GIANNI BAGET BOZZO.
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22/4/2008
Che fare con Bertinotti (e senza di lui)
GIANNI BAGET BOZZO
Che fare senza Bertinotti? E che fare con Bertinotti? Questo è l'interrogativo delle due assemblee di Roma e di Firenze, una legittima e l'altra auto-convocata. Eppure tali assemblee parlavano il medesimo linguaggio: quello di Bertinotti. E' il compagno Fausto ad aver deciso che il partito fedele alla tradizione comunista dovesse essere assai diverso da quelli che nascevano in Francia, Spagna e Germania. Tutti gli altri partiti post-comunisti mantenevano fedeltà alla classe e al territorio, accettavano il ruolo di perenne minoranza - ma con buone prospettive di successo.
Fausto ha voluto dare un nuovo slancio al partito pensandolo come il «movimento dei movimenti», nella convinzione che, cambiando la struttura materiale del capitalismo, sarebbe nata un'alternativa ad esso, non più quella della classe operaia, ma di tutte le condizioni umane. I movimenti erano la vera alternativa e occorreva dare ad essi una forma politica. Così il principio della lotta al capitalismo poteva essere aggiornato, ma non dimenticato; si poteva dire che i rifondatori erano contro il sistema e ne gestivano le contraddizioni interne.
Al tempo stesso Bertinotti ha voluto fare del suo partito una forza di governo, dando forma ad un soggetto politico estraneo alla cultura comunista. Esso poteva dirsi veramente «sinistra», visto che i diessini uscivano dalla loro identità per fondare un partito assieme ai democristiani con l'ambizione di diventare una forza di centro, di prendere il posto della Democrazia Cristiana. Sulla carta il progetto di Bertinotti era fascinoso: mantenere l'utopia anti-capitalista ed andare al governo era il massimo dell'offerta politica. Le assemblee di Roma e di Firenze assumono i due lati opposti del sistema di Bertinotti, anche se indicano la medesima procedura: un congresso nazionale libero da ogni ipoteca di gruppo dirigente. L'assemblea di Firenze riprende il tema dell'alternativa al capitalismo riproponendo la questione della identità comunista. Paolo Ferrero impersona questa tendenza: lo scioglimento del partito di Bertinotti nelle componenti che si richiamano al marxismo ed al comunismo, un rifacimento del partito in chiave diversa, senza nessuno dei temi bertinottiani: né movimentismo né partito di governo.
Nichi Vendola vuole invece salvare il partito bertinottiano sia nella sua componente istituzionale che in quella movimentista, ponendo i termini del movimento nelle minoranze culturali - un tema potenzialmente trasversale - e mantenendo il profilo istituzionale del partito.
Tutti i termini del pensiero di Bertinotti si sono spaccati e gli uni sono ora contrapposti agli altri. Mentre i partiti comunisti europei hanno mantenuto il legame con il popolo reale, anche se minoritario, quello di Bertinotti ha puntato ad uno schieramento di tutte le minoranze, pensando che ciò fosse possibile data la crisi del capitalismo che Fausto pensava in atto e che rendeva possibile inserirsi all'interno delle problematiche reali anche dei partiti al governo, specie del Partito Democratico.
In nessun punto come nel nostro paese la sinistra alternativa si è staccata dalla terra ed è salita in cielo. Ha così creato una massa di contraddizioni che ora la frammentano indefinitamente e non rendono possibile alcuna soluzione unitaria né alcuna figura istituzionale. Il radicamento di Rifondazione negli Enti locali e nelle Regioni può offrire uno spazio proprio, ma subalterno al Partito Democratico. Anche questo fatto sarà un termine di frattura. Questo magma di disillusioni bollenti, tutte vissute come espressione di un pensiero, in qualche modo come verità dogmatiche, crea una situazione pericolosa per il nostro paese, dove, proprio da queste situazioni, nell'incrocio tra il '68 ed il Pci, è nato il terrorismo.
La destra, in particolare la Lega, ha potuto offrire qualche soluzione, visto che essa ha posto i temi della legalità, del territorio, della proprietà come problemi diffusi e incarnati, che esprimono cioè interessi vitali del cittadino-lavoratore come persona. La classe come mito è finita da tempo. Il fatto importante non è che la destra abbia vinto le elezioni, ma che la sinistra si sia annullata da un lato nella speranza di diventare la nuova Dc, dall'altro lato scegliendo di rimanere un partito anti-sistema capitalistico, preferendo l'identità ideale alla rappresentanza reale di interessi.
da lastampa.it
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25/5/2008
SuperMarta poco super
GIANNI BAGET BOZZO
Genova sembrava uscita dalla storia, la guidava una sinistra che aveva deciso di gestirla come un territorio prezioso, come una rendita. Il governo era un governo del «mattone», il porto non aveva futuro.
Le iniziative della giunta Biasotti di aprire il Terzo Valico lasciate cadere, la gronda tra i due ingressi periferici dell’autostrada anch’essa sepolta.
Il mugugno genovese non fa notizia, è come un rumore di fondo che si esaurisce nel mero suono. Sembrava che tra la sinistra e Genova vi fosse un’intesa: non fare notizia. Ma la storia è entrata egualmente nella città. Vi è entrata nel porto, quando il presidente di centrodestra, Giovanni Novi, ha pagato un prezzo politico a Paride Battini, console dei «camalli», dandogli un’area che non gli spettava e un contributo a cui non aveva diritto. Ora Novi è sotto processo e la magistratura controlla tutta l’area portuale. Un porto governato dai giudici e dai finanzieri non è più un porto, è solo un territorio. Ma i genovesi non reagiscono e non reagisce nemmeno il centrodestra che ha designato Novi. I giovani non hanno futuro in una città che si guarda morire non pensandosi.
L’unica cosa certa sembravano le istituzioni tutte a sinistra, che trattavano con tutte le corporazioni. La sinistra stava spegnendo la luce in una città ridotta ad offrire spazi all’attività edilizia residua gestita dalle cooperative emiliane. E poi il tumulto nasce dalle istituzioni, non nasce dai partiti, ma proprio dal personale nelle istituzioni. Il ciclone investe la principale «industria» genovese che, paradossalmente, è il Comune di Genova. Non nel personale dei partiti storici ma in quello dei giovani rampanti, con cui Marta Vincenzi ha pensato di modernizzarsi, di farsi notizia. La «sindaco» ha dimenticato che la sapienza della sinistra governava Genova, non cercando notizia ma gestendo il potere. Era la ricetta perfezionata dal sindaco Giuseppe Pericu, che ha moltiplicato i posti di potere privatizzando l’industria comunale e affidandola a società per azioni che versano il passivo nel bilancio del Comune.
La Vincenzi ha voluto essere diversa. Non a caso l’errore chiave è il suo portavoce Francesca, con alcuni giovani assessori e consiglieri comunali, che hanno costituito un giro di affari in cui sembrano coinvolte anche le cosche calabresi. Ora super Marta ha fatto notizia, ma ha distrutto la sua amministrazione. Le ha tolto il senso politico, da lei voluto, quello di essere immagine per la città. La novità ha distrutto il potere silenzioso che, fino ad ora, era appartenuto a Claudio Burlando, presidente della Regione. Ma Burlando, anch’egli travolto dai problemi dell’area degli Erzelli, è stato costretto a fare un comunicato per dire, con la testimonianza dei suoi autisti, che non manda il figlio a scuola con l’auto della Regione. Ciò significa che il presidente è al di sotto di ogni sospetto.
Crolla così l’ultima cosa certa che c’era a Genova: le istituzioni immobili. Il vento della notizia le ha travolte. E tutta la città è sgomenta e sdegnata ad un tempo, il mugugno genovese che tutto subisce si è rivelato un’autopunizione per la città. Che sarà di Genova se nemmeno la sinistra è più affidabile? La Vincenzi dice di essere stata «tradita», ma un sindaco non può dire di non sapere. Per un sindaco non contano le buone intenzioni, contano i buoni fatti e i fatti della Vincenzi non sono buoni. Se si sentisse responsabile politicamente della sua azione amministrativa, le competerebbe il dovere morale di dare le dimissioni.
I partiti coinvolti si sono chiamati fuori, ma uno dei coinvolti nell’inchiesta, ora agli arresti domiciliari, Giuseppe Profiti, ha avuto addirittura la solidarietà del Vaticano che, rispettando le competenze della magistratura, dice di attendere la sua assoluzione. Profiti sarà stato un buon amministratore, come si dice, ma ogni uomo ha due lati, quello di luce e quello di ombra: è un piccolo dottor Jekyll e mister Hyde. Scomodare la Santa Sede per un imputato amico sembra troppo: e sembra troppo che il dottor Profiti sia stato ricevuto dal Papa nel suo viaggio a Savona, quando la notizia dell’arresto era ormai nell’aria. Genova, dunque, fa notizia eccome. È strano che una disavventura giudiziaria che ha coinvolto la sinistra genovese e savonese sia giunta a scoppiare anche in piazza San Pietro. Infine Genova la Superba: quando torna a fare la storia, la fa in grande.
bagetbozzo@ragionpolitica.it
da lastampa.it
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26/6/2008
Ma Gramsci non è il gramscismo
GIANNI BAGET BOZZO
Era imprevedibile che il primo dibattito di cultura politica nel centrodestra avvenisse sulle colonne di questo giornale, in seguito a una leggera provocazione di Lucia Annunziata. Ma su di essa sono intervenuti due dei maggiori dirigenti di Forza Italia, Sandro Bondi e Fabrizio Cicchitto, con toni differenti, ma egualmnete impegnati a ritrovare un Gramsci maestro universale.
Gramsci è una figura dominante del Novecento italiano, a lui si devono le matrici della rivoluzione comunista come nazionale, come compimento della storia italiana, come possibilità di unire in una sintesi unica Rinascimento, Risorgimento e Rivoluzione. Sta anche a lui porre in modo politicamente determinante la questione dei cattolici.
Tutto il nuovo del comunismo italiano sta in lui. E quel «nuovo» è la chiave della penetrazione del Pci nella cultura italiana nelle professioni, nelle istituzioni, nella magistratura: la rivoluzione attraverso la conquista della società civile, e non attraverso il suo annullamento, come pensava Lenin.
Gramsci fu certamente provocato dall'esempio di Mussolini che realizzò una rivoluzione antiborghese e non anticapitalista e anti istituzionale, creando come suo proletariato un partito fascista di massa.
Gramsci fu letto dalla giovane generazione democristiana negli anni '50: e la conquista che Fanfani fa del partito in nome della «terza generazione» democristiana ricalca nel mondo cattolico il concetto del partito come intellettuale di massa proprio di Antonio Gramsci. Così il Pci si pensò come il partito nazionale, la forma politica della Repubblica e, attraverso la conquista della cultura e del personale delle istituzioni, riuscì, nel '94, a rimanere l'unico partito costituzionale in Italia: la società civile, attraverso i magistrati, aveva fatto fuori tutti gli altri.
Il «gramscismo» certo è altra cosa da Antonio Gramsci: e la figura morale dell'uomo è quella di un martire della coscienza e della libertà, che testimoniò con la sua vita, ma non con il suo pensiero. Gramsci è un monoteista ferreo, crede in un unico dio, la rivoluzione. E l'egemonia è quella di una fusione tra Riforma, Rinascimento, Risorgimento e Rivoluzione, una totalità spiegata nelle sue componenti. Augusto Del Noce ha sostenuto che il pensatore omogeneo a Gramsci fosse Giovanni Gentile e che Benedetto Croce fosse un avversario ideale ma non un omologo culturale.
Forza Italia, l'opera di Berlusconi, è una lotta contro il gramscismo realizzato. Consiste nell'opporre il popolo come unità primaria democratica per impedire che il gramscismo, realizzato attraverso la società civile nelle istituzioni, distrugga la dimensione popolare della nazione.
Berlusconi organizza quello che il gramscismo ha escluso: i cattolici, i socialisti, la gente comune, il proletariato, il sottoproletariato, le donne. Il fatto che la cultura politica determini solo l'area di influenza gramsciana come legittima crea il movimento berlusconiano come protesta del popolo minuto, del popolo comune. Non della massa, concetto fascista e comunista, ma dei tanti singoli, delle persone che si sentono legittimati alla lotta politica dal fatto che le istituzioni e l'opinione pubblica sono governati dal gramscismo. Esso ha avuto successo, ha fatto del Pci, pur con mutato nome, la chiave della legittimità politica e della dignità intellettuale. Berlusconi vince sulla libertà nel '94, sulla legalità oggi: rivolge il suo appello ai sentimenti primari, alle emozioni originarie dei cittadini. E dà ad esse un risvolto democratico liberale nella sua persona. Se non ci fosse stato Berlusconi, forse la Lega avrebbe dato altri frutti e la violenza dei cittadini comuni avrebbe creato ben altro che le ronde. E le ronde non si contrastano con i girotondi. Chiamare rischio di fascismo questo fatto democratico è un esempio della ragione astratta come oppio degli intellettuali.
bagetbozzo@ragionpolitica.it
da lastampa.it
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8/7/2008
La forza di Obama "spiritual"
GIANNI BAGET BOZZO
Quando John Kennedy si candidò a presidente degli Stati Uniti, pose il problema di un cattolico a capo della nazione «bianca, anglosassone, protestante», nata come riforma presbiteriana o laicale nel nuovo Occidente. Per Barack Obama non si è posto il problema. Eppure è certamente un diverso, la diversità fa parte del suo fascino politico (o del suo possibile rigetto) ma non costituisce problemi di compatibilità. Barack è profondamente connesso alla cultura religiosa afroamericana, a un cristianesimo degli schiavi, a cui i colonizzatori offrivano le parole di un altro popolo oppresso, gli ebrei, in cui essi chiedevano una resurrezione sia religiosa che politica: e la chiedevano come comunità. Gli ebrei ottennero dai persiani vincitori la possibilità di tornare in Giudea con la protezione dello Stato imperiale. Così accadde negli Stati Uniti agli schiavi africani. Gli afroamericani non hanno costruito una propria identità religiosa o politica. Ma l’America, al prezzo di una sanguinosa guerra civile, ha concesso al popolo degli schiavi la dignità di essere popolo americano.
La repubblica stellata aveva fatto più per gli schiavi africani di quello che Artaserse II aveva compiuto per gli ebrei esiliati nelle sue terre. Così vi è un modo afroamericano d’essere americani: mantiene un vivido linguaggio di autoidentificazione comunitaria, senza però proporre alcuna contrapposizione all’ideale americano, sentito come il potere liberatore. Anche quando il pastore che è stato il direttore spirituale di Obama aggredisce l’America, lo fa all’interno dell’America. Ne viene il singolare linguaggio religioso di Obama, ben al di fuori della contrapposizione tradizionale tra chi è per la scelta o per la vita nella questione dell’aborto. Obama tende a parlare un linguaggio inclusivo: è la sua fortuna e la sua abilità. Poiché la comunità afroamericana non era in grado di escludere nessuno, Barack Obama si può permettere di includere tutti, creando un linguaggio che ha una forte religiosità, ma nessuna forma di religione in quanto formulazione dottrinale distinta. Agisce piuttosto sul piano dei comportamenti e dei sentimenti che su quello delle culture e delle politiche.
Ne nasce così un paradosso: Barack è compatibile con tutte le politiche, anche con quelle che ha sinora escluso nella sua linea ostile al presidente Bush nella guerra in Iraq. Eppure fa un passo verso l’elettorato tradizionalmente schierato sui temi favorevoli alle Chiese come quello dell’attuale presidente americano: Barack riprende interamente il programma di Bush di sostegno all’assistenza sociale e solidale promossa dai gruppi religiosi. Nel candidato afroamericano, che ha così fortemente innovato il linguaggio religioso dandogli nuova forza, non troviamo niente di politico. Barack Obama ha praticato quello che, nel linguaggio cattolico, si chiama, con Jacques Maritain, il «primato dello spirituale». Ma l’ha talmente praticato bene che da esso non possiamo dedurne nessuna conseguenza politica. Se dovessimo rimanere nel registro della comunione afroamericana, dovremmo pensare che non sarà episodica la simpatia per Israele. Nelle parole dei salmi biblici i popoli schiavi si sono tante volte riconosciuti.
Israele potrebbe essere un riferimento della spiritualità della «lingua d’argento» che ha incantato gli americani oltre le frontiere di appartenenza. Il risultato di questa scelta indica la forza del linguaggio spirituale in America, ben oltre i termini della religione civile tradizionale; è tanto forte da creare movimenti d’opinione che non si attendevano. Persino l’invenzione di un modo nuovo di raccolta dei fondi tra i piccoli offerenti, tanto dinamico e consistente che il candidato Obama rinuncia al finanziamento pubblico. Se vincesse le elezioni, l’Europa, da sempre integrata politicamente con gli Usa, si sentirà a disagio di fronte a un candidato che vorrà dare senso ideale ai suoi atti politici: il che non è molto europeo. Il «primato dello spirituale» permette a Obama di condurre alle elezioni i democratici, senza aver risolto alcun problema di carattere strettamente politico. E anzi persino usando come motivo dello straordinario consenso il fatto di non avere scelte pregiudiziali. La presidenza deve essere ancora tutta scritta.
bagetbozzo@ragionpolitica.it
da lastampa.it
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26/7/2008
Berlusconi, il volto e il vuoto
GIANNI BAGET BOZZO
Dal ‘94 ad oggi le elezioni politiche, e persino quelle regionali e locali, sono state vissute come un referendum pro o contro Berlusconi. Il volto di una persona è diventato il messaggio: un fatto singolare nella democrazia, che ha indotto a spiegare Berlusconi come il frutto di un potere personale, delle sue proprietà televisive, del suo carattere di comunicatore e imbonitore.
Il voto sulla persona è stato vissuto dai partiti come un sequestro della democrazia storicamente legata ai partiti e quindi, per questo, illegittimo.
Nel 2008 le cose sono andate diversamente.
Il partito democratico ha posto fine all’esperienza Prodi e ha proposto il suo messaggio in termini di cooperazione politica con il centrodestra. Le elezioni hanno determinato la sconfitta del Pd e la scomparsa della sinistra antagonista. E’ caduta la forza politica alternativa a Berlusconi ed egli è diventato, come persona, il titolare della legittimità politica senza alternative: una situazione che ricorda quella della Dc dopo le elezioni del ‘48. Perché tanto consenso attorno a un volto, un consenso che non ha mai investito l’insieme dei partiti di centrodestra in quanto tale, ma è rimasto legato alla persona, inscindibile da essa?
Questo crea un problema politico obiettivo perché non può essere una soluzione ma chiede una spiegazione: perché Berlusconi è diventato il volto della politica italiana.
Ciò indica che alla base di questo vi è un problema di Stato e non di governo. Un uomo solo riguarda il caso di emergenza, non una soluzione stabile. L’elettorato del centrodestra è nato da una crisi di Stato e non da questione di scelta politica, è nato da una crisi del consenso attorno alla Costituzione del ‘48 e allo Stato che su di essa si fondava. La crisi del consenso costituzionale si manifesta nel ‘92-‘93 con due eventi: l'autoscioglimento dei partiti democratici occidentali che avevano guidato la democrazia italiana di fronte al comunismo e il sorgere di un problema indipendentista del nord espresso da Bossi. Ciò ha alterato il consenso attorno allo Stato, perché era impossibile far decadere il partito cattolico, il partito socialista e il partito liberale, che avevano retto la storia della democrazia italiana del Novecento e porre il Pds come chiave della legittimità politica. La Costituzione del ‘48 supponeva il consenso dei partiti antifascisti che ne erano mallevadori, la sua costituzione materiale. La loro pluralità e differenza era la base della legittimità politica della Costituzione. Il documento stesso era un compromesso politico: e supponeva che i partiti fondatori, nella loro diversità, rimanessero la base politica dello Stato. La riduzione al solo Pds dei partiti antifascisti creava un vuoto politico, non sul piano del governo, ma sul piano dello Stato, cioè sul piano dell'accettazione della Costituzione come base politica della Repubblica. A ciò si aggiunge il fatto che l'indipendentismo padano (che aveva allora figura etnica e si richiamava alla tradizione celtica del nord Italia come base di una differenza radicale) metteva in crisi l'impianto del sistema politico italiano fondato sulla centralità della questione meridionale. Poteva un partito rispondere a un tale stato di eccezione politica, quando tutte le tradizioni politiche diverse da quella comunista erano dissolte e vi era un vuoto obbiettivo, un vuoto che corrispondeva alla sfida indipendentista del Nord?
Ci voleva un volto, perché non c’erano più i partiti. Perché questo sia stato quello di Berlusconi non si può spiegare, esso è un fatto e non vi è dubbio che ciò corrisponde a un carisma politico, a una capacità di interpretare il popolo oltre i partiti. Berlusconi fu un evento straordinario, non prevedibile e quindi non facilmente giustificabile. Non entrava nella logica della politica e si pensava che non entrasse nelle regole della democrazia. Invece la tesi di Berlusconi fu quella di rappresentare la sovranità popolare e il suo potere costituente di un ordine politico diverso da quello dei partiti antifascisti ormai distrutto. Solo il volto di un uomo poteva coprire il vuoto politico delle istituzioni. E ciò avvenne mediante l’alleanza con la Lega Nord e con l’Msi si creando così un’alternativa alla sinistra che non era mai esistita prima e che era assai diversa dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista. Berlusconi ha rappresentato questo ruolo evitando ogni carattere salvifico persino autorevole, ha messo in luce la sua persona, non il suo carisma, lo ha fatto nelle sue debolezze, persino femminili, presentandosi come l’italiano medio, come rappresentante e non come salvatore. Il fatto di difendere la sua proprietà televisiva non gli ha nuociuto: anzi ha mostrato che egli era un potere della società e che poteva quindi bilanciare poteri istituzionali proprio perché aveva roba. Ciò che venne sentito come un difetto dai suoi oppositori, venne sentito come un vantaggio da parte del suo popolo.
Don Giuseppe Dossetti disse che, con la Costituzione del ‘48, il popolo italiano aveva abbandonato il suo potere costituente, Berlusconi mostrò che non era così e si pose come alternativa alla Costituzione del ‘48, entrando in conflitto con tutti i poteri di garanzia dal Quirinale, alla Corte Costituzionale, al Csm. Toccò così un difetto essenziale della Costituzione del ‘48: quello di fondare i poteri di garanzia e non quelli di governo.
Sovranità popolare contro Costituzione rigida: questa è l’essenza del dilemma berlusconiano che otterrebbe la sua perfezione se si rivedesse l’art. 138 e si riconoscesse che il popolo ha un potere costituente che né i partiti e né gli organi di garanzia istituzionale possono espropriare.
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