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Autore Discussione: Paolo Soldini L’aria di Roma  (Letto 2341 volte)
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« inserito:: Maggio 27, 2008, 10:11:30 am »

L’aria di Roma

Paolo Soldini


È inutile girarci intorno: una soglia è stata varcata. Quel che è accaduto nel quartiere romano del Pigneto, sabato scorso, nella capitale d’Italia non ha precedenti. C’erano stati, in passato, episodi di xenofobia e accenti di razzismo.

Ma raid organizzati, finalizzati a riscuotere consenso in un quartiere (un quartiere con una sua bella storia civile e democratica e solidi legami con la sinistra), no, quelli non si erano mai visti. La spedizione punitiva con i bastoni e le croci uncinate è grave in sé, ma è ancora più grave per la brutalità con cui dice che il clima è cambiato. Per l’improvviso saltare sulla scena di chi, a suon di mazzate che prima o poi finiranno in tragedia, vuol fare di Roma un città di ronde (e peggio), le vuole sottrarre un pezzo, importante, della propria anima. Che è - o dobbiamo dire: è stata? - la preziosa capacità di convivere senza tensioni con la straordinaria varietà del mondo, di accogliere, di abbracciare e digerire nel suo ventre vorace popoli, etnìe, culture, colori della pelle e dei pensieri, abitudini, comportamenti, modi di vestire, di mangiare, commerciare, pregare, filosofare. Misurando tutti con la saggia bonomia di chi, in tanti secoli, ne ha viste troppe per non capire che solo in questo sano miscuglio vive davvero una grande città.

È stato sempre così. «Chiara cosa è che la minor parte di questo popolo sono i Romani, poiché quivi hanno rifugio tutte le nationi come commune domicilio del mondo» scriveva Marcello Alberini, che fu testimone del Sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi di Carlo V. Nella primavera di quel fatale 1527 tra le 54 mila “bocche” che, distribuite in 9300 “fuochi”, costituivano la popolazione residente della città eterna, il 58% circa non era originario di Roma o dei territori dello stato pontificio: era forestiero, insomma, e il 18% era di nazionalità non italiana. Altro che l’immigrazione di oggi: la città del soglio di Pietro era di gran lunga la più cosmopolita del mondo. C’erano preti, commercianti, famigli, guardie svizzere, teologi, studiosi d’arte e d’antichità, eruditi d’ogni angolo d’Europa. E lavoratori più modesti: servi, stradini, armaiuoli, garzoni di fabbri, pecorai, prostitute (molte: dei 9300 “fuochi” oltre 2000 erano guidati da donne e costituiti da una sola persona). Nel quartiere di Schiavonia, intorno al porto di Ripetta, erano concentrati slavi, albanesi, ruteni e rumeni di rito cattolico; verso Borgo e a Trastevere predominavano tedeschi, greci, francesi ed ebrei orientali immigrati (non i 1800 della comunità locale, che erano considerati romani, romanissimi e abitavano in quello che sarebbe divenuto poi il ghetto). La Roma di Clemente VII, insomma, era ben più “invasa” dagli stranieri della Roma che strilla oggi contro l’“invasione”. L’invasione, quella vera, arrivò da fuori e per ragioni squisitamente politiche, quel brutto 6 maggio in cui le truppe luterane e tedesche dell’imperatore (ma con loro c’erano anche cattolici e italiani) ripeterono l’impresa di Brenno e di Alarico. Fino ad allora il crogiuolo Roma aveva mescolato i suoi ingredienti di etnìe, lingue, culture (e persino religioni) con piena soddisfazione di tutti, romani e non romani. Per via della tradizione millenaria d’una città che era stata capitale d’una res publica e di un impero in cui la cittadinanza si acquisiva per jus soli e che ospitava la massima autorità dell’unica chiesa che si pretendeva universale.

Come è potuto accadere che una città con queste tradizioni sia caduta anch’essa vittima della sindrome “ciascuno a casa propria”, che è, qui come ovunque, l’humus sul quale cresce la violenza contro gli “altri”, i “non noi”? Una spiegazione è data da quella parolina (infame) che è stata la chiave con la quale si è pensato di aprire tutte le porte nella passata campagna elettorale: “sicurezza”. È stato allora che ha vinto un sistema di sillogismi tutti sbagliati ma tutti possentemente evocativi: a Roma ci sono troppi stranieri, gli stranieri delinquono più degli italiani, la criminalità è aumentata e quindi tutti siamo più insicuri. Se si guarda alle statistiche, che fino a prova contraria restano l’unico dato oggettivo sul quale dovrebbe essere lecito ragionare, Roma non ha “troppi” stranieri. Ne ha, proporzionalmente, meno di tutti quelli che ha avuto in tutta la sua storia salvo il periodo che va dall’inizio del XIX secolo alla fine del fascismo. E ne ha, soprattutto, molti meno, percentualmente, di quasi tutte le metropoli europee comparabili: meno di Madrid, di Milano, di Torino, di Berlino, di Monaco di Baviera; molto meno di Londra, di Parigi, di Amsterdam, di Bruxelles, di Francoforte. Secondo punto: è vero che gli stranieri, statisticamente, delinquono più degli italiani? Se si tiene conto degli arresti e della quantità dei reati, certamente sì. Il che, peraltro, ha fin troppo facili spiegazioni socio-psicologiche nello stato di povertà e di degrado in cui vivono molte comunità, in certe diversità culturali e nelle difficoltà di integrazione. Ma se si guarda ai delitti più gravi (omicidi, rapine, sequestri, violenze sessuali), a dispetto di certi clamori di cronaca, per niente innocenti, il primato resta saldamente in mano ai nostri connazionali. Infine: la criminalità non è affatto aumentata, negli ultimi anni. Anzi, come dicono le statistiche Eurostat e Istat è diminuita in maniera sensibile. Roma, con una media di 0,4 omicidi per 100 mila abitanti (contro i 4,7 di Amsterdam, i circa 3 di Parigi e una media superiore a 2 nelle grandi città tedesche) è di gran lunga la metropoli più sicura d’Europa. Sempre in termini di omicidi, peraltro, e malgrado la presenza di mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita, l’Italia intera con l’1,2 è in un confortevole undicesimo posto tra i Paesi della Ue, ben lontana dal record della Lituania (9,4).

E però, come recita icasticamente il titolo di un rapposto europeo, in Italia “la paura aumenta anche se la criminalità diminuisce” e il paradosso, a giudicare da quel che si sente in giro, vale ancor più per Roma. Non è il caso di ribadire qui quello che (sia pure ancora troppo timidamente) si è detto nei giorni scorsi sul ruolo a dir poco deteriore che hanno avuto i media nel titillare questa paura. Pur se di una discussione seria e severa su come funziona il sistema dei media in Italia, dal conflitto d’interessi in giù, e di quello che (non) fanno i giornalisti ci sarebbe davvero un gran bisogno.

Conviene limitarsi a due o tre dati sui quali, e non solo a sinistra, sarebbe necessario che si ricominciasse a discutere. Il primo è la comprensione del carattere epocale dei fenomeni di migrazione. Basterebbe conoscere un po’ di storia per sapere che i fenomeni migratori hanno accompagnato tutta la storia dell’umanità: dal tempo delle colonizzazioni per onde dei primi agricoltori mesolitici alle invasioni barbariche nell’impero romano alle conquiste normanne alla grande migrazione europea verso le Americhe ci sono sempre stati movimenti di popolazioni che lasciavano terre senza risorse per zone più ricche. La cosa poteva avvenire pacificamente o con la guerra, ma la motivazione era sempre la stessa: nessuno accetta di morire di fame se lontano da casa sua può sfamare sé e la propria famiglia. La storia ci insegna anche che le società che hanno cercato di resistere all’arrivo degli “altri”, che invece di integrarli hanno cercato di fermarli e di respingerli con le armi, hanno conosciuto un rapido declino. Vivere in una fortezza può apparire sicuro, ma alla fine diventa una prigionia. Gli individui si isolano, perdono i contatti, anche economici, con il proprio contesto sociale: alla fine l’intera struttura sociale cade su se stessa, come l’impero romano nel IV secolo o l’apartheid in Sud Africa qualche decennio fa.

L’idea che i flussi migratori possano essere “bloccati”, magari mandando le cannoniere nelle acque internazionali, è sbagliata prima ancora che moralmente discutibile. Se non si riesce a promuovere condizioni accettabili nei Paesi da cui i profughi provengono - e certo non è facile - l’unica strada è quella dell’accoglienza, del governo dei flussi e della integrazione. Non è questione di “buonismo” o di “cattivismo”: è così punto e basta.

Ma attenzione: il “cattivismo” non è una perversione momentanea, un malanno dello spirito pubblico da curare con le prediche e i buoni sentimenti. Prendiamone atto: la maggioranza dei romani che hanno votato ha eletto un sindaco che porta la croce celtica appesa al collo e vuole dedicare una strada a un uomo che scriveva infamie antisemite “a difesa della razza” e non si è mai pentito - non pubblicamente, almeno - di averlo fatto. D’altronde, Giorgio Almirante, fucilatore di partigiani, è considerato un eroe civile dall’attuale presidente della Camera, che giudica più grave il rogo di una bandiera israeliana dell’omicidio di un ragazzo compiuto dai camerati veronesi dei naziskin romani, quelli che negano che l’Olocausto sia mai avvenuto. Il fatto che pochi abbiano messo insieme le due cose, il revisionismo storico alla casareccia dei Fini e degli Alemanno, e l’insorgenza di un nuovo razzismo xenofobo ci dice quanto l’idea che “il passato è passato” e che il voto popolare, espresso liberamente e democraticamente, emenda ogni colpa ed esime da ogni consapevolezza storica si stia diffondendo in vasti strati di opinione, anche a sinistra. Ma se “difendere la razza” in nome della “purezza” del sangue italiano non era poi tanto sbagliato ieri perché, oggi, ci si dovrebbe fare qualche problema a prendere i bastoni e cacciare i “negri” in nome della “purezza” d’un quartiere romano?

Pubblicato il: 26.05.08
Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.34   
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