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Autore Discussione: MARIO TOZZI.  (Letto 60217 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:35:27 pm »

1/10/2009

Il mondo non finirà nel 2012
   
MARIO TOZZI


Due terremoti di spaventosa potenza (superiori a magnitudo 7 Richter, come a dire diverse centinaia di bombe paragonabili a quella di Hiroshima che esplodono nel sottosuolo contemporaneamente) in rapida successione bastano a riportarci alla condizione umana su un pianeta che mette in gioco energie e tempi incommensurabilmente più grandi di noi. Ma anche a farci tremare per una fine del mondo che sembra essere ormai prossima. Se però conoscessimo bene la Terra sapremmo che non è così e, anzi, dovremmo ricordare che forse sono proprio le crisi tettoniche ad aver permesso ai nostri antenati di evolversi qualche milione di anni fa nell’Africa orientale.

Grazie ai terremoti il mondo della foresta fu diviso da quello della savana, e, in quel nuovo ambiente, appena scesi dagli alberi, gli ominidi hanno sviluppato la stazione eretta, le strategie di sopravvivenza, in definitiva, il cervello. Insomma siamo figli dei terremoti e della geologia di un pianeta inquieto, nonostante il fatto che negli ultimi mille anni i sismi hanno ucciso otto milioni di persone e tutto lascia intendere che le cose potrebbero andare peggio nel prossimo futuro, su una Terra più popolata proprio nelle regioni a rischio. In tremila anni di storia la Cina ha visto 13 milioni di vittime e ogni anno muoiono, in media, fra le 10 mila e le 15 mila persone a causa dei terremoti, se si considerano anche i maremoti, le carestie e le pestilenze connesse.

Il terremoto è la catastrofe per antonomasia, etimologicamente è lo stravolgimento completo delle esistenze, a partire dalle abitazioni distrutte o, in aggiunta, dalle gigantesche ondate di maremoto, che in certe regioni del mondo, non sembrano mancare mai. E cosa c’è di peggio di quando ci manca la terra sotto i piedi, di quando traballano i punti di riferimento, o di quando le crisi si susseguono come guidate da una mano invisibile che disegna un meccanismo perverso? Ma le catastrofi naturali non esistono, esistono solo le sciagurate conseguenze di comportamenti insensati degli uomini che abitano dove non dovrebbero e costruiscono troppo e male. E il terremoto è un fenomeno assolutamente «normale» e molto frequente sulla Terra, almeno come le tempeste: ogni anno si registrano milioni di scosse e solo una decina superano, in media, la magnitudo 7 Richter, che possiamo idealmente assumere come limite dei terremoti più violenti. Non c’è un tetto superiore della cosiddetta scala Richter: il massimo mai raggiunto è poco superiore a 9, come nel caso di Sumatra (2004) o del Cile (1960), ma in teoria sono possibili terremoti anche molto più energetici.

Non c'è quindi alcuna fine del mondo che si approssima, ma solo la casuale giustapposizione di scosse molto forti in un settore apparentemente piccolo del mondo: il sisma delle isole Samoa è migliaia di chilometri lontano da quello di Sumatra, e c’è un intero continente in mezzo, più un pezzo di oceano. Inoltre sono due strutture geologiche differenti, due scontri diversi di placche geologiche lontane. Eppure questi eventi vengono letti come il medesimo segno di una crisi geologica che non c’è: il pianeta fa semplicemente il suo mestiere e solo per caso due scosse molto forti si susseguono ravvicinate nel tempo e (peraltro un po’ meno) nello spazio.

Ma il terremoto evoca la nostra atavica debolezza, l’incapacità di confrontarsi con la natura quando la riteniamo davvero arrabbiata: in realtà la natura fa il suo corso senza curarsi di noi o di altri viventi e non ci sarà nessuna fine del mondo per congiunzioni astrali di pianeti nel 2012 o per un susseguirsi di terremoti violenti. La tremenda sequenza calabrese della fine del XVIII secolo, i vari big-one della California o del Giappone, gli tsunami del Sud-Est asiatico, le scosse dell’intero «anello di fuoco» del Pacifico sono solo i segni di un pianeta attivo e dinamico che dovremmo semplicemente guardare con rispetto.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:15:15 am »

3/10/2009

Non diteci che nessuno sapeva
   
MARIO TOZZI


E’ proprio un Paese bizzarro l’Italia, pensate che d’autunno piove - qualche volta a lungo -, i fiumi straripano e le tempeste mangiano le spiagge. E pensate che, se avete costruito nel letto di un fiume, ci sono buone probabilità che la vostra casa venga spazzata via per colpa delle alluvioni. Un fenomeno nuovo, si potrebbe pensare, mai segnalato finora, specialmente nel Mezzogiorno: chi potrebbe immaginare che intere colline d’argilla franino a mare portandosi con sé case e persone? Non serviva un geologo, bastava un archivista che avesse rovistato nei documenti comunali.

Per sancire come le frane siano un fenomeno comune, esattamente come le mareggiate, nel Messinese: le ultime quattro vittime nel 1998, appena a Nord della città. Ma in Italia avviene, in media, uno smottamento ogni 45 minuti e periscono, per frana, di media, sette persone al mese. Già questo è un dato poco compatibile con un Paese moderno, ma se si scende nel dettaglio si vede che, dal 1918 al 2009, si sono riscontrate addirittura oltre 15 mila gravi frane. E non solo frane, ma anche alluvioni (oltre 5 mila le gravi, sempre dal 1918), spesso intimamente connesse agli smottamenti. Questo nonostante oggi la protezione civile sia molto più efficiente di solo venti anni fa. Le frane sono un fenomeno naturale, ma non lo sono le migliaia di morti né le azioni dell’uomo che le innescano al di là delle condizioni naturali.

Tutto questo era ben noto fino dal tempo della commissione De Marchi, che fotografò, per la prima volta in modo organico (nel 1966), il dissesto idrogeologico del territorio italiano in otto volumi in cui si suggerivano anche alcuni interventi indispensabili e ritenuti urgenti fino da allora. Sono passati decenni e c’è ancora chi si stupisce oggi. Non solo: la situazione è stata aggravata dalla massa assurda delle nuove costruzioni, da centinaia di chilometri di strade, da disboscamenti insensati e dagli incendi mirati, dai condoni edilizi che espongono al rischio migliaia di cittadini che hanno scelto deliberatamente di delinquere. Ma come volevate che finissero quelle case, magari abusive, che strozzano i letti dei corsi d’acqua, come dovevano finire i viadotti troppo bassi, le strade e il cemento che hanno sclerotizzato il territorio?

Eppure - a differenza dei terremoti - le frane possono essere previste e i nomi sono già storia: Ancona (1982), il Monte Toc al Vajont (1963), la Valtellina (1987), Niscemi (1997), Sarno (1998), l’autostrada del Brennero (1998), Soverato (2002) e così via disastrando. Secondo il Cnr il totale del territorio a rischio di frane, o comunque vulnerabile dal punto di vista idrogeologico, in Italia, è pari al 47,6%. Quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1600 in 75 anni), dove 230 Comuni su 551 sono a rischio di smottamento. La superficie vulnerabile per frane e alluvioni è, in Campania, pari al 50,3% del territorio regionale.

Il Trentino sfiora l’86% - in vetta alla graduatoria -, le Marche arrivano all’85% e il Friuli è ben sopra il 50%: resta da chiedersi come mai però nel Mezzogiorno quel rischio potenziale si traduce più spesso che altrove in catastrofe, con Basilicata, Calabria e Sicilia che vanno comunque oltre il 60% del territorio a rischio. Ma la risposta la conosciamo già: l’incuria del territorio è qui diventata prassi quotidiana, perché gli amministratori preferiscono costruire un’opera pubblica, anche se inutile, purché si veda e porti consenso: chi si accorgerà invece di una manutenzione ordinaria, spesso invisibile, del territorio?

Per non parlare dell’incivile tolleranza all’abusivismo o dell’ignoranza di qualsiasi principio fisico che informi il territorio: che ne sanno gli amministratori che una frana è uno spettacolare esempio di un fenomeno geologico del tutto naturale, che porta al trasferimento di materiale dall’alto in basso grazie alla forza di gravità? E che le cause generali delle frane sono molte, ma, in tutto il mondo, l’intervento dell’uomo gioca un ruolo fondamentale? Fra qualche giorno nessuno ricorderà i morti di Messina e si continuerà a inseguire il sogno di un ponte inutile che renderà ineluttabile il dissesto idrogeologico, quando non vedrà compromessa addirittura la stabilità complessiva di un intero settore della penisola. Stornando risorse che dovrebbero essere spese per salvare vite e non per inseguire follie faraoniche.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 28, 2009, 08:18:00 am »

28/10/2009

Moratoria per il ponte sullo stretto
   
MARIO TOZZI


La tragedia di Messina del primo ottobre e le parole del Capo dello Stato sul dissesto idrogeologico impongono un ripensamento attorno al ponte sullo stretto e, quanto meno, una moratoria dovuta a motivi di natura territoriale, sociale e ambientale, oltre che di buon senso. Prima di tutto viene il rischio idrogeologico, che si è appena dimostrato qui essere elevato come in pochi altri posti: il versante siciliano è uno «sfasciume pendulo» che andrebbe risanato e rinaturalizzato prima di ogni altro intervento. E il ponte peggiorerebbe le cose sensibilmente: per piazzare il pilone di sostegno - alto come l’Empire State Building e largo in proporzione - bisogna scavare una fossa enorme, sottraendo 4-5 milioni di metri cubi di terreno. Sarebbe inevitabile poi sconvolgere il già scarso equilibrio idrogeologico, prosciugare i laghi di Ganzirri e distruggere il paesaggio con cave e scassi di ogni tipo che il dissesto lo creerebbero ex novo anche in zone geologicamente più tranquille. A meno che non si voglia ricoprire tutta la provincia di Messina con una colata di cemento, il dissesto sarà aggravato dai lavori.

Ma sul versante calabrese la situazione è peggiore, non tanto per le colate di fango, quanto per gli «scivolamenti gravitativi profondi», frane con superfici di distacco talmente profonde da mettere in pericolo la stabilità dell’altro pilone di sostegno, quello di Cannitello. A Scilla la linea ferroviaria che tiene il Sud legato al Nord della penisola è interrotta un anno sì e l’altro pure a causa delle frane e la gente scende dal treno per superare i tratti dissestati in pullman: siamo sicuri che non ci siano altre priorità?

Lo stretto di Messina è, in aggiunta, la regione a maggior rischio sismico d’Italia: qui è avvenuto, appena 100 anni fa, il terremoto più violento che il Mediterraneo moderno ricordi, seguito da un tremendo tsunami per complessivi 100.000 morti. Ma i centri storici di Messina, Reggio Calabria e Villa San Giovanni non sono stati risanati con criteri antisismici e si stima che solo un quarto delle costruzioni resisterebbe a terremoti maggiori di magnitudo 6 Richter (quello del 1908 è stato di 7). Per quanto se ne sa il ponte reggerebbe a un terremoto di magnitudo 7 Richter, però nessuno ci assicura che il prossimo - che non è certo evitabile - possa non essere più violento. Ma in quel caso saremmo di fronte a un insopportabile stornamento di fondi pubblici o privati (non fa molta differenza) dalla indispensabile ristrutturazione antisismica, a favore di un’opera che non è certo urgente. Insomma, se il ponte resterà in piedi unirà due cimiteri, con buona pace della sicurezza dei cittadini che dovrebbe precedere ogni tipo di intervento pubblico.

C’è infine un ultimo punto critico, il fatto che i due versanti non solo non sono «fermi», geologicamente parlando, ma si muovono in maniera disarmonica. La Sicilia si solleva meno rapidamente della Calabria (0,6 mm/anno contro 1,5) e si sposta (1 cm/anno) verso una direzione diversa dalla prima. Un triangolo di crosta terrestre più ballerino è davvero difficile trovarlo al mondo, siamo sicuri che si debba fare proprio lì un’opera la cui redditività è messa in gravissima crisi dalla congiuntura economica (ricordiamo che la stima di recupero dell’investimento sarebbe positiva solo con un incremento del Pil del +3,8% annuo, mentre oggi siamo a valori negativi)? Certo, i ponti si fanno anche in aree sismiche come il Giappone, ma quello di Akashi - il più lungo finora realizzato a campata unica - fu talmente provato dal terremoto di Kobe del 1995 che la sua costruzione fu interrotta e rivista rispetto al progetto e che la linea ferroviaria, inizialmente prevista, fu eliminata. E a Kobe la ristrutturazione antisismica è stata iniziata prima di fare il ponte, e frane non ce ne sono. In un’ipotetica scala di priorità, quando di soldi ce ne sono così pochi, cosa viene prima, la sicurezza o gli affari e la megalomania?

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Novembre 07, 2009, 10:16:29 am »

7/11/2009

Pianosa restituita alla gente
   
MARIO TOZZI


L’idea (frettolosamente rientrata) di riaprire il supercarcere di Pianosa non sfugge alla tafazziana moda italica di scegliere la via più costosa, più scomoda, e possibilmente dannosa, per risolvere un problema reale. All’esigenza di nuove carceri speciali si voleva risponde con l’idea di recuperare antichi complessi carcerari oggi in disuso, invece di utilizzare quegli edifici costruiti e mai usati che pure sorgono in varie parti d’Italia (per esempio in Calabria).

Nel momento in cui il movimento turistico ci vede scavalcati anche dalla Cina in quanto a presenze straniere, noi vogliamo rispondere ingabbiando mete importanti come l’Asinara o Pianosa che, particolare non trascurabile, fanno parte integrante del sistema nazionale delle aree protette, come dire i gioielli di famiglia.

C’è prima di tutto un danno ambientale grave: rendere agibile un supercarcere in un’area protetta vorrebbe dire muovere macchine e terra, cementificare e infrastrutturare in zone delicate, con ecosistemi spesso unici e molto delicati. Poi c’è una questione di costi: non ci dovrebbe volere molto a capire che spostare un mattone su una di queste isole costa forse quattro volte di più che non sul continente. Visto lo stato degli edifici, non si tratta di semplici ristrutturazioni o adattamenti, ma di vere e proprie ricostruzioni, che dovrebbero avvenire in barba a ogni valutazione di impatto, contro i vincoli europei (queste isole sono spesso Sic, Siti di Importanza Comunitaria), quelli dei parchi nazionali e contro la volontà dei cittadini che traggono da quelle isole risorse economiche da non sottovalutare in tempi di magra. Anzi, è presumibile che il turismo del futuro tenderà a privilegiare proprio quelle zone di pregio ambientale rispetto a tutto il resto. E cosa potrebbe trovare?

Muri di contenimento fuori misura, filo spinato e torrette di avvistamento, oltre all’impossibilità di visita. A Pianosa (a meno di un’ora da Marina di Campo, nell’arcipelago toscano) si perderebbe così la possibilità di visitare il secondo complesso catacombale per importanza a Nord di Roma, o il paese antico o, ancora, le ville romane, per non parlare dei siti di nidificazione del gabbiano corso o degli straordinari fondali.

Nel passato la presenza delle amministrazioni carcerarie ha svolto un ruolo inconsapevolmente positivo, in quanto quelle isole sono sfuggite alla speculazione edilizia proprio grazie al carcere. Ma all’arcipelago toscano, per restare nell’esempio, c’è già un istituto di detenzione a Porto Azzurro e uno a Gorgona, e campeggiano ancora strutture carcerarie fatiscenti a Capraia, oltre che a Pianosa, ponendo pesanti problemi di ristrutturazione per gli usi civili.

Oggi queste isole potrebbero vedere un recupero straordinario dei valori ambientali insieme a quelli sociali, coniugando la protezione della natura con le attività economiche, grazie anche all’apporto di carcerati in articolo 21, cioè destinati al reinserimento attraverso attività produttive, come già accade a Pianosa, dove una dozzina di detenuti da anni si muove in questa prospettiva fornendo accoglienza ai turisti. C’è tanto spazio degradato in Italia per poter impiantare un carcere duro, che non ci dovrebbero essere problemi per trovare siti compatibili e meno costosi. Perché infine i mafiosi dovrebbero godere dei panorami più belli del Mediterraneo, è un mistero che non si riesce francamente a comprendere.

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 25, 2009, 03:39:30 pm »

25/11/2009

Se le fonti sono pubbliche l'acqua vale di più
   
MARIO TOZZI


Alzi la mano chi conosce esattamente il costo di un litro d'acqua al rubinetto di casa. Costa talmente tanto poco, in media, che neppure è possibile esprimerlo in centesimi di euro: circa un euro per ogni metro cubo, ossia per mille litri. Quindi di cosa si parla quando si parla di un possibile profitto sull'acqua e della sua trasformazione da bene a merce? Tutto nasce dalle indicazioni scaturite dal Wto che suggerivano di far entrare pesantemente i privati nella gestione delle acque pubbliche e dal fatto che, per assicurare i profitti, si garantivano concessioni trentennali, piuttosto lunghe, in teoria, per regimi di libera concorrenza. Ma come si fa a fare profitto su una merce che costa così poco e di cui c'è disponibilità illimitata? Questo è più difficile da comprendere, perché sulla Terra ciascun essere umano avrebbe teoricamente disponibili alcune migliaia di litri d'acqua al giorno, una quantità che trova riscontro in quelle delle grandi città italiane: oltre 500 litri per persona a Roma come a Milano. Il problema è che, mentre in Occidente l'acqua è abbondante e omogeneamente distribuita, nel Sud del mondo è più scarsa e niente affatto distribuita, tanto che nei prossimi 20 anni la quantità media di acqua pro-capite diminuirà rispetto a oggi, contribuendo, fra l'altro, ad aggravare i problemi della fame nel mondo. Ogni anno muoiono oltre 2 milioni di persone per malattie causate dall’acqua inquinata e oltre 650.000 persone sono rimaste vittime, nell’ultimo decennio, degli effetti catastrofici di eventi naturali provocati dalle inondazioni.

Questi sarebbero i veri problemi, ma le multinazionali alla caccia di ogni profitto possibile pensano di violare anche gli elementari principi secondo cui niente dovrebbe essere dato per l'uso dell’aria o dell’acqua, visto che sono illimitate.

La cosa potrebbe cambiare quando le quantità dovessero diminuire a causa dell'incremento demografico e degli usi che se ne fanno? E, anche in questo caso, come si fa a realizzare un profitto decente, oltre che grazie alla lunga concessione? In un solo, solito modo, aumentando le tariffe, senza peraltro alcuna possibilità di migliorare un servizio che è già ridotto all'osso. A meno che non si voglia risparmiare sulle procedure di sicurezza, che devono essere, per le acque potabili, molto maggiori di quelle, già soddisfacenti, delle acque in bottiglia. L'esperienza pregressa ci dice che questo è proprio quello che succede: incrementi di tariffe e servizi immutati dove subentrano i privati. L’acqua non dovrebbe diventare una merce, così come non dovrebbe diventarlo l'aria, e la cosa era già chiara agli antichi, che le conferivano un carattere sacro e ne garantivano a tutti un uso pubblico. Ma in un capitalismo di guerra anche i pochi beni non ancora alienati sono oggetto di predazione e allora perché non aspettarci presto in vendita l'aria dell’Everest o quella, che so, di Majorca per climatizzare i nostri appartamenti?

Se è vero che il valore dell’acqua non dovrebbe permetterne l'attribuzione di alcun prezzo, è pure vero che un costo per la gestione dell'acqua c'è e dobbiamo pur pagarlo. L’acqua viene scoperta, canalizzata, addotta, scaricata e depurata: chi paga per tutto questo? E' giusto che lo faccia il contribuente, se in misura equa, magari anche maggiore rispetto alle attuali tariffe italiane: un tempo quello era il lavoro delle donne di casa, che portavano l'acqua potabile dalle fonti, la servivano, la usavano e la scaricavano. Oggi le aziende pubbliche municipalizzate svolgono questo lavoro in maniera che sarebbe ingeneroso non definire decoroso, tranne rari casi. Che sia garantita una quantità minima di acqua per persona al giorno, anche gratuitamente (almeno 50 litri) e che il resto si paghi anche più di quanto non si paga attualmente, così si imparerà anche il valore del risparmio dell'acqua, che spesso viene sprecata proprio perché costa troppo poco, soprattutto in agricoltura (la vera fonte degli sprechi mondiali). Ma che le sorgenti restino pubbliche e l'acqua un bene di tutti garantito dallo Stato, come facevano gli antichi e come sarebbe bene non dimenticare.

da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Gennaio 03, 2010, 04:05:01 pm »

3/1/2010

La ribellione delle acque
   
MARIO TOZZI

Una impetuosa ribellione dei fiumi è chiaramente in atto da qualche giorno nel nostro Paese.
Sarebbe un ulteriore atto di insensata trascuratezza fare finta di niente di fronte ai segnali che l’ambiente naturale ci invia. Alluvioni e inondazioni sono il naturale decorso delle giornate di pioggia intensa, e da sempre le civiltà fluviali - come quelle padane o tiberine - convivono con l’andamento del fiume e le sue piene. Ma qualcosa è drammaticamente cambiato negli ultimi anni: intanto la pioggia, che oggi cade a cascata innescando le cosiddette «bombe d’acqua», quei flash flood difficili da prevedere che rovesciano in poche ore l'acqua che un tempo cadeva in settimane. Così la pioggia non si infiltra più nel sottosuolo, ma ruscella tutta in superficie e si precipita nei letti fluviali che però non sono commisurati a contenerla.

Dunque le alluvioni sono aumentate di frequenza e di intensità, non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, dal Brasile alla Cina. Questa però è solo una parte del problema, il resto lo fanno gli uomini che vivono nelle regioni fluviali e non si decidono a lasciare libere le aree che invece dovrebbero essere lasciate al dominio del fiume. Non è un caso che esista un letto di magra e uno di piena e non è un caso che nessun insediamento stabile veniva posto nel letto di piena dagli antichi, che conoscevano i ritmi del fiume e vi si adattavano, senza pretendere di irregimentarlo. Anche perché i vantaggi in passato erano importanti, soprattutto per l'agricoltura, che vedeva fertilizzati naturalmente i terreni dal limo, ma anche per le civiltà, che potevano permettersi di erigere la grande piramide solo grazie alle piene del Nilo che portavano le barche con i blocchi di marmo fino a Giza.

Oggi i fiumi - padri delle nostre civitates (e non solo delle urbes) - sono stati precipitati in fondo ai loro argini di pietra e senza più memoria del rapporto con la città che è nata grazie a essi. A Napoli il Sebeto è diventato un rigagnolo melmoso, mentre un tempo, quando si impaludava, permetteva a Ponticelli di rifornire di ortaggi tutta la città. A Palermo Papireto e Kemonia sono stati intombati sotto le strade, così come l’Aposa a Bologna o i Navigli a Milano. Ma non va meglio a Roma, dove quasi nessuno si accorge più del Tevere, se non quando si rischia l’alluvione a Ponte Milvio; ed è bene ricordare che in sole dodici ore le acque raggiungerebbero il Vaticano da una parte e Piazza di Spagna dall'altro.

Perduto il rapporto culturale con il fiume la speculazione ha fatto il resto, anche in un paese in cui quasi il 50% del territorio è a rischio idrogeologico, per cui si invocano le Autorità di Bacino salvo poi disconoscerle quando nelle loro prescrizioni invocano la liberazione delle aree golenali e la libertà dei fiumi. Eh sì, perché di libertà si tratta, nel senso che i fiumi si scelgono da sempre dove sfociare, e quanto più sono lasciati liberi tanto meno danni fanno e più vantaggi portano. Delta e paludi sono il sistema di sicurezza che la Terra ha escogitato per proteggere la vita lungo le linee di costa fin da quando gli uomini nemmeno esistevano.

E il Fiume Giallo in Cina sceglie da centinaia di migliaia di anni dove sfociare, cambiando estuario per un raggio di oltre 1000 km. E noi uomini invece lì, a cercare di irregimentarli, a costruire dighe sempre più grandi e argini sempre più alti, coltivando l'illusione di controllare le piene e eliminare le alluvioni, come se non si dovesse invece cercare di conviverci. Nel 1944 Francis Crove, a proposito di una grande diga sul Sacramento, scriveva: «Abbiamo messo il fiume al tappeto, lo abbiamo inchiodato alla carta geografica».

E' passato più di mezzo secolo ma gli uomini non sembrano aver imparato che il fiume fa semplicemente il suo mestiere, e più sclerotizzano il suo corso peggio sarà: così, se oggi piovesse come quel novembre del 1966, l'Arno esonderebbe provocando molti più danni di allora. E che tutti i corsi d'acqua d'Italia sono a rischio esondazione nel prossimo futuro.

Dal grande padre Po al Tevere, dall'Adige all'Arno, ma anche dall'Ofanto al Reno, alle più piccole fiumare di Calabria e Lucania o ai torrenti di montagna, l'Italia dei mille fiumi è stata talmente maltrattata che non ci si dovrà stupire quando sembrerà che un cinico disegno della natura (per carità, sempre selvaggia e cattiva) ci voglia mettere in difficoltà: in realtà è solo e sempre colpa nostra, quella di avere quasi distrutto una ricchezza che andava meglio conosciuta e valorizzata.

da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Gennaio 15, 2010, 04:01:59 pm »

15/1/2010

Catastrofe innaturale
   
MARIO TOZZI

È stato il terremoto più violento degli ultimi due secoli nell'isola, ma come ne avvengono almeno una ventina, ogni anno, al mondo. E quasi mai provocano centinaia di migliaia di morti. Per riscontrare numeri così elevati bisogna spingersi indietro nel tempo e in altri luoghi: nella Cina del XVI secolo, dove morirono 830.000 persone nello Shansi, oppure nella pianura di Kanto, in Giappone, dove, nel 1923, le vittime furono oltre 200.000. In tempi più vicini, le città cinesi di Tientsin e Tangshan furono rase al suolo, con 200.000 vittime, nel 1976 e non si può dimenticare il terremoto di Sumatra di soli cinque anni fa, quando morirono 250.000 persone anche a causa del maremoto. Ogni anno la Terra è attraversata da centinaia di migliaia di sismi di magnitudo superiore a 3, ma solo in alcune regioni, e in particolari condizioni, le vittime sono così tante. Perché?

Qualcosa la si deve al tipo e alle caratteristiche intrinseche del terremoto: magnitudo 7 Richter non è così elevata rispetto ai terremoti giapponesi e cinesi che arrivano anche a oltre 8, però l'ipocentro è stato superficiale (13 km) e perciò gli effetti peggiori. Ma i principali responsabili del gran numero di vittime sono sempre gli stessi: sovraffollamento e cattiva costruzione. Nonostante il rischio sismico fosse elevatissimo e ben noto, l'estrema povertà di Haiti, la corruzione e l'inesistente amministrazione hanno consentito di costruire senza alcun criterio antisismico anche laddove si fosse utilizzato cemento armato (come per il palazzo presidenziale). «Effetto pancake» lo chiamano, quello per cui palazzi alti decine di metri rimangono schiacciati come frittelle senza che le strutture abbiano offerto alcuna resistenza. Ma la maggior parte della popolazione ha costruito in legno o muratura povera, senza alcuna regola e, soprattutto, in modo troppo affastellato, lasciando strade così strette da restare completamente bloccate intralciando i soccorsi.

Ma come si è operato a Port-au-Prince è la regola delle aree metropolitane del Sud del mondo (dove si concentra ormai la maggior parte della popolazione), come Mexico City o Calcutta: quelle ubicazioni furono scelte in tempi remoti scartando le zone ritenute pericolose sulla base di antiche sapienze, per esempio evitando i terreni paludosi, dove gli effetti del terremoto si amplificano. Oggi decine di milioni di persone vivono attorno agli antichi nuclei colonizzando con costruzioni fatiscenti i terreni una volta scartati. Così può accadere che rimangano in piedi vecchie case accanto a palazzi moderni distrutti, o che alcuni edifici vengano rivoltati sul posto senza però fracassarsi, come scatole di cemento armato basculate sul posto. Ma le megalopoli continuano ad attrarre senza sosta milioni di disperati nullatenenti dalle campagne di tutto il mondo, gente che non ha posto migliore per insediarsi che non i terreni meno idonei. Dove sorgono capanne, favelas e bidonville lì si concentreranno i danni e i morti dei terremoti del futuro, che diventeranno inevitabilmente i terremoti dei poveri.

Non è cosa nuova: negli ultimi mille anni i terremoti hanno ucciso otto milioni di persone e tutto lascia intendere che le cose potrebbero andare peggio nel prossimo futuro. Lo stesso sisma provocherà una strage epocale nel mondo povero, centinaia di morti dalle nostre parti (come dimostra quello aquilano, pur trentacinque volte meno distruttivo di quello haitiano) e solo qualche cornicione abbattuto in California. La storia è sempre quella: le catastrofi naturali non esistono, esiste solo la nostra nota incapacità di tenere conto del rischio naturale ovvero la possibilità di conoscerlo molto bene e fare comunque finta di nulla per avidità o per incapacità. O per l'assoluta mancanza di risorse e di memoria.

da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Febbraio 16, 2010, 10:38:29 am »

16/2/2010 - CLIMA. ONU SOTTO ACCUSA

Polemiche sterili stiamo soffocando il nostro pianeta
   
MARIO TOZZI


Essendo questione largamente svincolata dalla fede religiosa, non ci dovrebbero essere problemi a ricondurre la polemica sulla presunta alterazione dei dati climatici internazionali nell’alveo della questione scientifica, dunque laica per definizione.

Non è tanto ai rapporti dell'Ipcc che ci si deve attenere per comprendere gli scenari futuri, che sono sempre ipotetici, ma ai dati già raccolti. Questi ci dicono che - finora - il clima diventa sempre più caldo e che gli ultimi anni sono stati più torridi di tutti i precedenti. Ci informano che negli ultimi 20 milioni di anni mai si erano superate concentrazioni di anidride carbonica di 300 ppm (oggi siamo a 385) e che questo gas è in grado di riscaldare l'atmosfera. Ci ribadiscono che non si deve confondere il tempo con il clima, e quello che succede in Italia con quanto accade nel resto del mondo. Infine ci dicono che la copertura glaciale, per esempio, delle Alpi si è quasi dimezzata. Le riviste scientifiche, che non rispondono alle logiche politiche di istituti come l'Ipcc (logiche che tendono, semmai, a mitigare le preoccupazioni), confermano i dati.

Restano pertanto i motivi di preoccupazione, fermo restando che ci sarebbe un'esplosione di felicità da parte dei climatologi se le cose andassero diversamente. Ma qui si corre un rischio più grave: anche i dubbi non fondati inducono l'opinione pubblica a non farsi più carico dei propri comportamenti o delle decisioni di chi li governa, anche quando sono insostenibili da un punto di vista ambientale. Se riducessimo le emissioni di CO2, ridurremmo anche quelle di ossidi di azoto, benzene, polveri sottili e monossido di carbonio, sostanze la cui miscela provoca 100 mila morti all'anno in Europa. Le megalopoli sono camere a gas annegate nei rifiuti e provate dalla mancanza di acqua o funestate da catastrofi naturali. La biodiversità, intanto, è pesantemente attaccata. E’ l'«ecological crunch», una tenaglia che non distrugge il pianeta in sé, ma impoverisce o affligge gli uomini. Le polemiche infondate spostano l'attenzione e ci fanno rituffare nell'indifferenza. Fino alla prossima crisi.

da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Febbraio 28, 2010, 08:24:15 pm »

28/2/2010

La voce del pianeta
   
MARIO TOZZI

Le civiltà esistono solo grazie a un temporaneo consenso geologico, suscettibile di essere ritirato senza preavviso. Sarebbe bene non dimenticare mai questa massima, che deriva dall’esperienza millenaria degli uomini che popolano le regioni sismiche del pianeta Terra, almeno se si vuole continuare a vivere lì. Un terremoto di magnitudo 8,8 Richter è già un evento di rara potenza, ma per dare un’idea di cosa significhi una sequenza sismica come quella sopportata dai cileni la notte scorsa, basterà dire che la scossa di replica principale è stata più potente della scossa principale dell’Aquila, e la seconda forte come il terremoto dell’Umbria-Marche del 1997. Repliche che dureranno settimane.

Mentre ancora non sappiamo quante saranno, e quanto alte, le onde del maremoto per cui tutto il Pacifico è in allarme e per sfuggire a cui le popolazioni di Hawaii e dell’Isola di Pasqua si ritirano in collina.

Nel Cile si vive pericolosamente da secoli, Concepcion fu già distrutta nel XVIII secolo e nel suo viaggio attorno al mondo con il Beagle, Charles Darwin annotava di terremoti a Valparaiso e si domandava se quel paesaggio non recasse per caso traccia di antiche scosse. Aveva ragione: la catena delle Ande, le pianure costiere, i bacini lacustri e i grandi salares appena dietro le montagne sono tutti eredi degli antichi sismi che hanno disegnato quelle terre da prima della comparsa degli uomini.

Ma questo terremoto non è una sorpresa, perché il margine andino centrale è la regione dove avvengono i più violenti terremoti del mondo: nel 1960 il più forte sisma che gli strumenti dell’uomo abbiano mai registrato colpì il Cile centrale con magnitudo 9,5 Richter, qualcosa che nemmeno lo scoppio contemporaneo di tutto l’arsenale nucleare del pianeta potrebbe simulare con una qualche approssimazione. La placca geologica che contiene l’America latina si scontra con quella dell’Oceano Pacifico, e mentre quest’ultima si infila sotto la prima, la Terra si comprime fino a rompersi e a generare terremoti, oltre che a scatenare eruzioni vulcaniche esplosive. Questa è peraltro la situazione generale di tutto il Pacifico, dal Giappone alle Tonga, dal Perù all’Alaska: la cosiddetta cintura di fuoco, dove comunque gli uomini si ostinano a vivere da generazioni e dove si scatena la gran parte dei sismi della Terra. Non c’è nessuna relazione fra questo terremoto e quello di Haiti e l’unica considerazione da fare è che, se gli haitiani avessero costruito bene come i cileni, non avremmo contato centinaia di migliaia di morti. E non c’è nessuna recrudescenza del fenomeno sismico in questo periodo di tempo: i terremoti avvengono indifferentemente di notte come di giorno, d’estate come d’inverno e senza alcuna relazione con fenomeni meteorologici o anticipo di fine del mondo. È solo la normale attività di un pianeta dinamico, che per questo si distingue da tutti gli altri del sistema solare, tanto da far credere che, se non ci fosse stata attività sismica e vulcanica, non ci sarebbe stata nemmeno la vita: siamo tutti figli di una Terra inquieta. Quando si ha a che fare con i terremoti si può solo vivere pericolosamente, basta non avere la memoria corta e portare grande rispetto alla madre Terra.

da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 06, 2010, 11:03:50 am »

6/4/2010

L'Aquila, il sisma delle parole

MARIO TOZZI

Dal punto di vista sismico - mutatis mutandis - l'Aquila è stata la nostra Haiti: un terremoto nemmeno tanto potente che uccide più di 300 persone e fa danni ancora incalcolabili perché qui sono state sistematicamente ignorate le leggi antisismiche ben note. Qualche paese vicino ha peraltro egregiamente resistito pur essendo costruito in muratura, segno che già nel medio evo si costruiva tenendo conto della qualità e dei terremoti e non solo del profitto. Ma per ricostruire l'intero patrimonio abitativo della città, compreso quello storico monumentale, ci vogliono 15-20 anni, come dimostra quanto avvenuto per il sisma dell'Umbria-Marche del 1997. I tempi tecnici per ricostruire un palazzo sono questi: 5-10 anni quando va bene, e se si vogliono rispettare le leggi e i metodi antisismici. Certo, con limitati investimenti, si sarebbero potute ristrutturare le case meno lesionate e riportare una parte delle 7000 persone alloggiate negli alberghi sulla costa adriatica nelle loro abitazioni.

Ma a L’Aquila si è scelta la via dimostrativa, quella dell'Italia del fare. E si è usata proprio la parola ricostruzione quando di ricostruito non c'era un bel niente e non ci sarà un bel niente per molto tempo ancora (basti pensare che ci vorranno forse altri 12 mesi solo per mettere in sicurezza la città, ossia per renderla agibile).

Si è preferito spendere fino a 2700 euro al mq per costruire migliaia di nuovissimi appartamenti - perfettamente antisismici, ultramoderni e dotati di ogni comfort -, che però non possono rappresentare che la «fase del container», quella che si mette inevitabilmente in opera dopo le tende e prima di tornare nelle proprie abitazioni. Perché è ormai chiaro a tutti che non c'è un sola famiglia di L'Aquila che consideri quelle come case definitive, visto che non lo erano nemmeno nei decreti della Protezione Civile, in cui si parla chiaramente di «moduli abitativi provvisori», bellissimi, ma inesorabilmente provvisori. Ci saranno ora i denari per ricostruire il tessuto urbanistico storico e monumentale insieme alle case (come si fece ad Assisi, dove le chiese si tiravano su insieme alle case perché motore della ripresa)? E che ne sarà di quelle migliaia di appartamenti quando gli abitanti torneranno nei propri? Quante potranno essere destinate a servizi e alloggi o foresterie quando la crescita demografica è appena sopra lo zero e i quartieri-satellite sono sorti in luoghi che più brutti non si può?

Intanto il popolo delle carriole si mobilita per sgomberare le macerie dal centro storico: giusta esigenza, ma difficile da eseguire tecnicamente, perché lo smaltimento deve essere controllato. Ma possibile che nessuno abbia pensato di riciclare quel materiale, una volta conservato quello che serve a ricostruire i palazzi storici e i monumenti? Possibile che debba essere solo «buttato»?

Nessun miracolo è avvenuto a L'Aquila, solo la normale amministrazione dopo un evento naturale a carattere catastrofico in cui la Protezione Civile ha funzionato bene, ma meno bene si sono mossi quei politici che hanno promesso ciò che non solo non si poteva, ma che neppure doveva essere promesso: il miracolo di una ricostruzione immediata che è stata contrabbandata come tale dalla gran parte dei media nazionali. Il terremoto non poteva essere previsto, come qualche ignaro funzionario continua a denunciare, ma i tempi e le fasi della ricostruzione sì: lenti e accurati. Questo avrebbero meritato i cittadini invece di facili illusioni.

da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 12, 2010, 09:50:34 pm »

12/4/2010

Schiavi delle borse di plastica

MARIO TOZZI

Ogni anno sul pianeta Terra vengono utilizzati (o, meglio, consumati) centinaia di miliardi - avete letto bene! - di sacchetti di plastica monouso, che, se va bene, vengono gettati o abbandonati dopo mezz’ora dal loro acquisto.

Solo in Europa sono 100 miliardi all’anno, con l’Italia ben in testa a ogni graduatoria con circa 20 miliardi. Eppure gli italiani sono gli ultimi a recepire la normativa europea che voleva i sacchetti monouso fuori legge entro l’inizio di quest’anno: per distinguerci abbiamo già rimandato la nostra decisione al 2011, senza ancora impegnarci per una data precisa. Le alternative ci sarebbero, addirittura autarchiche, visto che una delle maggiori industrie che fabbricano plastica riciclabile in amido di mais risiede a Novara. Ma le altre industrie italiane, invece di attrezzarsi all’indispensabile riconversione ecologica, preferiscono fare pressioni sugli uomini di governo per rimandare decisioni francamente irrimandabili, favorendo comportamenti vergognosi dettati da una logica di profitto di basso profilo che ci fa fare una figura oscena di fronte al resto dei Paesi industriali.

Gli uomini sono gli unici animali in grado di fabbricare materiali che il pianeta Terra non riesce a riciclare naturalmente nei suoi millenari moti bio-geologici. Nessun animale è mai stato in grado di fare qualcosa di simile in oltre tre miliardi di anni di evoluzione, ma non sembra sia stato un buon risultato per gli uomini, sommersi come sono da montagne di immondizia (soprattutto di plastica), né per gli altri animali, soffocati o avvelenati come le decine capodogli italiani o le migliaia di tartarughe che ingeriscono sacchetti di plastica alla deriva scambiandoli per meduse o gli uccelli marini strozzati da filamenti infiniti di plastica. Per fabbricare un sacchetto di plastica, inoltre, si consuma energia e si inquina di conseguenza, eppure non ci si riesce a liberare di questo vero e proprio cancro che contribuisce in massima parte alla costruzione di quelle mostruose isole galleggianti di rifiuti che ormai cominciano a infestare i mari del mondo.

E non si vede nessuno spiraglio neppure nei comportamenti individuali: schiavi come siamo dello shopper monouso non sappiamo più nemmeno riprendere quell’abitudine sana delle nostre nonne di andare al mercato con la sporta a maglie elastiche che si adatta alla merce comprata e si utilizza all’infinito. Per dare una scossa, dal 17 al 24 aprile, Associazione dei Comuni Virtuosi, Wwf, Italia Nostra, Fai e Adiconsum tentano di diffondere l’utilizzo della borsa riutilizzabile invece dei sacchetti in plastica e monouso puntando, prima ancora che sul riciclaggio dei rifiuti, sulla loro riduzione all’origine, imballaggi e shoppers compresi. In molti centri commerciali è già possibile liberarsi in loco degli imballi eccessivi e i gruppi della grande e media distribuzione organizzata hanno fatto la loro parte ben al di là della tiepida posizione di chi ci governa. Per i cittadini, «portare la sporta» può diventare qualcosa di più di una semplice abitudine: può essere il primo atto di consapevolezza ecologica che apre un percorso di rinnovato rispetto verso l’ambiente. Il sacchetto, anche biodegradabile, ha rappresentato l’icona di uno stile «usa e getta», così come la sporta può diventare il segno distintivo di quanti non hanno solamente adottato un oggetto, ma uno stile di vita che antepone la consapevolezza all’agire automaticamente e superficialmente per soddisfare comodità momentanee, ignari del pegno che il pianeta e le future generazioni dovranno pagare.

da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 17, 2010, 04:37:21 pm »

17/4/2010

Napoleone fu ingannato a Waterloo
   
MARIO TOZZI

La crisi dei voli su gran parte dell’emisfero boreale è solo apparentemente surreale: è invece la realtà di un pianeta che non la smette di manifestarci la sua inesauribile vivacità. Succede anche da noi, come ben sanno i catanesi o i reggini che rimangono a terra ogni volta che l’Etna si fa sentire. Ed è accaduto decine di volte agli islandesi, che addirittura sono rimasti vittime a migliaia nel 1783, quando si scatenò la grande eruzione di Lakagigar. Oltre venti bocche eruttive e un fiume di lava veloce che correva a quasi 15 km al giorno fino a coprire oltre 550 chilometri quadri di territorio nella parte meridionale dell’isola. Quando l’eruzione terminò, una specie di nebbia bluastra ricca di vapori di zolfo oscurava il Sole, uccideva il bestiame e rendeva velenosa l’aria. Durante l’inverno circa 10 mila islandesi (sui 50 mila che contava l’isola allora) morirono di fame a causa della grave carestia che ne conseguì.

Non c’è da meravigliarsi se un’eruzione vulcanica ha effetti così vistosi e non c’è neppure bisogno di tornare tanto indietro nel tempo. Nel 1991 il Pinatubo esplode nelle Filippine: è l’eruzione vulcanica più potente del XX secolo, anche se per fortuna i morti sono stati solo mille (200 mila gli evacuati). Ma vasti appezzamenti di terra sono ricoperti dalla cenere, mentre oltre 40 mila edifici vengono devastati dalle nubi ardenti. La parte superiore del vulcano viene spazzata via dalla potenza dell’eruzione che eietta nell’atmosfera 10 chilometri cubi di ceneri, scorie e lapilli in colonne alte fino a 40 chilometri. Sulle Filippine il cielo rimase scuro per settimane nel cuore dell’estate e le ceneri raffreddarono l’atmosfera, mentre in tutto il Sud-Ovest Pacifico le temperature dell’aria si abbassarono di colpo. Della spettacolare eruzione del Pinatubo alle nostre latitudini non si è tanto avvertito l’abbassamento delle temperature - pure verificatosi -, quanto lo straordinario colore rosso fuoco che avevano acquisito i tramonti per via delle particelle sospese nell’aria. I vulcani, da sempre, cambiano il clima e la storia. Ma provate a spiegarlo a Napoleone, sconfitto a Waterloo nel 1815 forse più a causa dall’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, che non dal talento dei suoi avversari. Quell’anno l’inverno fu più pesante del solito: enormi quantità di fumi e polveri emessi dal vulcano appena esploso avevano oscurato la luce del Sole e reso più freddo il clima. Anche nel mese di giugno le temperature non salivano (neanche nei pressi di Bruxelles) e immensi nuvoloni - innescati dalla grande quantità di pulviscolo in circolo - si aggiravano per l’atmosfera raggiungendo località lontanissime dal centro di emissione. Napoleone aveva un punto di forza nella cavalleria leggera che - proprio in quel frangente - si trovò a essere, invece, irrimediabilmente appesantita dal terreno troppo fangoso dopo giorni e giorni di pioggia. Il generale Michel Ney - che faceva della velocità di esecuzione un vanto - arrivò in clamoroso ritardo all’attacco delle truppe di Wellington. Insomma un vulcano aiutò gli inglesi e i prussiani e chissà come sarebbero andate le cose su un pianeta tettonicamente «morto». E il 1816 è rimasto famoso come «l’anno senza estate». Così le ceneri islandesi ci rimettono al nostro posto di fronte allo spettacolo della Terra, e pure se ritarderanno qualche aereo, approfittiamone per riflettere e meditare.

da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 10, 2010, 11:25:59 am »

10/5/2010

Senza preavviso
   
MARIO TOZZI

Vulcano Toba, Sumatra, 74.000 anni fa: la montagna si disintegra con un boato che si risente per tutto l’emisfero australe. La colonna di fumo si alza fino a 80 chilometri: 2.800 chilometri cubi di ceneri, scorie e lapilli che ricadono su 4 milioni di chilometri quadrati. Un’area grande come la metà degli Usa. Tutto il pianeta resta avvolto nel buio e nel freddo di un classico inverno vulcanico: 5 - 6 °C in meno nelle temperature medie (fino a 15°C in meno ai Tropici). Quella di Toba è stata la sola megaeruzione cui Homo sapiens abbia potuto assistere. Per un soffio non è stata anche l’ultima.

L’oscurità falcidia le piante, lasciando senza cibo gli erbivori e privando delle prede i carnivori: grandi predatori e uomini semplicemente muoiono di fame, fino alle soglie dell’estinzione. La nostra specie si riduce a solo qualche migliaio di individui su tutta la Terra, costretti in enclave geografiche dal microclima miracolosamente più caldo. Per almeno dieci secoli si entra in un’era di grande freddo, ma quegli uomini non erano preparati a brancolare nel buio, né più né meno di quanto noi non siamo pronti a vedere cambiati i nostri piani per colpa di un lontano vulcano islandese. Toba è stato il nostro «collo di bottiglia» più recente, ma certo non sarà l’ultimo: quanti vulcani sono pronti a incidere sulle nostre vite?

L’eruzione del St. Helens (Stati Uniti), nel 1980, liberò 1 chilometro cubico di materiale e il supervulcano nascosto sotto Yellowstone è stato in grado di eiettare più di 1.000 km cubi, 600.000 anni fa. La tremenda eruzione del Krakatoa nel 1883 ha abbassato la temperatura della Terra di circa 0,5°C, con effetti paragonabili a quelli dovuti al Tambora, esploso nel 1815 e responsabile di avere cancellato almeno l’estate dell’anno successivo. Nel 1991 il Pinatubo ha cambiato la vita dei filippini. I vulcani fanno il loro mestiere, eruttano: è la società degli uomini che non vuole rendersi conto che esiste solo grazie a un temporaneo consenso geologico, soggetto a essere ritirato senza preavviso.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7327&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #28 inserito:: Giugno 05, 2010, 05:15:49 pm »

5/6/2010

Quando resta un solo albero
   
MARIO TOZZI

Suscitiamo una certa pena, noi uomini, intenti come siamo ad armeggiare attorno a un buco da cui fuoriesce una marea di petrolio, senza riuscire ad attapparlo, pur spendendo quanto un anno di reddito di un’intera nazione africana. Pena e un po’ tenerezza, costretti nelle nostre amate scatolette metalliche per ore, ogni giorno, illudendoci di comunicare quando siamo più isolati che mai. E un po’ tristezza, distesi su spiagge sporche sulla riva di mari in cui riversiamo senza sosta tonnellate di liquami nell’intento di goderci una vacanza. E rabbia, mentre buttiamo via l’acqua di sorgente che poi ricompriamo imbottigliata a prezzi assurdi. O fabbricando sostanze come la plastica che contrastano il principio per cui in natura nulla si crea e nulla si distrugge.

In un viaggio nell’Europa dell’inizio del XX secolo il mitico Tuiavii di Tiavea, sovrano delle isole di Samoa, metteva già alla berlina molti aspetti del progresso occidentale riducendoli a usanze strane e ridicole, come quella di suddividere il tempo, o malefiche, come quella di venerare il denaro come unico dio. Il capo indigeno concludeva la sua invettiva contro il papalagi (l’uomo occidentale) imponendo ai suoi sudditi di non recarsi mai in Europa, ché tanto non c’era nulla da imparare.

Tuiavii aveva capito che c’è una differenza fra gli uomini e gli altri viventi. Una sola, ma fondamentale, che spiega la nostra apparente supremazia e, insieme, il nostro precipitarsi verso la crisi ecologica più grave che l’umanità abbia mai attraversato. Questa differenza non sta nella nostra scatola cranica più capace (se è per questo i neandertaliani avevano un cervello anche più grosso, ma si sono ugualmente estinti), in una presunta superiore intelligenza e nell’uso delle mani (basti studiare gli elefanti e la loro proboscide) o nella capacità di comunicare (solo Bach regge il confronto di armoniche con le balene). Questa differenza è quella che non permette di notare più quei paradossi della vita quotidiana che pure i nostri antenati mostravano di conoscere.

Ma non è difficile coglierla, è la stessa che non aveva invece compreso l’ultimo indigeno dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero: non poteva ignorare che così facendo avrebbe condannato la sua gente alla fine. Eppure lo ha fatto. Perché? A causa dell’accumulo e del profitto, sconosciuti al resto degli animali e dei vegetali, ma ben noti proprio agli uomini, che più posseggono e più vorrebbero. Questa è di fatto l’unica differenza che conta.

Possiamo evitare che questa giornata della Terra diventi l’ennesima occasione perduta solo se diventerà un momento di conoscenza per gli uomini. Comprensione della storia naturale e dell’ambiente di cui facciamo parte, migliore conoscenza di noi stessi sulla Terra, verrebbe da dire, con gli antichi. Quella differenza è così fondamentale da farci ignorare che le risorse finiscono più in fretta di quanto speriamo, e che noi siamo sempre di più e abbiamo sempre maggiori esigenze su un pianeta che non può che rimanere lo stesso. Una riconversione ecologica delle attività produttive dell’intera umanità è quanto si dovrebbe e potrebbe ancora fare, ma perché gli uomini si dovrebbero impegnare in questa direzione? A cosa servirebbe? Facile, riduzione degli impatti umani, risparmio di acqua, riciclaggio dei rifiuti, energie rinnovabili, minor consumo di territorio servono semplicemente a sopravvivere senza tagliare il ramo su cui siamo seduti. Sarebbe già qualcosa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7441&ID_sezione=&sezione=

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« Risposta #29 inserito:: Luglio 01, 2010, 05:13:30 pm »

28/6/2010

Stato e Comuni, il baratto dei pezzi d'Italia
   
MARIO TOZZI

Quanto vale una spiaggia dell'arcipelago toscano o una torre calcarea delle Dolomiti? O, come sembra paventarsi in questi giorni, l'isoletta di Folegandros in Grecia? O, comunque, quanto vale una bellezza naturale nel mondo del terzo millennio, dilaniato da una crisi economica che rischia di confondere i valori con i prezzi?

In Italia la risposta a questa domanda è obbligata: nessun valore economico o finanziario può essere assegnato ai beni culturali a carattere naturalistico, semplicemente perché il solo pensare di metterli in vendita (o porli a garanzia di prestiti bancari) è pura follia. Sarebbe come alienare i gioielli di famiglia nella speranza di una congiuntura migliore che, però, sempre provvisoria sarà. E non si capisce cosa si potrà mettere in vendita la volta successiva.

Non sappiamo ancora se il passaggio dei beni demaniali alle amministrazioni locali diventerà realtà, permettendo di fare merce di natura e paesaggio.

Quello che è certo è che la tutela sarà allentata, per almeno due ragioni.

La prima è che i sindaci hanno, come si è visto recentemente, il cappio stretto al collo, e non riescono a fare cassa neppure per garantire servizi essenziali come sanità e trasporti. Figuriamoci l'ambiente.

La seconda è che un'autorità statale è sempre più efficace quando deve agire in termini di tutela, mentre nessun amministratore è in grado di resistere al corteggiamento del parente o dell'amico degli amici, visto che ne risponderà, poi, in prima persona - e sul posto - dopo cinque anni. Se c'è un settore che paga la crisi economica, in Grecia come in Italia o dovunque ci sia patrimonio naturale di pregio, quello è l'ambiente. E più la crisi colpisce duro, peggio sarà per i tesori naturali: se fosse vera la notizia di Mykonos parzialmente in vendita sarebbe gravissimo, ma già è grave che solo se ne parli.

Quei pezzi d'Italia sono il nostro bene più prezioso, perché non è tanto la somma di monumenti e bellezze naturali, ma il contesto, a rendere unico in tutto il mondo un Paese che dovrebbe porre a fulcro della propria identità nazionale e della propria memoria collettiva il patrimonio culturale e naturalistico. Questo il motivo per cui a Venezia non sono stati innalzati grattacieli, la Torre a Pisa non crolla e Siena è ancora medievale; questa anche la ragione per cui a L'Aquila terremotata si ricostruiscono le chiese insieme alle case e non dopo.

Invece, in una sciagurata storia che inizia da quando si cominciò a parlare di monumenti e territorio come «petrolio d'Italia» (!), il valore venale del patrimonio culturale e naturalistico diventa qualcosa da investire per fare altro (le opere pubbliche), una risorsa da spremere, dando la tragicomica impressione di essere arrivati al fondo del barile mentre si hanno aspirazioni da quinta potenza industriale del mondo. Nessuno dice che si porrà in vendita l'isola della Maddalena, ma è grave che intanto possa diventare teoricamente possibile, come una specie di miccia sempre accesa in prossimità di un bomba che distruggerebbe non solo beni, ma anche cultura e identità nazionale. Se si gestiscono i beni ambientali e culturali in pure ottiche di mercato, il cittadino viene alienato di un patrimonio che è prima di tutto collettivo e viene trasformato in un mero consumatore. Anche se sono in pochi, oggi, a pensare che il paesaggio non sia un bene culturale e che un parco non vada tutelato né più né meno di come si fa con la Cappella Sistina o con Venezia, siamo arrivati al punto di ipotizzare la privatizzazione anche dei parchi nazionali. Ma a cosa servono un parco naturale o un'area protetta? Semplicemente, migliorano la qualità delle nostre esistenze e, spesso, portano il valore aggiunto di uno sviluppo economico basato su pratiche eco-sostenibili. Un parco conserva la biodiversità del pianeta Terra, una specie di polizza sulla vita della nostra specie, che riuscirà a sopravvivere solo fintanto che saranno garantite varietà biologica e evoluzione naturale. Tutti i giorni godiamo dei servizi che la natura gratuitamente offre senza nemmeno darvi troppo peso, dall'acqua all'aria, al cibo o alla protezione da eventi catastrofici. Ma quando si tratta di garantire un futuro alla natura nessuno ricorda quei servizi e sembra che se ne possa fare a meno, tanto è che si discute se dare o meno alla gestione dei parchi italiani l'equivalente di una tazzina di caffè all'anno per ciascun cittadino. Si tratta di ballon d'essai estivi per «vedere che aria tira»? Può darsi, ma intanto, in tema di natura e paesaggio, è bene agire preventivamente: aver sottovalutato il problema ha solo sconciato il territorio nazionale ai limiti dell'irreparabile.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7527&ID_sezione=&sezione=
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