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Autore Discussione: MARIO TOZZI.  (Letto 60248 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Marzo 03, 2014, 05:36:15 pm »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 03/03/2014.

Pompei e le altre: basterebbe l’ordinaria manutenzione

Un brivido di freddo ci percorre la schiena quando sentiamo annunciare ricostruzioni lampo e il restauro immediato di monumenti in un Paese al centro di un clima ormai cambiato e geologicamente giovane e irrequieto. La verità è che abbiamo l’impressione di esserci già passati.

Qualche mese dopo il terremoto aquilano del 2009 ci hanno spacciato per quasi avvenuta una ricostruzione che non poteva saltare la fase del container, anche se si trattava di abitazioni antisismiche ben rifinite. Messe però a caso su un territorio che certamente non le vedrà ospitare in maniera stabile una popolazione che ha, come unico desiderio, quello di tornare a stare dove aveva sempre vissuto. Ora la pretesa ricostruzione aquilana sente già i segni del tempo e viene additata dagli specialisti di tutto il mondo come l’unica cosa da non fare dopo un terremoto (e per fortuna in Emilia non si è seguito quell’esempio sciagurato). D’altro canto ci vantiamo di avere il più vasto patrimonio storico artistico e monumentale del mondo (non è poi proprio così, ma insomma) e però ne perdiamo i pezzi un po’ dappertutto.

Terra di sismi e frane, l’Italia del terzo millennio vede sfaldarsi il suo patrimonio monumentale e culturale incurante dei passaggi politici che dovrebbero provvedere almeno alla ordinaria manutenzione. Le mura aureliane a Roma, la cinta medievale di Volterra e, a più riprese, Pompei. Ed è vero che negli ultimi anni sono cambiate le piogge, e sono diminuiti paradossalmente i fondi, ma quella che è mancata è stata soprattutto la cura, l’attenzione a quello che resta il nostro patrimonio più grande. Nonostante le denunce e gli sforzi delle tante persone di buona volontà, che pure ci sono. Eppure lezioni ne abbiamo avute parecchie: ci sono voluti quindici anni per ricucire la ferita del terremoto di Colfiorito (1997), e non perché si andasse lenti. Quello è il tempo tecnico che, più o meno, ci vuole per riportare in sicurezza la torre campanaria di Nocera Umbra, con i suoi cuscini dissipatori di onde sismiche, o le 400 chiese danneggiate fra Marche e Umbria. Ed è il tempo che ci è voluto per ordire una trama di fili d’acciaio che permetta alla basilica di San Francesco di reggere al prossimo terremoto di Assisi. Ce ne sono poi voluti circa venti per l’Irpinia e, a far le cose per bene, è difficile che a L’Aquila si arrivi al risultato in meno di un’altra decina d’anni, considerando che molto tempo è andato perduto e che si tratta di ricostruire un tessuto urbanistico che concentra straordinarie ricchezze artistiche.

Qualcosa si potrebbe fare di diverso? Sì, ricostruire bene, prima che in fretta, e soprattutto porre mano quotidianamente al nostro patrimonio: come dimostra il sisma emiliano, spesso basta una ordinaria manutenzione per evitare i danni dei terremoti di media magnitudo e l’onta delle piogge torrenziali. Non è così difficile: i nostri antenati lo facevano già. Nello stesso Abruzzo e in Campania centri storici restaurati dagli antichi regnanti reggono benissimo ai terremoti che si sono ripetuti solo perché costruiti con attenzione. La stessa cura proteggerebbe anche dalle piogge concentrate. Ricominciamo dall’inizio, e se la ricostruzione si annuncia quando è veramente completata si attribuiranno con più piacere i giusti meriti. 

Mario Tozzi

Da - http://lastampa.it/2014/03/03/cultura/opinioni/editoriali/pompei-e-le-altre-basterebbe-lordinaria-manutenzione-SV2rdVVo32ekJzy8KlEx4J/premium.html
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« Risposta #61 inserito:: Marzo 24, 2014, 05:16:36 pm »

Editoriali
22/03/2014

Attenti all’acqua virtuale

Mario Tozzi

La buona notizia è che, in linea teorica, ogni uomo ha a disposizione, sul pianeta Terra, oltre diecimila litri di acqua al giorno: una quantità impressionante, se si pensa che nella Firenze dell’estate del 1944 c’era disponibile un solo litro per abitante. La notizia cattiva è che, però, ogni italiano (esempio paradigmatico di cittadino del mondo occidentale ricco) ne «beve» seimila. Ma proprio ne beve, tenendo presente che soltanto il 7% dell’impronta idrica viene usato per la manifattura industriale, mentre solo il 4% per l’igiene domestico. Tutto il resto è acqua «nascosta» nei cibi che consumiamo, inconsapevoli, in quantità spaventose anche rispetto alla teorica ricchezza d’acqua del pianeta. 

L’Italia è il terzo importatore mondiale di acqua virtuale contenuta in cibi che provengono dall’estero (62 miliardi di metri cubi all’anno), dunque contribuisce seriamente all’assorbimento della risorsa idrica del mondo. Settanta grammi di pomodori hanno bisogno di 13 litri d’acqua, ma un singolo hamburger arriva fino a 2400 litri. Nonostante le piogge, che in Italia sono divenute più abbondanti, nonostante per confezionare una t-shirt occorrano 4100 litri d’acqua e per fabbricare un wafer di silicio da sei pollici ce ne vogliano 20.000, noi assumiamo quantità incredibili d’acqua attraverso il cibo importato. 

 L’altra cattiva notizia è che l’acqua degli italiani non è sempre di ottima qualità. Ora, va subito detto che questa non può essere una scusa per continuare a essere fra i primi consumatori di acqua in bottiglia al mondo (191 litri per famiglia all’anno, più di noi solo il Messico). Non c’è alcuna ragione di sicurezza per preferire l’acqua in bottiglia rispetto a quella del rubinetto, che viene controllata quotidianamente con scrupolo e che deve sottostare a normative draconiane. Chi vuole bere acqua in bottiglia lo può fare per qualsiasi ragione fuorché quella della sicurezza, che è certamente garantita nei nostri acquedotti (e l’acqua imbottigliata può anche essa provenire da falde vulcaniche). Ma l’arsenico, no, quello non ce lo aspettavamo. Eppure, in realtà, le cose sono cambiate solo sulla carta, quando finalmente l’Italia si è adeguata a una normativa europea del 1998 (!) che è stata rimandata, come altre, per quasi vent’anni e che prevede dieci microgrammi di arsenico, al massimo, per litro d’acqua potabile (contro i cinquanta fino a qui tollerati). In diversi posti dell’Italia centrale, e nella stessa Roma, invece, si va ben oltre quelle concentrazioni (o meglio si andava già oltre): circa un milione di persone sono complessivamente coinvolte nel nostro Paese. 

L’arsenico non dipende direttamente dall’inquinamento di attività umane velenose più o meno criminali, o dallo stato delle condutture, quanto da condizioni chimiche particolari nell’acquifero o dalla presenza di minerali sulfurei che contengono il pericoloso elemento che viene portato in circolo naturalmente. Lo stesso fenomeno è ben noto in Giappone, Nuova Zelanda, Cina o Grecia e dove sono presenti rocce vulcaniche. E, in genere, si ritiene che il fenomeno sia praticamente tollerabile per gli adulti almeno fino a tre anni di esposizione, mentre comporti rischi più alti fino ai 18 anni di età (i pochi studi epidemiologici non mettono in luce rischio di malattie connesse per livelli inferiori ai 25 microgrammi).
E’ peraltro possibile eliminare chimicamente l’arsenico, potenzialmente in grado di provocare cancro e danni cardiovascolari, attraverso alcuni «filtri» che comportano un costo elevato, diciamo attorno a 250.000 euro per cinquemila abitanti (come si è fatto a Vitorchiano, in provincia di Viterbo). Siamo sicuri che eventuali gestori privati dell’acqua possano permetterselo? E, infine, se l’arsenico è da sempre naturalmente contenuto nelle falde acquifere dei terreni vulcanici, come facevano gli antichi abitanti dell’Etruria o del Lazio a non avvelenarsi?

DA - http://www.lastampa.it/2014/03/22/cultura/opinioni/editoriali/attenti-allacqua-virtuale-h7Khe59ZelYDuDj3kZzuJO/pagina.html
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« Risposta #62 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:12:15 pm »

C’è dietro la mano dell’uomo
04/08/2014

Mario Tozzi

Colpa di una balla di paglia?
Se fosse stata sul serio colpa solo di una balla di paglia, che ha fatto da tappo al torrente Lierza, la cosiddetta bomba d’acqua che si è abbattuta sulla festa degli Omeni al Mulino di Croda sarebbe stata comunque interamente causata dagli uomini. Uomini che, certamente in buona fede, ignorano le leggi della dinamica fluviale e che non volevano davvero provocare vittime e danni. Ma, purtroppo e ancora una volta, le cose potrebbero essere andate in modo diverso e quella balla di paglia, ammesso che abbia contribuito, al massimo è stata una delle concause minori in un territorio che dire strapazzato dalle costruzioni, dagli sbancamenti e dagli stravolgimenti è dire poco. 

E certo c’entra molto poco con la scarsa memoria degli abitanti del luogo, già dimentichi dell’alluvione del febbraio scorso (mica di un secolo fa) che aveva messo in pericolo uomini e cose. E ancora meno c’entra con la scarsa propensione che abbiamo, soprattutto nel nostro Paese, a comprendere il cambiamento climatico che è drammaticamente in atto e che ha mutato in profondità la dinamica delle alluvioni.

Un tempo, nella Pianura Padana, si aspettava con apprensione, ma anche con una certa consuetudine, la piena del Po e si sapeva giorni prima che a Pontelagoscuro sarebbero arrivati magari anche 15.000 m3 al secondo (su una portata media di 2000). Eccezionalmente arrivava un’alluvione come quella del 1951 o del 1966, ma il fiume era considerato un organismo vivo, che si gonfia quando piove e evacua lentamente la piena. Oggi le grandi alluvioni del Polesine sembrano essere meno frequenti dopo le ultime crisi della fine degli Anni 90 e dell’inizio del 2000. Ma il pericolo si è solo trasferito ai corsi d’acqua minori, spesso ancora incassati in pareti rocciose alte e dunque pronti a trasformarsi in micidiali cannoni (effetto Vajont in piccola scala, hanno detto, non a caso, gli scampati). Che sparano in pochi secondi quantità di acqua che una volta potevamo considerare straordinarie e che, invece, oggi, sono diventate la norma. In pochi minuti la stessa acqua che cadeva magari in un mese o due. Ancora di più quest’estate, considerando che il mese di luglio è stato più piovoso del solito: addirittura +73% rispetto alle medie del periodo di riferimento nazionale 1971-2000, con oltre il 50% in più nell’Italia centro-settentrionale (dati Cnr-Isac).

Il surriscaldamento atmosferico globale incrementa il numero, la frequenza e la violenza dei fenomeni meteorologici estremi. E i corsi d’acqua non riescono ad evacuare in tempo quelle quantità. Ma il problema, al solito, è attorno: l’azione dell’uomo sui territori per insediarsi e renderli più produttivi è oggi più devastante di ieri, mentre cemento e asfalto rendono tutto più impermeabile. Nel caso in questione, ci si potrebbe domandare come sia stato possibile che una balla di paglia abbia fatto esondare anche gli altri corsi d’acqua nelle vicinanze. E come è possibile che, la stessa balla di paglia, abbia innescato una decina di fenomeni franosi e vari smottamenti. E domandarsi infine se, per caso, non c’entrino qualcosa, per esempio, gli sbancamenti effettuati in zona per incrementare i vigneti per la produzione del Prosecco.

Movimenti di terra di qualsiasi natura e per qualsiasi scopo in aree pericolose dovrebbero essere sempre vietati, se non effettuati sotto rigido controllo e monitoraggio (e solo se indispensabili). Perché contro queste nuove alluvioni istantanee (flash flood) non c’è barriera che tenga e, soprattutto, non c’è tempo per fuggire. E se si vuole convivere ancora con i fiumi, anche i più piccoli, sarà bene lasciarli più in pace possibile e restituire loro il territorio che si è sottratto. Altrimenti converrà sempre dare la colpa a una balla di paglia e ai soliti rami e detriti che, seppure presenti e seppure da sgomberare, con questo tipo di precipitazioni, sono davvero la causa minore dei disastri.

Da - http://lastampa.it/2014/08/04/cultura/opinioni/editoriali/c-dietro-la-mano-delluomo-6UpbXAlN2ZtbC0ejZnxCjO/pagina.html
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 26, 2016, 09:03:03 pm »

Mario Tozzi: “Case costruite male e centri storici non restaurati”
«Ci troviamo di fronte al tipico terremoto italiano, che colpisce zone marginali in zone collinari o montuose, molto difficili da raggiungere, e soprattutto colpisce un patrimonio costruttivo spesso vetusto e maltenuto» Il commento del divulgatore scientifico Mario Tozzi

Da - https://www.lastampa.it/2016/08/24/multimedia/italia/terremoto-in-provincia-di-rieti-VITvHV0u91xHdYq5aiqJeI/videowall.html
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 01, 2016, 08:49:31 pm »

Niente di nuovo sotto l’Italia, la terra trema e non si fermerà
Continua la sequenza: dopo L’Aquila, scossa di magnitudo 3,7 a Reggio Emilia. L’Appennino sprofonda: è una certezza l’attivazione di vecchie e nuove faglie

Pubblicato il 01/12/2016
Ultima modifica il 01/12/2016 alle ore 09:56

MARIO TOZZI

In Italia i terremoti sembrano non avere fine e tornano ad affacciarsi alla cronaca luoghi che pensavamo, chissà perché, al sicuro dopo gli ultimi eventi. Ancora non si esaurisce la sequenza di repliche dei terremoti di Amatrice e Norcia, quando dobbiamo registrare la riattivazione dell’Appennino centrale e gli sciami in Emilia Romagna. Martedì una scossa di magnitudo 4.4 a L’Aquila, ieri una di 3.7 a Reggio Emilia. 
 
Sempre che non vogliamo ricordare anche la sequenza sismica del Pollino (fra Calabria e Lucania) che, per almeno due anni, ha fatto temere l’incombere di un forte sisma.
 
Questi terremoti non sono tutti uguali, però preoccupano tutti allo stesso modo. Ma da che cosa dipendono? Ed è possibile che in Italia si siano risvegliate tutte le faglie nello stesso tempo? Cosa sta accadendo? La risposta è: niente di eccezionale, solo un pro memoria della Terra che ci impedisce di dimenticare, come forse vorremmo, che l’Italia è geologicamente giovane e attiva e che i terremoti sono frequenti come le piogge (quelli più forti come le tempeste).
 
LE COLPE DEI RIVOLUZIONARI 
In un comunicato alla popolazione il vescovo di Reggio Emilia e il Duca d’Este fecero chiarezza sulle vere cause dei terremoti che scuotevano l’Emilia Romagna nel 1831-1833. Le colpe andavano senz’altro attribuite ai rivoluzionari risorgimentali che non avevano alcun timore di dio né del potere costituito: il sisma era il segno della condanna divina e doveva servire di monito. Un po’ di conoscenza e l’esercizio della memoria sarebbero bastati a Ciro Menotti per non accollarsi anche quella colpa. Molte vittime si registrarono nel forlivese già nel 1279 e ancora distruzione nel 1688. In genere si trattava di sismi del VII-VIII grado della scala Mercalli, ma si poteva sfiorare il X, come nel 1811, nel 1810, del 1806 e nel 1732. Dal 1600 sono circa 25 i terremoti di rilievo che hanno funestato quella regione, dunque oggi dovremmo essere consapevoli che quella fetta di pianura padana è a rischio sismico, anche se il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania.
 

CINQUECENTO ANNI DOPO 
Ma, quando arrivò il terremoto del 2012 nel ferrarese, a mezzo millennio dall’ultimo forte, gli italiani rimasero tutti sorpresi, anche se non erano certo i primi terremoti di cui si avesse memoria storica. Dunque anche questo è un territorio sismico, generato dall’attivazione di una struttura geologica piegata profonda (la dorsale ferrarese) le cui rocce si spezzano lungo le faglie, anche se con meccanismi diversi rispetto ai terremoti dell’Appennino. Capisco che vedere oscillare i campanili come i pioppi al vento non è rassicurante, ma se hai costruito bene e manutenuto, non rischi la vita. Normale routine sismica del nostro Paese, niente di eccezionale, anche se ciò non significa che non siano possibili terremoti più forti.
 
IL PROBLEMA 
Forse il problema è che c’è un’Italia chiaramente sismica che ormai tutti conoscono bene e che va dalla Garfagnana allo stretto di Messina, passando per l’Abruzzo e l’Irpinia. E c’è un’Italia diciamo di seconda fascia del rischio sismico che spera di starsene tranquilla solo perché non ricorda gli eventi più lontani o ritiene che vivere in pianura significhi assenza di sismi. In questo senso gli ultimi eventi a metà strada fra Amatrice e L’Aquila spaventano meno, come se ci fossimo abituati. Si tratta dell’attivazione di un’altra faglia sepolta, diversa da quella dei sismi precedenti, e non possiamo escludere che la tremenda successione di scosse da agosto a ottobre scorsi non abbia fatto da elemento di «contagio». E, come in tutti gli altri casi, non possiamo prevederne la futura evoluzione: un rilascio distribuito e graduale dell’energia sismica, oppure grandi scosse in agguato. Quello che è certo è che l’Appennino carica continuamente energia in profondità e cerca un nuovo assetto sprofondando periodicamente verso il basso. L’attivazione di vecchie e nuove faglie non è una probabilità, è una certezza, su tempi medio-lunghi.
 
Al momento, non abbiamo, e difficilmente potremmo comunque avere, gli elementi per un allerta, né ci sono strane coincidenze o ricorrenze. Dovremmo cercare di mantenere viva la memoria, e comportarci di conseguenza: perché questa è la situazione tipica di gran parte del territorio nazionale. E non dipende dall’attivarsi di una particolare sequenza, dovremmo semplicemente ricordarcene di default. E’ un problema di cultura del rischio naturale che, però, torna alla mente dei cittadini e degli amministratori solo quando la paura si fa sentire, dimenticandosene non appena le scosse e l’attenzione calano. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/01/italia/cronache/niente-di-nuovo-sotto-litalia-la-terra-trema-e-non-si-fermer-ejj5Up6mabB8iMqSRYnSIO/pagina.html
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« Risposta #65 inserito:: Novembre 16, 2017, 09:18:22 pm »

Negli abissi del Tirreno scoperti 15 vulcani sommersi
Ricerca del Cnr e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Alcuni vulcani finora noti nel Tirreno Meridionale sono emersi, come le Eolie altri sommersi, come il Marsili

Pubblicato il 14/11/2017
MARIO TOZZI

Forse fa impressione a dirlo, ma, ogni volta che facciamo il bagno nel Mar Tirreno, ci immergiamo nelle acque di un oceano in formazione. Più piccolo di altri, ma pur sempre un vero e proprio oceano, con il consueto corteo di vulcani e dorsali sottomarine da cui vengono emesse lave e gas. Del resto i nuovi oceani, agli inizi, si formano generalmente grazie a una serie di fratture e spaccature che disgregano un continente, come, per esempio, sta accadendo lungo la Grande Rift Valley dell’Africa orientale, tra Kenya e Tanzania. E come sta accadendo anche nel Mediterraneo da poco meno di una decina di milioni di anni: grandi fratture e lunghissime spaccature incidono il fondo del mare e creano un nuovo bacino oceanico (laddove per bacino non si intendono tanto le acque, quanto la costituzione geologica e morfologica). 
 
Dove oggi c’è il Mare Nostrum, milioni di anni fa esisteva un grande oceano mesogeo, la Tetide, poi costretto progressivamente a contrarsi dallo scontro fra il blocco di crosta dell’Africa e quello dell’Europa. Lo scontro che provoca, in ultima analisi, i terremoti del nostro Appennino. 
 
Colossali edifici 
Successivamente, in varie regioni del Mediterraneo centrale, si sono formati edifici vulcanici sottomarini che hanno eruttato milioni di metri cubi di lave e hanno costruito veri e propri colossali edifici. Come è il caso del Marsili e del Vavilov, di fronte alla Calabria, due veri giganti. In particolare il primo è il più grande vulcano sottomarino d’Europa, lungo oltre 70 km, alto 3 e largo quasi 30. Ed è attivo. Come attivi debbono considerarsi tutti quei vulcani la cui attività non sia cessata da un paio di centinaia di migliaia di anni.
 
La Catena del Palinuro, appena identificata dal Cnr e dall’Ingv, è stata certamente attiva fra 800 e 300 mila anni fa, ma non sappiamo se non sia stata attiva in tempi più recenti. Anche la sua formazione è legata a una serie di spaccature profonde che hanno messo in comunicazione i magmi profondi con il fondale marino. Si tratta di apparati di grandi dimensioni, pure se confrontati con quelle del Marsili. 
E’ una scoperta importante, forse cruciale per comprendere come sia possibile la formazione di micro bacini oceanici, dovuti a forze di estensione della crosta, in regioni dove, invece, regnano la compressione e la collisione. Come abbiamo ricordato a proposito dello scontro tra l’Africa e l’Europa. 
 
Attività sottomarine 
Ma tutto il Mar Tirreno è un brulicare di attività sottomarine superficiali legate ai vulcani, dalle isole Eolie a Ustica, di cui fanno parte anche quelle emissioni gassose spesso riscontrate in varie zone, dalla Sicilia alla Toscana. Erutteranno questi vulcani o possiamo stare tranquilli? La risposta è che dipende da molti fattori e che non tutti gli apparati del fondale tirrenico presentano caratteristiche di attività imminente. Il già ricordato Marsili, per esempio, è stato attivo da tempi più recenti e presenta coni e apparati satellitari lungo i fianchi. 
 
Una sua eruzione e un successivo collasso provocherebbero un vero disastro, tsunami di proporzioni gigantesche compreso. 
 
Controlli costanti 
Vale la pena di ricordare che si tratta di attività tenute sotto costante controllo scientifico, ma forse il dato più rilevante per gli italiani è scoprire che il fondo del mare non è piatto come si potrebbe immaginare, anzi: coni e crateri, edifici vulcanici, grandi trincee sottomarine, frane e resti di antiche attività sono la regola al fondo del Mar Tirreno, così come al fondo di tutti gli altri oceani del mondo. Le dorsali sottomarine della Terra costituiscono il più grande complesso vulcanico del nostro pianeta, lungo oltre 64 mila chilometri e costantemente attivo. Da quelle spaccature profonde nuove lave vengono emesse ogni giorno e lentamente allontanate verso i margini dei continenti sotto i quali sprofonderanno. Il Tirreno non è molto diverso da quegli oceani. Ma possiamo evitare di preoccuparcene quando facciamo il bagno. Per ora.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/14/societa/negli-abissi-del-tirreno-scoperti-vulcani-sommersi-M0NPsNIgrLKofN8lMaDJVI/pagina.html
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