvedev all´unanimità di riconoscere l´indipendenza di Tskhinvali, ieri il presidente russo si è presentato in tv e ha accusato Saakashvilki di genocidio e assicurato che l´unico modo per garantire la sicurezza degli osseti è riconoscerne l´indipendenza. Tra la via Sovietskaya e la Via Lenina c´è via Lushkova: intitolata a Yuri Luzhkov, il sindaco di Mosca che, dicono gli osseti, ha accolto centinaia di bambini nei sanatori di Mosca, e pagato di tasca sua migliaia di medicine per malati e vecchi. Prima la via era intitolata a Tbilisi.

Sul marciapiede è raccolta una lunga tavolata di donne che celebrano come da tradizione la memoria di un uomo morto durante i bombardamenti: si chiamava Vasol Uligianov, era un veterano della II Guerra Mondiale e aveva 86 anni. Il tavolo è apparecchiato di tutto punto, le donne mangiano con le mani un intruglio di fagioli, poi la carne, un vitello appena macellato, condito con salsa di prugne e peperoncino che, a detta loro, facilita la complicata digestione. La tradizione prevede, oltre al cibo rituale, che sul pane e sui fagioli si versi un poco di cjacja, la grappa osseta, perchè il morto ne goda assieme ai vivi. Esce dalla casa vicina un ragazzo barbuto, grande come un orso, il ventre fasciato da una maglietta con il faccione di Che Guevara: annuncia la firma di Medvedev sul documento che riconosce l´indipendenza dell´Ossezia del Sud. È un attimo e le donne gridano, si abbracciano, brindano e bevono all´indipendenza, la memoria di Vasol è dimenticata per un momento. Dai tetti cominciano a sparare, e le strade si riempono di caroselli di fuoristrada guidati a tutta velocità con kalashnikov e fucili che sporgono dai finestrini sparando in aria. Le donne ridono, «sono i nostri uomini che sparano, per la felicità questa volta» ma loro rimangono tranquille a celebrare il rito del pominki. Le auto sventolano la bandiera osseta e quella abkhaza, su tutto campeggia quella rossa blu e bianca della Russia: «È il quarto genocidio che viviamo» dice Zalina Pliera, una grossa signora con i capelli tinti di biondo e gli occhi azzurri, «negli anni ´20, nel ´90, nel 2004 e adesso nel 2008. Perche voi della stampa occidentale state dalla parte dei georgiani? Dite all´America che quelli hanno usato su di noi armi vietate, che hanno bombardato per giorni gente inerme. Certo che siamo grati alla Russia, è venuta, tardi, ma è venuta in nostro soccorso. Senza di lei saremmo tutti morti». Sulla condanna degli occidentali rincara la dose Diana Petoeva, occhi neri brillanti ma cerchiati dalle occhiaie: «Ho visto come la Fox TV ha fatto scorrere immagini di Tskhinvali mentre le didascalie parlavano di Gori distrutta dalle bombe russe. Era la mia città, Tsinkvali, come potevo non riconoscerla?». Non c´è nessuno che riconosca gli sforzi di Saakashvili, le riforme che ha fatto e la lotta alla corruzione: per tutti è un pazzo e l´unico responsabile di quello che è successo. Se un mese fa potevano essere pronti a collaborare almeno con la nazione georgiana, dopo quello che è successo non c´è più speranza di andare d´accordo.

Pur essendo stata per 17 anni parte dello stato georgiano, a Tskhinvali nessuno ha il passaporto di Tbilisi: tutti mostrano quello della Federazione Russa, che Putin ha cominciato a concedere a larghe mani da quando è presidente, e quello della repubblica dell´Ossezia del Sud: soltanto un vezzo visto che è inutilizzabile per uscire dal Paese. Cambierà qualcosa oggi che la Russia ha riconosciuto l´indipendenza? Non tutti sono d´accordo, la maggior parte è scettica, ma almeno per oggi piena d´entusiasmo. «Certo, con la Russia dalla nostra parte nessuno oserà toccarci. Adesso aspettiamo riconoscimenti di altri Paesi» dice un vecchio con un cappello scuro che passa per la piazza Teatralnaya. Quali? «Senz´altro i Paesi della CSI, tranne la Georgia, e poi la Bielorussia, l´Iran, il Venezuela». Lo rimbecca una grossa signora di passaggio: «I russi ora hanno diritto a mandarci anche i militari perche i loro peacekeepers hanno potuto fare ben poco per noi». Nessuno per ora parla seriamente di unirsi alla Russia, è solo un sogno, assieme a quello dell´unificazione delle due Ossezie, divise al tempo dei confini di Stalin. L´importante è levarsi di torno i georgiani. «Ho visto con i miei occhi come hanno sparato sui peacekeepers russi, come due bambine sulla strada per Vladikavkaz hanno perso gambe e braccia. Con i miei occhi, eppure tutti gli occidentali tengono per quel pazzo criminale di Saakashvili. Anzi, non va chiamato pazzo o non verrà portato mai davanti a un tribunale. Mentre spero che prima o poi giustizia sia fatta».

Pubblicato il: 27.08.08
Modificato il: 27.08.08 alle ore 12.49   
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 27, 2008, 07:48:02 pm »

Una spinta aggressiva

Adriano Guerra


Una crisi come quella ora intervenuta nei rapporti fra la Russia e l´Occidente in seguito alla decisione di Mosca di riconoscere l´indipendenza dell´Ossezia del Sud e dell´Abkhazia, è forse, se si guarda naturalmente agli anni del "dopo Urss", senza precedenti per la sua gravità. Mentre Tbilisi soffia sul fuoco e nell´area stanno giungendo, o sono già arrivati, insieme ai primi convogli della solidarietà internazionale per le vittime civili del conflitto, gli "osservatori" dell´Osce ma anche le navi da guerra americane, un qualsiasi incidente nell´area di Gori o di Poti (ove, nonostante gli accordi firmati, continuano a stazionare forze armate russe) potrebbe aprire la via infatti ad un confronto anche militare fra Paesi in possesso di armi nucleari.

Quel confronto che negli anni della "guerra fredda", e anche delle "guerre per procura", Stati Uniti e Unione Sovietica sono sempre riusciti ad evitare. La nostra - ha detto il presidente russo Medvedev - è stata «una scelta non facile». Ma perché - dobbiamo chiederci - questa scelta che colpisce a fondo quell´accordo di sei punti preparato da Sarkozy e che lo stesso Medvedev aveva sottoscritto, è stata compiuta? Per una insopprimibile spinta aggressiva che - secondo alcuni - caratterizzerebbe oggi la Russia al punto tale da imporre all´Europa di considerare una "nuova Monaco", e cioè un´inammissibile cedimento al "nuovo Hitler", ogni tentativo di mantenere aperta con Mosca la via del dialogo? Che al Cremlino sia prevalsa con Putin una politica che guarda ai Paesi confinanti dell´ex Urss come ad un´area sulla quale esercitare il controllo più diretto - magari in attesa di poter ricostituire almeno in parte il vecchio impero dei russi - appare difficilmente negabile. Così come appare indubbio che ci si imbatta qui in problemi di fondo per quel che riguarda il bisogno e anche il diritto di sicurezza della Russia. E, ancora in problemi di confini, di collocazioni di popolazioni nel territorio (si pensi agli osseti del Sud divisi da quelli del Nord con un atto "imperiale" di Stalin) che possono evidentemente trovare soluzioni adeguate soltanto attraverso la via della trattativa. Tutto questo va tenuto presente. Quel che però non si può, neppure a Mosca, dimenticare è che questi Paesi - la Bielorussia, l´Ucraina, la Moldavia, l´Armenia, la Georgia ecc. - hanno conquistato l´indipendenza piena col crollo dell´Unione Sovietica nel momento in cui lo stesso fondatore della nuova Russia, Boris Eltsin, aveva detto a quelle popolazioni «Prendetevi tutte le libertà che vi servono e delle quali avete diritto», decretando di fatto la fine di un impero che, entrato in crisi già all´inizio del secolo scorso, non poteva sopravvivere, e non è sopravvissuto, al crollo dell´Urss.

Le trattative, si diceva, sono l´unica possibile soluzione per affrontare i problemi immensi del "dopo Urss". La Russia di Putin, dapprima rispondendo alla folle decisione di Saakasvhili di garantire con l´occupazione militare del territorio la "proprietà georgiana" sull´Ossetia del Sud e ora con la decisione di riconoscere l´indipendenza delle due repubbliche secessioniste e filorusse, ha deciso di risolvere il problema dapprima con la forza e poi con una presa di posizione unilaterale. E ha fatto questo, dopo avere, e facilmente, vinto la guerra, piegando la Georgia, umiliando l´Occidente, e in primo luogo gli Stati Uniti di Bush, che ha mostrato la sua impotenza nel far fronte - com´è inevitabile, bisogna aggiungere, nel mondo di oggi - ad un attacco militare che intervenga in un terreno considerato strategico da entrambe le parti. La Russia ha così dimostrato a se stessa e al mondo, che - come ripetono un poco tutti - "la Russia è tornata" e che il mondo deve fare di nuovo i conti con una grande potenza nucleare di nuovo alla ribalta. Tutto questo è avvenuto. Ma - ecco il punto - al di là dei pericoli che ha fatto e fa sorgere, la linea intrapresa da Mosca può portare a raggiungere i risultati sperati o non siamo di fronte al dramma di una grande potenza che, dopo aver vinto la guerra, non sta però vincendo, e non può vincere, la pace? A dire questo è prima di tutto l´aperto ed esplicito rifiuto di far propria la scelta della Russia da parte non soltanto della Georgia ma di tutti i Paesi confinanti dell´ex Urss che in un modo o nell´altro rifiutano di diventare strumenti della attuale politica della sicurezza di Mosca. È contemporaneamente evidente che la politica di presenza dell´Occidente, e anche degli Stati Uniti che dispone nell´area, e non soltanto nella Georgia, di importanti basi militarti, è destinata ad aumentare ancora. Proprio in seguito alla politica aggressiva di Mosca. Se poi si guarda al quadro più generale dei consensi che la politica russa può strappare a livello mondiale non può non preoccupare Mosca il fatto che solo pochi Paesi - il Venezuela, Cuba, forse la Siria - sembrano intenzionati a riconoscere come Stati indipendenti le due repubbliche scissioniste e filorusse della Georgia. Forse è da cercare nella consapevolezza del rischio dell´isolamento se nello steso momento in cui si ribadiva la decisione di rompere aspetti importanti delle relazioni fra la Russia e la Nato per quel che riguarda le manovre militari congiunte da tempo in programma Mosca chiariva però che la Russia continuerà a collaborare con la Nato per la guerra antiterroristica nell´Afghanistan, per cui "per ora" l´utilizzazione concordata da parte delle forze atlantiche del proprio spazio aereo non subirà limitazioni.

Qualche spiraglio per una ripresa del dialogo rimane dunque aperta. Ma quel che è può aiutare ad allontanare i pericolosi sbocchi cui sembra si stia andando incontro, oltre ad un atteggiamento realistico da parte della Russia di fronte alle conseguenze di scelte che non possono davvero portare a rendere più sicuri e tranquilli i suoi confini, è una più attenta riflessione da parte dell´Occidente sul ruolo che la sua politica verso la Russia ha avuto sin qui. E questo perché quella politica è stata ad un tempo accomodante e debole di fronte all´involuzione antidemocratica e anche alla restaurazione di velleità e di realtà "imperiali" che hanno caratterizzato la gestione di Putin, e pericolosamente "forte", e persino minacciosa, con le scelte compiute attraverso l´allargamento verso Oriente della Nato e la decisione di innalzare alle porte delle Russia quello scudo spaziale che era stato progettato ai tempi dell´Urss di Breznev.

Il discorso che il ministro degli Esteri italiano dovrà fare a Tbilisi e a Mosca nella continuità con l´iniziativa avviata da Sarkozy, dovrebbe essere dunque molto diverso da quello della famosa telefonata a Putin di Berlusconi. Si tratta di ribadire il "no" alle inaccettabili scelte unilaterali di Mosca ma anche di fare in modo che scelte comuni possano venire avanti. È positivo in questo quadro che l´Europa continui ad avere una posizione unitaria e a rifiutare di guardare all´incontro con Mosca come ad una "nuova Monaco". Non sembra ancora però che al di qua e al di là delle frontiere oggi in discussione sia maturata una linea in grado di permettere di dare soluzioni positive ai problemi della sicurezza che ancora assillano il nostro continente.

Pubblicato il: 27.08.08
Modificato il: 27.08.08 alle ore 12.47   
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 28, 2008, 09:11:22 pm »

Parlano gli intellettuali: «Osseto era un insulto»

Margherita Belgiojoso


Per tutti è semplicemente Nafi. Nessun patronimico, in Ossezia non si usa, soltanto Nafi. Il cognome, Dzusijty. È lo scrittore osseto più amato, la coscienza del paese. Non è facile individuarlo nella Piazza Teatralnaya di Tskhinvali, in mezzo a centinaia di persone riunite a festeggiare il riconoscimento dell´indipendenza. È un omino magro, non alto, con stretti baffetti grigi alla Charlot. Tutti dicono che è facile da riconoscere perché indossa sempre il cappello osseto, e infatti eccolo sotto un grosso copricapo di lana grigia, coi margini rivestiti da un nastro nero e un piccolo addobbo sul cucuzzolo. È tra i pochi a non applaudire dopo che il presidente Eduard Kokojty parla in russo per quaranta minuti, dal palco, in doppiopetto grigio e cravatta rosso-vino, ringraziando la Russia e Medvedev e dichiarando il proprio amore al suo popolo. È arrivato ieri da Mosca con il documento del riconoscimento russo in tasca. Annuncia di avere il sostegno di mezzo mondo, e di aver ricevuto telefonate da Francia, Germania, Italia (specifica più tardi che si è trattato di privati e non di messaggi ufficiali). In perfetto stile caucasico trangugia per più di un minuto un enorme coppale. Il pubblico osseto spiega che contiene tre litri di vino, e che il presidente li ha scolati tutti. Kokojty riempie così la promessa fatta al suo popolo, toccare il vino solo il giorno in cui l´Ossezia fosse stata riconosciuta indipendente. Nafi Dzusijty è il piu importante scrittore e accademico osseto. La sua opera più importante è una Storia della Letteratura Osseta in quattro volumi. Due sono stati pubblicati, a Tbilisi e a Mosca, gli altri due sono ancora in attesa. Parla a lungo, della sua vita, dell´Unione Sovietica, dell´Ossezia e della Georgia, di come siano nazionalisti i georgiani e di come non si possa andare d´accordo con loro. È nato in un villaggio qui vicino, sulle montagne, nel 1925. «Ho finito la scuola il 20 giugno 1942, due giorni dopo è iniziata la guerra. Siamo partiti in 18, siamo tornati in cinque. Dei miei compagni sono rimasto soltanto io». Studia a Leningrado, poi torna in patria, a Tskhinkvali: «Nella mia vita ho scritto racconti, testi teatrali, libri». Nel 1987 viene eletto membro dell´Accademia Scientifica della Repubblica Sovietica della Georgia. Ma con l´‘89 rifiuta l´appartenenza all´Accademia delle Scienze: «I georgiani volevano decidere e giudicare tutto loro. Volevano metterci sotto controllo, ma non gli è riuscito». Parla anche dell´Italia, che ha visitato nel 1985 dopo un invito, assieme a un collega ucraino, da uno scrittore siciliano. «Durante una delle conferenze una persona si alzò in piedi e ci chiese che cosa ne pensassimo di Andrej Sakharov e di Elena Bonner. Ne fui sorpreso, ma era l´85, Sakharov allora era sulla bocca di tutti. Il mio giudizio era tiepido, soprattutto sulla Bonner».

Teimuras Isakovich Kokoev è il rettore dell´Università di Tskhinvali, un osseto nato, cresciuto e laureatosi a Tbilisi. In Ossezia vive da sedici anni, i suoi figli abitano a Vladikavkaz, nella russa Ossezia del Nord. «Fin da bambino ricordo che la parola ‘osseto´ era un´offesa. Una volta mi ero sentito definire da una vicina di casa ‘osseto, figlio di osseti´. Ricordo che le risposi offesissimo, che loro erano osseti, ma io georgiano!». Oggi l´edificio dell´Università è una rovina gialla, sporca, senza tetto e senza vetri, e visto che il suo studio è fuori uso, il rettore riceve i visitatori nella sua casetta in via Suvorov 3. «In Georgia è senza dubbio in atto un rinascimento, ma solo grazie al sostegno finanziario degli stranieri. A noi di tutto questo non arriva proprio niente». Di Saakashvili ripete quello che dicono gli uomini e le donne della strada: «Sono cosciente che abbia fatto della lotta alla corruzione il suo credo, ma tutte le sue doti sono annullate dal suo difetto: un nazionalismo imperdonabile». Sempre così terribili le relazioni ossetine-georgiane? Nei primi anni ´90 vigeva la «narodnaya diplomatija», la diplomazia del popolo, ovvero il commercio. Le vecchiette passavano il confine con le borse vuote, tornavano con le borse piene. Compravano dai georgiani frutta e verdura, vendevano latte e formaggio. «Poi è intervenuta la politica, il governo nazionalista di Zviad Gamsakhurdia, e oggi non c´è più spazio per recuperare i rapporti». Ma gli intellettuali, gli scrittori, gli storici, i rettori delle università, gli accademici, non hanno mai cercato di risolvere la situazione in maniera pacifica? «No», risponde Kokoev, «non ingannerò nessuno dicendo che l´ho fatto. Sebbene da parte georgiana siano venute, inizialmente, proposte di conferenze congiunte. Ma ogni tentativo di riappacificazione era volto a portare noi sulle loro posizioni, non si sono mai chiesti perché noi e gli abkhazi non riconoscessimo la loro autorità, perché la pensassimo allo stesso modo, ma in maniera opposta a loro. Adesso con il riconoscimento da parte della Russia alcune cose cambieranno». A Mosca i caucasici sono chiamati culi neri. Se un uomo ha le sopracciglia folte, occhi e capelli neri, i poliziotti russi lo fermano e gli chiedono i documenti, il visto, la registrazione, la carta d´immigrazione. Il più delle volte finisce con una multa intascata dal poliziotto stesso. Se la Russia tratta così i suoi cittadini caucasici, perché gli ossetti vogliono diventare parte di un paese tra i più xenofobi al mondo? «Certo, non dico che i russi siano perfetti, ho gli occhi aperti su quali siano i difetti dei georgiani e le pecche dei russi. Ma nonostante tutto preferiamo, e di molto, i russi. Sono comunque più tolleranti».

Su uno dei palazzi non rovinati di Tskhinvali c´è la scritta «Istituto internazionale degli Stati appena fondati». Eppure quando si chiede al presidente dell´Ossezia se il riconoscimento del Kosovo ha giocato un ruolo in quello del suo paese, ride e risponde sprezzante: «La situazione del Kosovo e la nostra non sono paragonabili. Noi siamo uno stato funzionante, efficiente, democratico, da ben 17 anni. Il Kosovo è un pezzo di territorio rubato a un paese assolutamente democratico. Uno sgarbo gravissimo degli occidentali all´ex Jugoslavia. Non si può in alcun modo paragonare la Serbia nazionalista di oggi alla Serbia democratica di allora. Il riconoscimento dell´Ossezia del Sud è un primo colpo alla politica dei due standard». Una posizione durissima nei confronti degli occidentali, assieme alla dichiarazione che osservatori e peacekeeper europei «non hanno il diritto morale di venire qui». Il rettore Kokoev è più possibilista e vede nel riconoscimento del Kosovo un precedente per quello del proprio paese. Ma sostiene che questo nuovo riconoscimento non minacci ulteriormente l´ordine mondiale: «Noi siamo un caso a parte: un popolo diviso in due paesi diversi. Non siamo mai stati georgiani e la Georgia è un paese solo per i georgiani».

Pubblicato il: 28.08.08
Modificato il: 28.08.08 alle ore 10.50   
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