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Autore Discussione: BARACK OBAMA.  (Letto 42327 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 08, 2009, 04:02:00 pm »

Intervista al New York Times del presidente Usa

"Io socialista? Se il mercato funzionasse, sarei felice di starne fuori"

Obama: "I miei impegni: economia e apertura ai Taliban moderati"

di HELENE COOPER e SHERYL GAY STOLBERG


 Presidente Obama, lei ha affermato che occorrerà parecchio tempo per uscire dall'attuale crisi economica. Può garantire agli americani che l'economia tornerà a crescere in estate? Oppure in autunno? O ancora alla fine di quest'anno?
"Credo che nessuno abbia la sfera di cristallo e possa azzardare previsioni. Stiamo vivendo un difficile processo di alleggerimento del debito nel settore finanziario, non soltanto qui negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, e si tratta di qualcosa che ha ripercussioni enormi per la gente comune. Quello che era iniziato come un problema legato alle banche, ha portato a una forte contrazione del credito, che a sua volta ha implicato sia un calo della domanda dei consumatori, sia un calo della domanda da parte delle aziende. Pertanto, per risolvere le cose occorrerà sicuramente tempo".

"Il nostro compito consiste nel fare un paio di cose fondamentali: la prima è fare investimenti che permettano di "parare il colpo". Il nostro piano di intervento prevede varie misure per l'indennità di disoccupazione, tessere alimentari, aiuti ai vari Stati per non aggravare i licenziamenti. La seconda è rafforzare il sistema finanziario. Proprio questa settimana, a questo proposito abbiamo già approvato alcuni provvedimenti significativi, per esempio abbiamo aperto una linea di credito da mille miliardi di dollari. Ma bisognerà fare di più perché alcune banche zoppicano ancora: dobbiamo rafforzare il loro capitale e far sì che riprendano a erogare prestiti. Dobbiamo in ogni caso essere capaci di distinguere quali banche hanno problemi reali e quali invece hanno di fatto fondamenta solide. E poi occorre occuparsi del problema dell'industria automobilistica... E investire a lungo termine sulla crescita economica, puntando sull'energia, l'educazione e l'assistenza sanitaria".

Le sue prime sei settimane alla Casa Bianca hanno dato alla popolazione un'idea di quali sono le sue priorità di spesa. È davvero socialista, come molti hanno ipotizzato?
"Se dessimo un'occhiata al budget, la risposta sarebbe sicuramente no. A questo proposito potrebbe essere utile fare presente che non è stato durante il mio mandato che abbiamo iniziato a comprare ingenti quote degli istituti bancari. Né è stato durante il mio mandato che abbiamo approvato un nuovo piano di erogazione di farmaci che non richiedono la ricetta senza averne i fondi necessari. Prima che io mi insediassi alla presidenza che c'era già stata un'infusione enorme di soldi dei contribuenti nel sistema finanziario. Io cerco costantemente di far presente alla gente che se al momento del mio insediamento il mercato fosse stato in buone acque, nessuno sarebbe stato più felice di me di rimanerne al di fuori. Il fatto è che invece abbiamo dovuto prendere queste misure straordinarie e intervenire, non perché questa sia la mia propensione ideologica, ma per il grave livello al quale normative sempre più tolleranti e un'assurda propensione al rischio hanno portato le cose, facendo precipitare la crisi".

Passiamo alla politica estera. Attualmente è in corso una revisione completa della politica americana in Afghanistan. Ci può dire se ora come ora gli Stati Uniti stanno vincendo?
"Permettetemi di rispondere così: i nostri soldati stanno facendo un lavoro magnifico in una situazione davvero molto complessa. Ma abbiamo visto tutti come le condizioni in quel Paese si sono deteriorate nell'ultimo paio di anni. I Taliban sono ancora più prepotenti di quanto già non fossero. Nelle regioni meridionali del Paese attaccano come non hanno mai fatto in precedenza. Il governo nazionale non si è ancora saputo guadagnare la fiducia del popolo afgano. Pertanto sarà di cruciale importanza per noi non soltanto arrivare alle elezioni necessarie a stabilizzare la sicurezza, ma anche modificare la nostra politica così che i nostri obiettivi militari, diplomatici e miranti allo sviluppo siano configurati in modo tale che Al Qaeda e gli estremisti che vorrebbero colpirci non trovino in Afghanistan rifugio e protezione per potersi organizzare contro di noi. Al cuore della nuova politica per l'Afghanistan deve esserci una politica per il Pakistan più intelligente. Finché ci saranno per loro zone protette e veri e propri rifugi lungo le aree e le regioni di frontiera che il governo pachistano non può controllare o raggiungere in modo efficace, continueremo ad assistere a una forte vulnerabilità da parte degli afgani. Pertanto è di vitale importanza riuscire a far presa sul governo pachistano e collaborare con esso in modo più efficiente".

Pensa che potrebbe essere utile tendere una mano agli elementi più moderati dei Taliban per cercare di avviarli verso una riconciliazione?
"Non vorrei anticipare niente di quanto è attualmente in corso di verifica per ciò che concerne la politica in Afghanistan. Se pone questa stessa domanda al generale Petraeus, penso che lui sosterrà che parte del successo in Iraq consiste nell'essere riusciti a entrare in contatto con persone che potrebbero definire fondamentalisti islamici, ma che preferiscono lavorare con noi perché sono completamente estranee alle tattiche usate da Al Qaeda. Ebbene, in Afghanistan e in Pakistan potrebbero esserci opportunità analoghe. Ma la situazione in Afghanistan è ancora più complessa. Si tratta infatti di una regione dove i governi sono sempre stati deboli, con una storia tribale fatta di fiera indipendenza. Le tribù sono molte e spesso agiscono con finalità che si sovrappongono... Comprendere come vanno esattamente le cose è una vera e propria sfida".

Ancora una cosa: in tema di rapporti tra le razze condivide il fatto che (come ha detto il ministro della Giustizia Eric Holder, ndt) "siamo una nazione di codardi"?
"Penso che se avessi avuto modo di parlare al mio ministro della Giustizia, avrebbe usato un linguaggio diverso. Il punto che lui voleva sottolineare è che spesso nel nostro Paese proviamo una sorta di disagio a parlare di questioni che riguardano la questione razziale, e che potremmo essere più costruttivi se prendessimo atto fino in fondo del doloroso lascito della schiavitù e della legislazione segregazionista. Ma ci tengo ad aggiungere che abbiamo fatto anche moltissimi progressi, e non dovremmo dimenticarlo. Io non credo che parlare costantemente di questioni razziali sia granché di aiuto per risolvere il problema: questo si risolve rimettendo in sesto l'economia, rimettendo la popolazione al lavoro, assicurandoci che tutti abbiano un'assistenza sanitaria e che tutti i bambini frequentino la scuola. Se facessimo queste cose, probabilmente sapremmo discuterne più proficuamente".

Copyright The New York Times/La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti

(8 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 10, 2009, 11:54:07 am »

ECONOMIA     

Gli appartamenti pignorati dalle banche dopo la crisi dei mutui in vendita a prezzi stracciati: in 1.400 sperano di aggiudicarsi i lotti migliori

Tra rabbia e grandi affari la Grande Mela va all'asta

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI
 

NEW YORK - Domenica sera anche Homer, il più famoso personaggio dei cartoni animati a stelle e strisce, ha perso la casa: pignorata dalla banca dopo che la rata del mutuo era diventata insostenibile, così tutta la famiglia Simpson è finita in un dormitorio per senzatetto. La realtà più dura della crisi è diventata una puntata della serie televisiva più longeva d'America - va in onda da vent'anni - proprio nel giorno in cui a New York sono state assegnate 375 proprietà pignorate, in un'asta spettacolare con quattro battitori a cui hanno partecipato migliaia di persone.

"La disgrazia di un uomo è la fortuna di un altro", recita un detto americano che sembra essere diventato la miglior fotografia di una crisi immobiliare che sembra non toccare mai il fondo. Ma da Manhattan al Wyoming, dalla California alla Florida per ogni famiglia che perde la casa ce n'è un'altra che vede la possibilità di coronare il sogno di una vita pagandolo metà prezzo. In tutto il Paese ogni giorno si tengono aste giudiziarie e tour tra le case pignorate organizzate dalle agenzie immobiliari, solo la Re/Max - una delle compagnie più grandi d'America - ne organizza in sessanta città in tutti cinquanta gli Stati.

L'evento più spettacolare però è stato quello di New York, dove 1.400 compratori hanno affollato la seconda asta organizzata dall'immobiliare californiana Real Estate Disposition, che vista l'enorme affluenza ha dovuto abbandonare la sala d'albergo affittata l'anno scorso e spostarsi al Javits Convention Center, il polo fieristico di Manhattan. In una giornata di delirio e grida sono state vendute tutte le 375 proprietà, la maggior parte delle quali sono state aggiudicate ad un prezzo nettamente inferiore al valore di mercato. La prima casa battuta era una villa di sette stanze e cinque bagni di Roselle, una cittadina del New Jersey a mezz'ora di treno da New York, del valore di 565 mila dollari. La base d'asta era 129 mila dollari ed è stata comprata per 245 mila, meno della metà del suo valore.

Tra i fortunati un muratore trentenne, Carlo Solano, che non avrebbe mai pensato di potersi permettere una casa di proprietà, ma da ieri ne ha una con tre camere da letto e tre bagni: l'ha pagata 350 mila dollari quando solo due anni fa costava 740 mila.
"Non ci posso credere, sto ancora tremando", ripeteva dopo essersela aggiudicata. Alcuni lotti erano quasi regalati: una villa di 190 metri quadrati con sei stanze costruita nel 1861 in un paese a nord dello Stato di New York, Weedsport, è stata comprata per soli 12.500 dollari dalla moglie di un avvocato di Long Island arrivata all'asta in caccia di affari. Ha visto soltanto la foto della proprietà e del terreno che la circonda e ha poi ammesso candidamente di non sapere neppure dove fosse, ma quando ha sentito il prezzo e ha visto che precedente proprietario l'aveva pagata quasi centomila dollari ha alzato il braccio e se l'è conquistata senza pensarci troppo.

Il presidente della compagnia californiana, Robert Friedman, ha raccontato al New York Times che in 19 anni di attività non aveva mai visto una situazione così disastrosa, tanto che organizza anche più di un'asta al giorno in ogni angolo d'America.

Le case d'aste stanno facendo affari d'oro: prendono il 5% di commissione su ogni vendita e il loro giro d'affari è raddoppiato nell'ultimo anno, soprattutto in California, dove solo nella contea di Los Angeles a gennaio ci sono stati 13.581 pignoramenti. "A nessuno piace questa crisi - ha detto Todd Gladis, vicepresidente della compagnia - però crediamo che tutti voi in questa stanza avrete un ruolo nel far girare la situazione trasformando queste proprietà in case abitate". Il grande problema dei pignoramenti è infatti l'incredibile numero di abitazioni rimaste vuote - una su nove in tutti gli Stati Uniti - che stanno cadendo a pezzi per mancanza di manutenzione.

Fuori dalla fiera di New York un gruppo di una ventina di manifestanti protestava ripetendo lo slogan: "L'asta è una vergogna, la colpa è delle banche", con i cartelli che chiedevano perché Washington continui a salvare le banche ma non la gente.

La tragedia della famiglia Simpson però ha avuto il lieto fine: sono potuti tornare nella loro casa grazie al "religiosissimo" dirimpettaio Ned Flanders che prima se l'è aggiudicata all'asta e poi l'ha restituita ai "rumorosissimi" vicini in cambio di un affitto simbolico.

(10 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Luglio 18, 2009, 07:21:17 pm »

Obama ai neri d'America: «Serve una nuova mentalità, non ci sono più scuse»
 
       
 dal nostro corrispondente Anna Guaita


NEW YORK (17 luglio) - Quando fu fondata, nel 1909, a New York, l’Associazione per l'avanzamento delle persone di colore doveva combattere in un mondo in cui i neri erano cittadini di seconda classe, non avevano diritti, vivevano segregati e spesso cadevano vittime di sommari linciaggi se sospettati di qualche crimine. Nella festa per il centenario della sua fondazione, giovedì sera, l’Associazione ha avuto un ospite che ha dimostrato con la sua sola presenza quanto lungo sia stato il cammino compiuto dalla comunità nera americana in questo secolo: sul podio c’era il primo presidente di colore, Barack Obama.

Ma se Obama è venuto fino a New York per tenere uno dei sui discorsi più infiammati, è stato anche attento a non cedere alla tentazione di essere parziale verso i suoi ”fratelli”. Nel suo primo discorso a sfondo razziale da presidente, Obama ha ricordato il sacrificio dei tanti leader che hanno aperto la strada dell’eguaglianza per i neri e li ha ringraziati perché senza di loro anche la sua storia sarebbe stata impossibile, ma ha allo stesso tempo ricordato che la comunità oggi tende a "interiorizzare un senso di limitazione", un modo indiretto per criticarne l’apatia. Ha parlato ai genitori e ai figli, insistendo che bisogna abbracciare "una nuova mentalità", e che i genitori devono spingere i figli a studiare, e i figli non devono sognare solo di diventare campioni di basket o cantanti rap: «Voglio vedervi diventare scienziati e ingegneri, dottori e insegnanti - ha sollecitato - giudici della Corte Suprema e presidenti degli Stati Uniti».

Il presidente ha ammesso che la discriminazione esiste ancora e che i neri sono meno istruiti dei bianchi, che subiscono un tasso di disoccupazione più alto, si ammalano di aids più spesso e finiscono in prigione più frequentemente. Ma ha anche ammonito: «Nessuno ha scritto il vostro destino. Il vostro destino è nelle vostre mani. Non ci sono scuse».

Nei primi mesi della campagna elettorale Obama non aveva ottenuto il sostegno dei neri, che pensavano che la sua candidatura fosse destinata alla sconfitta.
Quasi sottovoce, i principali leader ammettevano anche di non sentirsi ben rappresentati da un uomo di colore che era figlio di un nero nato in Africa e di una bianca del Kansas, che era cresciuto in parte all'estero e che non aveva lottato nelle file del movimento dei diritti civili ma si era formato nelle più esclusive università americane. In poche parole: non lo sentivano come uno di loro. Lui stesso non aveva cercato il sostegno dei leader storici del movimento, per evitare di essere visto dal resto degli elettori come un candidato troppo schierato. E solo nel marzo del 2008 ha affrontato la questione del razzismo, e solo perché spinto dallo scandalo esploso in seguito alle aggressive prese di posizione del reverendo Jeremiah Wright, il predicatore della Chiesa che Obama aveva a lungo frequentato.

Ma oggi il presidente riscuote il sostegno del 93 per cento dei neri, nonostante la sua ferma volontà di parlare della questione del razzismo in termini morali, storici, filosofici e religiosi più che di rivendicazione politica. Obama sembra infatti intenzionato a guidare i suoi "fratelli" con l'esempio più che con la lotta: padre e marito molto affettuoso e impegnato, è diventato un modello per i giovani di colore non solo per la sua carriera ma per i suoi valori personali. Anche nella scelta dei suoi ministri ha voluto dare un esempio: Eric Holder alla Giustizia e Regina Benjamin alla Sanità costituiscono un messaggio chiarissimo, in quanto entrambi persone di alta levatura professionale e morale, con una storia personale edificante e spesso eroica.

Nel discorso a New York, Obama ha fatto ricorso alle cadenze tipiche dei predicatori di colore, e ha interagito con il pubblico come è tradizione nelle chiese nere.
E' raro, anzi senza precedenti, vedere Obama abbracciare lo stile oratorio di Martin Luther King. E' stata una importante concessione storica e stilistica, ma alla fine il messaggio è stato ben diverso da quelli che negli ultimi anni sono provenuti da leader come Jesse Jackson o Al Sharpton: «Non può essere il governo a portare i vostri figli alla Terra Promessa - ha detto Obama - se non siete voi per primi la sera a spegnere la tv e a parlare con loro, ad assumervi la responsabilità di educarli e di curarli».

 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #48 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:32:13 pm »

10/10/2009

Obama, svegliato da mia figlia "Papà, hai vinto"
   
BARACK OBAMA


Non è stato il risveglio che mi aspettavo. Appena avuta la notizia, Malia è entrata in camera e mi ha detto: «Papà, hai vinto il premio Nobel ed è anche il compleanno di Bo!». E Sasha ha aggiunto: «E poi ci sono tre giorni di weekend in arrivo». I bambini sono fantastici per mettere le cose nella giusta prospettiva.

Sono sia sorpreso che onorato dalla decisione del Comitato del Nobel. Siamo chiari: non lo considero un riconoscimento per i miei meriti personali, ma piuttosto una conferma della leadership americana e delle aspirazioni di tutti i popoli. Per essere onesti, non credo di meritare di stare in compagnia di tante figure che hanno vinto il premio in passato - uomini e donne che mi hanno ispirato, e hanno ispirato il mondo intero, attraverso la loro coraggiosa ricerca di pace. Ma so anche che questo premio riflette il tipo di mondo che questi uomini e donne - e tutti gli americani - vogliono costruire, un mondo che dia vita alle promesse della nostra Costituzione. E so che nella storia il Premio Nobel non è stato solo usato per rendere onore a una specifica conquista, ma è stato anche un mezzo per incoraggiare sfide importanti. Ecco perché accetto il premio come chiamata ad agire - una chiamata per tutte le nazioni a condividere le sfide del ventunesimo secolo.

Queste sfide non possono essere sulle spalle di un solo leader o di una sola nazione. Ecco perché il mio governo ha lavorato per creare una nuova era di impegno, in cui tutte le nazioni devono prendersi la loro responsabilità nei confronti del futuro. Non possiamo tollerare un mondo in cui si diffondono armi nucleari e dove il rischio di un olocausto atomico mette a repentaglio la vita delle persone. Ecco perché abbiamo fatto passi concreti verso un mondo senza armi nucleari in cui tutte le nazioni hanno il diritto di usare pacificamente l’energia nucleare, ma hanno anche la responsabilità di dimostrare le loro intenzioni.

Non possiamo accettare la minaccia crescente dei cambiamenti di clima che può danneggiare per sempre il mondo che lasceremo ai nostri figli - creando guerre e carestie, distruggendo le coste e svuotando le città. Ecco perché le nazioni devono accettare la loro parte di responsabilità per cambiare il modo in cui usiamo l’energia.

Non possiamo accettare che le differenze tra popoli definiscano il modo in cui ci vediamo l’un l’altro: dobbiamo cercare un nuovo inizio tra gente di fedi, razze e religioni diverse. Un inizio basato sull’interesse comune e il rispetto comune. Dobbiamo fare la nostra parte per risolvere i conflitti che hanno causato tanto dolore per così tanti anni, e questo sforzo deve includere un impegno che finalmente riconosca a israeliani e palestinesi il diritto di vivere in pace e sicurezza nelle proprie nazioni.

Non possiamo accettare un mondo in cui alla maggior parte della gente siano negate: la possibilità di avere un’istruzione e fare una vita decente; la sicurezza di non dover vivere nella paura della malattia o della violenza, senza speranze per il futuro.

E anche se tentiamo di costruire un mondo in cui i conflitti si risolvano pacificamente e la prosperità sia condivisa, dobbiamo confrontarci con il mondo che conosciamo oggi. Sono il comandante in capo di una nazione responsabile di aver concluso una guerra e che si è confrontata con un avversario spietato che minaccia il popolo americano e i nostri alleati. Sono anche cosciente che stiamo affrontando una crisi economica globale, che ha lasciato milioni di americani senza lavoro. Sono questioni che affronto quotidianamente, ma una parte di questo lavoro non potrà essere conclusa prima della fine della mia presidenza. Una parte, come l’eliminazione delle armi nucleari, non potrà essere finita prima della fine della mia vita. Ma so che queste sfide si possono vincere, se si riconosce che non può farlo una nazione da sola, un popolo da solo. Questo premio non è solo per gli sforzi del mio governo, ma per gli sforzi coraggiosi della gente di tutto il mondo.

Ecco perché questo premio va condiviso con chi combatte per la giustizia e la dignità: con la giovane donna che cammina nelle strade per difendere il suo diritto a essere ascoltata, anche di fronte alla violenza e ai proiettili; con la leader imprigionata in casa sua, perché si rifiuta di abbandonare la lotta per la democrazia; con il soldato che è morto per gli altri e per tutti gli uomini e le donne nel mondo che sacrificano sicurezza e libertà, e a volte le loro vite, per la pace.

Questa è sempre stata la missione dell’America. Ecco perché il mondo ha sempre guardato all’America. Ed ecco perché credo che l’America continuerà a essere una guida.

da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Novembre 21, 2009, 09:05:31 am »

19/11/2009

Risposta di Barack Obama a Yoani Sánchez
   
Presidente Barack Obama: Ti ringrazio per questa opportunità che mi offri per condividere impressioni con te e con i tuoi lettori a Cuba e nel mondo, approfitto per congratularmi per il premio María Moore Cabot della scuola Superiore di Giornalismo della Columbia University che hai ricevuto per aver promosso lo scambio di informazioni nelle Americhe grazie ai tuoi reportage. Mi è dispiaciuto molto che ti abbiano impedito di viaggiare per ricevere personalmente il premio. Il tuo blog offre al mondo uno spaccato reale di vita quotidiana a Cuba. Internet ha offerto a te e ad altri valenti blogger cubani un libero mezzo libero di espressione, da parte mia sostengo gli sforzi collettivi per fare in modo che altri compatrioti possano esprimersi tramite la tecnologia. Il governo e il popolo statunitense è dalla vostra parte, in attesa del giorno in cui tutti i cubani potranno esprimersi liberamente e pubblicamente senza timore di rappresaglie.

Yoani Sánchez: 1. Per molto tempo l’argomento Cuba è stato presente sia nella politica estera degli Stati Uniti, sia tra le preoccupazioni interne, soprattutto per l’esistenza di una grande comunità cubano-americana. Dal suo punto di vista in quale dei due ambiti deve ubicarsi questo tema?
Obama: Tutti i temi di politica estera hanno componenti interne, specialmente quelli che riguardano paesi vicini come Cuba, da dove provengono molti emigranti ormai residenti negli Stati Uniti, e con cui abbiamo una lunga storia di legami. La nostra decisione di proteggere e sostenere la libertà di espressione, i diritti umani e uno stato di diritto democratico tanto nel nostro paese come nel mondo contribuisce a diminuire le differenze tra politica interna ed estera. Inoltre, molti problemi comuni ai nostri paesi, come l’emigrazione, il narcotraffico e il governo dell’economia, sono temi sia interni che esterni. Infine, le relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti devono essere analizzate sia in un contesto domestico che esterno.

Yoani Sánchez: 2. Nel caso che esistesse da parte del suo governo una volontà di porre fine al confronto, pensa di riconoscere il governo di Raúl Castro come unico interlocutore valido per una serie di eventuali colloqui?
Obama: Como ho detto prima, la mia amministrazione è pronta a stabilire rapporti con il governo cubano su diverse problematiche di interesse comune, come abbiamo fatto nei colloqui sul problema migratorio e sulle spedizioni postali dirette. Mi propongo di facilitare anche un maggior contatto con il popolo cubano, specialmente tra famiglie separate, qualcosa ho già fatto con la eliminazione delle restrizioni alle visite familiari e alle rimesse. Vogliamo stabilire rapporti anche con i cubani che vivono fuori dell’ambito governativo, come facciamo in tutto il mondo. È chiaro che la parola del governo non è la sola che conta a Cuba. Approfittiamo di ogni opportunità per interagire con tutti i settori della società cubana e guardiamo a un futuro in cui il governo rifletterà davvero la volontà del popolo cubano.

Yoani Sánchez: 3.
Il governo degli Stati Uniti ha rinunciato all’uso della forza militare, come metodo di risoluzione del confronto?
Obama:
Gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di utilizzare la forza militare a Cuba. Quello che gli Stati Uniti sostengono a Cuba è un maggior rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche ed economiche, oltre alla speranza che il governo risponda alle aspirazioni del suo popolo di sfruttare la democrazia e di poter determinare il futuro di Cuba liberamente. Soltanto i cubani potranno promuovere un cambiamento positivo a Cuba, e speriamo che presto possano esercitare senza limiti queste facoltà.

Yoani Sánchez: 4.
Raúl Castro ha detto pubblicamente di essere disponibile a dialogare su tutti i temi, con il solo requisito del rispetto reciproco e l’uguaglianza delle condizioni. Le sembrano eccessive queste esigenze? Quali sarebbero le condizioni che imporrebbe il suo governo per cominciare un dialogo?
Obama:
Da tempo dico che è ora di applicare una diplomazia diretta e senza condizioni, sia con gli amici che con i nemici. Tuttavia, parlare per il gusto di parlare non mi interessa. Nel caso di Cuba l’uso della diplomazia dovrebbe dare luogo a maggiori opportunità per promuovere i nostri interessi e le libertà del popolo cubano. Abbiamo già iniziato un dialogo, partendo da certi interessi comuni – emigrazione sicura, ordinata e legale e la restaurazione del servizio postale diretto. Si tratta di piccoli passi, ma sono parte importante di un processo per avviare le relazioni tra Stati Uniti e Cuba verso una nuova e più positiva direzione. Nonostante questi passi, per arrivare a un rapporto più normale, siamo ancora in attesa che il governo cubano si attivi in tal senso.

Yoani Sánchez: 5.
Quale partecipazione potrebbero avere i cubani dell’esilio, i gruppi di opposizione interna e l’emergente società civile cubana in questo ipotetico dialogo?
Obama:
Prima di prendere qualunque decisione relativa alla politica pubblica, è imprescindibile ascoltare il maggior numero possibile di voci. È proprio quello che stiamo facendo in relazione a Cuba. Il governo degli Stati Uniti parla regolarmente con gruppi e singole persone dentro e fuori Cuba, che seguono con interesse l’andamento delle nostre relazioni. Molti non sono d’accordo con il governo cubano, molti non sono d’accordo con il governo statunitense e molti altri non si trovano d’accordo tra loro. Su una cosa dobbiamo essere tutti d’accordo: ascoltare le inquietudini e gli interessi dei cubani che vivono sull’isola. Per questo motivo tutto quello che state facendo per far sentire le vostre voci è molto importante - non solo per promuovere la libertà di espressione, ma anche perchè la gente fuori di Cuba possa comprendere meglio la vita, le vicissitudini e le aspirazioni dei cubani che vivono sull’isola.

Yoani Sánchez: 6.
Lei è un uomo che propone lo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione. Malgrado ciò noi cubani continuiamo ad avere molte limitazioni per accedere a Internet. Quanta responsabilità ha l’embargo americano verso Cuba e quanta il governo cubano?
Obama:
La mia amministrazione ha fatto passi importanti per promuovere la corrente di libera informazione proveniente dal popolo cubano e diretta ai cubani, particolarmente mediante le nuove tecnologie. Abbiamo reso possibile espandere le reti di telecomunicazione per accelerare lo scambio tra la gente di Cuba e il mondo esterno. Tutto questo aumenterà i mezzi di comunicazione con cui i cubani potranno comunicare tra loro e con persone fuori di Cuba, avvalendosi, per esempio, di maggiori opportunità grazie alle trasmissioni via satellite e con fibra ottica. Questo non accadrà da un giorno all’altro, né potrà dare risultati effettivi senza un’azione positiva del governo cubano. Ho sentito che il governo cubano ha annunciato programmi per offrire maggiore accesso a Internet negli uffici postali. Seguo questi segnali di cambiamento con interesse e chiedo al governo cubano che consenta l’accesso all’informazione e a Internet senza restrizioni. Vorremmo sapere i programmi del governo sul sostegno a un flusso libero di informazioni da e verso Cuba.

Yoani Sánchez: 7.
Sarebbe disposto a visitare il nostro paese?
Obama:
Non scarterei nessun tipo di azione che favorisse gli interessi degli Stati Uniti e che promuovesse la libertà del popolo cubano. Al tempo stesso, le armi della diplomazia devono essere usate solo dopo minuziosi preparativi e come parte di una strategia chiara. Pregusto il giorno in cui potrò visitare una Cuba nella quale tutto il popolo potrà godere degli stessi diritti e opportunità di cui gode il resto della popolazione mondiale.

(La traduzione in spagnolo è stata preparata dall’ufficio del Presidente Obama. Il documento originale in inglese si può leggere qui: http://www.desdecuba.com/generaciony/wp-content/uploads/2009/11/president-obamas-responsesto-yoani-sanchezsq-uestions.pdf).

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi


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19/11/2009
Sette domande
   
YOANI SANCHEZ
La diplomazia popolare non ha bisogno di memorandum e di dichiarazioni di intenti, si sviluppa direttamente tra i popoli senza passare dalle cancellerie e dai palazzi del governo. Si accompagna a un abbraccio, una stretta di mano o una lunga chiacchierata nella sala di una casa. Senza aspirare ai flash dei reporter né ai grandi titoli di stampa, le persone comuni hanno tirato fuori il mondo da diversi pasticci, evitando un buon numero di guerre, favorendo certe alleanze e alcuni brevi periodi di pace. Di tanto in tanto una persona senza incarichi di governo, né privilegi ufficiali, interpella il potere, pone una domanda che resta senza risposta. Noi cubani ci siamo abituati al fatto che chi sta “in alto” non ha nessuna intenzione di consultarci e di spiegare la disfatta che subirà questa Isola, così simile a una barca che fa acqua da tutte le parti ed è sul punto di naufragare. Stanca che non ci riconoscano nella nostra piccolezza, mi sono decisa a porre sette interrogativi a coloro che secondo me - in questo preciso momento storico - stanno segnando il destino del mio paese.
Il conflitto tra il governo di Cuba e quello degli Stati Uniti, non solo impedisce ai popoli di entrambe le sponde di stabilire relazioni fluide, ma determina anche i passi - o la loro mancanza - che si devono fare per la necessaria trasformazione della nostra società. La propaganda politica ci dice che viviamo in un luogo assediato, di un David che affronta Golia e del “vorace nemico” che è sul punto di scagliarsi contro di noi. Voglio sapere – dalla mia piccolissima posizione di cittadina – come si svilupperà questo confronto, quando il tema propagandistico non pervaderà ogni aspetto della nostra vita. Dopo mesi di tentativi sono riuscita a recapitare un questionario al presidente nordamericano Barack Obama, inserendo alcuni di quei temi che non mi lasciano dormire. Ho già le sue risposte - che pubblicherò domani - e adesso voglio estendere i miei quesiti al presidente cubano Raúl Castro. Sono incognite che nascono dalla mia esperienza personale e riconosco che ognuno dei miei compatrioti potrebbe redigerle in maniera diversa e personale. I dubbi che racchiudono sono così angosciosi che non mi consentono di prevedere come sarà la nazione dove cresceranno i miei figli.

Pubblico di seguito entrambi i questionari: Domande a Raúl Castro, presidente di Cuba:
1. Quali influenze negative potrà avere sulla struttura ideologica della rivoluzione cubana, un eventuale miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti?
2. Lei ha manifestato in diverse occasioni la volontà di dialogare con il governo nordamericano. È solo in questo proposito? Ha dovuto discutere con gli altri membri dell’Ufficio politico per convincerli che il dialogo è necessario? Suo fratello Fidel Castro è d’accordo a porre fine al conflitto tra i due governi?
3. Se lei si trovasse seduto a un tavolo di fronte a Obama, quali sarebbero i tre principali risultati che vorrebbe ottenere dal colloquio? Quali crede che sarebbero i tre risultati che potrebbe ottenere la parte nordamericana?
4. Può elencare i vantaggi concreti che avrebbe il popolo cubano nel presente e nel futuro, se avesse fine questo interminabile confronto tra i due governi?
5. Se la parte nordamericana volesse includere in un giro di negoziati la comunità cubana in esilio, i membri dei partiti di opposizione all’interno dell’Isola e i rappresentanti della società civile, lei accetterebbe la proposta?
6. Pensa che esista una reale possibilità che l’attuale governo degli Stati Uniti opti per l’uso della forza militare contro Cuba?
7. Inviterebbe Obama a visitare Cuba, come dimostrazione di buona volontà?

Domande a Barack Obama, presidente degli Stati Uniti:
1. Per molto tempo l’argomento Cuba è stato presente sia nella politica estera degli Stati Uniti, sia tra le preoccupazioni interne, soprattutto per l’esistenza di una grande comunità cubano-americana. Dal suo punto di vista in quale dei due ambiti deve ubicarsi questo tema?
2. Nel caso che esistesse da parte del suo governo una volontà di porre fine al confronto, pensa di riconoscere il governo di Raúl Castro come unico interlocutore valido per una serie di eventuali colloqui?
3. Il governo degli Stati Uniti ha rinunciato all’uso della forza militare, come metodo di risoluzione del confronto?
4. Raúl Castro ha detto pubblicamente di essere disponibile a dialogare su tutti i temi, con il solo requisito del rispetto reciproco e l’uguaglianza delle condizioni. Le sembrano eccessive queste esigenze? Quali sarebbero le condizioni che imporrebbe il suo governo per cominciare un dialogo?
5. Quale partecipazione potrebbero avere i cubani dell’esilio, i gruppi di opposizione interna e l’emergente società civile cubana in questo ipotetico dialogo?
6. Lei è un uomo che propone lo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione. Malgrado ciò noi cubani continuiamo ad avere molte limitazioni per accedere a Internet. Quanta responsabilità ha l’embargo americano verso Cuba e quanta il governo cubano?
7. Sarebbe disposto a visitare il nostro paese?

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:40:52 pm »

11/12/2009

In battaglia lottando per il bene
   
BARACK OBAMA

Ho ricevuto questo onore con grande gratitudine e grande umiltà. È un riconoscimento che parla alla nostra più alta ispirazione: quella per la quale, nonostante tutta la crudeltà e durezza del mondo, sappiamo che non siamo semplici prigionieri del fato.

Le nostre azioni contano, e possono indirizzare la storia nella direzione della giustizia.

E tuttavia sarei reticente se non riconoscessi la considerevole controversia che la vostra generosa decisione ha generato. In parte, è dovuta al fatto che io sono all’inizio, e non alla fine, del mio impegno sullo scenario mondiale. Paragonato ad alcuni giganti della storia che hanno ricevuto questo premio - Schweitzer e King, Marshall e Mandela - i miei risultati sono minimi. E poi ci sono uomini e donne nel mondo che sono stati incarcerati e percossi perché cercavano giustizia, ci sono quelli che lavorano duramente nelle organizzazioni umanitarie per portare sollievo ai sofferenti, i milioni che, senza riconoscimenti, con la loro calma e il loro coraggio sono fonte di ispirazione anche per i più cinici. Non posso contraddire chi trova che questi uomini e donne - alcuni conosciuti, altri ignoti a tutti tranne a quelli che aiutano - si meritano di gran lunga più di me questo onore.

Ma forse l’argomento più profondo che accompagna la consegna di questo premio riguarda il fatto che io sono il Comandante in capo di una nazione in mezzo a due guerre. Una di queste sta finendo. L’altra è un conflitto che l’America non ha cercato, un conflitto nel quale siamo stati affiancati dalle altre 43 nazioni - Norvegia compresa - nello sforzo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da altri attacchi. Siamo ancora in guerra, e io sono responsabile del dispiegamento di migliaia di giovani in una terra lontana, a combattere.

Nel corso della storia umana, filosofi, religiosi e uomini di Stato hanno cercato di regolare il potere distruttivo della guerra. È emerso il concetto di «guerra giusta», che suggeriva che una guerra è giustificata soltanto quando rispetta alcune precondizioni: se è l’ultima risorsa rimasta o è autodifesa, se l’uso della forza è proporzionato e se, per quanto possibile, i civili sono risparmiati. Per la maggior parte della Storia il concetto di guerra giusta è stato raramente osservato. La capacità degli esseri umani nell’escogitare nuovi modi per uccidersi l’un l’altro si è dimostrata inesauribile. Le guerre tra eserciti cedettero il passo alle guerre tra nazioni, guerre totali in cui la distinzione tra combattenti e civili divenne confusa. Nello spazio di trent’anni, questa carneficina sommerse due volte questo continente.

[...] Dobbiamo riconoscere la dura verità: non potremo sradicare durante la nostra vita i conflitti violenti. Ci saranno momenti in cui le nazioni - individualmente o in concerto con altre - troveranno che l’uso della forza non è solo necessario ma moralmente giustificato. Faccio questa affermazione con in mente quello che Martin Luther King disse in questa stessa cerimonia anni fa: «La violenza non porta mai a una pace permanente. Non risolve i problemi sociali, ne crea solamente di nuovi e più complicati». Come persona che sta qui come diretta conseguenza dell’azione di King durante la sua vita, sono un testimone vivente della forza morale della non violenza. So che non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naïf, nel credo e nelle vite di Gandhi e King.

[...] Per cominciare, credo che tutte le nazioni - forti e deboli - debbano aderire agli standard che regolano l’uso della forza. Io - come ogni capo di Stato - ho il diritto di agire unilateralmente se è necessario a difendere il mio Paese. Tuttavia sono convinto che aderire agli standard rafforza chi lo fa e isola, e indebolisce, chi non lo fa. Il mondo si è stretto al fianco dell’America dopo l’11 settembre, e continua a sostenere i nostri sforzi in Afghanistan, a causa dell’orrore di questi attacchi insensati e riconosce il principio dell’autodifesa. Allo stesso modo, il mondo riconobbe la necessità di contrastare Saddam Hussein quando invase il Kuwait: un consenso che mandò un chiaro messaggio riguardo ai costi di un’aggressione. Al contrario, l’America non può insistere che altri rispettino le regole che essa stessa rifiuta di seguire. Perché quando non le seguiamo, la nostra azione può apparire arbitraria, e indebolire la legittimità di futuri interventi, non importa quanto giustificati.

[...] Da qualche parte, oggi, un giovane dimostrante attende la brutalità del suo governo, ma ha il coraggio di manifestare. Da qualche parte, oggi, una madre, affrontando il fardello della povertà, trova lo stesso il tempo di istruire i suoi bambini, c’è qualcuno che crede che nel mondo crudele ci sia lo stesso posto per i suoi sogni.

Viviamo seguendo il loro esempio. Possiamo riconoscere che l’oppressione sarà sempre con noi, e ugualmente lottare per la giustizia. Possiamo capire che siamo in guerra, e ugualmente lottare per la pace. Possiamo farlo perché è la storia del progresso umano, perché è la speranza di tutto il mondo. E in questo momento di sfide deve essere il nostro lavoro qui sulla Terra.

da lastampa.it
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« Risposta #51 inserito:: Gennaio 07, 2010, 11:50:35 pm »

''Fallimento totale, me ne assumo la responsabilita'''

Obama: l'attacco di Natale ''si poteva prevenire''


07 gennaio, 23:17
 

WASHINGTON - Secondo il presidente americano Barack Obama il mancato attentato di Natale non e' stato un fallimento di un solo individuo o una sola agenzia, ma di tutto il sistema sicurezza.

L'intelligence Usa, ha spiegato Obama in un discorso alla nazione, aveva tutte le informazioni necessarie per prevenirlo, ma l'analisi dei dati e' fallita.

Obama ha dichiarato di volersi assumere la responsabilita' dei fallimenti del sistema sicurezza: ''La responsabilita' finale e' sempre del presidente'', ha detto.

Obama ha ordinato l'immediato rafforzamento del sistema delle liste dei sospetti terroristi.

La priorità ora, secondo il presidente americano, è correggere gli errori del sistema. Non cadremo in una mentalità da 'Paese assediato' - ha affermato - perchè è proprio quello che vogliono i terroristi. L'intelligence indagherà su tutte le minacce.

Obama ha detto inoltre di aver ordinato una revisione del sistema di concessione e di revoca dei visti dopo la scoperta che l'attentatore del volo di Natale aveva un regolare visto di ingresso negli Usa.

da ansa.it
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 20, 2010, 08:55:16 am »

20/3/2010

Il tempo della riforma è adesso
   
BARACK OBAMA

Pubblichiamo il testo del discorso sulla riforma della sanità pronunciato ieri dal Presidente degli Stati Uniti alla George Mason University.

E’ grandioso essere di nuovo qui, alla «George Mason», con un gruppo di veri patrioti. Ho visitato per la prima volta questa università tre anni fa. Allora avevo iniziato da poche settimane la campagna elettorale. Non c'era molto denaro e nemmeno uno staff numeroso. Le nostre quotazioni erano piuttosto basse. Un sacco di gente non sapeva nemmeno come si pronunciasse il mio nome e la maggior parte degli esperti pensava che non valesse nemmeno la pena di tentare.

Ma anche allora avevamo qui alla George Mason un gruppo di studenti convinti che se avessimo lavorato sodo e combattuto a lungo e radunato un gruppo sufficiente di supporter ce l'avremmo fatta a portare il cambiamento a quella città di là dal fiume. E noi credevamo che saremmo riusciti a far funzionare Washington - non per i lobbisti, non per gli interessi particolari, non per i politici, ma per il popolo americano. E il voto sulla riforma sanitaria ha a che fare proprio con questo.

A poche miglia da qui il Congresso è alle ultime fasi di un epocale dibattito sul futuro dell'assicurazione sanitaria. Un confronto che ha infuriato non solo nell'ultimo anno ma per gran parte del secolo scorso. Non riguarda solo il costo della tutela della nostra salute ma il carattere stesso del nostro Paese e la nostra capacità di raccogliere la sfida dei tempi; deciderà se siamo ancora una nazione che offre ai propri cittadini la possibilità di realizzare i propri sogni.

Al cuore di questo dibattito c' è un interrogativo: continueremo ad accettare un sistema sanitario che tutela più le società assicurative che i cittadini americani? Perché se questo voto va male l'industria delle assicurazioni continuerà ad agire senza regole. Continuerà a negare copertura finanziaria e cure alla gente. Ad aumentare vertiginosamente i premi del 40 o del 50 o del 60% come hanno fatto in queste ultime settimane. E' cosa nota. Ed ecco perché i lobbisti delle assicurazioni , mentre vi parlo, stanno imperversando nelle anticamere del Congresso. Ecco perché stanno inondandoci di annunci pubblicitari contro la riforma spendendo milioni di dollari, ecco perché stanno facendo di tutto per uccidere questa legge.

Quindi, l'unica domanda è: dobbiamo permettere a questi interessi particolari di trionfare un'altra volta? O dobbiamo far sì che questo voto rappresenti la vittoria del popolo americano?

Il tempo della riforma è adesso. Dopo un anno di dibattiti ogni proposta è stata messa in tavola, ogni obiezione è stata sollevata. E noi abbiamo fuso le idee migliori, tanto dei democratici come dei repubblicani, in una proposta finale che parte dal sistema assicurativo privato attualmente in vigore. L'industria delle assicurazioni e i suoi supporter al Congresso hanno cercato di farla passare per un cambiamento radicale. Ma non è così, stiamo parlando di una riforma basata sul buon senso.

Se vi piace il dottore che avete potrete tenervelo. Se vi va bene il vostro piano salute lo conserverete. Io infatti non credo che dovremmo dare al governo o alle compagnie assicurative un maggior controllo sulla sanità americana. Credo sia tempo di dare a voi, al popolo americano, maggior controllo sulle vostre polizze.

La proposta al voto al Congresso otterrà questo in tre modi: innanzitutto ponendo fine alle pratiche più scorrette delle compagnie di assicurazioni. Da quest’anno migliaia di americani che in precedenza non avevano alcuna polizza saranno in grado di stipulare un’assicurazione sanitaria - alcuni per la prima volta nella loro vita. Quest'anno alle compagnie assicurative sarà proibito per sempre di negare copertura a bambini che hanno problemi di salute. E sarà loro impedito anche di far cessare il contratto se il cliente si ammala. Tutte queste cose spariranno.

Questa riforma farebbe scendere i costi delle cure mediche per famiglie, imprese e per il governo federale. Per chi stipula l'assicurazione tramite il datore di lavoro, i costi scenderebbero di circa 3.000 dollari a testa. Nel complesso le nostre misure di taglio dei costi ridurrebbero i premi assicurativi per la maggior parte delle persone e farebbero scendere il deficit di oltre un trilione di dollari nei prossimi vent'anni. Non sono miei calcoli. Sono i risparmi elaborati dal Congressional Budget Office, referente bipartisan e indipendente del Congresso.

Ecco, questa è la nostra proposta. Questo è ciò che il Congresso si accinge a votare questo fine settimana. E ovviamente Washington parla di tutto ciò in termini di politica. Che effetto avrà sul voto di mid term di novembre? Come influirà sul voto? Che impatto avrà su democratici e repubblicani?

Lo confesso: non so che ricadute avrà sulla politica. Nessuno può davvero saperlo. Ma so che cosa significherà per il futuro dell’America. Non so che impatto avrà sul voto, ma so che impatto avrà su milioni di americani che hanno bisogno del nostro aiuto. So cosa vorrà dire questa riforma per gente come Leslie Banks, una ragazza madre della Pennsylvania che sta cercando di far finire il college a sua figlia. La sua compagnia assicurativa le ha appena mandato una lettera dicendo che quest’anno hanno intenzione di raddoppiarle i premi. Leslie Banks ha bisogno che passi questa legge.

So cosa vorrà dire questa riforma per Laura Klitzka. Laura pensava di avere sconfitto il suo cancro al seno, ma poi ha scoperto di avere delle metastasi ossee. Lei e il marito hanno la copertura assicurativa ma le spese mediche che hanno dovuto sostenere li hanno indebitati e così lei ora passa il tempo a preoccuparsi quando vorrebbe solo stare con i suoi due figli. Laura Klitzka ha bisogno che passi questa legge.

E so cosa significa questa riforma per Natoma Canfield. Quando la sua assicurazione ha alzato le rate, Natoma ha dovuto disdire la sua polizza anche se era terrorizzata all'idea che una malattia improvvisa la riducesse sul lastrico. E adesso è all'ospedale, malata, e prega di farcela, in qualche modo. Natoma Canfield sa che il tempo della riforma è adesso. Il tempo della riforma è adesso.

Entro pochi giorni una battaglia secolare culminerà in un voto storico. E quando, in passato, abbiamo dovuto affrontare questo tipo di decisioni, la nazione ogni volta ha scelto di allargare la sua promessa a un maggior numero di cittadini. Quando i signori no sostennero che la Sicurezza sociale avrebbe portato al comunismo, gli uomini e le donne del Congresso tennero duro e crearono un programma che ha tolto dalla miseria milioni di persone.

Generazioni fa chi ci ha preceduto decise che i nostri anziani e i nostri poveri non sarebbero dovuti restare senza assistenza sanitaria solo perché non potevano permettersela. Oggi tocca a questa generazione decidere se fare la stessa promessa alle famiglie della classe media, ai piccoli imprenditori e ai giovani, come voi, che sono agli esordi. So che è stato un tragitto difficile. So che sarà un voto duro. So che Washington ha condotto questo dibattito come una gara sportiva. Ma ricordo anche una frase che ho visto su una targa alla Casa Bianca l'altro girono. Si trova nella stessa stanza dove io stavo chiedendo risposte ai dirigenti delle assicurazioni ricevendo solo scuse. E' una frase di Teddy Roosevelt, che per primo chiese una riforma sanitaria, tanti anni fa. Dice: «Combattere in modo determinato per ciò che è giusto è lo sport più nobile che il mondo si possa concedere».

Non so quali saranno le ripercussioni politiche di questa riforma. Ma so che è giusto farla. Teddy Roosevelt lo sapeva. Harry Truman lo sapeva. Il nostro caro amicoTed Kennedy, lo sapeva, più di ogni altro.

E se anche voi credete sia giusto, bene, ho bisogno del vostro aiuto per concludere la battaglia che loro hanno iniziato. Ho bisogno di voi al mio fianco. Proprio come quando venni qui, tre anni fa, all'inizio della nostra campagna, ho bisogno che voi bussiate alle porte e parliate ai vicini e telefoniate e facciate sentire la vostra voce, in modo che vi possano sentire sull'altra riva del fiume. Credo ancora che possiamo fare quello che è giusto fare. Credo ancora che possiamo fare quello che è difficile fare. Il bisogno è grande, l'occasione è qui. E il tempo della riforma è adesso.

da lastampa.it
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 22, 2010, 12:13:13 pm »

Nella notte il "sì" della Camera con 219 favorevoli e 212 contrari

Assistenza medica per 32 milioni di americani che ne erano sprovvisti

"Questo è il vero cambiamento" Passa la riforma sanitaria di Obama

Ora tocca al Senato. Il presidente ha vinto le ultime resistenze degli antiabortisti

dal corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK  -  "Questa non è una riforma radicale ma è una grande riforma. Questo è il vero cambiamento". Così a mezzanotte, ora di Washington, Barack Obama ha salutato lo storico voto della Camera. Un'ora prima con 219 sì contro 212 no, sotto la presidenza di Nancy Pelosi la Camera aveva approvato la sua sofferta riforma sanitaria. E' passata una legge di straordinaria portata, che dopo l'approvazione del Senato estenderà a 32 milioni di americani un'assistenza medica di cui erano finora sprovvisti. E' la fine di un incubo, 14 mesi in cui il presidente si era giocato la sua immagine su questo "cantiere progressista".

Obama ce l'ha fatta su un terreno dove da mezzo secolo tutti i presidenti erano stati sconfitti. Ha affrontato una piaga sociale, che vede l'America molto più indietro degli altri paesi ricchi per la qualità delle cure mediche offerte all'insieme della popolazione. Forse il suo partito pagherà qualche prezzo alle elezioni legislative di novembre, ma i democratici hanno messo la loro firma esclusiva (senza un solo voto repubblicano) su una delle più ambiziose normative sociali del paese. 34 di loro hanno votato contro, per paura di giocarsi la rielezione a novembre, di fronte all'offensiva della destra che dipinge questa legge come la "socializzazione delle cure mediche" e l'anticamera di una bancarotta di Stato. Ma fino all'ultimo le defezioni nel partito di maggioranza hanno rischiato di essere ben più elevate.

La pattuglia più numerosa dei "dissidenti" era quella degli antiabortisti, guidati dal deputato Bart Stupak del Michigan. E' stato decisivo l'intervento di Barack Obama nelle ultimissime ore. Rinviato il suo viaggio in Indonesia, il presidente ha fatto pressione personalmente su ciascuno dei deputati incerti. Agli antiabortisti ha offerto una garanzia speciale: proprio mentre la Camera era riunita per le votazioni, ieri Obama ha firmato un "ordine esecutivo" che rafforza il divieto di usare i fondi federali per rimborsare le spese delle interruzioni di gravidanza. A quel punto Stupak e la pattuglia di antiabortisti sono passati a favore della riforma, garantendo la maggioranza per l'approvazione della legge. L'ultimo voto al Senato è previsto in pochi giorni, ed entro questa settimana Obama dovrebbe firmare la legge.

I primi effetti di questa riforma, in vigore da subito, colpiranno gli abusi più odiosi delle assicurazioni. Sarà vietato alle compagnie assicurative rescindere una polizza quando il paziente si ammala, una pratica fin qui tristemente consueta. Sarà illegale rifiutarsi di assicurare un bambino invocando le sue malattie pre-esistenti.

Diventeranno fuorilegge anche i tetti massimi di spesa, usati dalle assicurazioni per rifiutare i rimborsi oltre un certo ammontare (un costume particolarmente deleterio per i pazienti con patologie gravi che richiedono terapie costose, come il cancro). I genitori avranno il diritto di mantenere nella copertura della propria assicurazione sanitaria i figli fino al compimento del 26esimo anno di età, una norma particolarmente attesa in una fase in cui i giovani stentano a trovare un posto di lavoro (e quindi non hanno accesso all'assicurazione che di solito è connessa a un impiego stabile). Più avanti, entro il 2014, scatteranno gli altri aspetti della riforma, quelli che porteranno 32 milioni di americani ad avere finalmente diritto a un'assistenza. Di questi, la metà circa entreranno sotto la copertura della mutua di Stato per i meno abbienti, il Medicaid. Quest'ultimo garantirà cure gratuite fino alla soglia di 29.000 dollari di reddito annuo lordo, per una famiglia di quattro persone. Altri 16 milioni dovranno invece comprarsi una polizza assicurativa. Ma potranno farlo scegliendo in una nuova Borsa competitiva sorvegliata dallo Stato, e riceveranno sussidi pubblici fino a 6.000 dollari, onde evitare che l'assicurazione gli costi più del 9,5% del loro reddito. Multe salate per le aziende con oltre 50 dipendenti che non offrono l'assicurazione sanitaria ai dipendenti. Perché questo resterà comunque anche dopo la riforma il tratto distintivo del sistema sanitario americano, imperniato sulle assicurazioni private, e ben lontano dai servizi sanitari nazionali dei paesi europei.

Manca, nella riforma, quello che all'origine doveva essere l'aspetto più radicalmente innovativo: la cosiddetta opzione pubblica. Di fronte alle accuse di voler imporre un "socialismo medico di tipo cubano"  -  secondo uno slogan usato dalla destra populista del Tea Party Movement  -  i democratici hanno abbandonato quell'idea, che avrebbe creato un'assicurazione di Stato disponibile a tutti, a costi contenuti, per far concorrenza alle assicurazioni private. In compenso ci sarà una stangata fiscale sulle multinazionali farmaceutiche, per finanziare una parte dei costi della riforma.

Il voto compatto di tutti i repubblicani contro la riforma sancisce la sconfitta di Obama su un terreno: la ricerca di larghe intese bipartisan per fare avanzare le sue riforme. Questo potrebbe danneggiare un presidente che nel novembre 2008 conquistò la Casa Bianca anche grazie ai voti degli indipendenti, l'elettorato fluttuante di centro. Ma la destra è scivolata su posizioni estreme e Obama ha dovuto fare un calcolo diverso: rinunciare a questa riforma avrebbe deluso la base più progressista e militante del partito democratico, spingendola all'astensionismo alle elezioni di novembre. La vittoria alla Camera ha del miracoloso perché appena due mesi fa la riforma sembrava condannata, quando i democratici persero un'elezione cruciale nel seggio senatoriale del Massachusetts che era stato di Ted Kennedy. Proprio le compagnie assicurative hanno fornito a Obama l'opportunità per riprendere l'iniziativa: il rincaro del 39% delle tariffe imposto dal colosso assicurativo Blue Cross in California un mese fa è diventato il simbolo di un sistema iniquo e perverso. Da quell'episodio è cominciata la riscossa di Obama, che ha accusato i repubblicani di essere al servizio di un capitalismo sanitario che accumula profitti speculando sulle sofferenze dei cittadini.
 

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da repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Marzo 22, 2010, 12:17:23 pm »

Obama saluta lo storico voto della Camera sulla riforma sanitaria

"L'America aveva aspettato per cento anni questo momento"

"Siamo ancora un popolo capace di grandi cose"


WASHINGTON -  "Questa notte abbiamo dimostrato al mondo che siamo un popolo ancora capace di grandi cose". Consapevole e orgoglioso, così il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha commentato a caldo l passaggio della riforma sanitaria alla Camera dei rappresentanti. "Il cambiamento - ha detto - non scende dall'alto ma sale dal basso".

Obama, che aveva seguito le fasi del voto alla Casa Bianca insieme ad un gruppo di medici, piccoli imprenditori e sostenitori della riforma da lui proposta, ha a lungo applaudito nel momento in cui la Camera ha raggiunto la quota dei 216 voti necessaria per il passaggio della riforma. Poi, accompagnato dal vicepresidente Joe Biden, in una breve dichiarazione nella East Room della Casa Bianca ha pubblicamente ringraziato la speaker della Camera, Nancy Pelosi, vera artefice del successo, e tutti i deputati impegnati nel voto. "So che non era un voto facile - ha detto - ma sappiate che avete espresso un voto giusto". "Questa notte - ha aggiunto - abbiamo reso possibile ciò che gli scettici dicevano non fosse possibile".

Obama, che ha riservato un ringraziamento speciale a Nancy Pelosi, rivolgendosi ai parlamentari che hanno reso possibile "questo momento storico", ha quindi aggiunto: "Questa non è una riforma radicale, ma è una riforma importante. Questa legge non aggiusta tutto ciò che non funziona nel nostro sistema sanitario, Ma ci muove nella direzione giusta". "Per la prima volta nella storia della nostra Nazione il Congresso ha approvato una riforma complessiva del sistema sanitario. L'America aveva aspettato per cento anni questo momento. Questa notte, grazie a voi, lo abbiamo finalmente raggiunto" ha detto Obama, secondo il quale è questo il vero valore aggiunto del voto di questa notte. "Ciò che ha maggior valore è che la vittoria di questa notte va molto al di là delle leggi e dei numeri" ha detto Obama, ricordando che la riforma avrà effetti diretti su ogni famiglia americana. "E' questo - ha concluso - ciò che intendo per cambiamento".

(22 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 23, 2010, 09:16:42 am »

22/4/2010 (18:20)  - L'AMERICA ALLE PRESE CON LA EXIT STRATEGY E GLI SCANDALI

Obama: "Senza riforma di Wall Street siamo condannati a una nuova crisi"

Il presidente statunitense Barack Obama ha sfidato la Borsa

Il presidente Usa chiede una legge bipartisan per regolare la finanza

NEW YORK

All’ombra di Wall Street, davanti ad alcuni ’Titanì di un’industria che, «con i furiosi sforzi dei suoi lobbisti», sta cercando di mettergli i bastoni tra le ruote, il presidente Barack Obama ha sferrato una controffensiva per convincere l’America che nuove regole della finanza sono indispensabili per salvare il Paese da una seconda Grande Depressione.

«Credo nel potere del libero mercato e in un settore finanziario forte, ma il libero mercato non vuol dire prendere tutto quel che si può, in qualunque modo», ha detto Obama ai 700 invitati a Cooper Union, un’università privata di New York: «Qualcuno a Wall Street si è dimenticato che dietro ogni dollaro investito in Borsa c’è una famiglia che prova a comprarsi la casa, a pagare gli studi, ad aprire un negozio o a mettere da parte per la pensione», ha aggiunto il presidente chiedendo ai banchieri - pochi in sala, e tra questi Lloyd Blankfein di Goldman Sachs, il colosso che la Sec ha messo sul banco degli imputati - di aiutarlo e di aiutare il Congresso a varare la riforma: «Siate con noi, non contro di noi».

Cooper Union è a pochi minuti di metropolitana da Wall Street. Obama, come ha scritto il Daily News, ha parlato ai banchieri «dal ventre della bestia». L’altro tabloid di New York, il New York Post, aveva accolto oggi il presidente con un appello a effetto che evocava le preoccupazioni espresse dal sindaco Michael Bloomberg: «Non uccidere la gallina dalle uova d’oro: per New York, Wall Street è Main Street». La battaglia per le regole dei mercati è diventata la priorità dell’agenda legislativa di Obama dopo la firma della riforma della sanità e mentre mancano sei mesi al voto di metà mandato. «Dobbiamo imparare dalla lezione della crisi per non esser condannati a riviverla», ha messo in guardia il presidente: un testo di riforma è stato approvato alla Camera mentre in Senato la proposta messa a punto in commissione potrebbe arrivare la prossima settimana al dibattito del’aula. Il presidente ha illustrato i cinque capisaldi che, a suo avviso, «devono essere inclusi» in una legge «di buon senso, non ideologica», e che Wall Street non deve temere «a meno che il suo modello di affari sia quello di truffare la gente». Il primo è un sistema che assicuri che «i contribuenti siano protetti nel caso in cui una grande banca cominci a fallire».

Obama chiede poi l’istituzione della cosiddetta ’regola Volcker’ (dal nome dell’ex capo della Fed Paul Volcker) che pone limiti alle dimensioni e ai rischi presi dalle banche, e nuove regole di trasparenza dei derivati e degli «altri complicati prodotti finanziari» che hanno contribuito al crack di Lehman Brothers, portato sull’orlo del collasso Aig e Merrill Lynch e messo Goldman sul banco degli imputati: «Sono legittimi», ma dovranno d’ora in poi esser scambiati alla luce del sole.

Obama ha fatto solo un accenno indiretto a uno dei punti chiave della riforma, la creazione di una agenzia indipendente per la protezione dei consumatori (potenzialmente all’interno della Fed, è un cavallo di battaglia dei democratici liberal) da speculatori che si comportano «come banditi». Ha invece parlato senza riserve della «riforma delle paghe» che dovrebbe dare agli azionisti voce in capitolo su stipendi e bonus dei manager. Per il presidente il discorso è stato una sorta di ritorno a casa, col tono del ’ve l’avevo dettò. Obama aveva parlato nella stessa sala di Cooper Union nel 2008 da candidato alla Casa Bianca e, in quell’occasione, aveva chiesto al Congresso di dare alla Fed maggiori poteri di supervisione sulle grandi istituzioni finanziarie e regole più severe sui capitali e le liquidità del settore: norme integrate nelle proposte di riforma approdate in questi giorni a Capitol Hill.

da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 17, 2010, 06:26:43 pm »

L'EDITORIALE

Frustrazione di un leader

Barack Obama e la crisi Bp difficile da controllare


Un altro viaggio nel Golfo per consolare pescatori, gestori di ristoranti e albergatori: il quarto da quando, otto settimane fa, l'America e la Casa Bianca sono sprofondate nell'incubo nero e appiccicoso dell'«oil spill». Poi il messaggio solenne alla nazione dallo Studio Ovale e, ieri, le «sculacciate presidenziali » in diretta tv ai capi della Bp, costretti ad accantonare in un fondo speciale 20 miliardi di dollari per indennizzare le vittime della «marea nera».

ESASPERATO - Tra coloro che hanno accesso al team di Barack Obama, c'è chi descrive un presidente esasperato e frustrato per l'accavallarsi di problemi enormi che non ha gli strumenti per risolvere: dalla «coda lunga» della grande recessione che si porta dietro una pesantissima disoccupazione destinata a protrasi per molti anni a una catastrofe ambientale nata da un eccesso di fiducia nella tecnologia e da problemi di ingegneria estranei alle competenze di Obama e ai quali il presidente ha faticato per settimane ad appassionarsi. Per non parlare del fronte esterno: la guerra in Afghanistan che ha preso una bruttissima piega, le nuove difficoltà in Iraq, lo stallo con l'Iran, la situazione esplosiva in Palestina. «Potesse mettere indietro le lancette dell'orologio, probabilmente non si ricandiderebbe» dice qualcuno.

SORPASSO - Forse sono solo spifferi, voci dissenzienti che ci sono sempre nelle corti dei potenti, ma non c'è dubbio che Obama sia oggi un presidente e un uomo esasperato: l'alone leggendario, l'entusiasmo della campagna elettorale si sono dissolti da tempo. Il suo carisma era andato in pezzi già durante la battaglia per la sanità. Dopo l'approvazione della riforma, il leader democratico aveva cercato di ricostruirsi un'immagine di «presidente del fare », premendo sul Congresso per un'altra riforma, quella del sistema finanziario. Il disastro della Bp l'ha fatto sprofondare di nuovo in un incubo: un problema sul quale il governo non ha controllo, gli avversari che lo accusano di colpe che non ha, gli amici che lo invitano a non parlare della catastrofe col distacco di un accademico, a mostrare più partecipazione umana al dramma delle vittime dell'onda nera, più rabbia contro Bp. E i sondaggi che, inesorabili, misurano il continuo calo della sua popolarità fino al punto di subire il «sorpasso» di Hillary Clinton.

CORRENTE - A corto di strumenti operativi, il presidente che prometteva cambiamenti epocali viene trascinato da una corrente limacciosa: per adesso cerca solo di evitare di schiantarsi contro gli scogli usando meglio le sue doti dialettiche e la forza simbolica della Casa Bianca. Anche per questo ha scelto di parlare per la prima volta dallo studio ovale, il luogo dal quale Bush si rivolse agli americani dopo l'attacco alle Torri Gemelle e Reagan espresse il dolore di un'intera nazione quando la navetta spaziale «Challenger» si trasformò in una palla di fuoco. Riempiendo il suo discorso di termini militari: mobilitazione, piano di battaglia, assedio, missione nazionale.

CAMBIARE - Ma, alla fine, il cuore del suo messaggio è l'esortazione a cambiare rotta sull'energia, smettendo di puntare sui combustibili fossili. Le norme che dovrebbero incidere su questa realtà sono, però, bloccate al Senato dove i democratici sono divisi e non hanno comunque più la maggioranza qualificata necessaria per andare avanti. Una riforma che, prudentemente, Obama l'altra sera non ha nemmeno citato.

Massimo Gaggi
 
17 giugno 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_17/frustrazione-di-un-leader-editoriale-massimo-gaggi_fbf27f00-79cd-11df-b10c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Giugno 19, 2010, 06:21:21 pm »

Una LETTERA verso il Vertice di Toronto

Obama ai governi del G20: «Priorità è rafforzare l'economia»

Il presidente Usa: «Governi si impegnino sul fronte delle finanze pubbliche senza dimenticare i piani di stimolo»


NEW YORK - «La nostra priorità a Toronto è quella di salvaguardare e rafforzare l'economia mondiale. Dobbiamo agire insieme per rafforzare la ripresa. Dobbiamo impegnarci sul fronte delle finanze pubbliche e dobbiamo completare della riforma della finanza». Lo ha affermato il presidente americano Barack Obama in una lettera inviata ai leader del G20 in vista dell'appuntamento di Toronto del 26 e 27 giugno. Il presidente ha ricordato che una «debolezza significativa» è ancora presente nelle grandi economie e nei Paesi in via di sviluppo. «È fondamentale arrivare ad una ripresa in grado di sostenersi da sola che crei i posti di lavoro di cui la gente ha bisogno», ha scritto Obama. Il presidente ha sottolineato che gli incontri del 25-27 giugno dovranno affrontare il problema della stabilizzazione del debito pubblico senza però dimenticare la cautela nel terminare i programmi di stimolo all’economia, essenziali in periodi di scarsa attività economica.

NUOVA SFIDA - «A Toronto ci incontriamo in un momento di nuova sfida per l'economia globale: dobbiamo agire insieme per rafforzare la ripresa - si legge nella lettera del presidente - Dobbiamo impegnarci a risanare le finanze pubbliche nel medio termine. E dobbiamo completare la riforma del sistema finanziario. La maggiore priorità a Toronto è quella di salvaguardare e rafforzare la ripresa economica: abbiamo lavorato duramente per ripristinare la crescita e non possiamo ora lasciare che perda forza o si fermi. Questo significa che dobbiamo riaffermare la nostra unità di intenti per fornire il sostegno necessario per mantenere forte la crescita economica». Obama mette in evidenza che «una forte e sostenibile ripresa globale deve essere costruita su una domanda mondiale bilanciata. Significative debolezze esistono fra le economie del G20. Sono preoccupato per la debole domanda del settore privato e la continua forte dipendenza sulle esportazioni di alcuni paesi con già ampi surplus commerciali».

RISPONDERE A CALO FIDUCIA - «Nel caso in cui la fiducia nella forza della nostra ripresa economica diminuisca, dobbiamo essere preparati a rispondere velocemente e con la forza necessaria per evitare un rallentamento dell'attività economica», ha scritto ancora Obama. «La nostra capacità di crescere senza gli eccessi che hanno messo le nostre economie a rischio due anni fa richiede che acceleriamo gli sforzi per completare la necessaria riforma finanziaria». Obama sottolinea anche che «risolvere le incertezze in corso sulla trasparenza dei bilanci delle banche e sull'adeguatezza del loro capitale, soprattutto in Europa, aiuterà a ridurre la volatilità dei mercati finanziari e i costi di finanziamento». (Fonte Ansa)


18 giugno 2010
http://www.corriere.it/economia/10_giugno_18/obama-g20_37424604-7ad6-11df-aa33-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 08, 2010, 10:55:18 am »

INTERVISTA AL PRESIDENTE USA

Obama: Turchia a pieno titolo in Europa

«Con Napolitano e Berlusconi rapporto forte, straordinaria l'Italia in Afghanistan»


MILANO - La guerra in Afghanistan, il ruolo dell’Italia nel conflitto che si combatte laggiù, il rapporto con Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi, il nodo dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Sono alcuni dei temi toccati dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama in un’intervista esclusiva a Paolo Valentino del Corriere della Sera.

«Prima di tutto – ha esordito il presidente - voglio dire personalmente quanto sia grato per il contributo italiano in Afghanistan, che considero straordinario. Tengo in altissima considerazione i vostri sacrifici. (…)Entro la metà del prossimo anno dovremmo cominciare la transizione, ma ciò non significa che d’un tratto la nostra presenza scenderà drasticamente. Piuttosto cominceremo a vedere truppe e polizia afghane prendere il nostro posto. (…). Quanto alla Turchia, «noi riteniamo importante – afferma Obama - coltivare forti relazioni con Ankara. Ed è anche la ragione per cui, sebbene non siamo membri dell’Ue, abbiamo sempre espresso l’opinione che sarebbe saggio accettare la Turchia a pieno titolo nell’Unione. Se si sentono considerati non parte della famiglia europea, è naturale che i turchi finiscano per guardare altrove per alleanze e affiliazioni».

E i rapporti con l’Italia, con la sua cultura, con i suoi vertici politici e istituzionali? Il rapporto personale con il presidente Napolitano è veramente speciale come si dice? «Lo trovo una persona ricca di grazia – risponde Obama -. Devo dire che anche con il premier Berlusconi abbiamo sviluppato un rapporto forte. Quando ci incontriamo è sempre un piacere, ridiamo, scherziamo, parliamo di cose concrete. Il premier Berlusconi è stato un grande amico degli Stati Uniti. Il presidente Napolitano l’ho incontrato a Roma e poi di recente qui a Washington. La sua visione di un’Europa forte coincide pienamente con la mia. L’importanza che lui annette al rapporto transatlantico è identica alla mia. In questo senso, l’Italia è fortunata ad avere un ottimo premier e un ottimo presidente».Obama ha anche confessato di avere amato molto da giovane il cinema italiano: Fellini, Antonioni, De Sica. E in letteratura Dante. «Continuo a considerare la regione intorno a Firenze la mia preferita, la luce della Toscana è particolare, conclude il presidente americano».

Il testo integrale dell’intervista sul Corriere della Sera oggi in edicola


08 luglio 2010
http://www.corriere.it/esteri/10_luglio_08/obama-intervista-corriere-edicola_71c9bf26-8a50-11df-966e-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Novembre 10, 2010, 03:19:31 pm »

10/11/2010

Qui ho imparato fede e democrazia

BARACK OBAMA

La terra della mia infanzia è cambiata, ma quello che ho amato dell’Indonesia - lo spirito di tolleranza iscritto anche nella vostra Costituzione e rappresentato dalle vostre moschee, chiese e templi, incarnato nella vostra gente - vive ancora.

La religione è, accanto alla democrazia e allo sviluppo, cruciale per la storia indonesiana. L’Indonesia è un luogo dove la gente venera Dio in tanti modi diversi, ma è anche la terra della più numerosa comunità musulmana del mondo, una realtà che ho imparato da ragazzo ascoltando il richiamo alla preghiera che risuonava per Giakarta. Ma come gli individui non sono definiti solo dalla loro religione, l’Indonesia è qualcosa di più di una maggioranza musulmana.

Le relazioni tra gli Usa e le comunità musulmane per anni sono state difficili. Da presidente, ho considerato una priorità cominciare a riparare, e al Cairo, nel giugno 2009, ho invocato un nuovo inizio tra gli Usa e i musulmani in tutto il mondo, un inizio che ci permettesse di andare oltre le differenze. Nessun discorso da solo può cancellare anni di diffidenza. Ma credo che abbiamo una scelta. Possiamo scegliere di venire definiti dalle nostre differenze e andare verso un futuro di sospetto e diffidenza. Oppure possiamo scegliere di lavorare duramente per creare un terreno comune e impegnarci per il progresso. E vi posso promettere che gli Usa non abbandonano l’idea del progresso umano. È ciò che siamo. È ciò che abbiamo fatto. È ciò che faremo.

Nei 17 mesi trascorsi dal discorso al Cairo abbiamo fatto qualche progresso, ma resta ancora molto lavoro da fare. Civili innocenti in America, Indonesia e nel resto del mondo sono ancora bersaglio di estremisti. L’America non è, e non sarà mai, in guerra con l’Islam. Ma tutti insieme dobbiamo sconfiggere Al Qaeda e i suoi seguaci, che non hanno diritto di dichiararsi leader di nessuna religione, meno che mai di una grande religione mondiale come l’Islam.

In Afghanistan, continuiamo a lavorare con una coalizione di nazioni per dare al governo afghano la possibilità di avere un futuro sicuro. Abbiamo fatto progressi su uno dei nostri impegni maggiori, far finire la guerra in Iraq. In Medio Oriente, ci sono state false partenze e retromarce, ma siamo stati tenaci nel perseguire la pace. Non ci devono essere illusioni: la pace e la sicurezza non arriveranno facilmente. Ma non ci devono essere nemmeno dubbi: non risparmieremo nessuno sforzo per raggiungere il risultato, due Stati che vivono accanto in pace e sicurezza.

La posta in gioco è alta perché il nostro mondo si fa sempre più piccolo, e le forze che ci collegano aprono nuove opportunità, ma rendono anche più potenti coloro che vorrebbero far deragliare il progresso. In Indonesia, in un arcipelago che contiene alcune delle più belle creazioni di Dio, in isole che sorgono da un oceano che porta il nome di Pacifico, la gente ha scelto di pregare Dio secondo la propria volontà. L’Islam prospera, ma non a danno di altre religioni. Lo sviluppo viene rafforzato da una democrazia emergente.

Non significa che l’Indonesia non abbia difetti. Nessun Paese ne è privo. Ma qui si trova l’abilità a gettare ponti sulle divisioni di razza e religione, il talento di vedere se stessi in tutti gli altri. Bambino di una razza diversa da un Paese lontano, trovai questo spirito nel saluto che ricevetti arrivando qui: Selamat Datang. Oggi, visitando una moschea, da cristiano, l’ho ritrovato nelle parole di un leader che, interrogato in merito, ha risposto: «Anche i musulmani possono entrare nelle chiese. Siamo tutti seguaci di Dio».

Questa scintilla di divino è in tutti noi. Non possiamo arrenderci al cinismo e alla disperazione. Il passato dell’Indonesia e dell’America ci dice che la storia è dal lato del progresso umano; che l’unità è più potente delle divisioni; e che gli abitanti di questo mondo possono vivere insieme in pace. Che le nostre due nazioni possano cooperare, con fede e determinazione, per condividere queste verità con tutta l’umanità.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8063&ID_sezione=&sezione=
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