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Autore Discussione: FRANCESCO RAMELLA  (Letto 6962 volte)
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« inserito:: Giugno 25, 2008, 10:49:53 am »

25/6/2008
 
Il Pd e le insidie della piazza
 
FRANCESCO RAMELLA
 

In autunno il Pd chiamerà i propri elettori ad una grande manifestazione nazionale di «protesta e di proposta» contro il governo Berlusconi. Sta diventando una tradizione del nostro Paese, per l'opposizione, ricompattarsi nelle piazze dopo una sconfitta elettorale. Perché queste mobilitazioni, quando riescono, ridanno fiducia sia alla base che ai vertici. E bucano i teleschermi. A questo del resto servono. Non casualmente, sia nel 1996 che nel 2006, Berlusconi portò in piazza una notevole quantità di persone a protestare contro le prime finanziarie di Prodi. Anche il popolo di centro-sinistra, dopo la sconfitta del 2001, sentì il bisogno di manifestare: con i girotondini in difesa della legalità e della democrazia e con il sindacato contro la revisione della normativa sui licenziamenti. Tra queste manifestazioni c'è, tuttavia, una profonda differenza.

La base del centro-sinistra non fu chiamata in piazza dai partiti. Rispose prima all'appello del movimento dei professori e della società civile e poi a quello della Cgil. Non fu solo una mobilitazione contro il governo Berlusconi ma anche contro la propria classe dirigente. Ciò creò una dialettica che servì a dare slancio e a ricalibrare le strategie dell'opposizione. Ma mise altresì in luce una scollatura tra base e vertice dei partiti di centro-sinistra che non si è mai del tutto ricomposta.

Le dimostrazioni del centro-destra erano diverse. Si trattava, perlopiù, di mobilitazioni dall'alto. Volute in primo luogo dal leader maximo della coalizione seguendo motivazioni politiche e coalizionali. Nel 2006 la manifestazione di Piazza San Giovanni permise a Berlusconi di riaffermare una leadership che sembrava sfuggirgli di mano. Accelerando il confronto con il governo (la strategia della spallata) e rimandando quello con gli alleati. Servì a guadagnare tempo. Perché il tempo gli giocava contro: un prolungamento del governo Prodi assottigliava drasticamente le sue chance di ricandidatura. L'«appello alla piazza» dei Democratici assomiglia molto a questo secondo tipo di mobilitazione. Serve a dare respiro ad un Veltroni che è finito nelle spire delle contese oligarchiche di partito, mentre è tallonato dalla sinistra giustizialista. Gli serve anche a disincagliarsi dalle difficoltà in cui si è arenata la strategia del dialogo. E tuttavia, per quanto utile e forse necessaria, la mobilitazione d'autunno nasconde due insidie.

L'annuncio dato di fronte alla platea semivuota dell'Assemblea nazionale ha una potenza simbolica fortemente evocativa. Sottolinea la stanchezza (e la delusione?) seguita alle primarie e alla sconfitta elettorale. Mostra il volto di un partito che fatica a rimettersi in moto. Qui sta la prima insidia. Ovvero che il loft veltroniano da scelta temporanea, dettata da necessità e urgenza, si trasformi in strategia permanente di governo del partito. Che l'appello diretto del leader ai propri elettori e il meccanismo stesso delle primarie - pur giocati in chiave antioligarchica e di rinnovamento - portino con sé l'asfissia del partito e il rischio di una deriva interna di tipo plebiscitario.

Sarebbe perciò opportuno che in tempi ragionevoli, ma ravvicinati, l'attuale leadership sottoponesse le strategie per il prossimo quinquennio al vaglio di una discussione approfondita all'interno di tutto il partito. Non solo tra le oligarchie di vertice. Per chiarire la linea politica che intende seguire. E qui affiora la seconda insidia. Perché dietro l'angolo della mobilitazione contro Berlusconi a difesa dello stato di diritto, si annida sempre un grande alibi per la sinistra. Quello di darsi un collante in negativo piuttosto che in positivo. Il rischio, in altri termini, è che l'opposizione affannata a combattere il Caimano si dimentichi di ripensare la propria identità, dotandosi di un programma e di una strategia chiaramente condivisa. Come ha ben descritto la Scuola di psicologia di Palo Alto: ripetere meccanicamente le soluzioni fallite in passato per affrontare un problema non solo non aiuta a risolverlo, ma finisce per favorirne la persistenza.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 13, 2008, 11:01:17 am »

13/8/2008
 
I paradossi di questa democrazia
 
 
 
 
FRANCESCO RAMELLA
 
Mai come oggi la Seconda Repubblica appare come una democrazia dei paradossi. Da un lato, la nuova legislatura si è aperta in un clima diverso dal passato, preannunciando una fase costituente basata sul consenso bipartisan. Dall’altro, quasi subito si sono riaffacciate tutte le divisioni che da molto tempo tormentano il nostro Paese. Nei giorni scorsi il governo ha alternato posizioni contraddittorie sul dialogo per le riforme istituzionali. Berlusconi ha pronunciato parole di chiusura, accusando di slealtà l’opposizione. Tremonti, al contrario, ha lanciato messaggi più incoraggianti, affermando che nell’ultimo decennio - seppure tra molte lacerazioni - la trama delle riforme non si è mai interrotta. Alcuni dati sul versante dell’opinione pubblica sembrerebbero dargli ragione, indicando che la turbolenta transizione avviata nei primi anni ’90 sembra aver prodotto qualche effetto.

Pochi se ne sono accorti, ma negli anni passati il giudizio dei cittadini sul funzionamento della nostra democrazia ha conosciuto un sensibile miglioramento. Nel 2006, per la prima volta, i sondaggi Eurobarometro, condotti in tutti i paesi dell’Unione europea, hanno rilevato che la maggioranza degli italiani (il 53%) era soddisfatta della propria democrazia. Un valore non distante dalla media europea (56%). Siamo ancora lontani dalla serenità che si respira nei paesi dove oltre il 70% dei cittadini sono contenti del funzionamento delle proprie istituzioni (Danimarca, Lussemburgo, Finlandia, Irlanda, Austria, Olanda, Svezia e Spagna). E tuttavia non c’è di che lamentarsi visto che ci troviamo vicini alla Germania (55%) e, una volta tanto, ci lasciamo alle spalle gli amati-odiati cugini francesi (45%).

Si tratta di un dato sorprendente mai registrato a partire dal 1973, anno di avvio di queste inchieste. L’Italia, infatti, è sempre stata il fanalino di coda dei paesi europei. Negli anni ‘70 e ‘80 tra i due terzi e i tre quarti degli italiani dichiaravano una profonda insoddisfazione per le prestazioni del nostro sistema politico. Il massimo viene raggiunto al culmine della crisi della Prima Repubblica (1992-93), quando la percentuale dei delusi raggiunge addirittura l’85%. Questi livelli di insoddisfazione - che in tutti i paesi risentono della congiuntura economico-politica, ma che riflettono anche le attitudini di fondo verso le istituzioni nazionali - iniziano a calare verso la metà degli anni ‘90, riducendo la nostra distanza dall’Europa. A cosa è dovuto il miglioramento? Alla rimozione della conventio ad excludendum che assicurava alla Dc le redini del governo. Con l’avvento della Seconda Repubblica viene realizzata l’alternanza di schieramenti contrapposti. Non casualmente i sondaggi Eurobarometro registrano i dati migliori negli anni delle consultazioni regionali e politiche del 2000-01 e del 2005-6, quando si verificano dei sensibili cambiamenti politici. In altre parole: l'alternanza al governo di maggioranze di centro-destra e centro-sinistra è apprezzata dai cittadini italiani.

La democrazia bloccata, tuttavia, non era fondata solamente sull’inamovibilità della Dc. Come ha spiegato a lungo Giovanni Sartori, quella era solo la conseguenza della delegittimazione a governare delle due ali estreme di sinistra e di destra. La Seconda Repubblica ha rimosso anche questo ostacolo? La risposta è no. Sul fronte del centro-destra, Berlusconi ha fatto tutto il possibile per riattivare un codice amico-nemico incentrato sull’anti-comunismo, che ha gettato cupi sospetti sull’affidabilità democratica degli avversari. Sul fronte del centro-sinistra la discriminante anti-Berlusconi e la battaglia sul conflitto di interessi hanno prodotto lo stesso effetto. Ciò che maggiormente inquieta è che questa spirale di delegittimazione reciproca ha influenzato profondamente l’opinione pubblica, alimentando le pulsioni antipolitiche che agitano una parte del Paese. Sotto questo profilo, la Seconda Repubblica non ha ancora normalizzato del tutto il nostro sistema politico. Ha prodotto invece un’alternanza senza legittimazione, cioè una «democrazia con la condizionale», in cui la fiducia alle istituzioni e l'autorità ai governi vengono concesse solo a condizione che al potere sieda la propria parte politica. E’ a questa anomalia che un’intesa bipartisan sulle regole di fondo dovrebbe porre rimedio.

 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:40:45 pm »

7/10/2008
 
Federalismo da cortigiani
 
 
 
 
 
FRANCESCO RAMELLA
 
Con il varo da parte del Consiglio dei ministri della delega sul federalismo fiscale, prende finalmente avvio il processo di attuazione dell’art. 119 della Costituzione. Il disegno di legge, tuttavia, non nasce sotto i migliori auspici, a causa di una decisione assunta nei giorni scorsi dal Cipe. Quest’ultimo ha deliberato un contributo a fondo perduto di 140 milioni di euro in favore del Comune di Catania e di 500 milioni per quello di Roma. Nel primo caso i soldi servono a evitare il crack finanziario dell’amministrazione etnea e nel secondo a garantire il piano di rientro del debito varato dalla giunta Alemanno.

L’autonomia fiscale prevista dal titolo V della Costituzione concede maggiore libertà alle Regioni e agli Enti locali, sia sul lato delle entrate che su quello delle spese. Ciò richiede rigore da parte di tutti. Il federalismo fiscale, infatti, si regge sul principio «dell’autonomia e responsabilizzazione finanziaria di tutti i livelli di governo». È per questo che - saggiamente - l’esecutivo prevede l’introduzione di «meccanismi sanzionatori per gli enti che non rispettano gli equilibri economico-finanziari». Un criterio che è stato vistosamente contraddetto dalla decisione del Cipe. Insomma mentre predica bene sul piano dei principi, il governo razzola male su quello delle prassi concrete. La spesa pubblica rappresenta un formidabile strumento di consenso politico. Tanto più irresistibile quanto meno si è responsabili delle tasse imposte sui cittadini.

Quando negli Anni 70 lo Stato si accollò il finanziamento delle spese degli enti locali in cambio della loro rinuncia all’autonomia fiscale, il risultato fu un’irresponsabilità diffusa e la perdita di controllo sui bilanci dei Comuni. Da allora la tendenza si è invertita. Durante gli Anni 90, seppure tra mille difficoltà e contraddizioni, i termini dello scambio si sono ribaltati: più autonomia e poteri ai sindaci, in cambio di maggiore responsabilità verso il bilancio dello Stato.

Nonostante i molti «stop-and-go» i risultati non sono mancati. Basti pensare che ancora agli inizi degli Anni 90 i trasferimenti dal centro rappresentavano i due terzi delle entrate dei Comuni. Nel 2007 solamente il 36%. Anche il rigore pare averne beneficiato, a giudicare dalla riduzione delle amministrazioni locali in dissesto finanziario. Secondo la Relazione approvata lo scorso luglio dalla Corte dei Conti, i «Comuni dissestati» erano 333 nel quinquennio precedente la «riforma dei sindaci» (1989-1993). Sono scesi a 12 nell’ultimo quinquennio. Nel 2007, inoltre, solamente 25 hanno presentato un disavanzo di bilancio, con un deficit complessivo stimato intorno ai 31,5 milioni di euro (113 euro per abitante). Un numero maggiore di amministrazioni locali (circa 1700) ha invece accumulato «debiti fuori bilancio» (oneri «imprevisti» derivanti da sentenze, disavanzi delle aziende speciali ecc.): per un totale complessivo di 450 milioni, pari a 16,4 euro per abitante. Nel complesso però si tratta di risultati non insoddisfacenti, tenendo conto che siamo ancora in attesa di una disciplina organica della finanza locale.

Vista su questo sfondo la delibera del Cipe suscita non pochi interrogativi. Perché, per esempio, a Catania non si è fatto come a Taranto lasciando libero corso alla procedura di dissesto finanziario? Forse perché l’ex sindaco è il medico personale di Berlusconi e quest’ultimo, nel 2005, è intervenuto «di pirsona, pirsonalmente» (per dirla alla Camilleri) nella campagna elettorale per appoggiarne la rielezione? Queste pratiche rischiano di trasformare lo Stato di diritto in una «società di corte». Dove ciò che conta è il favore che si può vantare presso il principe. Poiché le sorti di ognuno dipendono dalla sua benevolenza e dalle sue decisioni discrezionali. Un sistema come questo diffonde una mentalità cortigiana che corrompe velocemente i costumi. Come scriveva Norberto Elias a proposito del Re sole: «Quanto più gli uomini della corte dipendevano direttamente da lui, tanto più numerosi erano coloro che gli si affollavano attorno».
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 16, 2008, 09:04:50 am »

16/10/2008
 
Due sinistre tra i dilemmi
 
 
FRANCESCO RAMELLA
 
Le manifestazioni dello scorso 11 ottobre hanno avviato l’autunno caldo contro il governo Berlusconi. Il 25 ottobre seguirà il raduno del Partito Democratico. I protagonisti più significativi dell’opposizione hanno scelto, separatamente, la stessa strategia: il conflitto e la protesta di piazza per riconquistare visibilità e capacità di iniziativa. In particolare, la sinistra radicale e quella riformista hanno adottato le stesse parole d’ordine per ri-mobilitare le proprie basi: l’emergenza sociale e quella democratica.

Questa sintonia, tuttavia, è più apparente che reale. Mentre convergono sui contenuti della protesta, infatti, le «due sinistre» divergono drasticamente nelle loro strategie politiche. Entrambe hanno rimesso al centro della loro agenda la questione sociale. Una scelta che ha più di un fondamento. Tutte le indagini di opinione infatti mostrano uno «scenario neo-materialista», in cui le preoccupazioni e le priorità dei cittadini si concentrano sullo stato dell’economia e sulla tenuta di redditi e risparmi. Con molti timori per il futuro. Da un sondaggio condotto dalla Commissione europea lo scorso aprile, emerge che il 49% dei cittadini dell’Unione (il 58% degli italiani) ritiene che tra venti anni le condizioni di vita nel vecchio continente saranno peggiori di quelle attuali. Queste aspettative negative sono diffuse soprattutto tra i lavoratori manuali e i soggetti meno istruiti, che si sentono minacciati dalle dinamiche della competizione mondiale. Inoltre, l’80% degli intervistati (e gli italiani non fanno eccezione) accredita uno scenario futuro di crescenti disuguaglianze sociali. Senza però condividerlo. Ad esempio il 66% degli italiani (la percentuale più elevata tra i Paesi dell’Unione: media Ue 44%) sostiene con forza che le politiche pubbliche dovrebbero contrastare questo trend, riducendo significativamente il gap tra ricchi e poveri. Alla luce di questi dati e considerata la tempesta che scuote il capitalismo mondiale, non stupisce che alcune «parole d’ordine» storiche della sinistra - uguaglianza e questione sociale - tornino a fare capolino nel suo discorso pubblico. Perché sia Rifondazione che il Pd percepiscono oggi l’esigenza di una «ricalibratura» del loro messaggio politico in direzione dei ceti popolari. Tanto più se si pensa alle stime che indicano come, alle ultime elezioni, oltre la metà degli 8 milioni di operai italiani abbiano scelto un partito di centro-destra.

Le conseguenze che i due partiti traggono da premesse simili non potrebbero però essere più differenti. Il Pd ha scelto una strategia di opposizione «utile per il Paese»: pur contrapponendosi a molte delle politiche varate dal centro-destra, dichiara di voler convergere sui provvedimenti d’interesse nazionale. Rifondazione comunista, invece, riscopre l’«interesse di classe» e intende dimostrare l’«utilità sociale» della sinistra attraverso il conflitto duro. Prendendo a prestito uno slogan coniato dal sub-comandante Marcos, ha scelto una via di uscita dalla crisi elettorale «in basso a sinistra». Mentre Veltroni invoca un patto tra i produttori per rilanciare lo sviluppo, il neo-segretario di Rifondazione recupera l’antagonismo tra capitale e lavoro. Rinfacciando al Pd di fare l’opposizione a Berlusconi ma non a Confindustria, senza capire che il governo altro non è che il «comitato d’affari della borghesia».

In occasione della manifestazione dell’11 ottobre, Ferrero ha parlato della fine del ritiro politico della sinistra radicale. Il quesito che si pone è se si sia trattato di un «buen retiro» o di un «mal retiro». Ovvero se la riflessione sulla sconfitta elettorale non abbia in realtà innescato una sua rielaborazione regressiva. Rifondazione, infatti, ha scelto per il proprio rilancio una strada senza sbocco: quella dell’autonomia dal Pd e del ritorno ai movimenti sociali e al conflitto di classe. Si condanna così ad un declino che assomiglia molto a quello di Izquierda Unida in Spagna, che anche nelle ultime elezioni ha perso consensi, piombando al minimo storico del 3,8%. Un partito di matrice comunista che, al momento del voto, viene percepito come «inutile» per contrastare la destra e che perciò subisce l’emorragia del «voto utile» in favore del più vicino partito riformista, in questo caso il Psoe.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 12, 2008, 10:15:55 am »

12/11/2008
 
Gli italiani hanno il cuore verde
 
 
 
 
 
FRANCESCO RAMELLA
 
Secondo le prime indiscrezioni, tra i provvedimenti che il nuovo presidente degli Stati Uniti intende assumere immediatamente, una volta insediato, alcuni riguardano i temi ambientali. Si sa ad esempio che vuole rimuovere il veto di Bush contro il piano della California per la riduzione del 30% dei gas di scarico delle auto. Obama, del resto, ha più volte confermato che tra le sue priorità, subito dopo la crisi economica, vi è la questione energetica.

Durante la campagna elettorale ha dichiarato che allocherà 150 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per promuovere le fonti rinnovabili, il risparmio energetico e la produzione di auto elettriche e a basso consumo. Questa strategia, secondo il neopresidente, fa bene non solo all’ecosistema ma anche all’economia. La previsione, infatti, è di creare 5 milioni di nuovi posti di lavoro nel settore ambientale: i green collar jobs. Insomma attraverso una sorta di ecolonomia intende raggiungere un duplice obiettivo. Da un lato ridurre la dipendenza americana dal petrolio. Dall’altro combattere il cambiamento climatico. I traguardi che pone al suo Paese sono ambiziosi. Entro il 2025 dovrà ricavare il 25% dell’elettricità da fonti rinnovabili, ed entro il 2050 abbattere dell’80% le emissioni di gas serra. Gli Stati Uniti devono diventare la nazione leader nella lotta al cambiamento climatico. Perché - come si legge nell’incipit del programma di Obama - «non possiamo più permetterci la solita politica timida quando il futuro del nostro pianeta è a rischio. Il riscaldamento globale non è un problema del futuro ma di adesso».

Vedremo se alle parole seguiranno i fatti, ma tuttavia è già evidente che su questo tema il nuovo inquilino della Casa Bianca non la pensa come Berlusconi, che poche settimane fa ha fatto osservare ai nostri partner europei che, data la crisi finanziaria, sull’ambiente «non è il momento di fare i don Chisciotte». Con l’elezione di Obama viene però a cadere uno degli argomenti «forti» usati per giustificare lo scetticismo verso il piano europeo sulle emissioni inquinanti: la mancata adesione degli Stati Uniti alla lotta contro il cambiamento climatico. L’Italia, dunque, si trova oggi più isolata nello scontro che la contrappone alla maggioranza dei paesi europei sulle modalità e i tempi di attuazione del cosiddetto «piano 20:20:20». Un pacchetto di misure finalizzato a raggiungere, entro il 2020, il 20% di riduzione delle emissioni di CO2, il 20% di utilizzo di energie rinnovabili e il 20% di miglioramento dell’efficienza energetica.

E tuttavia va anche detto che, su questo tema, il governo Berlusconi interpreta alcuni tratti del sentire comune degli italiani. Una recente indagine Eurobarometro, infatti, mostra un profilo del nostro Paese particolarmente dissonante rispetto a quello degli altri partner europei. Solamente il 47% dei nostri concittadini (15 punti sotto la media Ue) ritiene il cambiamento climatico uno dei maggiori problemi che il mondo deve affrontare. In Francia e Germania si raggiunge il 71%. Lo stesso vale per le azioni intraprese personalmente per contrastare i problemi ambientali. Solo il 49% degli italiani sono coinvolti in simili attività, contro una media Ue del 61%. Sul fronte del riciclaggio dei rifiuti, della riduzione dei consumi domestici di energia ed acqua le nostre percentuali risultano sempre inferiori di 20 o 30 punti a quelle di Francia, Germania e Inghilterra. D’altra parte il livello medio d’informazione e di consapevolezza ecologica appare in Italia molto più basso.

Le posizioni assunte dal governo di centrodestra sul pacchetto europeo rispecchiano questo ritardo di fondo nella nostra cultura ambientale. E tuttavia la riflettono solo parzialmente. Proiettando un’immagine deformata di arroccamento difensivo che non corrisponde pienamente alla realtà. Dal sondaggio Eurobarometro, infatti, affiora anche qualche segnale più positivo. La stragrande maggioranza degli italiani, ad esempio, ritiene che combattere il cambiamento climatico possa avere un impatto positivo sull’economia europea e che su questi temi l’azione svolta dalle imprese, dai governi e dagli stessi cittadini sia stata finora del tutto insufficiente. Oltre il 70% degli intervistati, inoltre, considera ragionevoli le proposte Ue sull’ambiente. Una percentuale, questa, che ci pone in linea con i maggiori paesi europei. Con i quali, quasi a sorpresa, ci scopriamo affini. Almeno sul piano delle aspirazioni.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 05, 2008, 09:51:10 am »

5/12/2008
 
L'affaire Firenze e le trame del Pd
 
FRANCESCO RAMELLA

 
Quanto sta affiorando dalle intercettazioni pubblicate a Firenze, a proposito dell’affaire immobiliare Fondiaria-Castello, appare molto preoccupante. Prima che la scintilla diventi un incendio (così l’ha già definito uno degli inquirenti), sarebbe opportuno che i dirigenti del Pd intervenissero con decisione. A destare impressione non sono tanto le accuse di corruzione avanzate con riferimento al nuovo insediamento urbanistico, previsto nella zona nord-ovest della città su terreni del gruppo Ligresti. Su questa vicenda sarà la magistratura a fare chiarezza e, fino a condanna definitiva, vale la presunzione d’innocenza per ognuno degli inquisiti.

Ciò che invece preoccupa, e che non può essere passato sotto silenzio, è lo stile di governo del capoluogo toscano che traspare dalle intercettazioni. Con una parte della classe dirigente fiorentina - politica, economica e giornalistica - legata assieme da una fitta trama di scambi e favori personali: l’appartamento sottocosto per l’amica dell’assessore, la gratifica per il «caro figliuolo» di quest’ultimo, le vacanze gratis in Sardegna per il direttore del giornale cittadino ecc. Il tutto sotto l’attenta regia di un esponente di rilievo del grande gruppo assicurativo-immobiliare, che ha enormi interessi in gioco nell’operazione urbanistica finita sotto il mirino della magistratura.

Dalle telefonate si ricavano anche indizi interessanti sulle logiche che governano la politica locale: nel 2009 si elegge il nuovo sindaco di Firenze, l’anno dopo il nuovo presidente della Regione Toscana. Per dare il tono della vicenda: due degli attuali candidati alle primarie del Pd fiorentino intervengono su un imprenditore privato per punire una loro ex-protégé per il sostegno fornito ad un altro candidato-sindaco. Si intravede anche una sorta di «americanizzazione» in negativo della competizione interna al partito, per cui chi aspira a una carica di governo deve guadagnarsi il favore dei maggiori gruppi economici cittadini, per ottenerne risorse e sostegno.

In breve, ciò che emerge è la tendenza all’esaurimento di un’eredità politico-organizzativa - quella del Pci - che possedeva tutt’altra caratura. La fine delle ideologie e l’indebolimento organizzativo hanno dissolto quei legami collettivi e quei controlli interni che in queste zone rendevano il partito di massa un vitale tessuto connettivo tra la società e le istituzioni. La vicenda mostra l’urgenza per il Pd di un ripensamento della sua «forma partito», in modo da tornare a svolgere a livello territoriale un ruolo - oltre che di rappresentanza sociale - anche di selezione e di controllo sulle élite amministrative. Una funzione quest’ultima tanto più essenziale laddove - come nelle regioni rosse - la forza e la continuità di una tradizione politica, assicurano agli eletti una lunga permanenza al potere.

Proprio da questa Italia di mezzo, perciò, dovrebbe partire un messaggio di forte rinnovamento organizzativo. Magari puntando ad una «circolazione delle élite» che valorizzi i giacimenti nascosti della politica italiana: giovani e donne innanzitutto. Quest’ultime, ad esempio, occupano ancora oggi una posizione troppo marginale nelle amministrazioni delle regioni rosse: le donne assessori sono appena il 22% (la media italiana è ancora più bassa, il 17%). Sotto questo profilo la «crisi fiorentina» rappresenta per la classe dirigente democratica una sfida/opportunità a carattere più generale. Poiché le scelte che verranno compiute sul come affrontarla avranno ricadute serie e durature sulla nuova organizzazione che si sta costruendo. Oggi il Pd deve decidere che tipo di forza politica intende diventare. Tocqueville parlava di grandi e piccoli partiti. I primi, «badano più ai principi che alle conseguenze, alla generalità più che ai casi particolari, alle idee più che agli uomini. (...) I piccoli partiti, al contrario, sono in generale senza vera fede politica: non essendo sostenuti da grandi obiettivi, hanno un carattere egoistico che si manifesta in ogni loro azione (...). I grandi partiti rovesciano la società, i piccoli l’agitano; gli uni la ravvivano, gli altri la depravano; i primi talvolta la salvano scuotendola fortemente, mentre i secondi la turbano sempre senza profitto».
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:53:30 pm »

1/5/2009
 
Referendum alla prova del budino

 
FRANCESCO RAMELLA
 
Nei giorni scorsi si è assistito a un curioso dibattito sugli «sprechi della democrazia». L’occasione è stata fornita dalla disputa sulla data del prossimo referendum.
I suoi promotori e il Pd hanno attirato l’attenzione sullo sperpero di denaro pubblico causato dal mancato accorpamento con le elezioni europee. I leghisti e il ministro Tremonti, viceversa, hanno rispedito l’accusa al mittente, imputando lo spreco di risorse a coloro che hanno raccolto le firme, ben sapendo che non avrebbero poi raggiunto il quorum necessario per la sua validità.

I referendari hanno fatto notare che in diverse democrazie occidentali esiste la consuetudine di abbinare le consultazioni popolari alle elezioni politiche. In effetti, negli Stati Uniti questa pratica è piuttosto consolidata. Circa il 70% degli americani vivono in territori in cui si governa anche mediante vari tipi di referendum. Il ricorso al voto (ballot propositions), per proporre nuove leggi o abolire quelle esistenti, è frequente e può essere attivato sia dai legislatori che dagli stessi cittadini. Nel corso degli ultimi decenni le consultazioni d’iniziativa popolare si sono notevolmente intensificate, passando da un centinaio negli Anni 60 a 371 tra il 2000 e il 2008 (fonte: Initiative & Referendum Institute-University of Southern California).

Non ci sono segnali che questo trend vada esaurendosi o che sia in fase di logoramento. Il punto da sottolineare è che molte di queste consultazioni popolari sono abbinate alle normali elezioni politiche (statali o nazionali). Per fare solo un paio di esempi, in occasione delle presidenziali del 2004 sono state votate anche 162 ballot propositions. Nelle elezioni dello scorso novembre altre 152, e il 59% dei quesiti sottoposti sono stati approvati dagli elettori. Negli Stati Uniti queste forme di democrazia diretta funzionano e producono significativi atti di governo.

E tuttavia, con riferimento all’Italia, non ha torto chi fa notare che lo strumento referendario denuncia segni di usura. In effetti, a partire dal 1997 nessuno dei 22 quesiti abrogativi sottoposti agli elettori ha raggiunto la soglia prevista per la validità del referendum: la partecipazione al voto di almeno la metà degli aventi diritto. L’affluenza alle urne si è aggirata mediamente intorno al 30%, crollando al 25% nel referendum del 2005.

Ciò detto, sarebbe un errore considerare uno spreco le risorse (materiali, di tempo, di attenzione) spese per i referendum. Sono, al contrario, un buon «investimento» in democrazia, che rinforza la partecipazione dei cittadini e il loro senso di efficacia. Alcuni studi svolti negli Stati Uniti mostrano che gli Stati con il maggior numero d’iniziative popolari sono quelli che poi registrano un’affluenza più elevata alle elezioni politiche.

Tenendo conto della diversa normativa che regola i referendum in Italia (che andrebbe riformata), questo ragionamento si applica anche al nostro caso a condizione che dietro ogni iniziativa referendaria vi sia una «scommessa credibile» sul raggiungimento del quorum. Ciò significa che la macchina organizzativa dei proponenti sia attrezzata per promuovere una mobilitazione significativa dell’opinione pubblica e dell’elettorato. Solo in questo caso - anche in assenza del raggiungimento effettivo del quorum (che andrebbe eliminato) - il referendum non rappresenta uno spreco di risorse. Al più si potrebbe parlare di «costi della democrazia». Costi che fanno bene al suo mantenimento.

A normativa invariata, questa «scommessa credibile» può essere testata in maniera molto semplice. Valutando di volta in volta se la macchina dei referendari è in grado di portare alle urne percentuali non «imbarazzanti» di votanti. Mi verrebbe - arbitrariamente - da porre l’asticella tra i 17 e i 19 milioni di elettori. Nel caso specifico del prossimo referendum, se questa «prova del budino» non venisse superata, non sarebbe purtroppo improprio parlare di uno spreco di risorse. Di un’ulteriore picconata data - con le migliori intenzioni - a un istituto importante come il referendum. Che rafforza nei cittadini la sensazione d’inefficacia della loro partecipazione. Sarebbe inoltre difficile non dare ragione a chi sospetta che i promotori siano distanti dall’opinione pubblica almeno quanto la classe politica che intendono criticare.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 13, 2009, 10:30:31 am da Admin » Registrato
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:31:04 am »

13/5/2009
 
I record dell'Italia diseguale
 
FRANCESCO RAMELLA
 
Insoddisfatti e disuguali. Così ci vede l’Ocse. Emerge da Society at a Glance 2009, il nuovo rapporto sulle condizioni sociali delle economie avanzate. I dati ci raccontano stili di vita e modelli di sviluppo. I francesi dormono molto e passano tanto tempo a tavola, più che negli altri Paesi sviluppati. Per gli americani, invece, il food deve essere necessariamente fast: un’ora e un quarto al giorno. Mangiando male. Hanno la percentuale più elevata di obesi: il 34% della popolazione contro una media Ocse del 15%. E si ammazzano di lavoro: 1896 ore l’anno (il 20% in più della media). L’Italia si distingue al penultimo posto per la soddisfazione nella vita. Più insoddisfatti di noi solo i turchi. Siamo poi secondi nelle disuguaglianze di reddito. Più disuguali di noi solo gli americani. Infine, siamo primi nelle disuguaglianze di genere. Su questo terreno non ci batte nessuno.

Partiamo dall’insoddisfazione per la vita. I sondaggi Eurobarometro rilevano questo dato da molti anni, in tutti i Paesi europei. Bassi livelli di «soddisfazione per la vita» si associano a bassi livelli di collaborazione collettiva, civismo e fiducia nelle istituzioni. Non sorprendentemente, a partire dagli Anni 70, l’Italia ha sempre registrato i livelli più elevati d’insoddisfazione tra i Paesi della «vecchia Europa». Se questo aspetto non dovrebbe stupirci, il dato sulle disuguaglianze di reddito fa invece impressione. A metà degli Anni 80 il valore che registravamo sull’indice di Gini (che misura le disuguaglianze nella distribuzione del reddito utilizzando una scala da zero a cento) era più o meno in linea con la media dei Paesi Ocse. Oggi siamo quattro punti sopra (35 vs 31), a pochi passi dagli Stati Uniti (38). Con l’aggravante che aggiungiamo un tocco della peggiore mediterraneità alla nostra struttura delle disuguaglianze sociali. Guardando all’uso del tempo giornaliero, ad esempio, si scopre che gli uomini italiani usufruiscono mediamente di 80 minuti di tempo libero in più rispetto alle donne. Queste ultime, infatti, spendono molte più ore dei loro compagni nelle faccende di casa e nell’accudimento dei figli. Uno squilibrio nel lavoro di cura che regala ogni anno ai maschi italiani la bellezza di 487 ore (oltre 20 giorni!) in più da dedicare a se stessi. È il «gender gap» più alto fra tutti i Paesi Ocse.

Che risulta ancora più drammatico alla luce dei dati sull’occupazione femminile, dove siamo al terzultimo posto della graduatoria (16 punti sotto la media). E le nostre «prodezze» non finiscono qui. Tra il 2000 e il 2006 abbiamo registrato il tasso di crescita del reddito pro capite più basso tra i Paesi Ocse. Ci collochiamo al penultimo posto sul fronte dell’occupazione giovanile e dedichiamo, rispettivamente, la quota più alta del reddito nazionale alle pensioni e la più bassa all’istruzione universitaria. Infine, pur essendo raramente vittime di episodi di criminalità, risultiamo ai vertici per la percezione d’insicurezza (al terzo posto tra i Paesi Ocse). In questi giorni ha tenuto banco il dibattito sul decreto sicurezza. Con i dati Ocse alla mano è difficile non provare una strana sensazione d’irrealtà nel constatare la centralità assunta dal tema. Evidentemente proiettiamo le nostre ansie e paure verso l’esterno: gli immigrati, i criminali. Che sfidano le nostre condizioni di vita. Senza accorgerci che le minacce reali provengono dall’interno della società. Dalle disuguaglianze che abbiamo accumulate. Dalle scelte che facciamo sull’istruzione. Dalle risorse che non utilizziamo in maniera appropriata: le donne e i giovani soprattutto. Dal ripiegarci su noi stessi. Pensando al futuro delle pensioni piuttosto che a quello dei figli e del Paese.
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:48:03 pm »

11/6/2009
 
Perdere l'Italia di mezzo
 

FRANCESCO RAMELLA
 
Cos’è successo realmente nell’Italia di mezzo? Nelle regioni rosse - come hanno scritto alcuni - il Pd ha resistito? Oppure - come commentato da altri - c’è stato un disastroso cedimento strutturale?

I risultati delle Europee danno ragione a chi sottolinea una sostanziale tenuta del partito democratico. Nelle quattro regioni, considerate complessivamente, il Pd ottiene un ragguardevole 37,1%. Undici punti sopra la media italiana. Rispetto alle elezioni del 2004, inoltre, perde meno (-3,8%) che a livello nazionale (-5%). In termini di voti reali l’arretramento è più consistente (-12,7%), ma comunque molto inferiore a quanto avviene in Italia (-20,9%). Aggiungo che il calo dei votanti è stato inferiore rispetto al resto del Paese e che i democratici continuano ad ottenere più consensi nelle città principali e nelle zone più ricche e dinamiche di queste regioni: confrontando le 8 province con il maggiore e il minore reddito pro capite, il Pd ottiene il 7% di consensi in più nelle prime rispetto alle seconde. Nonostante il sorpasso messo a segno dal Pdl in Umbria e nelle Marche (una regione rossa a metà), e la penetrazione della Lega (soprattutto in Emilia e di più nei piccoli centri) non c’è stato nessun crollo elettorale. Nelle sue regioni-roccaforte il Pd perde terreno ma meno che nel resto d’Italia, in termini assoluti e ancor più relativi (cioè considerando la diversa forza di partenza).

Tanto rumore per nulla quindi? No. Come previsto, le novità vere sono arrivate dalle amministrative. Qui il quadro che emerge è piuttosto diverso. Nel 2004 il centro-sinistra si era assicurato tutte le province in lizza. Ricorrendo al ballottaggio solo in due. Stavolta delle 22 città al voto ne cede immediatamente due al centrodestra (Piacenza e Macerata) e in altre otto è costretto al ballottaggio. Stessa storia negli 85 comuni con più di 15 mila abitanti: 2 vanno al centro-destra e altri 30 al ballottaggio (la scorsa volta erano stati soltanto 10). Inoltre i candidati sindaci del centro-sinistra - al primo turno - perdono mediamente il 10% dei consensi e - dappertutto - si accorciano le distanze con gli «sfidanti».

E’ evidente che per spiegare questi risultati non basta rifarsi al clima nazionale e al «vento di destra» che soffia in Europa. Naturalmente sono elementi che hanno un loro peso. Ma che rischiano di diventare comodi alibi buoni a nascondere i problemi locali messi in luce dal voto. Due aspetti in particolare meritano attenzione. Il primo riguarda l’economia. Il Pd (nelle europee) è calato di più nelle province che hanno subito un arretramento nella graduatoria nazionale del reddito pro capite. Va poi sottolineato che notevoli difficoltà iniziano a registrarsi anche nei distretti industriali. Per quanto in queste aree il Pd continui a ottenere - soprattutto in Emilia Romagna - consensi leggermente superiori, il differenziale si è assottigliato rispetto al passato. Tanto che oggi il centro-destra sopravanza il centro-sinistra in 26 dei 60 comuni capofila dei distretti (prevalentemente nelle Marche).

Il secondo aspetto riguarda l’élite politica di queste regioni, le cui divisioni hanno frammentato l’offerta elettorale sottraendo consensi importanti ai «candidati ufficiali» del centro-sinistra. Il numero degli aspiranti sindaci, infatti, è notevolmente cresciuto. Nei comuni maggiori si sono presentati 131 candidati in più rispetto all’elezione precedente (con una media di 6 candidati e 12 liste per ogni municipio). I risultati elettorali vanno letti anche alla luce dei segnali di deterioramento della classe politica locale, logorata dall’assenza di ricambio politico e di un efficace controllo sulle amministrazioni locali. Dove si scorgono inquietanti - e non giustificabili - pratiche di lottizzazione, privilegi e divisioni personalistiche.

I vertici del Partito democratico farebbero bene a puntare i riflettori su queste regioni. Facendone un cantiere di rinnovamento e di coraggiosa sperimentazione. Questa è un’Italia particolare. Dove sviluppo economico e qualità della vita, benessere privato e beni pubblici, sono sempre andati a braccetto. E’ da questi territori, dove la sinistra è ancora forte e dove in passato ha ben governato, che dovrebbe partire un segnale forte per il resto del Paese. Soprattutto per le regioni del Nord. Se non qui, allora dove? E se non ora, quando?
 
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