ALDO RIZZO.
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23/4/2008
Se il cavaliere ridimentica l'Europa
ALDO RIZZO
L’Europa chiama l’Italia e l’informa che il successore di Frattini quale commissario alla Giustizia sarà il francese Jacques Barrot. A Antonio Tajani, verosimile sostituto del futuro ministro italiano degli Esteri, andrebbero i Trasporti, non meno importanti, ma meno legati ai «diritti umani». È comprensibile il rammarico di Prodi d’essere informato a cose fatte di decisioni così delicate, ma è sperabile che questa storia insegni qualcosa anche a Berlusconi, che con l’Unione Europea, anche per la sua alleanza con la Lega, non ha mai avuto un rapporto lineare. Subito dopo la vittoria elettorale, Berlusconi, ha detto che la sua prima missione all’estero sarà in Israele. Niente da eccepire sulla visita, tanto più che dovrebbe coincidere col sessantesimo anniversario dello Stato ebraico. È anche comprensibile che il presidente del Consiglio «in pectore» voglia dare subito l’impressione di un nuovo tono nel rapporto politico con Gerusalemme, appannato da certe asprezze polemiche di Massimo D’Alema (pur nel contesto di una linea sul Medio Oriente più equilibrata di quanto non sembrasse).
E tuttavia, sorprende che Berlusconi abbia voluto riservare la sua prima missione ufficiale a un Paese extraeuropeo, per quanto amico, e non a uno dei grandi Paesi dell’Ue, cioè dell’area politico-istituzionale, oltre che economica, di cui siamo parte. O direttamente a una sede comunitaria, tipo il Parlamento europeo. Questo è quanto, di solito, fanno gli altri membri dell’Ue, per non parlare di Francia e Germania, pur tra gli alti e bassi del loro «rapporto speciale». E in questo contesto va visto anche l’incontro, subito organizzato, con Putin in Sardegna, in quella Villa Certosa che già lo ospitò nel 2003 e che successivamente fu sede di una vacanza estiva delle due figlie. E va da sé che sia stato entusiasta anche il saluto, questo telefonico, ma ribadito in una pubblica dichiarazione, di George W. Bush. Il quale ha ancora pochi mesi di mandato pieno, ma li ha, e comunque Berlusconi disse una volta che per lui l’America ha sempre ragione, chiunque sia a guidarla. Quanto a Putin, è anche lui in uscita, a brevissimo termine, come Presidente, ma sarà primo ministro, con poteri molto forti, e dunque il Cavaliere avrà il vantaggio di essere, anche formalmente, un suo pari grado (e intanto hanno già parlato di Alitalia...).
Anche in questo ritrovarsi tra vecchi amici non c’è naturalmente nulla di male, e avere brillanti relazioni personali con i leader delle maggiori potenze è un qualcosa in più rispetto a chi ne ha di normali, o meno. Ma bisogna dissipare l’impressione che, dopo una terza e più netta vittoria elettorale, e con un’esperienza di governo ormai quasi storica, Berlusconi stia riproponendo la sua vecchia politica estera, che non ci ha resi molto popolari in Europa, generalmente parlando, e anzi ci ha svantaggiati. In sintesi, una politica estera che ha, almeno tendenzialmente, «saltato» l’Europa, cercando un improbabile ruolo globale, di fatto affidandosi a rapporti privilegiati con due potenze esterne all’Ue, come gli Stati Uniti e la Russia, e credendo con questo di acquisire un prestigio e un potere contrattuale da far valere «dall’alto» con gli stessi partner europei. Così non è stato, anzi abbiamo subito la diffidenza dei partner maggiori, con l’eccezione, per loro utilità, della Gran Bretagna di Blair e della Spagna pre-Zapatero. In sostanza, ci siamo autoesclusi dalla corrente «centrale», da quello che in inglese si chiama «mainstream», dell’integrazione europea.
Intendiamoci, se si parla di Europa non bisogna pensare al sogno antico, e alla retorica lungamente seguita, del Superstato che ci mette tutti insieme alla pari: ora, per dire, svedesi e ciprioti, tedeschi e maltesi, francesi e lettoni. Il sogno antico resta come orizzonte, credo necessario, ma la realtà attuale è quella di una potente area geoeconomica e anche geopolitica, nella quale, proprio per la vastità raggiunta, c’è bisogno di un gruppo di testa che, pragmaticamente, indichi le priorità e i mezzi relativi, di fronte a un’incombente crisi mondiale. Un tale gruppo già c’è, al di là dell’«ideologia» europeista, ed è formato da Germania, Francia e Gran Bretagna. Altri candidati sono la Spagna e forse la Polonia. L’Italia dovrebbe starci di diritto. Ma solo se sarà capace, questo diritto, di farlo valere. Agendo in Europa. Il che non significa compromettere rapporti ottimali con Russia e America, e con lo stesso Israele, ma anzi rinsaldarli, in quanto membri partecipi e autorevoli di una comunità e di un potere diffusi.
da lastampa.it
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23/6/2008
Turchia, l'altro fondamentalismo
ALDO RIZZO
Nei rapporti tra militari e classe politica, gli studiosi distinguono fondamentalmente tre casi: la dittatura vera e propria, il regime di «tutela militare» e, naturalmente, il regime costituzionale, nel quale le Forze Armate possono tutt’al più essere un gruppo di pressione, ma sempre sottoposte al potere politico. Storicamente, dopo la nascita della Repubblica nel 1923, la Turchia ha conosciuto i primi due casi, ma soprattutto il secondo, cioè il regime di tutela militare, che ha finora impedito il pieno realizzarsi del terzo, quello della normalità democratico-costituzionale. È una vecchia storia, che in questi giorni si sta ripetendo, con prospettive più allarmanti del solito, anche sul piano internazionale. Le conseguenze di una grande crisi istituzionale ad Ankara investirebbero, oltre al processo di adesione, o di avvicinamento, della Turchia all’Unione europea, la questione curda e i suoi riflessi nel già tragico Iraq, il futuro di Cipro, dove finalmente è in atto un serio dialogo tra le comunità turca e greca, e lo stesso scenario arabo-israeliano, dove albeggia la possibilità di una storica intesa tra lo Stato ebraico e la Siria, proprio in virtù della mediazione del primo ministro turco, Tayyip Erdogan.
Il tema della crisi è quello, ormai abituale, della laicità dello Stato, e non viene agitato solo dai militari, ma anche dalla maggioranza dei giudici e dall’opposizione parlamentare, che si considera l’erede diretta di Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica. Ma tutto avviene sempre sotto lo sguardo arcigno degli Alti Comandi, pronti a minacciare il ricorso a mezzi estremi, del resto messi in atto più volte. A innescare questa nuova e potenzialmente drammatica fase del confronto è stata la decisione del governo (che si usa definire, e in effetti è, «islamico moderato»), e della sua larga maggioranza in Parlamento, di consentire alle studentesse d’indossare il velo nelle aule universitarie. S’intende: di consentire, non di obbligare. Quasi all’unanimità, la Suprema Corte ha rigettato la decisione, vedendovi un passo verso la «sharia», cioè verso la legge, religiosa e politica insieme, tipica delle teocrazie musulmane. Non solo, ma in questa chiave è stata ventilata l’ipotesi di mettere al bando il partito Akp («Giustizia e sviluppo») e di escludere da incarichi politici i suoi maggiori esponenti, compreso Erdogan e lo stesso Capo dello Stato Abdullah Gul. Un’ipotesi che dovrebbe sciogliersi in autunno.
E in che modo? Eliminando un partito che, appena un anno fa, ha ottenuto il 47% dei voti popolari? O costringendolo a ritirare le sue leggi? Il partito al potere potrebbe esigere nuove elezioni, che certo vincerebbe, magari con un nuovo nome. E, in tal caso, i militari passerebbero all’azione? L’Akp, va detto, non è esente da sospetti sulla sua laicità, al di là del velo delle studentesse. In questo senso, lo stesso Erdogan ebbe in passato guai, diciamo, giudiziari. Ma l’evoluzione del partito da radici fondamentaliste a forme conciliatorie tra religione e Stato laico appare indubbia, così come la sua intenzione di approdare, certo per gradi, alle regole della società politica europea. Addirittura l’Economist ha affermato che il governo Erdogan «ha fatto più riforme liberali e con maggior successo di ogni precedente governo laico».
E dunque comincia una specie di corsa contro il tempo, per sapere se quella che, nonostante tutto, è una delle poche, forse la sola, sia pure imperfetta, democrazia di fede islamica potrà sopravvivere a una prova di forza interna come quella che si annuncia, preservando un’importante funzione esterna, geopolitica. E qui, per noi europei occidentali e liberali, si prospetta un bel problema, quasi un paradosso. Dobbiamo sostenere le forze ostentatamente laiche, e occidentalizzanti, militari compresi, o dare un comprensivo appoggio agli «islamici moderati»? Certamente occorrono garanzie da ambo le parti. Ma, forse, il fondamentalismo laico (una teocrazia atea?) è, in questo caso, il pericolo maggiore.
da lastampa.it
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4/8/2008
Convivere con la bomba
ALDO RIZZO
Sessantatré anni dopo Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945), e quando ben sette Paesi si sono aggiunti agli Stati Uniti come possessori di armi nucleari, formando una specie di G8 dell’Apocalisse (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza più India e Pakistan e, pur senza averlo mai ammesso, Israele), e con nuovi casi ancora aperti come la Corea del Nord e soprattutto l’Iran, siamo ancora in tempo a fermare la corsa alla Bomba e, addirittura, a cominciare a lavorare sul serio all’idea di un mondo senza più l’incubo della strage atomica? Dicono di sì, purché ci si affretti, cinque personalità italiane che hanno sottoscritto un appello comune, quattro politici di diversa e anzi opposta estrazione (Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, Giorgio La Malfa e Arturo Parisi) e uno scienziato, Francesco Calogero, da sempre attivo per il disarmo nucleare.
Il tema è di una complessità senza paragoni. Già nel 1946, un anno dopo le terrificanti esplosioni sul Giappone, gli Stati Uniti offrirono, col piano Baruch, la possibilità di porre sotto un controllo internazionale l’uso della nuova e rivoluzionaria energia, ma si oppose Stalin, che aspettava solo il momento in cui anche l’Urss avrebbe avuto la Bomba, equiparandosi alla superpotenza occidentale. Era l’alba della Guerra fredda, ma poi disporre dell’arma atomica, dell’arma assoluta, divenne un’aspirazione diffusa, perché era vista come il simbolo estremo, definitivo, della stessa, propria, sovranità politica, e dell’equilibrio strategico tra questa e altre sovranità, oltre che come strumento eccezionale, in senso tecnico, di autodifesa. Col tempo, si capì che l’equilibrio (sia pure «del terrore») tra due superpotenze politicamente responsabili era altra cosa da una proliferazione di armamenti atomici nazionali, in aree instabili. Lo stesso Kissinger firmò, nel gennaio 2007, con altri importanti esponenti della politica estera americana, un appello a pensare a un mondo senza armi nucleari, appello a cui si sono riferiti, rilanciandolo, dopo altri in altri Paesi, i firmatari del documento italiano. Fondamentalmente, i destinatari di questi appelli sono quelle che restano le due superpotenze militari, gli Usa e la Russia post-sovietica, detentrici dei nove decimi degli armamenti atomici mondiali: se esse non prenderanno l’iniziativa di una vera e drastica riduzione dei rispettivi arsenali, inducendo gli altri sei membri del «club» a fare altrettanto, sarà sempre più difficile impedire che un numero crescente di Paesi coltivi l’ambizione nucleare. Del resto, questa condizione, con altre, era già prevista, in sede Onu, dal Trattato per la non proliferazione (Tnp), purtroppo assai poco rispettato.
Un commento a tutto questo è venuto, sul Corriere della Sera del 28 luglio, da Emanuele Severino (e non è la prima volta che un filosofo, lo stesso Severino o altri in altri Paesi, già Norberto Bobbio sulla Stampa, contendono agli esperti militari l’analisi di un tema che, al di là degli aspetti tecnico-strategici, investe il futuro dell’umanità). Severino solleva un’obiezione radicale: le due superpotenze non rinunceranno mai allo strumento della loro superiorità sul resto del mondo, alla loro «invincibilità», non è mai successo nella Storia. Piuttosto, ciascuna nella sua area d’influenza può impedire la «proliferazione», ricreando quelle condizioni di equilibrio che salvarono la pace nella Guerra fredda. Se il primo concetto può sembrare (ma non è) troppo pessimistico, il secondo è forse troppo ottimistico. Quel che è certo è che un mondo senza armi nucleari è purtroppo un’utopia, perché la Bomba, l’arma assoluta, non potrà mai essere «disinventata». Bisogna conviverci. Ma senza mai rimuoverne il problema, e a questo servono gli appelli. Naturalmente adoperandosi anche e molto per allentare le tensioni politiche, sempre foriere di tentazioni militari. Ciascun Paese, Italia compresa, può e deve fare la sua parte.
da lastampa.it
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13/8/2008
Medio Oriente l'arbitro resta l'America
ALDO RIZZO
E’ passato circa un mese da quando, a Parigi, il primo ministro israeliano Olmert e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen affermarono che «la pace non è mai stata così vicina». Esultanza di Sarkozy, che vedeva i primi frutti della sua «Unione per il Mediterraneo», ma soddisfazione, o almeno un senso di rinvigorita speranza, in tutto l’Occidente. Certo, i precedenti invitavano alla prudenza, la pace era sembrata molto vicina già nel 1993, con la stretta di mano tra Rabin e Arafat sul prato della Casa Bianca, e ancor più sette anni dopo, nello stesso luogo, nell’incontro tra Barak, nuovo premier israeliano, e ancora Arafat, senza che vi fossero conseguenze apprezzabili. E tuttavia si poteva pensare che questa volta qualcosa si stesse davvero muovendo, anche per la decisione della Siria di stabilire per la prima volta relazioni diplomatiche col Libano, evidentemente non più considerato un protettorato di Damasco. E in quel momento persino l’Iran sembrò offrire una qualche apertura nel cruciale negoziato sul suo programma nucleare. Dopotutto, si pensò, anche le crisi più dure e intrattabili, a un certo punto, cominciano a finire.
Un mese dopo, siamo rientrati nella disperante «routine» di sempre. Il nodo di Hamas, che controlla Gaza, e senza il cui apporto non può esserci alcuna pace in Palestina, si fa sempre più drammatico, anche per l’insorgere di aspri contrasti al suo interno, ma non sono migliorati neppure i rapporti tra Israele e i moderati dell’Anp, se Olmert ha dichiarato che nessun accordo è prevedibile entro il 2008, come sperava Bush. Lo stesso Olmert sta per lasciare il governo, travolto da accuse giudiziarie, e se il suo successore dovesse essere il falco Netanyahu, o anche l’attuale viceministro della Difesa, Mofaz, l’unica cosa da attendersi è un irrigidimento di Israele, non solo verso i palestinesi, ma anche verso la Siria e l’Iran. Mofaz, ma anche il suo capo, Barak, altro possibile successore di Olmert. Sono sempre più frequenti le «fughe di notizie» su piani di attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, anche se si spera che sia solo uno strumento di pressione, mentre non si è certo alleggerita la situazione libanese, nonostante il «riconoscimento» siriano.
Detto tutto questo, e sempre che la situazione non precipiti da qui alla fine dell’anno, bisogna concludere che la «patata bollente» della crisi mediorientale, nei suoi vari aspetti, tornerà per l’ennesima volta nelle mani di un Presidente degli Stati Uniti, il prossimo. L’ennesima volta vuol dire la dodicesima, perché il successore di George W. Bush sarà il dodicesimo capo della Casa Bianca, da quando l’Onu decise la spartizione della Palestina, subito rifiutata dagli arabi, col seguito di guerre a ripetizione col neonato Stato d’Israele. E sempre, quale più e quale meno, i Presidenti degli Usa hanno avuto, tra le priorità strategiche, il tormentoso caso del Medio Oriente, diventato un po’ il simbolo, un po’ la radice vera, delle turbolenze planetarie, terrorismo compreso. Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush padre, Clinton, Bush figlio, una storia il cui succo è che la superpotenza occidentale, poi diventata l’unica vera superpotenza, paragonata ai grandi imperi del passato, non è mai riuscita a imporre una «pax americana», tuttavia rispettosa, per essere efficace, dei fondamentali diritti delle parti in causa. Troppa benevolenza verso Israele? Troppa intransigenza «identitaria» dalla parte araba e islamica? Un «mix» delle due cose? Benché i rapporti di forza nel mondo stiano cambiando, nessuno come il futuro capo della Casa Bianca (anche per la sempre labile presenza europea) ha il potere di dire e fare, finalmente, qualcosa di nuovo.
da lastampa.it
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26/8/2008
Il settembre nero del dopo-Bush
ALDO RIZZO
Non è un settembre facile, quello che si annuncia per l’America e per l’Occidente. Se, infatti, la crisi georgiana è lungi dall’essere risolta, e anzi conosce asprezze crescenti, c’è un’altra crisi, un altro fronte, non meno, se non ancor più inquietante, che tocca, tra Afghanistan e Pakistan, il nervo scoperto della lotta al terrorismo islamista. Le due crisi sono indipendenti, ma fino a un certo punto.
La crisi georgiana e caucasica è più appariscente, perché ha fatto subito tornare in mente la vecchia Guerra fredda, il quarantennale confronto-scontro tra l’Occidente e la Russia sovietica. E le ultime mosse di Mosca non sembrano fatte per allontanare quel ricordo. Le dure parole anti-Nato del presidente Medvedev, il voto della Duma, controllata dal partito di Putin, per un riconoscimento russo delle regioni separatiste della Georgia. Non allentano la tensione le repliche di Washington, da Bush a Rice e al vicepresidente Cheney (un falco non pentito, neanche dopo l’Iraq), che il 2 settembre andrà a dare sostegno, a Tbilisi, al leader (imprudente) della Georgia, Saakashvili.
L’altra crisi, quella afgana, colpisce meno la fantasia mediatica, perché non certo improvvisa, ma lunga di anni. Ma proprio la sua durata e il suo progressivo peggioramento, accentuatosi nelle ultime settimane, e negli ultimi giorni, la impongono all’attenzione internazionale con una forza che non può essere minore di quella per il Caucaso. Gli insuccessi sempre più evidenti della coalizione occidentale, gli eccidi di civili, certo involontari, ma che alimentano il consenso degli estremisti e di Al Qaeda. Lo stesso Karzai, l’uomo di Washington e della Nato, il simbolo della sperata rinascita democratica, che prende le distanze dai suoi stessi «sponsor». E, ad aggravare il tutto, la fase, a dir poco, d’incertezza apertasi, dopo Musharraf, nel Pakistan, retrovia cruciale della guerra afghana, a sua volta decisiva per la lotta al terrorismo. La relazione tra le due crisi, quella georgiana e quella afghano-pachistana, è nel fatto che sia la Russia che l’America - nonostante la mediazione europea, a torto definita velleitaria - rischiano di compromettere quelli che dovrebbero essere,e finora sono stati, sforzi comuni contro un nemico comune. La guerra fredda attorno a Tbilisi è guerra calda, caldissima, attorno a Kabul. Una brutta eredità per il dopo-Bush.
da lastampa.it
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