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Autore Discussione: OGGI KARADZIC ALLA SBARRA Il dittatore degli inganni  (Letto 2244 volte)
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« inserito:: Luglio 31, 2008, 03:14:07 pm »

31/7/2008 - OGGI KARADZIC ALLA SBARRA
 
Il dittatore degli inganni
 
 
 
VALERIO PELLIZZARI
 
Radovan Karadzic, entrato nella seconda fase della sua vita terrena, ormai trasformato in predicatore laico canuto, privo di quel grande ciuffo ribaldo che anticipava ribalderia di parole e prepotenza di azioni, approda adesso in Olanda. Lo psichiatra di Pale si crederà vittima di un’allucinazione, nel paese della droga facile. Perché la bandiera nazionale olandese che sventola vicino alla sua cella sembra la bandiera serba rovesciata, ha lo stesso disegno e gli stessi colori.

Una deformazione ottica identica aveva accolto in precedenza il professor Seselj, feroce ultrà nazionalista, e il presidente Milosevic, entrambi estradati e giudicati a L’Aja. Questi tre personaggi figli della Serbia violenta, fanatica, spavalda, hanno chiuso simbolicamente la loro parabola politica proprio nel paese ordinato, tranquillo, che invece ha coltivato il diritto dei popoli e delle genti, che ospita la Corte di giustizia internazionale e il Tribunale dell’Onu. Il loro itinerario di espiazione per certi aspetti era già disegnato.

Ma l’Olanda entra nelle cronache serbe anche per un’altra ragione. Nel 1995 a Srebrenica i soldati dei Paesi Bassi, con addosso i baschi azzurri delle Nazioni Unite, non riuscirono a fermare quel massacro di ottomila uomini musulmani spinti per ordine di Karadzic verso i campi minati, e uccisi con colpi alla schiena se tentavano di tornare indietro. Quella resta una delle pagine più vergognose della guerra di Bosnia e il segretario generale dell’Onu all’epoca, Kofi Annan, diceva quattro anni dopo: «La tragedia di Srebrenica peserà per sempre sulla storia delle Nazioni Unite». Mentre Mazowiecki, primo capo di governo nella Polonia post comunista, rappresentante speciale inviato dal Palazzo di vetro per tutelare i diritti umani in Bosnia, lasciò il suo incarico denunciando: «L’Occidente si comporta come ai tempi di Danzica, durante il nazismo». Ma il disonore collettivo non ha colpevoli. E in questo caso la giustizia ha bisogno di una buona memoria. Ancora oggi la responsabilità occidentale per quel massacro ricade sbrigativamente sul battaglione dei caschi blu olandesi, pavidi, forse anche codardi, ma certamente abbandonati senza direttive dai vertici della missione Onu. Il comandante di quei quattrocento uomini presi in ostaggio dai serbi - rimasti senza carburante nel loro accampamento, derubati di armi e veicoli, privati dei documenti di identità, denudati perché non portassero addosso foto e filmati della strage di cui erano stati testimoni - aveva chiesto per cinque volte l’invio dell’aviazione per colpire le postazioni dell’artiglieria serba che assediava Srebrenica e i suoi quarantamila abitanti. Dal quartier generale di Zagabria, e dal Palazzo di vetro a New York, fermarono invece il decollo dei bombardieri con l’alibi che c’era una trattativa in corso.

Karadzic è stato forse più abile di Milosevic nel condurre una politica di fatti compiuti, fingendo contemporaneamente di negoziare, e sfruttando subito dopo un pretesto per avviare un nuovo negoziato. Formalmente autorizzava i convogli umanitari a rifornire Sarajevo e le altre città assediate, ma poi prelevava dai convogli almeno un terzo del carico per i suoi uomini, e deponeva una serie di mine lungo il percorso per rallentare la marcia di quegli aiuti. Con gli olandesi a Srebrenica, o con i musulmani assediati a Zepa, i serbi esibivano un maiale appena decapitato o un montone sullo spiedo, per garantire lo stesso trattamento all’interlocutore che avevano di fronte.

Il fastidio, l’insofferenza di Karadzic, di fronte alle consuetudini e alle regole del diritto, non si rivelava solo di fronte al nemico musulmano, o ai soldati stranieri. Un giorno nominò sua moglie, anche lei psichiatra, presidente della Croce rossa nella minuscola Repubblica serba di Bosnia, un territorio fisicamente contorto come due salsicce tenute assieme dall’esile corridoio di Brcko. La Croce rossa internazionale a Ginevra, dove è nato il diritto umanitario, non riconobbe mai la nomina della signora trasformata in crocerossina per meriti familiari, né l’esistenza di quello stato traballante. Ma lo psichiatra che applicava la pulizia etnica a Srebrenica pretese che su un foglio, protocollato 07-27/95, con timbro e firme, venisse scritto all’ultimo minuto, a mano, che durante l’evacuazione erano state rispettate la Convenzione di Ginevra e le altre regole del Diritto di guerra. Anche per questo oggi l’Olanda rappresenta per lui un mondo alla rovescia.
 
da lastampa.it
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