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Autore Discussione: ALDO RIZZO.  (Letto 14361 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 08, 2009, 10:43:56 pm »

8/7/2009
 
Il Giappone a guardia del mostro nucleare
 
ALDO RIZZO
 
E’ un po’ come nelle elezioni americane. Il presidente eletto ci mette più di due mesi a diventare effettivo, ma, dal giorno dell’elezione, è lui il leader a cui tutti guardano. Nel caso dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’egiziano Mohammed ElBaradei, che ne è alla guida da ben dodici anni, lascerà il suo incarico solo a novembre, ma è il neoeletto, il giapponese Yukiya Amano, al centro dell’attenzione generale. Un fiume di congratulazioni, soprattutto da parte occidentale, ma non solo. Del resto, ha vinto di stretta misura, e dopo mesi d’incertezza, sul sudafricano Abdul Samad Minty, nelle decisive votazioni del «board», ma poi è stato acclamato senza riserve nuovo Direttore da tutti i soci dell’Agenzia, che è un’emanazione dell’Onu, con sede a Vienna.

Dunque è giapponese il nuovo «Nuclear Watchdog», il cane da guardia nucleare, come viene definito in gergo il responsabile dell’Aiea, l’ente che ha il compito, davvero cruciale, di controllare sia il diritto di ogni Stato di disporre di energia atomica, sia il suo dovere di rispettare gli accordi di «non proliferazione», cioè di non passare dall’uso civile a quello militare dell’atomo. E, che sia giapponese, ha un’ineludibile valenza simbolica. Nessun Paese come il Giappone ha nel sangue l’avversione all’arma nucleare, per l’ovvia ragione di essere il solo che ne ha sperimentato direttamente i terrificanti effetti, con i bombardamenti americani di Hiroshima e Nagasaki nel 1945. E tuttavia lo stesso Giappone, perfino il Giappone, potrebbe sentirsi «costretto» da un’alterazione radicale degli equilibri strategici a fabbricarsi la Bomba, per la quale ha tutta la tecnologia necessaria e, a quanto risulta, anche una sufficiente quantità di plutonio. E dunque il simbolo è doppio. E’ anche, se non soprattutto, il simbolo del grande dilemma che sovrasta più di ogni altro il mondo del XXI secolo, quello tra una pace ragionevolmente concordata e una corsa all’autodistruzione.
Chi potrebbe alterare radicalmente gli equilibri strategici in Asia, e non solo, è la Corea del Nord, se dovesse decidere, senza una forte e reale opposizione del suo grande alleato cinese, di diventare davvero una potenza nucleare e missilistica. E questo è un discorso che si applica anche al Medio Oriente, con l’Iran al posto della Corea comunista. Se la Bomba degli ayatollah segue fino in fondo il suo corso, sarà pressoché inevitabile il riarmo atomico di Paesi come l’Arabia Saudita, l’Egitto e così via, in un quadro «regionale» che vede nucleare già Israele e dunque terribilmente impressionante.

Il predecessore di Yukiya Amano, ElBaradei, non è privo di meriti, nella gestione, diciamo così, di tali problemi. In vario senso: per aver cercato invano di far capire a Bush che l’Iraq non aveva armi di distruzione di massa (ciò che contribuì all’assegnazione, a lui e all’Agenzia, di un Nobel per la pace, intrinsecamente polemico verso gli Usa), ma anche per avere sollevato la questione iraniana, svelando i gioche ambigui di Teheran. Ma poi non è stato privo di ondeggiamenti e, in genere, di atteggiamenti un po’ troppo «politici». Amano ha fama di essere un tecnico imparziale, vicino alla visione strategica (né bellicista né pacifista) di Obama, potenzialmente capace di rilanciare il ruolo dell’Aiea nel suo significato originario. Gli servirà essere giapponese, memore di Hiroshima e Nagasaki, ma anche consapevole dei pericoli attuali. Gli servirà anche, e non poco, l’esempio di moderazione delle superpotenze in carica, Stati Uniti e Russia, se le intese di Mosca, alla vigilia del G8, avranno un seguito serio.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 11, 2009, 11:25:43 am »

11/8/2009
 
Sul fronte europeo per tornare protagonisti
 
ALDO RIZZO
 
Ormai smaltiti i fasti del G8, con annesse celebrazioni e autocelebrazioni, e al di là anche della ricorrente questione Afghanistan (che è essenzialmente di politica interna, il nostro ruolo reale in quel conflitto rientrando in quello più ampio della Nato), è tempo per la politica estera italiana di ripensare concretamente i suoi obiettivi di fondo. Il primo dei quali dovrebbe essere, tornare ad essere, l’Europa.

L’Italia ha di fronte a sé due serie incognite, di natura, diciamo, globale, che cioè condizionano direttamente il suo futuro nel mondo. Esse concernono, per cominciare, lo stesso destino del G8. Forse sono premature le campane a morto, il G8 potrà anche sopravvivere, già l’anno prossimo in Canada, in una forma flessibile (del resto, già sperimentata a L’Aquila). Ma è chiaro a tutti che la flessibilità sarà sempre più relativa e che le decisioni reali, per quanto possibile, saranno compito del formato più esteso, cioè il G14. E, più ancora, del G20, che è cosa diversa dal G8 più o meno ampliato, rappresentando di per sé tutte le maggiori econonomie, emerse ed emergenti, del pianeta. E infatti sarà il G20 di Pittsburgh, a settembre, a pronunciarsi concretamente su impulsi e indirizzi di massima concordati in Abruzzo. Va da sé che, in un tale contesto, il peso dell’Italia in quanto tale non può che diminuire, forse drasticamente.

L’altra incognita è la proiezione della prima, su un piano strettamente politico. La ridislocazione del potere economico mondiale rilancia di fatto il problema della riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ancora fermo ai risultati bellici del 1945. Paesi come l’India, il Brasile, il Sud Africa si aggiungono ai due grandi esclusi (in quanto, appunto, sconfitti 64 anni fa), cioè il Giappone e la Germania, nel riproporre la loro candidatura. Sappiamo tutti quanti sforzi, negli ultimi decenni, abbia fatto la diplomazia italiana (e basterebbe un nome, quello del capodelegazione al Palazzo di Vetro, l’ambasciatore Paolo Fulci) per impedire un cambiamento che «declassasse» il nostro Paese. Ma ora tutto, per noi, sarà più difficile, c’è il rischio che ci ritroviamo, a più o meno breve scadenza, indeboliti su tutti e due i fronti.

Salvo, appunto, cercare un altro fronte, che, per un periodo che si può definire storico, è stato il nostro preferito, ma che poi è stato, non dico abbandonato, ma certo alquanto trascurato, cercando un improbabile ruolo di «global player», addirittura basandosi (Berlusconi) su forti amicizie personali con i massimi leader extraeuropei. Il fronte europeo - di una battaglia per una reale integrazione, capace di fare dell’Ue e non dei singoli Paesi, anche apparentemente i più forti, l’autentico «attore globale» nel mondo nuovo - è anch’esso investito, da qui alla fine dell’anno, da una quantità di rischi e di sfide. Il referendum irlandese sul Trattato di Lisbona, le remore a firmarlo dei Presidenti euroscettici polacco e ceco, il possibile intoppo nella stessa Germania per un’inattesa sentenza della Corte costituzionale.

Mesi cruciali, dopo i quali sapremo se l’Europa ha fatto un altro importante passo avanti o se ha azionato ancora una volta il freno. Ebbene l’Italia, sul cui peso nell’Ue non dovrebbero esserci dubbi, dovrebbe in questo campo ritrovare un forte spirito d’iniziativa, prospettando ai partner le conseguenze di una frenata, tra le quali potrebbe (dovrebbe) esserci, anche secondo gli auspici di personaggi come Ciampi e Napolitano, e non solo, un appello a chi non si arrende, aspettando a porte aperte ogni altro membro dell’Ue. Questo appare oggi, realisticamente, il nostro vero «interesse nazionale».
 
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:04:10 am »

8/2/2010

Iran e Nord Corea tempo scaduto
   
ALDO RIZZO

Giovedì 11 febbraio, 31° anniversario della «rivoluzione islamica» iraniana, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha in programma di esaminare un giallo internazionale che dura da due mesi e che riguarda, appunto, l’Iran. Con esso, anche la Corea del Nord, cioè i due Stati che, per il loro regime interno e per le ambizioni di potenza nucleare, rappresentano oggi la più grave sfida agli equilibri strategici mondiali. C’è un nesso, una sintonia, un’alleanza di fatto, tra la residuale, storicamente, satrapia comunista di Kim Jong Il e la repubblica religiosa di Ahmadinejad, che contesta il mondo da una diversa, anzi opposta ideologia? Dietro questa domanda, c’è il più grande problema del secolo, la proliferazione degli armamenti nucleari, secondo solo a quello dei cambiamenti del clima planetario. Secondo?

Il giallo in sé è nel fatto che, dall’11 dicembre, all’aeroporto di Bangkok, è trattenuto un aereo di fabbricazione russa, proveniente dalla Corea del Nord e con un carico di armi e di pezzi missilistici, verosimilmente diretto a uno scalo di Teheran, in violazione dell’embargo dell’Onu. Così almeno credono le autorità thailandesi, che hanno trasmesso il loro rapporto al Consiglio di sicurezza. I diretti interessati, ovviamente, negano, mentre l’equipaggio di kazaki e bielorussi si dichiara all’oscuro della natura del carico. Il caso pratico, in qualche modo, sarà risolto, i thailandesi ne sono stanchi. Ma resta il problema degli «aiuti» che la Corea comunista cerca di distribuire da tempo. E, per esempio, un caso analogo si è avuto, la scorsa estate, a Abu Dhabi, con la nave «Australia», anch’essa diretta in Iran. E c’è anche il precedente della consegna clandestina, stavolta di materiale strettamente nucleare, alla Siria, alleata dell’Iran, col successivo intervento, in questo caso, dell’aviazione israeliana.

La Corea del Nord, di suo, è già una potenza atomica. Secondo Graham Allison, grande esperto americano, harvardiano, sul nuovo numero di «Foreign Affairs», essa aveva già pronte due bombe al plutonio nel 2001, ora ne ha dieci e ne sta preparando un’undicesima. Quanto all’Iran, è ancora solo una minaccia, ma sempre più concreta, come dimostra la decisione di ieri di arricchire ulteriormente l’uranio. Le ricorrenti offerte di dialogo sono giustamente interpretate dai più come mosse dilatorie. Fra l’altro, esse si accompagnano a sempre più preoccupanti test missilistici, di una gittata sempre maggiore.

Se Pyongyang e Teheran andranno fino in fondo, la previsione è che, per reazione, altri Paesi, dal Medio all’Estremo Oriente (Arabia Saudita, Egitto, Giappone, Corea del Sud, e non solo), finiranno per volere anch’essi la Bomba, obiettivo tecnicamente complesso in certi casi, facile in altri. La «proliferazione» diventerà incontrollabile, accentuando gravemente, come ha ammonito più volte Kissinger, la probabilità, prima o poi, di nuove Hiroshima. Se a questo si aggiunge la possibilità di un terrorismo atomico, per la fragilità del Pakistan (anch’esso da tempo soggetto nucleare insieme a India e Israele) di fronte alle insidie dei talebani e di Al Qaeda, lo scenario si fa catastrofico. Altro che «riscaldamento globale», che comunque si aggiungerebbe al quadro.

Dunque indurre la Corea del Nord a rinunciare all’armamento già acquisito e l’Iran a fermare realmente, e non solo a parole, la sua corsa, diventa la premessa necessaria per evitare un futuro drammatico al mondo. Resta un piccolo problema: come fare. In generale, i rimedi possibili sono molti, escludendo gli attacchi preventivi, che aggraverebbero la situazione. Maggiori controlli sul nucleare «civile», con più efficaci poteri per l’Onu e la sua specifica Agenzia, sanzioni economiche, con controfferte tecnologiche, politiche di disarmo progressivo delle potenze storiche (Usa e Russia), «declassamento» del prestigio politico di avere la Bomba (un altro grande esperto americano, Charles Ferguson, ancora su «Foreign Affairs»)... Questo ed altro. Ma la condizione preliminare è che la comunità internazionale, o la sua parte più responsabile, e non solo i doganieri di Bangkok, capiscano definitivamente che il tempo sta scadendo.

da lastampa.it
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