LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 07:52:37 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2
  Stampa  
Autore Discussione: POCO LETTI (ARCHIVIO)  (Letto 24009 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Luglio 05, 2007, 12:18:47 am »

Via Langer o via Craxi, le strade della politica

Toni Jop


Ma guarda: se si vuole intitolare una strada a Craxi non c’è problema, se invece, come si è visto a Bolzano, si intende marcare una via con una dedica ad Alexander Langer si rischia di andare a sbattere contro uno scalino imprevisto. Vogliono che la storia sia ricordata come piace a loro mentre per noi invocano un Alzheimer che, se non ci agitiamo, male non fa. Tanto, suggeriscono, il più pulito ha la rogna: vogliamo capirlo sì o no? No che non vogliamo, ma senza rabbia, senza rancore. Con lo stesso stile con il quale - tornando al caso della strada bolzanina dedicata a Langer, che mi fu amico per lunghi anni - vorrei spendere parole in controtendenza rispetto ai commenti radicati anche nel più benevolo punto di vista. Il bersaglio fin qui preso di mira dalla cronaca, per iniziare questa laboriosa risalita di sensi. Il consigliere comunale della Volkspartei che ha posto il veto sulla dedica della strada ad Alex Langer. Ha detto di no, ha manifestato ostilità nei confronti della figura politica che la proposta intendeva celebrare. Ha anche motivato formalmente la sua antipatica posizione, sostenendo che il suo cattolicesimo gli impediva di dedicare una strada a un uomo morto di suicidio. Una goffa pezza. Azione esecrabile, come si dice, per aver negato un gesto che appartiene in fondo al sacro campo dell'umana pietà, e anche per quella pezza d'appoggio. Il quadro politico si è schierato, con accenti diversi e in tempi diversi, in difesa del primato non dichiarato della «pietas» ed è riuscito a rendere inoffensivo il veto nonché a insonorizzare molto presto la cultura politica che quella obiezione rendeva esplicita. La questione, a questo punto, è stabilire se il «no» del rappresentante del grande partito di raccolta sudtirolese, sia stato il frutto di un bizzarro imbarbarimento privato, oppure l'iceberg di una cultura di ghiaccio che ha governato la separazione etnica e la soddisfazione corporativa dei singoli gruppi linguistici nel corso di questi lunghi anni.

In altre parole, conviene sapere se siamo di fronte a una responsabilità individuale oppure collettiva, meglio ancora, se l'atteggiamento manifestato da quel pezzo di Volkspartei in questa occasione sia coerente o meno con i passati comportamenti messi in campo non solo dalla Svp ma anche dagli altri partiti che si occupano di amministrare la serenità del gruppo italiano. Mentre Langer era vivo, ciò che diceva e faceva dispiaceva al cosiddetto «quadro politico», - leggere le cronache di allora per credere - con alcune rare e censurate eccezioni. Si era meritato dalla Svp l'appellativo infamante di «traditore» per aver sostenuto, lui di lingua tedesca, che la «proporzionale» - strumento di governo che aveva ed ha l'obiettivo di «risarcire», nella divisione delle risorse pubbliche, il gruppo di lingua tedesca - veniva applicata oltrepassando i principi costituzionali. Per lo stesso motivo, aveva anche lottato con forza contro il censimento etnico nominale che aveva il potere di incarognire e in alcuni casi di rendere opportunistica la scelta di appartenenza al gruppo linguistico tedesco. Langer non aveva solo messo in discussione il partito di raccolta di lingua tedesca; anche i partiti di lingua italiana dell'«arco costituzionale» venivano posti in mora da questa critica fondamentale: era una mina piazzata sotto i cordoni delle soggezione che legavano a filo doppio questi ultimi al potere della Svp. In fondo, a loro andava bene così: ciascuno si limitava ad amministrare il suo pezzetto di elettorato italiano sulla base della accettazione di una rigorosa separazione etnica alla quale la Volskpartei teneva più di ogni altra cosa. In cambio ne ricevevano un conferimento certo di risorse e la possibilità di sedere accanto alla Svp degni della sua considerazione come formali interlocutori del dibattito politico. Attaccare l'Svp, allora, significava attaccare il perno dell'intero quadro di riferimento, il soggetto che governava distribuendo legittimità politiche così come la Chiesa di qualche secolo fa distribuiva indulgenze.

Che lo facesse un «tedesco» era intollerabile, per questo su Langer vivo fu posto un primo veto: non doveva esistere e se qualcosa trapelava di questa esistenza negata era comunque degno di essere liquidato con una battuta sarcastica, niente di più. In consiglio provinciale, Alexander Langer era una presenza destabilizzante alla quale Silvius Magnano - leader morale e politico della Volkspartei e del governo - non rivolgeva mai la parola; ma fuori dal Consiglio, i partiti di lingua italiana lo vedevano come un pericolo incombente; persino il vecchio Pci-Kpi per lunghi anni sottoscrisse nei suoi confronti un ostracismo tenace e preferì leggere il movimento che Langer animava come un fenomeno di destra da seguire facendo appello a quella vigilanza che si attivava solo nei confronti delle minacce fondamentali della libertà. Vietato parlare con Langer, vietato riconoscerlo come interlocutore politico, vietato accettare la sua critica istituzionale, vietato stringere la mano alla cultura dei Verdi Alternativi che lui rappresentava. Nonostante la forza crescente di questo movimento interetnico, nonostante il credito europeo di Langer come uomo di pace e dei confini aumentasse di anno in anno, da una crisi internazionale all'altra. Gli impedirono di candidarsi come sindaco di Bolzano, per il semplice fatto che lo privarono dei diritti di cittadinanza passivi poiché si era rifiutato di dichiararsi questo o quello in un censimento nominale che lui aveva giudicato ingiusto e ostile alla cultura dello scambio.

Si uccise da lì a poco, schiantato dai suoi problemi psicologici e da questo ennesimo segno di rifiuto che lo aveva posto al di fuori della società sudtirolese, nonostante l'incrollabile tenacia con cui aveva tentato di farsi ascoltare, di far passare il senso delle sue ragioni. Perché, questo non lo dice nessuno, Alex amava la sua terra di un amore innamorato che chiedeva conferme, ricevute di ritorno mai arrivate. Gli rispose l'Alta Corte affermando che aveva subito un gravissimo torto: la decisione di impedirgli la corsa alle elezioni era incostituzionale. Peccato che nel frattempo se ne fosse andato dove la posta non arriva. Quando decise di togliersi la vita, Langer era, con Messner, il sudtirolese più famoso nel mondo, e non perché avesse scalato il palazzo della Provincia ma perché era diventato uno dei pochi intellettuali europei che avevano fatto della costruzione della pace una professione. Tuttavia, il ghiaccio non si era sciolto neppure dopo la sua morte: non ricordiamo iniziative pubbliche del Consiglio provinciale di Bolzano per ricordare la sua figura, per celebrarne la cultura e anche il centrosinistra di ora, pur promuovendo il via libera alla intitolazione della strada, lo ha fatto con compitezza doverosa più che con convinzione appassionata: non si trattava di dedicare una strada a Langer ma di restituirgli finalmente il riconoscimento che la sua terra gli ha negato in vita.

Ecco perché il mio più grande disagio in questa vicenda è venuto più dalla ipocrisia che ha recitato un quadro politicamente corretto piuttosto che dalla sciocca, impolitica opposizione espressa da un consigliere colpevole di non aver capito come i tempi stessero cambiando. La targa di Langer sta ora nascosta in un angolo di periferia della sua Bolzano. Ma noi, che sappiamo la storia per averla vissuta senza pregiudizi, abbiamo pazienza: verrà il momento in cui questa bellissima terra troverà il coraggio di aprire gli occhi.

Pubblicato il: 04.07.07
Modificato il: 04.07.07 alle ore 13.33   
© l'Unità.
« Ultima modifica: Gennaio 31, 2008, 05:12:18 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Luglio 08, 2007, 11:58:26 am »

SALUTE

PSICHE
Se il malato è immaginario
di Simona Argentieri*
 


La medicina preventiva è una grande conquista.

Benvengano dunque tutte le iniziative che incoraggiano i cittadini a indagare sui possibili segni premonitori di malattia: dai danni respiratori dei fumatori al tumore al seno delle donne. Peccato però che non sia possibile prevenire il subdolo fenomeno correlato per cui ad affollare gli ambulatori deputati alla diagnosi precoce non sono i veri pazienti a rischio, ma gli ipocondriaci. Costoro sono perennemene assillati dall'idea di avere qualche grave affezione morbosa; se entrano in contatto con un malato, o anche se solo ne hanno notizia alla lontana, subito sentono gli stessi sintomi e pretendono le più minuziose indagini specialistiche. Apparentemente sono dei pazienti ideali, scrupolosi e collaborativi; spesso hanno addirittura una sofisticata, seppure ovviamente superficiale competenza, tale da rivaleggiare con i medici, ai quali vengono così fornite sottili esche diagnostiche. Ma ben presto si rivela il loro gioco maligno, il cui scopo inconscio è svalutare la capacità dei dottori e dimostrarne l'inadeguatezza. Il medico, per parte sua, considera i malati immaginari un'ineluttabile molestia e una perdita di tempo; ma non li può liquidare prima di avere escluso che un granellino di verità ci possa essere nelle loro pressanti richieste di cura.

In maggioranza, gli ipocondriaci sono maschi, più propensi - si dice - a spostare sulla concretezza del corpo le inquietudini profonde. Ma io penso piuttosto che le donne trasferiscano le ansie ipocondriache sui figli, vissuti in modo ambivalente come parte amata/odiata di sé, che tormentano e fanno tormentare mentre pretendono di proteggerli.

Gli ipocondriaci assillano i medici. Il paradosso è che talora si affannano intorno a un male fittizio, mentre negano qualche altro sintomo davvero preoccupante. Il meccanismo inconscio è quello di angosciarsi preliminarmente, per poi godere di una tregua dall'ansia, e quindi ricominciare cambiando il sintomo e magari il medico, ma non il meccanismo. Spostando l'angoscia su un qualche malanno immaginario - terribile ma eccezionale - che viene di volta in volta scongiurato, riescono a rimandare il vero problema: la consapevolezza di essere mortali.

*medico psicoanalista, membro delll'Associazione Italiana di Psicoanalisi e dell'International Psycho-Analytical Association


da espressonline
« Ultima modifica: Gennaio 31, 2008, 04:21:28 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Luglio 24, 2007, 10:32:51 am »

2007-07-24 09:08

ANCHE BIBITE LIGHT AUMENTANO RISCHI PER IL CUORE


 ROMA - Per i numerosi fan delle bibite light sarà un duro colpo: secondo uno studio pubblicato da Circulation, la rivista dell'American Heart Association, consumare una o più soft drink al giorno, anche senza zucchero, aumenta il rischio di avere problemi cardiovascolari. I ricercatori dell'università di Boston hanno studiato 9mila persone di mezza età per quattro anni.

All'inizio dello studio, quelli che consumavano una o più bibite al giorno, sia light che normali, hanno mostrato un aumento del 48% della prevalenza di sindrome metabolica, un insieme di fattori (obesità, pressione alta, bassi livelli di colesterolo 'buono' ed altri) legati al rischio di diabete e problemi cardiaci. Dopo quattro anni, i partecipanti allo studio che non avevano sindrome metabolica all'inizio, hanno mostrato un aumento del rischio di svilupparla del 44% se erano consumatori abituali di soft drink.

Un'analisi limitata ai consumatori abituali, cioé a persone che dichiaravano di bere bibite almeno una volta al giorno, ha mostrato una percentuale di rischio maggiore fino al 60%. "Siamo stati molto colpiti dal fatto che non c'é nessuna differenza se nella dieta ci sono bibite con o senza zucchero - ha commentato Ramachandran Vasan, che ha coordinato lo studio - i risultati non sembrano essere influenzati dal resto della dieta dei soggetti, perché abbiamo tenuto conto nell'analisi anche di tutti i fattori alimentari".

Sulle spiegazioni per questo fenomeno non ci sono teorie universalmente accettate: secondo gli autori un ruolo potrebbe averlo il fatto che se si consumano liquidi non scatta il meccanismo di compensazione secondo cui, ad esempio, dopo un pasto abbondante se ne fa uno più scarso. 

da Ansa.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Luglio 24, 2007, 05:56:37 pm »

Ovviamente, anche se aiuta, non può dare garanzie

Aids: prevenzione «chirurgica»

La tecnica utilizzata fin nell’Antico Egitto, può ridurre del 60 per cento le infezioni.

Può essere utile nei Paesi del terzo mondo 
Dal nostro inviato

SYDNEY – La circoncisione riduce del 60 per cento il rischio di infettarsi con il virus dell’Aids negli uomini giovani: più o meno la stessa efficacia di un vaccino (che, comunque, non esiste ancora). «E’ una delle scoperte importanti dell’anno – ha detto l’americano Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, massimo esperto mondiale dell’Aids e consigliere del Presidente Bush su questi temi al congresso dell’International Aids Society in corso a Sydney. –Adesso dobbiamo rendere accessibile al mondo questi metodi di prevenzione la cui efficacia è ormai dimostrata». L’utilità della circoncisione per gli uomini è stata documentata da una serie di ricerche condotte in Kenia e in Uganda. Attualmente è in corso , sempre in Uganda , un altro studio che ha l’obiettivo di valutare l’impatto di questa tecnica sulla prevenzione dell’infezione nelle partner donne e i risultati saranno disponibili alla fine del 2007.

EBREI E MUSULMANI- La maggior parte degli uomini non è circoncisa, ma lo sono tutti i musulmani e gli ebrei. La tecnica ha origine nell’Antico Egitto e la prova più antica si ritrova in una tomba della Sesta Dinastia (2345-2181 a.C.) dove un dipinto mostra il rito eseguito su un uomo in piedi. Greci e Romani, invece, non si sottoponevano a questo intervento e agli uomini circoncisi non era permesso gareggiare alle Olimpiadi. La Genesi colloca l’origine del rito della circoncisione fra gli ebrei all’epoca di Abramo, attorno al 2000 a.C.. Uno scrittore ebreo del primo secolo sostiene che la circoncisione può avere numerosi vantaggi nel campo della salute, della pulizia in generale, della fertilità e come simbolo «della eliminazione di tutti i piaceri eccessivi e superflui». La circoncisione non religiosa, almeno nei Paesi anglosassoni, cominciò a diffondersi nel XIX secolo in un clima di paure che riguardavano soprattutto la masturbazione. Poi la maggior parte di questi paesi l’abbandonò a partire dagli anni Cinquanta, tranne gli Stati Uniti dove ancora il 60 per cento dei neonati è circonciso.

PORTA D’INGRESSO - Fin dal 1986, numerosi studi avevano dimostrato che la maggior parte degli uomini dell’Africa dell’est e del Sud dove la diffusione dell’Aids era molto elevata, non erano circoncisi. Un altro studio, che metteva a confronto indiani di religione induista (non circoncisi) e indiani di religione musulmana (circoncisi) , aveva evidenziato un maggiore rischio di infettarsi per i primi rispetto ai secondi, a parità di abitudini sessuali. Si è pensato allora che la circoncisione potesse ridurre il rischio grazie al fatto che viene asportata una parte di pelle che contiene le cosiddette isole di Langherans, cellule che costituiscono un bersaglio per il virus dell’Aids: durante il rapporto questo strato di pelle si ritrae e queste cellule sono esposte ai fluidi del partner eventualmente infetto.

SICUREZZA - «Il 30 per cento della popolazione maschile mondiale è circoncisa – ha ricordato Robert Bailey professore di Epidemiologia a Chicago durante il suo intervento al congresso . – In Africa lo sono il 67 per cento». Basandosi su queste cifre, Bailey ritiene che milioni di nuove infezioni potrebbero essere evitate grazie alla diffusione di questa tecnica, soprattutto nelle aree a alta diffusione della malattia. Esperti dell’Unaids, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’Aids sottolineano, comunque, che la circoncisione riduce il rischio, ma non lo elimina completamente e ribadisce la necessità di una corretta informazione alla popolazione. Rimane il problema della sicurezza dell’intervento. Attualmente la maggior parte delle circoncisioni al mondo sono praticate da non medici e la procedura può comportare infezioni, sanguinamenti e danni al pene. Una diffusione di questa pratica deve quindi prevedere l’addestramento del personale, attrezzature chirurgiche e una assistenza adeguata. Tutto da organizzare soprattutto nei Paesi più poveri.

Adriana Bazzi
24 luglio 2007


------------

L'esperto dell'Iss: «A livello di prevenzione individuale le strategie però non devono cambiare: condom necessario»

A livello individuale non cambia niente

«Questi studi danno maggiore consistenza a un'ipotesi già nota» commenta Gianni Rezza, direttore del laboratorio di epidemiologia delle malattie infettive dell'Istituto Superiore della Sanità. « E sono importanti in termini di "grandi numeri", ma molto meno a livello indviduale».
«Riuscire a ridurre la diffusione del virus in grandi popolazioni in cui non si riesce a introdurre altre forme di protezione è molto importante, perchè può abbassare e rallentare in modo drastico la circolazione del virus, ma se trasferiamo la stessa riduzione su scala personale le cose cambiano drasticamente perchè si tratta di una riduzione che non fornisce ovviamente alcuna garanzia».
Il preservativo, insomma rimane indispensabile per proteggersi.
«I metodi di barriera classici, come il preservativo, rimangono irrinunciabili, anche per chii è circonciso, in caso di comportamenti a rischio. Per fare un'esempio» conclude l'esperto, «chi se la sentirebbe di attraversare una strada bendato sapendo che c'è una probabilità su due che passi di lì un'automobile a 100 all'ora proprio in quel momento?».

l.r.

 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Luglio 25, 2007, 05:54:45 pm »

I bambini israeliani sono i meno timidi: all'altro estremo i giapponesi

Il segreto della timidezza

La paura degli altri dipende in gran parte dall'ambiente.

Decisiva la famiglia ma anche la cultura del popolo cui si appartiene


STATI UNITI - La timidezza è uno degli stati emotivi più comuni e più misteriosi al tempo stesso. Tutti o quasi tutti noi l'abbiamo provata almeno qualche volta e, secondo alcuni studi elaborati da istituti statunitensi specializzati come il californiano Shyness Institute, riguarda davvero una grande fetta della popolazione. Il 50 per cento degli americani intervistati nel 2000 ha dichiarato di soffrire di timidezza cronica, un dato in aumento rispetto al 40 per cento registrato nel 1970. Un altro 40 per cento dichiara di essere stato timido e di aver superato il problema. Il 15 per cento dice di soffrire di timidezza solo in determinate occasioni. Solo un fortunato ma sparuto 5 per cento sostiene invece di non aver mai conosciuto questa sensazione.

LE CAUSE - Anche se il problema è noto, molto meno chiare sono le cause e i rimedi. Il dibattito sull'origine della timidezza è ancora aperto, ma l'ipotesi più accreditata ultimamente è che si tratti di una mescolanza tra genetica e ambiente familiare. In altre parole si può nascere con una predisposizione innata ma lo sviluppo in età giovanile di una vera timidezza o meno dipende soprattutto dai genitori e dalla cultura del Paese in cui si vive. Si sono rilevate per esempio anche notevoli differenze tra le popolazioni: i bambini israeliani sono i più fiduciosi e aperti, quelli giapponesi e di Taiwan i più timidi. In questo caso il fattore decisivo è la cultura generale di un popolo. Le società individualistiche sembra che favoriscano l'espressione personale, e quindi il superamento della timidezza più delle altre.

GRANDI E TIMIDI - La famiglia torna al centro dell'attenzione. Genitori ansiosi e stressati possono esasperare le inclinazioni del neonato e creare un bambino timido, che non prova piacere ma paura al contatto con gli altri. Se poi la timidezza sopravviene nella vita di un giovane o di un adulto, di sicuro la genetica non c'entra. Secondo Bernardo Carducci, direttore dello Shyness Research Institute dell'Università dell'Indiana, intervistato dal Times, dire che una persona nasce timida è un controsenso, poiché è una sensazione correlata al senso di sé, che l'essere umano sviluppa solo dopo i 18 mesi. Ad essere più precisi, dipende da tre caratteristiche che vanno oltre la normalità: un'eccessiva auto consapevolezza, una valutazione negativa di sé e una forte preoccupazione per se stessi. Tutto questo fa sì che il timido si senta sempre sotto osservazione e non riesca ad agire in modo naturale; sia, paradossalmente, troppo concentrato su di sé per essere socievole.

Francesca Martino
24 luglio 2007
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Luglio 27, 2007, 09:46:15 pm »

NEWS
27/7/2007
 
Paese che vai "bugiardino" che trovi
 

MILANO
Un antistaminico in Spagna e Italia non interferisce con la guida dell’auto (se assunto alle dosi consigliate); in Belgio sì, e in Portogallo provoca sonnolenza. Anche gli effetti del Cialis cambiano a seconda del Paese in cui lo si assume: ai belgi non causa perdita temporanea o permanente della vista, problemi di fertilità e cerebro-vascolari, tutti effetti indicati invece se il farmaco è venduto a consumatori italiani, spagnoli o portoghesi.

Questi alcuni dei risultati dell’inchiesta che Altroconsumo ha condotto sui foglietti illustrativi di 18 farmaci tra i più venduti in quattro Paesi d’Europa. I medicinali coinvolti nell’indagine sono prodotti di vario tipo, dai lassativi agli sciroppi per la tosse, dagli antistaminici ai contraccettivi, venduti tutti con lo stesso nome.

L’associazione sottolinea che lettura «fa emergere indicazioni differenti per gli stessi medicinali in Paesi diversi, oltre che carenze di chiarezza. Un’occasione persa per fare arrivare ai consumatori informazioni univoche, chiare e utili per l’assunzione del prodotto, come gli effetti indesiderati, le interazioni con altri farmaci, le dosi di assunzione».

Da un’indagine parallela di Altroconsumo sul comportamento di circa 10 mila pazienti nei quattro Paesi europei (di cui 2.200 italiani), emerge che circa il 90% legge l’intero foglietto se acquista il farmaco per la prima volta.

Qualche altro esempio di differenze sulle precauzioni d’uso: in Portogallo l’antidolorifico Fastum Gel può essere usato in gravidanza o durante l’allattamento, in Italia e Belgio è sconsigliato; in Spagna nessun accenno a questa voce. L’età minima per prendere l’Aspirina è 16 anni nel nostro Paese e in Spagna; in Belgio e Portogallo scende a 12 anni. Arbitrarietà verso i bambini a seconda della latitudine anche per il lassativo Dulcolax: In Italia e Spagna l’uso sotto i 10 anni deve avvenire dietro parere del medico, nessuna specifica sull’età nel foglietti in Belgio e Portogallo.

L’ansiolitico Xanax non ha effetti collaterali per i pazienti in Portogallo e Belgio. Anche le dosi consigliate sono soggette a variazione senza nessun motivo: Inderal, un medicinale contro l’ipertensione, ha una dose massima giornaliera di 320 mg in Italia e Belgio, dose che raddoppia (640 mg) nei Paesi della penisola iberica.

Se si analizza il panorama del mercato italiano, dai foglietti illustrativi dei 18 farmaci venduti nel nostro Paese emergono carenze sulle istruzioni di utilizzo corretto (in 10 manca la durata massima del trattamento), sulle precauzioni sull’assunzione temporanea di alcool (presenti solo in 6 su 18). In nessuno dei foglietti compare un numero di telefono da contattare in caso di insorgenza di problemi. Una spia di scarsa attenzione alla farmacovigilanza.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Luglio 29, 2007, 06:56:21 pm »

NEWS

29/7/2007 - UNO STUDIO FRANCESE LANCIA L'ALLARME
 
"L'abitacolo? Una camera a gas"
 
«Seduti al posto di guida si è esposti a inquinamento di un pedone sul marciapiede»
 
GIULIO MANGANO
 

ROUEN
Può sorprendere scoprirlo, ma è più esposto a inquinamento e polluzione atmosferica un automobilista seduto al posto di guida di un pedone fermo sul marciapiede, nel bel mezzo del traffico. È quanto emerge dallo studio realizzato dall’unità 644 dell’Inserm (Istituto Nazionale Sanità e Ricerca Medica), unico organismo pubblico francese interamente dedicato alla ricerca biologica, medica e alla salute della popolazione. Un’indagine finanziata dall’Agenzia Francese della Sicurezza Sanitaria dell’Ambiente e del lavoro (Afsset) per quantificare l’esposizione dei guidatori e dei passeggeri all’inquinamento, ma soprattutto per proporre soluzioni valide a limitarne i danni.

Per questo da alcuni mesi un furgone attrezzato con un gran numero di sensori (foto), vari rilevatori e computers di archiviazione dei dati circola quotidianamente a Rouen, nella regione dell’Alta Normandia, 140 km a nord ovest di Parigi (109mila abitanti e un reddito di 14.400 euro annui a famiglia), su un circuito fisso di 75 km, studiato per rappresentare «sul campo» diverse tipologie altimetriche e la topografia media urbana. Ogni secondo, i sensori piazzati nell’abitacolo raccolgono e analizzano il tasso di concentrazione dei principali elementi inquinanti (ozono, monossido d’azoto, biossido di zolfo ecc) mentre un Gps registra la posizione del veicolo e una telecamere riprende ininterrottamente la strada percorsa e l’ambiente esterno.

Superato il muro dei primi 3 mila km percorsi, sui 5 mila programmati, sono emersi elementi inquietanti: «Le concentrazioni raggiunte nell’abitacolo sono particolarmente elevate, da 3 a 5 volte superiori a quelle registrate al di fuori del veicolo», dice allarmato Jean Paul Morin, coordinatore dello studio. Un normale guidatore, sulle tangenziali parigine, è stato mediamente esposto nel 2006 a un indice di inquinamento medio prossimo ai 100 microgrammi di biossido d’azoto per mc. «Immaginate una giornata senza vento, nel traffico, in coda a un veicolo inquinante, magari un Diesel mal regolato. Il picco d’inquinamento può arrivare ai 15 mila microgrammi per mc». Una concentrazione elevatissima, il cui impatto sulla salute non è ancora valutato a fondo. I ricercatori stanno vagliando un paio di antidoti. Primo: ripensare completamente il sistema di espulsione dei gas inquinanti, magari spostando gli scarichi dalla coda ai lati delle auto, o sdoppiandoli in due condotti antagonisti, per favorirne la dispersione.

Secondo, con prospettive migliori, potenziare il «disinquinamento» dell’abitacolo con materiali che assorbono e neutralizzano le particelle inquinanti. Già parecchi costruttori propongono filtri a carbone attivo, più o meno efficienti. Ma costituiscono una percentuale esigua, soprattutto fra i produttori francesi. «Gli impianti per purificare l’aria che respiriamo negli abitacoli diventeranno nei prossimi 10 anni un elemento di marketing determinante – sottolinea Morin - Però senza una significativa domanda dei clienti e un’imposizione legislativa, i costruttori non si impegneranno granché a dotare i propri modelli di dispositivi comunque costosi».

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Agosto 03, 2007, 10:43:41 pm »

3/8/2007 (15:20)

Vespe, zecche e vipere: come rimediare a morsi e punture

Evitare rimedi come l’ ammoniaca per api e vespe, o tentare di succhiare il veleno della vipera


ROMA
Come si possono affrontare le punture di vespe,api e vipere? Come affrontare morsi e punture? Bisogna evitare rimedi come l’ ammoniaca per api e vespe, o tentare di succhiare il veleno della vipera. Ecco allora un vademecum stilato da Alessandro Barelli, direttore del servizio di tossicologia clinica del Policlinico Gemelli e responsabile del sito www.tox.it, dell’Università Cattolica, dove vengono forniti consigli utili in caso di emergenze dovute al contatto con sostanze tossiche, indicando anche i centri antiveleni presenti sul territorio.

Api e vespe: non tentare di estrarre il pungiglione con le pinzette, meglio farlo «saltare» con un angolo appuntito. Non bisogna spremere, altrimenti si schiaccia il sacco attaccato al pungiglione, inoculando così altro veleno. Per gli effetti locali l’uso di acqua fredda o ghiaccio sono utili, mentre l’ammoniaca può indurre ad un peggioramento dell’irritazione. Si possono usare creme al cortisone e in caso di dolore intenso e persistente analgesici e antinfiammatori da banco, mentre antistaminici e creme anestetiche non servono. Negli adulti sono comunque necessarie più di 100 punture per una dose di veleno letale. Una sola puntura non è pericolosa, se non nel caso di soggetti ipersensibili a rischio di reazione anafilattica. Meglio riconoscere i sintomi: vampate di calore al volto, orticaria, prurito, difficoltà a respirare, vertigini, senso di svenimento, sudorazione, pallore, gonfiore (edema) di volto, occhi, lingua e vie respiratorie, con diversa gravità e combinazione dei sintomi. Edema e prurito possono essere i primi segnali (entro 10-20 minuti dalla puntura) di una crisi: in caso raggiungere il più vicino pronto soccorso. Per questi soggetti sono disponibili kit per autosomministrazione di adrenalina e cortisonici intramuscolari: dopo l’emergenza è bene raggiungere la struttura sanitaria più vicina;

Zecche: devono essere staccate con un paio di pinzette, il più possibile vicino alla cute, evitando di strappare, schiacciare o torcere il corpo del parassita. Danneggiando la zecca infatti si produce la fuoriuscita della saliva o del contenuto intestinale e si può facilitare la trasmissione delle malattie veicolate dal parassita. Vietato l’uso di «rimedi» come acetone e benzina, che aumentano il rischio infettivo. Dopo avere gettato la zecca nel water oppure averla bruciata, la pelle interessata deve essere lavata con acqua e sapone, disinfettata e controllata per un mese. In caso di arrossamento serve un controllo medico;

Vipere: un luogo comune è quello di portarsi dietro il siero, che nelle farmacie italiane non è più venduto. Si tratta infatti di un presidio per uso esclusivo ospedaliero e nei casi giudicati gravi dal medico. Il morso delle 4 specie presenti (Vipera aspis, ursini, berus e ammodites) è raramente mortale. In realtà la possibilità di essere morsi è piuttosto remota, soprattutto se si indossano scarponcini alti alla caviglia e calzettoni, si presta attenzione a dove si mettono le mani, scostando rami e foglie con un bastone. In caso di morso: rimanere tranquilli, in caso con un sedativo per bocca (i meccanismi di stress provocano una più rapida diffusione del veleno); attivare il 118; evitare di applicare il laccio emostatico, perchè rallenta o blocca il deflusso venoso mentre non blocca il flusso linfatico, responsabile della diffusione del veleno; evitare di succhiare il veleno o praticare incisioni, si possono causare ulteriori danni; immobilizzare la parte colpita con un bendaggio steccato non compressivo, come per un arto fratturato.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Agosto 04, 2007, 09:34:31 pm »

2007-08-04 13:50

ANNEGAMENTI, VIPERE E FULMINI: PERICOLI DI STAGIONE


 ROMA - Annegamenti, fulmini, morsi di vipera. Sono alcuni dei 'pericoli di stagione' cui possono andare incontro i vacanzieri, al mare e in montagna. Per partire 'preparati' ecco i consigli dell'Istituto superiore di Sanità (Iss), pubblicati sul sito dell'Istituto:

- ANNEGAMENTI, OGNI ANNO 400 MORTI IN ITALIA: Sono circa mille ogni anno in Italia i casi di incidenti in acqua, dei quali circa la metà mortali. La sopravvivenza a questi incidenti è del 55,3%, con un costo al Servizio Sanitario Nazionale di circa 3.500.000 euro l'anno, ma le conseguenze possono essere anche molto serie: in un caso su 20 si hanno coma e danni cerebrali da anossia. Per prevenire incidenti, questi i consigli: Non entrare in acqua a stomaco pieno o durante la digestione (attendere almeno 3 ore) o bruscamente dopo una lunga esposizione al sole se si è accaldati, perché la notevole differenza di temperatura tra il corpo e l'acqua può determinare delle alterazioni, anche gravi, della funzione cardiorespiratoria, con perdita della conoscenza ed arresto cardiaco. Inoltre, fare attenzione alle onde pericolose e ai segni di corrente di riflusso (acqua che cambia colore e stranamente mossa, schiumosa, o piena di detriti). Se si finisce in una corrente che porta al largo, non cercare di contrastarla subito nel tentativo di guadagnare immediatamente la riva. E' meglio cercare piuttosto di uscire dal flusso della corrente, nuotando parallelamente alla spiaggia. Una volta fuori dalla corrente, nuotare verso la riva.

- OCCHIO A FULMINI KILLER: Sono circa 1.000 all'anno i morti nel mondo a causa dei fulmini. In Italia, al 2 agosto 2007, sono caduti dall'inizio dell'anno oltre 578 mila fulmini e negli ultimi 30 anni il fenomeno ha provocato nel nostro Paese 600 decessi. La montagna, dove si addensano nubi temporalesche, è una delle zone più a rischio, ma pericoli ci sono anche in spiagge, mare e campi aperti. Escludendo i casi in cui il fulmine colpisce direttamente il soggetto, nel 70-80% degli incidenti la persona sopravvive, anche se le conseguenze possono essere gravi. In termini di costi per assistenza sanitaria, un soggetto colpito da fulmine e ricoverato costa circa 4.000 euro. Se si è all'aperto, il consiglio è evitare di stare in piedi con le gambe divaricate a causa del rischio di differenze di potenziale elettrico tra i due piedi. E' meglio accucciarsi, tenendo i piedi il più uniti possibile e con la testa tra le ginocchia. Evitare anche di sdraiarsi a terra perché così aumenta la superficie a contatto con le cariche positive e quindi il rischio di essere fulminati. Può essere utile isolarsi dal terreno con qualsiasi materiale a disposizione. Ed ancora: se si è in un gruppo, sparpagliarsi per evitare la propagazione dalla scarica tra vicini; non ripararsi sotto gli alberi isolati; evitare strutture metalliche; se si è al mare, durante un temporale stare distante da barche e spiaggia perché ombrelloni e alberi delle imbarcazioni attirano i fulmini. Se si può, rifugiarsi in macchina, chiudendo bene i finestrini ed evitando di toccare le portiere del veicolo.

- VIPERE, ATTENZIONE A ZONE IMPERVIE: La pericolosità del morso di vipera (presente sia in pianura sia in montagna, soprattutto d'Estate) dipende da molti fattori: sede del morso, tempo trascorso, temperatura ambientale (il caldo facilita il passaggio in circolo del veleno), età del rettile (le vipere giovani sono meno pericolose). Nel 20-30% dei casi, al morso non segue inoculazione di veleno. I consigli: Chiamare il 118; Tenere a riposo la vittima, sdraiandola, per rallentare la circolazione del sangue e quindi la diffusione del veleno; Effettuare un bendaggio di compressione 5-10 cm a monte della ferita con una fascia (una cinta o un foulard). Il bendaggio deve essere stretto ma devono potersi rilevare le pulsazioni.   

da ansa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Agosto 08, 2007, 12:03:57 pm »

Studio italiano, nell'elenco anche aglio, senape e cannella

Tutti i cibi e le spezie che leniscono il dolore

Dal peperoncino al wasabi: così, pasto dopo pasto, si alza la soglia di resistenza del nostro organismo

 
MILANO — La dieta anti- dolore si comincia ad abbozzare. Radici, ortaggi e spezie che attivano recettori cellulari scatenanti sofferenza cominciano ad essere più di uno. La loro azione sembra essere quella, pasto dopo pasto, di riuscire ad alzare la soglia di resistenza di un individuo. Dopo il peperoncino (la capsaicina è la molecola che attiva uno specifico recettore: Trpv1), ecco il wasabi. La radice di rafano che compone l'intingolo che accompagna il pesce crudo (sushi) è stimolante di un altro recettore cellulare del dolore ( wasabi receptor: Trpa1). E come il rafano si comportano aglio, cannella, senape, olio di mostarda. Gli effetti indesiderati, ma anche piacevoli per gli intenditori, che si avvertono mangiando questi cibi sono espressione della loro azione sui canali dolorifici della membrana delle cellule nervose periferiche: il canale della capsaicina e quello del wasabi. Gli occhi che lacrimano, la gola che si stringe, il pizzicore... Le cellule ricevono un impulso simile a un sms con scritto: «Allarme, c'è qualcosa di nocivo che sta attaccando». Attraverso le vie nervose, l'sms arriva al cervello che fa scattare l'emergenza: difesa immunitaria anti intrusi, molecole antinfiammatorie ed endorfine (la morfina naturale dell'organismo).

Il recettore della capsaicina è noto da anni e, negli Stati Uniti, farmaci derivati dalla molecola del peperoncino sono già in fase III di sperimentazione clinica sull'uomo per il dolore neuropatico e l'herpes da «fuoco di Sant'Antonio». Agirebbe anche su parte di quei dolori senza causa che sembrano derivare da «memorie » registrate a livello nervoso. Come la sindrome dell'arto fantasma negli amputati: il piede fa male, ma il piede non c'è più. Ora c'è il nuovo recettore, quello del wasabi, che si attiva anche in caso di stress ossidativo (per esempio a causa dei radicali liberi attivati dal sole sulla pelle: insomma la sofferenza di chi si «brucia ») o a causa di inquinanti come il fumo passivo o lo smog cittadino (bruciore agli occhi, alla gola, la tosse irritativa), balzato ieri a livelli di massima attenzione dopo che l'edizione online della prestigiosa rivista americana Proceedings of the national academy of sciences (Pnas) ha pubblicato il lavoro di un gruppo di ricercatori della Facoltà di medicina dell'università di Firenze. Che cosa hanno scoperto? Un nuovo meccanismo di trasmissione del dolore che apre la strada a una maggiore conoscenza di come si attiva l'impulso negativo (dolore) e di come si può sopprimere.

Lo studio fiorentino individua una via di attivazione delle sensazioni dolorifiche indipendente da quella attivata dalle prostaglandine (infiammazione), notoriamente bloccata dall'aspirina o dai Fans. I ricercatori hanno scoperto che una molecola, il 4-idrossinonenale, prodotta dall'organismo in situazioni estreme (lesioni, infiammazioni e comunque stress ossidativo da radicali liberi), costituisce un potente stimolo per provocare dolore attraverso i recettori Trpa1 (i wasabi appunto) sulla superficie dei neuroni.

Pierangelo Geppetti, direttore del Centro per le Cefalee primarie dell'università fiorentina, ha coordinato lo studio a cui ha preso parte anche un team di ricerca dell'università della California (San Francisco). Spiega Geppetti: «Ora miriamo a sviluppare farmaci innovativi, con effetti avversi minimi o nulli, capaci di lenire il dolore acuto e cronico per mezzo del blocco dell'azione del 4-idrossinonenale sul recettore Trpa1. Una nuova classe di medicine efficaci contro quei tipi di dolore (neuropatico, oncologico, emicrania e molti da causa infiammatoria) che non possono essere trattati dagli attuali analgesici». Ma il risvolto immediato può essere proprio una sorta di menù desensibilizzante, in grado di alzare la soglia di percezione del dolore. E, sorpresa, la tradizione collima con la scienza: peperoncino, aglio, rafano, zenzero, sono da secoli la panacea di popolazioni che vivono in situazioni climatiche estreme e in condizioni di lavoro estreme. Il wasabi, invece, arriva da una tradizione che ha nella resistenza al dolore uno dei cardini d'onore: il popolo dei samurai ha regole in cui il wasabi ha ragione d'essere.

Mario Pappagallo
08 agosto 2007
 
da corriere.it
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #10 inserito:: Agosto 23, 2007, 10:13:01 pm »

Controllare questo tipo di animali renderà controllabile la minaccia

Un pipistrello il portatore del virus Marburg

Ricercatori hanno trovato il virus in pipistrelli della frutta: ora si potrà capire come si diffondono epidemie di febbri emorragiche

 
ATLANTA (USA) - Alcuni già la chiamano la «Stele di Rosetta» dei virus emorragici. La scoperta fatta dai ricercatori dell'Istituto Francese di Ricerca per lo Sviluppo (Ird) insieme al Centro di Controllo delle malattie infettive (Cdc) di Atlanta e al centro internazionale di ricerche mediche di Franceville nel Gabon (Cirmf) che il virus Marburg (chiamato così perché la prima infezione di questo tipo fu diagnosticata nella città tedesca di Marburg in Germania nel 1967) virus analogo al più ben noto Ebola, è presente in una specie di pipistrelli della frutta africani, potrebbe infatti spiegare l'origine di organismi causa di febbri pericolosissime e incurabili.

LO STUDIO - Da anni ricercatori di tutto il mondo sono alla caccia dell'ospite in cui i virus emorragici come Marburg o Ebola rimangono vivi e silenti prima di esplodere in pericolosissime epidemie che hanno tassi di mortalità anche dell'80-90% (per intenderci la temutissima influenza spagnola che nel 1918 provocò oltre 50 milioni di morti, aveva un tasso di mortalità di circa il 5%).

Lo studio pubblicato dal Public Library of Science journal (PLoS One) suggerisce che il virus di Marburg potrebbe essere molto più comune di quanto si pensi. Lo studio però suggerisce che tenere sotto controllo la popolazione di pipistrelli della frutta portatrice sana del virus potrebbe rendere meno pericolosa la minaccia di epidemie.

Attualmente non esiste cura per l'infezione provocata da Marburg come pure da Ebola. Una volta infettati con il contatto con fluidi di persone ammalate sopraggiungono prima febbre e mal di testa, poi la progressiva liquefazione degli organi interni.

La morte sopraggiunge in genere dopo 8 o 9 giorni di atroci sofferenze.

Marco Letizia
23 agosto 2007
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Agosto 26, 2007, 12:09:33 am »

Un metodo applicabile anche a sclerosi multipla o schizofrenia

Scoprire l’Alzheimer in sessanta secondi

Grazie alle mappe magnetiche del cervello potrebbe diventare relativamente semplice identificare il disturbo fin dall’inizio

 
Sessanta secondi per svelare i primi segni di malattie del sistema nervoso come l’Alzheimer, la sclerosi multipla o la schizofrenia: lo promette un nuovo test in sperimentazione negli Stati Uniti, capace di registrare e analizzare i deboli campi magnetici che si creano quando le cellule nervose sono in attività. L’esame si chiama appunto magnetoencefalografia, in sigla Meg (giusto per ricordare, l’Eeg, l’elettroencefalogramma rileva invece l’attività elettrica del cervello): potrebbe essere perfezionato e messo a disposizione dei neurologi e degli psichiatri nel giro di uno o due anni. I risultati delle prime prove saranno pubblicati sul prossimo numero del Journal of Neural Engineering e lasciano intendere che il test, grazie alla sua facilità e rapidità di esecuzione, rappresenterà una vera e propria rivoluzione nella diagnosi precoce di alcune malattie neurologiche.

CONFRONTI - Un gruppo di ricercatori dell’Università del Minnesota a Minneapolis, coordinati da Apostolos Georgopulos, hanno analizzato con la Meg i deboli campi magnetici che si producono quando i neuroni si «accoppiano»: confrontando le mappe , ottenute quando a lavorare è un cervello sano, con quelle rilevate in persone affette da malattie del sistema nervoso, come appunto l’Alzheimer, gli studiosi sono riusciti a individuare le mappe comunemente associate con queste patologie. Utilizzando queste mappe su 142 pazienti, hanno diagnosticato la presenza di malattia nel 90 per cento dei casi.

IN FUTURO - «Adesso stiamo continuando gli studi – ha commentato Georgopulos – e vogliamo acquisire dati da un maggior numero di pazienti. Ma il test potrebbe entrare nella pratica clinica nel giro di uno o due anni». Oltre alla facilità e rapidità di esecuzione, la Meg ha anche il vantaggio di non essere invasiva per il paziente: si esegue applicando all’esterno della testa alcuni sensori capaci di rilevare i campi magnetici e di trasmetterli a un decodificatore che li trasforma in una mappa cerebrale colorata. E non solo: potrà evitare al medico lunghi e complessi esami per la valutazione del comportamento del paziente alla ricerca dei primi segni di malattia, a volte persino poco attendibili. La possibilità di identificare una malattia al suo esordio potrà consentire al medico di mettere in atto trattamenti di riduzione del danno o terapie riabilitative che ne rallentino quanto meno la progressione.

Adriana Bazzi
24 agosto 2007
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Agosto 26, 2007, 09:42:11 pm »

Importantissima la visita del dentista almeno ogni sei mesi

Tumori orali: fondamentale la prevenzione

Possono essere colpiti la lingua e tutte le altri parti della bocca.

Fumo, alcol e cure dentali non appropriate le cause principali

 
I tumori della bocca sono un argomento di cui si parla molto poco, ma che rappresentano una realtà che può essere terribile. Eppure la loro prevenzione è relativamente semplice: i fattori di rischio principali sono il fumo (non solo quello di sigaretta, ma anche di pipa e di sigaro), l'alcol e le protesi o le cure dentali non ben eseguite o non perfettamente adatte alla bocca del paziente. Una protesi che «batte» continuamente su una parte delle lingua, per esempio, può causare a lungo andare la formazione di un tumore in quella porzione di tessuto, e lo stesso può valere, per esempio, per un'otturazione che ha bisogno di una «messa a punto».

Se la prevenzione passa per l'astensione dal fumo e dall'alcol e da cure dentali ben eseguite, la diagnosi precoce si avvale dell'abitudine a esaminare il proprio cavo orale e della visita periodica dal dentista, almeno una volta ogni sei mesi, come spiega il dottor Roberto Callioni, presidente dell'Andi (Associazione Nazionale Dentisti Italiani), in un'intervista video.

E vale davvero la pena pensare alla prevenzione e alla diagnosi precoce di questi tumori, perchè una cura, chirurgica o radioterapica locale, precoce, può essere poco traumatizzante, ma quando, per esempio, la porzione di lingua da asportare è estesa, le conseguenze sulla masticazione, sulla parola, e sulla qualità di vita in generale, possono essere pesanti.
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Settembre 02, 2007, 12:03:41 pm »

TERAPIA INTENSIVA / UN ESPERIMENTO AMERICANO

Ritorno dall'aldilà
di Jerry Adler


Bill Bondar era clinicamente morto. Restava solo l'attività cerebrale. Lo hanno raffreddato. Ed è risorto.

Ecco come Bill Bondar sa esattamente dove è morto: sul marciapiede antistante la sua casa in una comunità di pensionati nella regione meridionale del New Jersey. Erano le 22,30 di sera del 23 maggio, un mercoledì, e Bondar aveva 61 anni. Era un programmatore informatico in pensione che amava suonare il basso. Era alto 1,83, pesava 104 chili e nel corso degli ultimi anni era calato di 25. Quella sera era appena tornato a casa da una jam session con due suoi amici e all'improvviso, mentre scaricava la macchina, il suo cuore si è fermato. Non era ancora in morte cerebrale, che implica l'interruzione permanente delle funzioni cerebrali, né nella morte legale, quella dopo la quale si è pronti per il cimitero. Era tuttavia morto abbastanza da spaventare sua moglie Monica, che qualche istante dopo lo ha trovato a terra privo di conoscenza, senza respiro, senza polso. I suoi occhi erano aperti, ma "vitrei come due biglie", dice Monica: "Senza più vita. Erano gli occhi di un morto".

Sappiamo che cosa è accaduto a Bondar. Il suo medico, Edward Gerstenfeld dell'ospedale dell'Università della Pennsylvania, in seguito ha accertato che la sua arteria sinistra anteriore discendente era occlusa al 99 per cento da una placca che lasciava libero un passaggio non più grande di un capello. Un'occlusione di tal fatta in quell'arteria, la più grande tra quelle che alimentano il cuore, è soprannominata dai cardiologi la crea-vedove. Un minuscolo coagulo incastratosi in quel punto ha generato una breve alterazione del ritmo cardiaco, nota come fibrillazione, prima di fermarlo del tutto. Nel giro di una ventina di secondi, i 100 miliardi di neuroni del cervello di Bondar hanno esaurito tutto l'ossigeno residuo disponibile, interrompendo gli incessanti scambi di cariche elettriche che noi sperimentiamo come stato di coscienza. Il suo respiro si è arrestato non appena egli è entrato in uno stato di quiescenza più profondo del sonno.

Ogni giorno, migliaia di volte in una stessa giornata, il cuore di qualcuno smette di battere. Per un infarto, un coagulo che occlude un'arteria coronaria, o una moltitudine di altre situazioni, difetti congeniti, un'anomala composizione chimica del sangue, uno stress emotivo, uno sforzo fisico. Senza un'opportuna rianimazione cardiovascolare, la finestra per la sopravvivenza si chiude in cinque minuti circa.

Da quanto tempo non leggete un articolo sull'infarto nel quale non si parli di grassi saturi? La nostra epoca è ossessionata dalla salute, ma quando questa viene meno, l'ultimo baluardo di difesa si trova soltanto nelle sale del pronto soccorso, dove i medici pattugliano il confine tra la vita e la morte, un confine che ormai considerano labile, sempre meno precisamente delineato, sempre più elastico. Questa è invece la storia di ciò che accade quando il cuore si arresta. È la storia delle nuove ricerche sulle cellule cerebrali, su come muoiono, su come qualcosa di così semplice, come abbassare la temperatura corporea, può servire a mantenerle in vita. Questa ricerca potrà alla fine salvare fino a 100 mila vite ogni anno. Ma inizia con la sfida a qualcosa che i dottori hanno imparato quando ancora frequentavano la facoltà di medicina: dopo cinque minuti senza battito, il cervello inizia a morire, seguito subito dopo dal muscolo cardiaco, i due organi più voraci e consumatori di ossigeno del nostro corpo, vittime del loro stesso appetito. Ma la mancanza di ossigeno è soltanto l'inizio di una reazione a cascata, dentro e fuori le cellule, che può aver luogo nelle ore, e perfino nei giorni, immediatamente seguenti. Morire diventa pertanto un processo complicato. Chissà come Bondar ha trovato una via di uscita.

Monica ha cercato immediatamente di ricordare quanto aveva appreso in un corso di rianimazione cardiovascolare frequentato qualche decina di anni prima. Si è chinata sul marito e ha iniziato a esercitare pressioni sul suo torace. Poi è corsa in casa a chiamare il numero delle emergenze, il 911, e al centralinista ha gridato con voce affannosa: "Mio marito sta morendo!". La stazione di polizia di West Deptford è situata ad appena tre isolati di distanza e nel giro di due minuti dalla telefonata, tre agenti sono arrivati con un defibrillatore. Hanno sistemato le ventose sul petto di Bondar e gli hanno dato due scosse elettriche, ripristinando il battito cardiaco. Immediatamente dopo sono arrivati i paramedici, lo hanno attaccato a una bombola di ossigeno e lo hanno portato in un ospedale degli immediati dintorni. Da lì a un'ora Bondar era 'in condizioni stabili'. Il battito cardiaco e la pressione del sangue erano tornati vicini alla norma. Ma era ancora in coma. È stato a quel punto che Monica ha preso la decisione che può avergli salvato la vita: ha chiesto che suo marito fosse trasportato al Penn, il più importante ospedale universitario della regione, situato a 15 miglia di distanza.

Lance Becker, direttore del Centro di scienze della rianimazione del Penn, ha in mente da tempo i mitocondri, le strutture tubolari situate all'interno delle cellule che racchiudono le membrane nelle quali l'ossigeno e il glucosio si combinano per produrre l'energia che il corpo utilizza per muovere qualsiasi cosa, dalle molecole attraverso le membrane cellulari fino ai bilancieri. Becker crede che siano proprio i mitocondri l'elemento chiave che gli consentirà un giorno di triplicare il tempo massimo durante il quale un essere umano può rimanere privo di battito cardiaco ed essere rianimato senza problemi. Che la soglia dei cinque minuti non sia assoluta è noto da tempo, e tutte le eccezioni paiono avere a che fare con le basse temperature. Bambini caduti in acqua gelida, per esempio, sono sopravvissuti per un tempo inaspettatamente lungo, e Becker spera di poter utilizzare proprio questo effetto ipotermico per salvare tante vite. Cinque minuti senza ossigeno sono effettivamente un lasso di tempo fatale per le cellule cerebrali, ma la morte può subentrare ore o perfino giorni dopo. I medici da tempo sanno che le conseguenze di un'ischemia si palesano soltanto col passare del tempo. "Nella metà dei casi di arresto cardiaco, riusciamo a far ripartire il cuore, ad avere una buona pressione sanguigna e ogni cosa che funziona a dovere". dice Terry Vanden Hoek, direttore del Centro di rianimazione d'urgenza dell'Università di Chicago: "E ciò nonostante nel giro di poche ore la situazione precipita e il paziente muore".

Capire perché e come ciò accada, tuttavia, ha richiesto tempo. Robert Neumar, un giovane e brillante neuroscienziato, ha simulato l'arresto cardiaco nei topi, poi li ha rianimati, quindi a intervalli regolari ha esaminato in che condizioni si trovano i neuroni. E ha scoperto che erano del tutto normali fino a 24 ore dopo l'ischemia. Nelle 24 ore ancora successive, invece, subentrava qualcosa di inspiegato e iniziavano a deteriorarsi. Alle stesse conclusioni è giunto James R. Brorson dell'Università di Chicago che ha svolto ricerche sulle cellule neurali cresciute in laboratorio: se le si priva di ossigeno per cinque minuti, o anche più a lungo, non accade nulla.

La morte cellulare non è un evento, bensì un processo, e in linea di principio qualsiasi processo può essere interrotto. Tale processo pare avere inizio nei mitocondri, che controllano il meccanismo di autodistruzione cellulare noto con il termine di apoptosi. L'apoptosi è un'operazione naturale che serve a distruggere ed eliminare le cellule che non sono più necessarie o che sono state danneggiate. Le cellule tumorali, che altrimenti potrebbero essere eliminate dall'apoptosi, sopravvivono disattivando i loro mitocondri e i ricercatori stanno studiando in che modo riattivare questi ultimi. Becker, invece, sta facendo esattamente il contrario: cerca di evitare che le cellule colpite da anossia commettano, per così dire, un vero suicidio.

Fino a poco tempo fa era opinione comune che l'apoptosi non potesse, una volta iniziata, essere arrestata. Essa comporta una sequenza alquanto complessa di reazioni a catena, tra le quali infiammazione, ossidazione, cedimento della membrana cellulare, nessuna delle quali pare rispondere alle terapie tradizionali. Becker considera la morte cellulare in caso di arresto cardiaco come un processo in due fasi, che inizia con la privazione di ossigeno che predispone le cellule all'apoptosi. Quando poi il cuore riparte e il paziente riceve ossigeno in abbondanza nei polmoni, si innesca quello che è detto danno da riperfusione. In pratica, ciò che è necessario a salvare la vita del paziente finisce col porvi fine, pregiudicandone la sopravvivenza o uccidendolo del tutto. I ricercatori hanno rovistato in tutto il loro arsenale di farmaci alla ricerca di un modo efficace per interrompere questa reazione a catena. Nel corso degli anni hanno sperimentato varie tecniche su circa 100 mila pazienti in tutto il mondo. Nessuna però ha dimostrato beneficio alcuno, secondo quanto ha dichiarato Michael Lincoff, direttore della Ricerca cardiovascolare alla Cleveland Clinic. Una cosa sola è parsa funzionare, qualcosa di talmente ovvio e low-tech che i medici stentano ad accettarla: l'ipotermia, l'abbassamento della temperatura corporea provocato di proposito, fino a raggiungere una temperatura di 33 gradi. La ricerca condotta da una équipe europea nel 2002 ha permesso di constatare risultati positivi nel corso di uno studio su svariate centinaia di pazienti in arresto cardiaco: quelli il cui corpo era stato raffreddato hanno avuto un tasso di sopravvivenza maggiore e un danno cerebrale minore rispetto a un gruppo di controllo.

La prima importante conferenza internazionale sul raffreddamento corporeo si è svolta in Colorado nel febbraio scorso. Nonostante gli studi favorevoli e il fatto che tali tecniche abbiano ricevuto l'avallo dell'Associazione americana di cardiologia, "la gente stenta a credere che qualcosa di così semplice come il raffreddamento possa fare davvero una grande differenza", ha detto l'organizzatore della conferenza, Daniel Herr del Washington Hospital Center di Washington. I due più importanti produttori di apparecchiature per l'ipotermia, Medivance Inc. e Gaymar Industries, dicono che soltanto 225 ospedali sugli oltre 5.700 presenti negli Stati Uniti hanno installato i macchinari necessari. Lo scetticismo dei più è dovuto al fatto che nessuno capisce molto bene come funzioni. "In breve: non sappiamo ancora perché funziona", ha detto il neuroscienziato della Penn Robert Neumar.

Il Centro di rianimazione di Becker coordina con il reparto di pronto soccorso un protocollo per raffreddare i pazienti in arresto cardiaco. Dal 2005 a oggi soltanto 14 pazienti hanno soddisfatto i criteri necessari per esservi sottoposti: otto di loro sono sopravvissuti, sei dei quali con un recupero completo. Nessuno però sa quanti altri pazienti siano stati trattati nel resto del paese.

Bondar è arrivato al Penn all'1.30 di notte circa, ancora in coma. Una volta presa la decisione di raffreddarne il corpo, l'équipe di medici gli ha somministrato in endovena una soluzione salina fredda - due litri a circa 4 gradi Celsius - e lo ha avvolto in una ragnatela di tubi pieni di acqua fredda. Becker è dell'idea che raffreddare il corpo dei pazienti ancora prima (l'ideale sarebbe mentre raggiungono l'ospedale in ambulanza) avrebbe un'efficacia anche superiore. Parte del lavoro di ricerca del suo laboratorio consiste nel mettere a punto una miscela a base di soluzione salina e ghiaccio che possa essere iniettata da un paramedico. Bondar è stato mantenuto in ipotermia a circa 33 gradi Celsius per quasi un giorno intero, poi è stato lentamente riportato alla temperatura normale. È rimasto stabile, ma senza reazione, nei tre giorni successivi.

Il primo giugno, nove giorni dopo essere morto, Bill è tornato a casa. Gerstenfeld gli ha impiantato un defibrillatore, gli ha ripulito l'arteria bloccata e gli ha inserito uno stent per mantenerla aperta. "È perfettamente a posto", ha detto: "Era morto, anche se solo per qualche minuto. In realtà, avrebbe potuto andare molto peggio: avrebbe potuto essere morto-morto".

hanno collaborato Matthew Philips, John Raymond e Julie Scelfo

2007, 'Newsweek' - 'L'espresso'

traduzione di Anna Bissanti
 
Tre passi per risorgere
 
Inducendo l'ipotermia in un paziente rianimato dopo un arresto cardiaco, i medici sono in grado di ridurre la morte cellulare e di migliorare le possibilità di un recupero completo.

Le tecniche tradizionali di rianimazione innescano

un meccanismo autodistruttivo delle cellule detto apoptosi. Raffreddare il corpo significa inibire tale processo. Ecco come:

1 Iniezione di soluzione salina

Prima di tutto i medici iniettano endovena due litri di una soluzione salina ghiacciata.

2 Raffreddamento rapido

Si introduce acqua fredda in circolo in tubi collegati a cuscinetti applicati al torace e alle gambe

del paziente. I cuscinetti imbottiti raffreddanti sono formati da tre strati: uno isolante, un film sottile, uno strato adesivo

3 Ipotermia

La temperatura corporea interna è portata a circa 33 gradi Celsius e mantenuta tale per 24 ore.
 
Quasi quasi mi faccio ibernare
 
Gente che ritorna dall'aldilà. Senza ricordare nulla. Ma se la morte è un processo, molti rimangono convinti che, nonostante la mancanza di polso, di respiro o di qualche funzione cerebrale percepibile, qualcosa di vitale permanga. Questa è la convinzione che spinge alcune persone a pagare affinché il loro corpo dopo la morte sia congelato in nitrogeno liquido: la speranza che un giorno possano essere scongelati e riportati alla vita. L'Alcor Foundation di Scottsdale, in Arizona, ha in lista 825 aspiranti clienti che hanno sottoscritto un contratto, e ne ha ibernati già 76. E non si tratta in tutti i casi di corpi interi: alcune persone scelgono di farsi congelare soltanto la testa che, a parte il fatto di costare molto meno che congelare un corpo intero, si iberna in tempi molto più rapidi, abbassando così il rischio di danno inferto alle cellule dal ghiaccio. Nessuno sa, però, ancora come scongelare un corpo congelato, per non parlare di una testa. Ma gli aspiranti ibernati di Scottsdale confidano nella scienza. Una possibilità ancorché assai remota, secondo Tanya Jones, funzionario capo operativo di Alcor, è quella di prelevare una cellula dalla testa e clonare un nuovo corpo al quale attaccarla. L'altra possibilità potrebbe essere quella di effettuare una scansione tridimensionale dell'intera disposizione molecolare del cervello, e inserirla in un computer che in un secondo tempo possa, in via del tutto ipotetica, ricostruire la mente, o come un'entità fisica vera e propria, o come un'intelligenza priva di corpo nel cyberspazio. Roba da fantascienza. Ma Ralph Merkle, membro del consiglio di amministrazione di Alcor, ha utilizzato questa idea per divulgare una quarta definizione di morte: morte teoretica dell'informazione, che designerebbe il momento nel quale il cervello soccombe alle spinte dell'entropia e la mente non può più essere ricostituita. Soltanto allora, dice Merkle, si è morti davvero, morti per sempre.


da espressonline.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Settembre 02, 2007, 03:48:38 pm »

Adolescenti virtuali
Giovanni Bollea


Cosa penso dell’adolescenza attuale? Ebbene, io sono sempre più convinto che pensare all’adolescenza oggi, significhi soprattutto pensare all’importanza biologica dei processi del pensiero: percezione, memoria, immaginazione, che sfociano, appunto, nel pensiero dal quale poi parte l’azione; il mondo interiore ha, quindi, un’importanza vitale per la formazione della personalità che si forma attraverso un processo di adattamento, il quale a sua volta si manifesta in due momenti: ritiro dal mondo esterno e ritorno ad esso con la propria padronanza e capacità di critica.

Ma il mondo della percezione e quello del pensiero sono entrambi fattori di regolazione dell’io e di quel processo di adattamento che consiste, appunto, nel ritirarsi prima dalla realtà per poterla criticare, e poi ritornarvi per poterla dominare meglio.

Ma oggi, in particolare, l’adolescente ha bisogno che la percezione e l’immaginazione lo aiutino a orientarsi nelle visoni spazio-temporali, dalle quali è continuamente stimolato. Un processo di interiorizzazione che deve creare un rapporto tra adattamento, sintesi e differenziazione della realtà. Ma è il pensiero che, già nell’adolescenza, deve subito creare un ponte fra tutti questi elementi! E quanto più un ragazzo si differenzia e si autonomizza nelle sue percezioni meditate, tanto più diventa indipendente dagli stimoli eccessivi e scoordinati dell’ambiente e dalle tecnologie che lo influenzano. È così che si crea il suo rapporto con l’azione: azione che, per questo motivo, potrà essere negativa o positiva. Ma se le funzioni come il controllo selettivo, l’esame della realtà, la possibilità di vedere il mondo in modo obiettivo e l’astrazione controllata sono disturbate, a tutto ciò corrisponderà un insuccesso nell’adattamento, perché la conoscenza è sempre legata alle condizioni esistenziali di ogni individuo. L'adolescente deve, quindi, essere aiutato a raggiungere una funzione ottimale del suo pensiero razionale che è determinato dalla sua maturità, dalla sua forza e dalla struttura del suo «io». Tutto questo per poter arrivare a un vero adattamento alla realtà in cui vive.

Ma quando vediamo i ragazzi vivere, invece, vite parallele come nel mondo virtuale di Internet o in un programma come «Second life», che fortunatamente va diminuendo, nei blog o nei loro interminabili viaggi nella rete, questo equilibrio si rompe, perché manca il collegamento tra percezione e pensiero. E non solo: mancando la critica nell’accettazione fra elementi razionali ed elementi irrazionali, la loro ragione può soccombere di fronte all’irrazionalità. Questo è il vero pericolo.

I nuovi neuropsichiatri devono quindi organizzarsi per creare nei bambini e ragazzi un processo di conoscenza e di critica nelle relazioni con l’ambiente e con le nuove tecnologie, che adesso per molti di loro, ormai, sostituiscono addirittura la vita affettiva e cioè la famiglia. È perciò sempre valido il significato che Freud dava alle parole «ragione», «intelligenza» e «spirito scientifico», usandole come sinonimi. Dobbiamo subito lavorare tutti per capire e lottare contro l’irrazionalità implicita nella psicologia di massa, con la quale i nostri bambini e adolescenti devono scontrarsi ogni mattina, quando si alzano dai loro sonni sempre meno tranquilli.

Mi sembra che, dal lato pragmatico e pratico la nuova Neuropsichiatria infantile debba lavorare affinché la scuola sia modernizzata e si cambino i programmi che devono diventare realisticamente internazionali. Una scuola aperta a nuove sollecitazioni positive e mai negative, che guidi i giovani in questo salto epocale, ma sempre con l’aiuto dei genitori.

Ecco come aiutare oggi l’adolescenza!

Questo rapporto genitori-scuola deve essere molto più frequente, almeno tre o quattro sedute mensili organizzate dalle scuole con la costante presenza della madre. Per informarsi sulle novità negative e positive delle realtà che circondano i loro figli. Il genitore inoltre ne deve sempre conoscere amici e compagni e dare possibili giudizi, negativi o positivi, sul gruppo scolastico. Sapere se c’è e come è formato il «branco» e inoltre informarsi sulle famiglie e il lavoro dei genitori.

Il rapporto padre-figlio, come insisto da anni, deve allargarsi: il genitore deve parlare della vita sociale e di quella politica. Dei doveri e dei compiti di un buon cittadino e aiutare a sviluppare vari tipi di associazioni. E non solo quelle educative e sportive, ma culturali, artistiche, musicali; creando nello stesso tempo spazi di aggregazione per i ragazzi e associazioni che si occupino dei più bisognosi, le quali possono così avviarli a un vero volontariato, sviluppandone varie forme.

Ma soprattutto scoprire a ogni costo se e come circola la droga fuori e dentro la scuola, individuandone gli studenti spacciatori per poi denunciarli. Insegnare a non fidarsi completamente dei figli tranquilli e cosiddetti «puliti». Perché tali si mostrano ai propri genitori, mentre sono attentissimi a non farsi scoprire sotto l’effetto di alcol e droga. Oggi hanno imparato infatti a nascondersi in maniera così accorta da trasformare i genitori nei loro più convinti difensori. Nonostante tutto ciò, dovete fare leva su quella parte positiva e valida che le statistiche ci danno all’86%, appartenenti comunque a famiglie con genitori non separati. Diamo loro stimoli e interessi pratici e realistici, considerandoli perciò dei veri cittadini già a 16anni, preparandoli al voto amministrativo, che li aiuterà a prendere coscienza delle loro responsabilità in campo sociale votando poi a 18 anni alle politiche.

Personalmente sto lottando dal 2001 affinché questa mia richiesta diventi una legge ben codificata e strutturata.

Voi però dovete anche lottare affinché il «branco» non si imponga e i reality show vengano trasmessi il meno possibile, che il programma «Sècond life» sia abolito in quanto portatore di atteggiamenti schizoidi, derivati da un vero e proprio pericolo di sdoppiamento della personalità.

Ma attenzione ai blog: l’uso deve essere controllato, ma non demonizzato, essendo ormai diventati i sostituti del diario personale che, se una volta era segreto e nascosto, oggi è visitato da chiunque possa dare loro l’impressione di strapparli a quella pericolosa solitudine che li allontana sia dall’autorealizzazione, sia dall’autoaffermazione. Se sappiamo tutti che internet è uno strumento prezioso, sappiamo anche che può allontanare sempre di più l’individuo da quell’autonomia dell’io che se si lascia influenzare dalle percezioni e dagli istinti, deve anche riuscire lui stesso a influenzarli, con i propri personali metodi di difesa. Ecco i miei pensieri sull’adolescenza attuale. Pensieri che sono iper-semplificazioni da elaborare, ma ricordatevi che le misure correttive non sono mai sufficienti.

E se quanto ho proposto potesse realizzarsi varrebbe ancora il leit-motiv dominante nella mia lunga esperienza di neuropsichiatra infantile. «Un bambino felice sarà un adulto maturo». E, riguardo all’adolescenza, «un adolescente felice sarà un cittadino maturo».

Ed ora voglio aggiungere che un consiglio, un aiuto ben dato sono come una poesia che libera la tensione e fa sentire più felici. Il mio messaggio è perciò questo: aiutare i bambini e ragazzi a stare meglio insieme agli altri e a vivere nel gruppo. Per far questo dovete imparare a prevenire in loro lo sviluppo delle tendenze antisociali senza ricorrere a proibizioni categoriche e scontate e non convincenti. Imparate a gestire i loro sensi di colpa lasciando nei bambini quella piccola ma sana aggressività spontanea che li difenderà nella vita sia prima che dopo l’adolescenza. Ricordatevi che fallire l’assistenza di un bambino significa perdere una battaglia ma non la guerra, e quindi continuate a lottare senza arrendervi mai anche dopo una terapia che non si è risolta come speravate. Imparate a trasmettere loro la capacità di stare soli che è il contrario dell’angoscia di «essere» soli, cercando sempre di entrare in contatto con il loro vero Sé. Tenendo però sempre conto del loro falso Sé. E ricordatevi inoltre che oggi esiste una larga fascia di adolescenti molto positivi che reagisce agli input negativi riuscendo a combattere le spinte autodistruttive più aggressive e a far migliorare i rapporti con famiglia, scuola e società. La mia speranza solo apparentemente scontata è che troviate giorno dopo giorno la stessa forza per far varare e poi osservare quelle leggi che ho chiesto poc’anzi. Senza usare violenza ma con la convinzione: attraverso la cultura del linguaggio.

E non dimenticate mai quello che ho già detto: un bambino felice e un adolescente felice saranno uomini e cittadini maturi.

Intervento pronunciato da Giovanni Bollea al Congresso europeo di neuropsichiatria infantile di Firenze



Pubblicato il: 01.09.07
Modificato il: 01.09.07 alle ore 8.38   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: [1] 2
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!