ALDO RIZZO.
Admin:
16/9/2008
Europa forte tra Iran e Israele
ALDO RIZZO
Domani, con le «primarie» del partito Kadima, finisce la stagione di Ehud Olmert, come primo ministro e leader del partito, che Ariel Sharon aveva fondato con successo come alternativa centrista alla destra del Likud. In conseguenza, si apre una fase di grande incertezza per Israele e per tutto il Medio Oriente, e non solo. Perché il cambio di potere a Gerusalemme, con tutte le difficoltà e le lungaggini di una democrazia autentica ma frammentata, si avvia in una fase di estrema tensione nell’area, ma soprattutto coincide col vuoto politico ormai in atto negli Stati Uniti, fondamentale riferimento dello Stato ebraico, tra le ultime settimane di Bush e la problematica scelta del suo successore. Può derivarne, per scatti improvvisi o calcoli errati, un aggravarsi istantaneo della crisi mediorientale, cruciale per tutto il mondo, in aggiunta a quella del Caucaso, del che non si avverte certo il bisogno. Forse non è azzardato pensare che per l’Unione europea si apra un’altra occasione di far sentire una sua specifica presenza, ora in chiave preventiva, dopo la prova, non decisiva ma utile, fornita nella guerra russo-georgiana.
Le primarie di Kadima nascono dalle dimissioni obbligate di Olmert, braccio destro di Sharon e poi suo successore, ma travolto da gravi accuse giudiziarie, di tipo finanziario. Una sua frase famosa è stata: «Sono orgoglioso di vivere in una democrazia in cui il primo ministro può essere indagato dalla polizia». Orgoglio legittimo, e per certi versi esemplare, ma che non lo ha salvato da una richiesta formale d’incriminazione. Ora il problema è: chi prenderà il suo posto, che tipo di governo può uscirne, fors’anche dopo nuove elezioni generali, e soprattutto che tipo di consenso resta tra i vertici israeliani, rispetto alle questioni «esterne», durante la transizione «interna».
Mercoledì 10 settembre, si è svolta una riunione, dapprima tenuta segreta, poi ammessa come fatto di «routine», tra il premier dimissionario e altri membri del governo, tra cui il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, considerata dai sondaggi la più forte aspirante alla successione, il ministro della Difesa, il laborista Ehud Barak, il ministro dei Trasporti e già capo di Stato maggiore Shaul Mofaz. Quest’ultimo è il più accreditato rivale della Livni per Kadima. Barak e il leader dell’opposizione di destra, Benjamin Netanyahu, potrebbero risultare vincenti in caso di elezioni generali. Tutti e tre, in varia misura, sono giudicati più duri della «diplomatica» Tzipi. Comunque, il tema della riunione era il programma nucleare iraniano. A ciò vanno aggiunte varie voci di attacco alle centrali atomiche di Teheran, approfittando appunto della pausa elettorale americana, e ancor più nella previsione che sia Obama a vincere, per mettere il candidato democratico di fronte al fatto compiuto (in estrema ipotesi, col beneplacito di Bush?). Naturalmente, vale anche il contrario, che sia la controparte islamica estremista (Iran, Hamas, Hezbollah, «ambienti» siriani) a sfruttare sia la pausa americana, sia la transizione israeliana.
Possono essere scenari immaginari, anche se non di fantapolitica, perché la fantasia, in Medio Oriente, ha più volte superato la realtà. In ogni caso, è sperabile che questi mesi passino senza traumi gravi. Ma che si stia creando una situazione potenzialmente molto critica, è fuor di dubbio. E qui è l’occasione per l’Ue di fare qualcosa di concreto per monitorare e raffreddare la tensioni, dando una nuova prova d’influenza moderatrice sul mondo che la circonda. Naturalmente rinnovando la capacità di esprimersi unitariamente, e sapendo o capendo che i progressi si fanno sui fatti, nelle occasioni giuste, ancor più che con i trattati diplomatici, pur necessari.
da lastampa.it
Admin:
29/9/2008
Tre questioni per gli uomini della Farnesina
ALDO RIZZO
E’ davvero senza precedenti questa sorta di autoanalisi della nostra politica estera, affidata a tredici personalità che l’hanno guidata, pressoché ininterrottamente, negli ultimi trent’anni. Da Arnaldo Forlani, titolare della Farnesina dal 1976 al 1979, all’attuale ministro, Franco Frattini. Dalla Prima Repubblica alla Seconda, quando forse se ne annuncia già una Terza. Dal pieno della Guerra fredda, semplice nel suo antagonismo ideologico, al mondo ipercomplicato e in buona misura imprevedibile seguito al crollo del Muro di Berlino. Dunque un’occasione unica per rievocazioni e analisi, concordanti o dialettiche, di eventi spesso epocali, e del ruolo che vi ha svolto l’Italia.
Credo che ci si attenda la risposta, per quanto possibile, a tre domande. 1) La nostra politica estera è stata sempre lineare e coerente? 2) Qual è stata l’influenza sulla diplomazia delle vicissitudini della politica interna? 3) Dopo un trentennio convulso, denso di svolte storiche, l’Italia ha oggi una politica estera condivisa, almeno sulle grandi linee, e anche per questo all’altezza delle incognite gravi che pesano sul nostro futuro?
Circa la prima questione, va detto che abbiamo garantito la nostra sicurezza e anche il nostro sviluppo all’ombra, o alla luce, di due scelte fondamentali, mai rinnegate: la scelta atlantica (la Nato) e quella dell’integrazione europea. E tuttavia non sono mancate occasioni in cui siamo parsi adagiati su quelle decisioni, ormai scontate, rinunciando a compiti propositivi. Oppure, li abbiamo assunti, ma in maniera almeno un po’ ambigua, sentendoci comunque al riparo, ma suscitando qualche dubbio tra i nostri maggiori alleati (nella politica mediterranea, negli stessi rapporti col mondo sovietico, nella costruzione europea). Episodi, ma meritevoli di riflessione.
Quanto alla politica interna, essa ha ovviamente influito, e non poco, su quella estera. Dapprima con la contrapposizione netta tra filoatlantici e filosovietici, poi, già trent’anni fa, appunto, con l’evoluzione del Pci berlingueriano, espressasi in Parlamento con l’appoggio al governo Andreotti. Il «consociativismo» interno appannò la linearità delle scelte esterne? Comunque, dopo la tragedia di Moro, contro il parere del Pci, tornato all’opposizione, l’Italia (Cossiga, Spadolini, Craxi) aderì al Sistema monetario europeo e accettò gli euromissili americani. Prima Repubblica. Con la «discesa in campo» di Berlusconi, cominciò la Seconda, all’insegna del bipolarismo e dell’alternanza, e ci fu, forse per la prima volta esplicitamente, una «discontinuità» della politica estera, soprattutto riguardo all’Unione Europea e al suo «nucleo» franco-tedesco.
Dura tuttora? Il terzo governo Berlusconi - dopo due fasi intermedie di centrosinistra, che hanno visto Prodi e Ciampi portare la lira nella moneta unica europea e l’ex comunista D’Alema affiancare la Nato nella guerra per il Kosovo - sembra reso più prudente dall’esperienza, ma certo non ha perso le sue ambizioni di novità. Il premier sarà comunque il protagonista di questo «ciclo d’incontri». Si ascolteranno i suoi argomenti e quelli dei suoi, altrettanto autorevoli, interlocutori. La speranza è che, in una fase estremamente difficile per il mondo intero, prevalgano in Italia i punti d’intesa tra gli schieramenti, e che il primo tra questi sia la definitiva identificazione con l’Europa, al di là della quale non c’è spazio per una politica realistica. Chiunque sia, poi, a vincere le elezioni in America, o a esercitare il suo potere in Russia.
Con la prolusione del ministro degli Esteri Franco Frattini (oggi alle 16,30 presso l’aula magna dell’Università Bocconi di Milano, con Mario Monti, Paolo Savona, Emilio Colombo e il saluto di Letizia Moratti, Filippo Penati e Roberto Formigoni) si apre il ciclo di incontri «I ministri degli Esteri raccontano: l’Italia e il mondo negli ultimi trent’anni», organizzato dalla Fondazione Ugo La Malfa e dalla Bocconi. Per altri 12 lunedì porteranno la loro testimonianza altrettanti protagonisti che si sono avvicendati alla Farnesina, da Forlani a Cossiga, da Colombo a Andreotti, De Michelis, Martino, Susanna Agnelli, Dini, Ruggiero, Berlusconi, Fini e D’Alema.
da lastampa.it
Admin:
7/10/2008
La Russia "nemica"? Risposta sbagliata
ALDO RIZZO
Che strane risposte hanno dato i cittadini dei cinque maggiori Paesi dell’Ue (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna) alle domande di Harris Poll per il Financial Times sul dopoguerra tra Russia e Georgia. In maggioranza hanno indicato la Russia come la più grande minaccia alla stabilità globale, dopo la Cina (in testa nelle rilevazioni precedenti), ma davanti a Iran, Iraq e Corea del Nord. Però alla domanda se non fosse il caso di aumentare le spese per la sicurezza, gli stessi intervistati hanno risposto di no, per non distogliere risorse dai programmi sociali interni. Addirittura, in Italia, Spagna e soprattutto in Germania, si sono detti contrari a un intervento Nato se i tre Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) fossero attaccati da truppe di Mosca.
Non si possono fare le prediche ai sondaggi, com’è inutile farle ai terremoti. Questo non è un terremoto, ma è un’indagine affidabile e i risultati sono inquietanti. Rivelano una drammatica contraddizione nella «percezione» europea della situazione internazionale. E cioè: la Russia di Putin-Medvedev è una minaccia incombente, ma noi dobbiamo pensare ai nostri fatti interni. Questo, dopo un intervento finalmente unitario dell’Ue nella crisi caucasica, mentre la superpotenza americana è distratta dal lungo passaggio di presidenza. Si tratta di opinioni di cittadini, non dell’azione dei governi, ma in democrazie reali come quelle europee l’interscambio tra elettori ed eletti genera la «realtà politica». Allora va detto che entrambe le risposte al sondaggio Harris-FT sono errate. È sbagliato dire che la Russia, nonostante la nuova aggressività, peraltro frutto di pesanti disattenzioni dell’Occidente, sia oggi più pericolosa della situazione irachena o delle ambizioni iranianee. Putin già valuta i contraccolpi dell’operazione Georgia, tra la sfiducia creata negli investitori esterni e le emergenti difficoltà economiche interne, nonostante la potenza energetica, da una parte, e l’isolamento diplomatico all’orizzonte, dall’altra. Il silenzio della Cina e dei suoi partner asiatici, le manovre della Turchia nel Caucaso islamico e non solo (Armenia), l’atteggiamento indipendente della Serbia, valgono più dei ricorrenti rimbrotti di Bush o di Rice, mentre anche le contromanovre in favore dell’Iran non possono comportare che una Teheran nucleare diventi un grande polo di contestazione musulmana ai confini sud-orientali della Russia postcomunista o neozarista. I giochi di guerra nei Caraibi con i populisti locali sono solo inutili punture di spillo. Il ritorno al dialogo con l’Occidente è per il Cremlino una via obbligata. Sempre che non s’intenda forzare la partita su Ucraina e Georgia, volendole presto nella Nato.
Ma non per questo - ecco perché è sbagliata anche la seconda risposta - l’Ue deve rinunciare ad accrescere la propria sicurezza, anche militare. Solo un’Europa forte può compensare la dipendenza energetica da Mosca, e svolgere un compito di mediazione e controllo sui tic neoimperiali, favorendo il necessario dialogo. Ciò che è riuscito finora a Sarkozy, oltre che presidente di turno dell’Ue, capo di una Francia decisionista e potente.
da lastampa.it
Admin:
28/10/2008
Afghanistan ultima chiamata
ALDO RIZZO
S’intensificano gli attacchi e gli attentati degli insorti afghani contro la forza multinazionale e anche contro obiettivi civili e operatori umanitari. Una guerra che, fino a un paio di anni fa, sembrava avviata verso una lenta vittoria (con la benedizione delle Nazioni Unite, che l’avevano autorizzata subito dopo l’11 settembre) ora suscita preoccupazioni sempre più profonde. Se dovesse concludersi con la sconfitta degli americani e della Nato, e della stessa Onu, e col ritorno al potere dei Taleban e dei loro alleati di Al Qaeda, il disastro politico non sarebbe inferiore al dramma economico che ancora incombe sull’Occidente, e non solo, dopo le tempeste finanziarie, esse stesse inconcluse.
Il pessimismo è diffuso. Ha cominciato a farsi sentire in modo esplicito, qualche settimana fa, con le dichiarazioni dell’ambasciatore di Londra a Kabul e del comandante del contingente britannico, secondo solo a quello degli Usa. Le prime reazioni americane sono state decise, anche aspre, si è parlato di un «disfattismo inglese» (accusa ingiusta per un Paese meno di altri privo di coraggio e di determinazione nei conflitti armati). Ma poi, a Washington, è stato il capo degli Stati maggiori riuniti, l’ammiraglio Mike Mullen, a entrare nel coro dei pessimisti, o meglio dei realisti, prevedendo un 2009 ancora peggiore dell’anno in corso. E a suo conforto è intervenuta la bozza di un rapporto congiunto di sedici agenzie d’intelligence americane.
Sono vari i problemi che giustificano questa sensazione di una «downward spiral», cioè di una spirale in discesa, verso il peggio. Sul piano strettamente militare, gli attacchi aerei della Nato, che accompagnano le controffensive sul terreno, uccidono più civili che terroristi, o a volte soldati afghani, con ciò stesso alimentando il rancore delle popolazioni, che finiscono per simpatizzare con gli insorti. I quali, sempre più spesso, accompagnano le azioni di guerriglia con attacchi suicidi di tipo iracheno. E, a proposito di Iraq, visto che lì le cose, almeno in apparenza, vanno un po’ meglio di prima (tuttavia il blitz americano oltre il confine siriano sta aggravando le tensioni), vari Paesi, Usa in testa, hanno deciso di spostare in Afghanistan un po’ di truppe. Fanno quello che avrebbero dovuto fare già cinque anni fa, concentrando gli sforzi a Kabul, invece di ammassarli in un’inutile corsa a Baghdad. Ma ora, paradossalmente (secondo il New York Times), sono i «combattenti» islamici, che si ritrovano meno impegnati in Iraq, a precipitarsi in Afghanistan, prima ancora che arrivino i rinforzi occidentali.
Si sta cercando di correre ai rimedi, e non solo sul piano militare (la Germania ha deciso di aggiungere mille soldati ai 3500 già presenti). Vitale è anche la lotta alla coltivazione e allo smercio dell’oppio, dal quale i Taleban ricavano non meno di 100 milioni di dollari l’anno. E i ministri Nato della Difesa hanno finalmente raggiunto un accordo per attaccarne, per quanto possibile, i «siti». C’è poi, altro fattore gravissimo, la corruzione endemica della burocrazia afghana, che mina alla radice la credibilità del governo filo-occidentale di Hamid Karzai (alla vigilia di nuove, precarie, elezioni). Estremo rimedio, o estrema ipotesi, il tentativo di un accordo con i Taleban «moderati», o con i capi tribali più disponibili, per interesse, a un cambio di campo, a fianco di un rafforzato esercito nazionale. Tutti questi rimedi, teoricamente ineccepibili, hanno dei limiti pratici.
Si vedrà. Quel che è certo è che questo è un estremo tentativo di salvare l’Afghanistan dal ritorno a un intollerabile passato (nel quale maturò l’attacco epocale alle Torri Gemelle). Insomma, Kabul, ultima chiamata. Per gli americani, ma anche per gli europei, ancora divisi nell’impegno sul campo, pur se non, alla fine, nei rischi.
da lastampa.it
Admin:
13/12/2008
Le svolte di Klaus e Obama
ALDO RIZZO
Col vertice europeo di dicembre si è praticamente chiusa l’era di Nicolas Sarkozy, mentre sta per cominciare quella di Barack Obama. Naturalmente, le due cose non sono comparabili. L’era che comincia riguarda la Superpotenza malata e la speranza che il nuovo presidente riesca a guarirla dai suoi guai, conseguentemente alleviando quelli del resto del mondo. L’era che sta per finire è solo quella della presidenza di turno francese dell’Unione europea, alla quale Sarkozy ha dato un particolare e inconsueto spessore. Eppure un nesso c’è, ed è reso più forte e inquietante dal fatto che alla guida dell’Ue subentra, dal primo gennaio, il suo membro quanto meno più contraddittorio, la Repubblica Ceca di Vaclav Klaus.
Obama è la svolta che tutti sappiamo. Semmai, la si è caricata di troppe attese. Ci si aspetta da lui non solo un attacco costruttivo, e in prospettiva decisivo, alla crisi economica, ma anche la soluzione, in tempi prevedibili, dei più acuti problemi politici internazionali, dal Medio Oriente all’Afghanistan, dai rapporti con la Russia alla definizione di uno stabile equilibrio con la Cina, per non parlare del terrorismo. Ma, proprio per questo, non potrà fare tutto da solo, avrà bisogno di partner impegnati e affidabili, e il primo tra questi dovrebbe essere l’Unione europea.
Sarkozy, come presidente di turno dell’Ue, ha dimostrato che l’Europa può essere un tale partner, non succube né rivale dell’America, capace di una sua autonomia, da mettere al servizio di fondamentali interessi comuni. Quasi mezzo secolo dopo il vano appello di Kennedy alla «equal partnership», Sarkozy ha saputo far valere la voce europea in circostanze difficili, dalla guerra russo-georgiana all’esplodere della crisi finanziaria, in questo secondo caso facendo leva sulla zona dell’euro e ad essa quasi cooptando la sterlina di Gordon Brown. Ha fatto questo superando difficoltà istituzionali dell’Ue, che tuttavia restano.
Restano e ora rischiano di essere esaltate dalla presidenza di turno della Repubblica Ceca. Questo Paese relativamente piccolo, di 10 milioni di abitanti, sul quasi mezzo miliardo dell’Ue, ha come capo di Stato quel Klaus del quale l’americana «Herald Tribune» ha pubblicato nei giorni scorsi, in prima pagina, un ritratto estremamente critico, a riprova che le preoccupazioni non sono solo europee. Come presidente della Repubblica, Klaus non ha poteri politici effettivi, ma, a parte il fatto che il primo ministro, Mirek Topolanek, è del suo stesso partito, il personaggio sembra avere una grande diretta influenza sul Paese. Economista ultraliberista, padre di una drastica riconversione dell’economia ceca dopo il comunismo, ha sul tavolo una foto di Margaret Thatcher, considera la difesa del clima «un mito pericoloso», nel 2005 definì l’Ue una costruzione di carta e ha accusato di «irresponsabile protezionismo» le iniziative per il salvataggio del sistema bancario europeo. Non gli è riuscito di far giudicare incostituzionale il Trattato di Lisbona, per poterlo definitivamente affondare, ma non si è certo arreso.
Si può anche sperare che, alla prova dei fatti, un tal quale pragmatismo infine prevalga a Praga, nei sei mesi di presidenza. Per evitare che l’esordio di Obama coincida clamorosamente con una regressione politica europea. Ma il rischio resta, così come resta la giusta pressione di Sarkozy per stabilizzare di fatto il potere decisionale dell’Ue, soprattutto attraverso l’Eurozona, il cui sviluppo, anche politico, nella perenne attesa di unanimità istituzionali, sempre più appare la condizione dell’avvento di un motore europeo. Col necessario concorso di Germania e Italia, in primo luogo.
da lastampa.it
Navigazione