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Autore Discussione: EMANUELE MACALUSO -  (Letto 28716 volte)
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« inserito:: Aprile 22, 2008, 12:13:55 pm »

22/4/2008
 
Macché Nord il nodo è il Pd
 

EMANUELE MACALUSO
 
Palmiro Togliatti, nella campagna elettorale del 1948, parlando a Torino di fronte a 130.000 persone, pronunciò queste parole: «De Gasperi ha capito che questa volta il verdetto di condanna delle masse popolari (della Dc, n.d.r.) non verrà dall’Italia del Nord. Ma verrà prima di tutto dal Mezzogiorno lavoratore, contadino e piccolo borghese….».

Traggo questa citazione dal libro di Edoardo Novelli (Le elezioni del Quarantotto, Donzelli editore) per dire che in quelle elezioni il leader del Pci dava per scontato che il Nord avrebbe votato per il «Fronte popolare» e annunciava la vittoria nel Sud. Ma perse al Nord e al Sud. E così è stato sempre: quando la sinistra ha vinto e quando ha perso. Tuttavia le aspettative di Togliatti sul voto del Sud non erano campate in aria se si tengono presenti i dati delle elezioni siciliane, svoltesi il 20 Aprile del 1947: il «Blocco del popolo» (Pci-Psi-Partito d’azione) con il simbolo di Garibaldi (come nel 1948) aveva ottenuto il 30 per cento dei suffragi e la Dc solo il 20 per cento. Nel 1948 l’assetto economico-sociale non era certo cambiato, ma la Dc ottenne nell'isola la maggioranza assoluta. Il Fronte popolare perse 10 punti, calò al 20 per cento dei voti.

Come è noto quel che era cambiato era invece il quadro politico internazionale (la guerra fredda) e anche quello nazionale dato che la Dc e i partiti di centro puntarono con determinazione sulla riorganizzazione e lo sviluppo del capitalismo. Le scelte furono nette e lo scontro sociale e politico negli anni Cinquanta fu durissimo. Ma complessivamente l’Italia progredì: da Paese agricolo-industriale si affermò come potenza industriale e si realizzarono anche significativi progressi sociali. E in quegli anni i rapporti di forza elettorali cambiarono: già nel 1951 nelle elezioni siciliane la sinistra segnò una significativa avanzata, lo stesso avvenne nelle elezioni politiche del 1953 quando la Dc e i partiti centristi non superarono il 50 per cento dei suffragi necessari per fare scattare il premio di maggioranza prevista dalla «legge truffa». Penso che quei progressi elettorali della sinistra furono frutto di una politica che, anche all’opposizione, indicava un certo rapporto tra Nord e Sud e di una presenza attiva e organizzata, in tutti i gangli della società.

Ho fatto questa lunga premessa anche per dire che in anni in cui effettivamente si verificarono processi politico-sociali «epocali», nessuno usò questo termine enfatico di cui oggi si abusa per giustificare il fatto che nel Nord il Pd non decolla, si verifica uno sradicamento della sinistra radicale e un successo elettorale della Lega. E nessuno invece parlò di svolta epocale nel momento in cui per la prima volta nella storia di questo Paese le regioni del Mezzogiorno continentale e della Sardegna sono state governate dal centrosinistra. Eppure il fatto è stato politicamente rilevante. Ed è rilevante il fatto che è riemersa una «questione meridionale» più acuta di quella del passato perché è determinata anche dal fallimento dei governi del centrosinistra nel Sud. E come nel Nord sono andati avanti processi che di fatto hanno sempre più separato le due parti del Paese. La Lega esprime questa «separatezza» che ora si manifesta anche al Sud con il movimento di Lombardo.

Cosa fare? Dopo il risultato elettorale nel centrosinistra, l’unica risposta che si è sentita è quella che chiede il «Pd del Nord». Ci sarà anche il Pd del Sud? Il problema, a mio avviso, non è il Pd del Nord, ma il Pd. Ogni giorno si legge che questo partito deve «ricominciare dal territorio». Vero. Ma con quale politica, con quali forze, con quale struttura organizzativa? Si è scritto sino alla noia che la nascita del Pd è stata una grande operazione politico-culturale «epocale», che ha fuso le anime politiche di Moro e Berlinguer (sciocchezze!) che superava le esperienze dei partiti socialisti europei ecc. E ora?

Intanto non ci sono nel Pd organi in cui si discute seriamente e pubblicamente sulle cause della sconfitta e sulle prospettive dell’opposizione. Il Pci, partito la cui democrazia interna era monca, lo faceva nei Comitati Centrali con resoconti sull’Unità. Il partito democratico non fa nemmeno questo. Eppure ne avrebbe bisogno.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Luglio 01, 2008, 04:01:33 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:44:53 pm »

30/4/2008
 
Un patto costituzionale tra destra e sinistra
 
EMANUELE MACALUSO
 

In due occasioni che segnano la storia della Repubblica italiana - il sessantesimo anniversario della Costituzione e la ricorrenza del 25 Aprile - il Capo dello Stato ha pronunciato due discorsi su cui riflettere per l’incidenza che hanno sui processi politici che attengono alla ricostruzione di un sistema politico condiviso. Giorgio Napolitano, il 23 gennaio scorso, parlando davanti alle Camere riunite, ha messo in forte evidenza la validità della Costituzione come riferimento essenziale delle istituzioni e dei cittadini e il 25 Aprile a Genova ha detto che quella data «deve porsi al centro di uno sforzo volto a ricomporre con spirito di verità la storia della nostra Repubblica». In entrambi i discorsi ha sollecitato una «condivisione» nel dare un senso a quelle date attraverso uno sforzo volto a raggiungere «un comune sentire storico». Nel primo e nel secondo intervento Napolitano non ha fatto ricorso alla retorica ma al ragionamento critico, alle argomentazioni volte a valutare serenamente e consapevolmente le revisioni necessarie e i punti fermi «invalicabili».

Le reazioni politiche espresse dai due schieramenti ai due discorsi sono state interessanti e in parte convergenti, anche se Berlusconi sul tema continua ad avere un comportamento «equivoco», nel dire e non dire, nell’affermare e nello smentire. L’«equivoco», però, non è solo nella persona che l’esprime, ma nell’attuale sistema politico. Ed è su questo punto che vorrei soffermarmi. Le forze politiche che insieme furono protagoniste della Resistenza e scrissero la Carta Costituzionale, dal 1994, sono scomparse dalla scena politica. I loro eredi, in parte radunati nel centrosinistra, hanno formalmente assunto i valori della Resistenza e della Costituzione, ma non hanno avuto la capacità e la forza politica di reinterpretarli e di esprimerli nel quadro politico nuovo. Un quadro politico di cui è stato fattore determinante la «discesa in campo» di Berlusconi che col suo partito-azienda ha egemonizzato il sistema, sdoganando il Msi di Fini, assorbendo buona parte degli elettori moderati del vecchio pentapartito (Dc, Psi, Pr-Psdi, Pli) e avallando come forza di governo la Lega di Bossi.

In tutti questi anni - sui temi cui ho accennato - per usare un termine calcistico, il centrosinistra ha fatto catenaccio e ha giocato di rimessa: ha difeso stancamente i valori della Costituzione e della Resistenza senza un progetto innovativo. Il centrodestra invece non ha avuto come riferimento la Resistenza e ha teso a introdurre modifiche strumentali alla Costituzione senza un progetto politico-costituzionale.

Insomma, tra le forze che si sono alternate al governo e all’opposizione, non c’è un «patto costituzionale» e una condivisione sui valori che dovrebbero essere fondanti per la nazione. Eppure - ecco un fatto su cui riflettere - dal 1992, anno in cui si apre una crisi di sistema, i Presidenti della Repubblica, Scalfaro, Ciampi e Napolitano, con accenti diversi, sono stati non solo custodi della Costituzione, ma espressione delle forze che animarono la Resistenza. I tentativi fatti, soprattutto da Ciampi e Napolitano, volti a «normalizzare» i rapporti tra maggioranza e opposizione non sono stati vani e hanno ottenuto risultati nello svolgimento del conflitto politico, anche nei momenti in cui è stato aspro. Non è un caso che i due presidenti hanno avuto e hanno un alto gradimento tra i cittadini.

Tuttavia, il problema a cui abbiamo accennato, il reciproco riconoscimento fondato su un patto costituzionale, è aperto. E non si risolve, come pensavano Veltroni e Berlusconi, con le «buone maniere» e con il comune interesse a usare la legge elettorale per eliminare dalla scena politica i piccoli partiti che hanno reso difficile la governabilità. Il presidente Napolitano nel suo discorso ha posto le basi politico-culturali per un confronto reale su temi cruciali come la Resistenza e la Costituzione. Sul primo a me pare che sia stata offerta una sintesi alta su cui tanti storici e personalità della politica di diverse parti hanno discusso. E anche sulla Costituzione questo Presidente ha detto cose innovative. Del resto chi ha seguito l’itinerario politico-culturale di Napolitano e i suoi scritti (anche quando non era al Quirinale) sa che non è mai stato un paladino dell’intoccabilità della Carta e delle istituzioni, ma un fautore di riforme rigorose e condivise.

Attenzione, lo dico dopo l’aspro scontro per il ballottaggio a Roma, non ci sono scorciatoie, se maggioranza e opposizione non si confrontano e non si incontrano sul terreno costituzionale e su valori della Resistenza così come sono stati reinterpretati dal Presidente, i tentativi di accordi su «leggi e regolamenti» falliranno. Occorre cominciare dalla testa e non dai piedi del sistema.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 07, 2008, 01:10:45 am »

6/5/2008
 
Sinistra, un po' di realismo
 
EMANUELE MACALUSO
 

Sono trascorsi tre anni da quando in Italia si svolsero le elezioni che segnarono un grande successo del centrosinistra in quasi tutte le regioni e particolarmente nel Sud continentale. Sono trascorsi due anni dalle elezioni politiche che diedero la vittoria di misura all’Unione prodiana. E solo due anni addietro, nelle elezioni comunali di Roma, Veltroni ottenne il 67 per cento dei voti, mentre Alemanno si fermò al 33 per cento. Eppure, a leggere alcune analisi dei risultati elettorali del mese scorso, sembra che la destra abbia vinto non tanto per gli errori politici e di comportamento dei partiti del centrosinistra e del governo che esprimevano, ma perché il mondo che li circonda e condiziona è radicalmente cambiato.

Eugenio Scalfari nel suo editoriale domenicale ha scritto: «Io credo che l’emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione». Dubito che le classi siano scomparse, e mi chiedo se i processi a cui accenna Scalfari siano emersi in questi ultimi due-tre anni.

Nei giorni scorsi nella trasmissione «Otto e mezzo» ho ascoltato Nichi Vendola che analizzando le ragioni della sconfitta ha parlato di sconvolgimenti economici, sociali e civili «epocali» tali da mettere in discussione tutto l’assetto politico-culturale della sinistra. Eppure tre anni addietro Vendola, dirigente di Rifondazione comunista, vinse le primarie nel confronto con un esponente dell’Ulivo e vinse il ballottaggio con l’ex presidente della Regione, Fitto, leader di Fi. In quell’occasione si disse che Vendola aveva interpretato bene i mutamenti profondi che si erano verificati nella società. Oggi lo stesso Vendola ci dice che la sinistra non è stata in grado di capire quei mutamenti.

La verità è che in questi due-tre anni si sono verificati alcuni fatti politici di cui non si parla con sufficiente realismo e spirito critico. Anzitutto il governo Prodi di cui nella campagna elettorale si esaltavano i risultati sul terreno del risanamento dei conti pubblici (i risanatori però - Prodi, Padoa-Schioppa, Visco - non erano candidati), si denunciavano i limiti sociali della sua opera ma non si capiva qual era il giudizio complessivo che ne dava il Pd. L’Arcobaleno vantava la fedeltà a Prodi ma denunciava con violenza il «massacro sociale» consumato in questi anni. Non si può fare una campagna elettorale senza un giudizio chiaro, netto, comprensibile sul governo di cui si fa parte.

L’altro fatto politico verificatosi alla vigilia delle elezioni è stato la nascita del Pd, del Pdl e dell’Arcobaleno: una «rivoluzione» nelle forze politiche senza un processo politico-culturale e una partecipazione reale che l’accompagnasse. La destra, con Berlusconi, non ha questi problemi. La sinistra sì, e si è visto. Queste osservazioni servono per dire che le questioni che debbono affrontare le forze politiche del centrosinistra sono squisitamente politiche e sono due: ridefinirsi come partiti e attrezzarsi per fare un’opposizione «normale» rispetto a un governo che, come dice Marcello Sorgi, dovrebbe essere anch’esso «normale». Il malessere che serpeggia nel Pd non è dovuto solo a un risultato deludente, ma al fatto che quel risultato è ascritto all’incerta identità di un partito che oggi non è in grado di definire le sue alleanze, necessarie, come dice D’Alema, per condurre un’opposizione più incisiva. Un partito che, a un anno dalle elezioni, non sa ancora dove collocarsi nel Parlamento europeo.

Ma un dibattito politico su questi temi non si è ancora aperto. Nella sinistra Arcobaleno e nei socialisti la confusione è grande e non si vede una via d’uscita. Quel che ormai dovrebbe essere chiaro a tutti è una cosa: non è pensabile e non è serio che forze politiche con l’uno, due, tre per cento o poco più si definiscano socialiste o comuniste. Un partito socialista in tutto il mondo è tale se ha un consenso largo di popolo. E in Italia anche il partito comunista ebbe carattere di massa. La Costituente socialista doveva partire da questo punto per essere credibile. Nei giorni scorsi Pannella ha promosso un dibattito con pezzi dell’Arcobaleno sul futuro della sinistra. Tuttavia non mi pare che si esca da una logica e una visione minoritarie: comprensibile per un partito radicale, ma non per una forza socialista. Insomma, una forza di sinistra in competizione virtuosa col Pd è utile solo se ha consistenza e si colloca nell’ambito del socialismo europeo. Oggi, invece, tutto è confuso e incerto. Sono queste le ragioni per cui penso che le analisi «epocali» possono essere fuorvianti se non si affrontano i veri nodi politici messi in forte evidenza dal risultato elettorale.

 
DA lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:03:37 pm »

13/5/2008
 
L'eterna baruffa D'Alema-Veltroni
 
EMANUELE MACALUSO

 
Sono molti i giornali che hanno commentato negativamente, a volte con espressioni sprezzanti, la riproposizione del vecchio film in cui si svolge il duello, senza morti e feriti, tra Veltroni e D’Alema.

Michele Serra domenica scorsa su Repubblica, nella sua rubrica, scriveva: «L’idea che l’opposizione possa ripartire da un remake della vecchia baruffa D’Alema-Veltroni non è neanche triste. È pazzesca nel senso letterale della parola». È vero, quel film è inguardabile. Ma siccome, checché ne pensi Serra, la baruffa non si svolge in un manicomio e i protagonisti non sono pazzi ma dovrebbero guidare l’opposizione al governo Berlusconi, bisogna chiedersi come mai e perché si ripropongono quei vecchi scenari. E a chiederselo dovrebbero essere soprattutto coloro che hanno auspicato e salutato la nascita del Pd come evento «epocale» che seppelliva il passato dei partiti che vi confluivano e apriva l’era nuova della politica.

A riflettere sul «caso» dovrebbero essere i tanti che osannarono l’elezione di Veltroni a segretario del Pd attraverso le «primarie» come moderna investitura che finalmente cancellava gli antichi e superati riti congressuali celebrati negli antichi e superati partiti politici. Una novità quella delle «primarie» all’italiana, voluta non solo da Veltroni ma anche da D’Alema, Marini, Fassino, Rutelli e altri. Ora, invece, si dice che siamo punto e daccapo. D’Alema al giornalista del Tg3 che gli chiedeva se stava costituendo una corrente, replicava, con ragione, che le correnti nel Pd c’erano già e bastava guardare come si davano gli incarichi. La stessa osservazione, successivamente, l’hanno fatta l’on. Parisi e gli «ulivisti».

A mio avviso il problema non sta nel sapere se ci sono o no le correnti nel Pd, ma se hanno o no una base politica. Quesito essenziale per capire se siamo di fronte a una «baruffa» tra due oligarchi che da tempo si contendono il controllo nei partiti in cui hanno avuto un ruolo. A chi segue la vicenda politica italiana e particolarmente quella della sinistra, è più agevole capire quale fu il contrasto politico tra Pietro Ingrao e Giorgio Amendola negli Anni Sessanta nel Pci (un partito in cui vigeva il centralismo democratico), che quello che ha contrapposto negli Anni Novanta e nel 2000 Veltroni e D’Alema che agivano in partiti (Pds-Ds-Pd) che avrebbero dovuto praticare una dialettica politica aperta, pubblica, leggibile a tutti.

In verità Amendola e Ingrao fecero battaglie politiche, anche aspre ma politiche, e si capiva che il primo guardava con interesse l’avvento del centrosinistra con i socialisti al governo e il secondo lo considerava un fatto negativo, frutto di un neocapitalismo che tendeva a inglobare la classe operaia nel sistema. Quindi, schematicamente, il primo era considerato di «destra» e l’altro di «sinistra». Negli ultimi quindici anni D’Alema e Veltroni sono stati a «destra», a «sinistra» e al «centro» in rapporto a vicende interne al loro partito e non agli sviluppi della situazione politica e sociale. L’investitura di Veltroni con le «primarie» senza competitori, senza mozioni diverse, non è stato un momento di chiarezza per la discussione nel Pd e fuori di esso. Basti pensare a come è stato affrontato nella campagna elettorale l’operato del governo e dello stesso Prodi. Il quale è stato «l’inventore» del Pd e il suo primo presidente, mentre oggi senza un dibattito politico è solo un pensionato. Luca Ricolfi nel suo editoriale sulla Stampa di domenica ha scritto che «il Pd è alla ricerca di una identità» e dice che non l’ha trovata perché non ha una politica rispetto ai temi che travagliano i blocchi sociali nelle fasi in cui si scompongono e ricompongono. Vero.

Ma questa incapacità a scegliere si ripropone sul terreno più squisitamente politico: nel corso della campagna elettorale Veltroni esaltava la vittoria di Zapatero mentre nel Pd si denunciava il «pericolo di una deriva zapaterista». Insomma, le correnti senza una base politica sono solo giochi di potere, ma il falso unanimismo nasconde sempre giochi di potere. Oggi nel Pd sarebbe necessario un dibattito politico aperto con documenti politici chiari su cui votare per costruire maggioranze e minoranze non in guerra, ma dialetticamente in competizione. Altrimenti ha ragione Michele Serra: le contrapposizioni tra D’Alema e Veltroni sono solo baruffe per gestire poi insieme il partito. Anche questa scelta connota l’identità del Pd.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 20, 2008, 05:15:03 pm »

20/5/2008
 
La Niscemi dei braccianti e quella di Lorena
 
 
 
 
 
EMANUELA MACALUSO
 
Sabato i telegiornali hanno trasmesso i funerali di Lorena, la ragazzina massacrata e gettata in un pozzo da tre ragazzi che come lei frequentavano le scuole del loro paese, Niscemi. Le immagini che ci facevano vedere la piazza con la chiesa e tanta gente hanno richiamato altre immagini immagazzinate nella mia memoria sessant’anni addietro. In quella piazza infatti negli Anni 40-50, e anche dopo, ho parlato a migliaia di uomini e donne che in quegli anni e da sempre vivevano in condizioni terribili. Niscemi era un grande centro agricolo popolato di braccianti poverissimi che lavoravano una terra fertilissima con mezzi primitivi e salari miserabili. Erano tanti e il lavoro non c’era per tutti.

Niscemi era un paese flagellato dal tracoma e dalla tubercolosi e la bassa statura dei suoi cittadini era segnalata nelle statistiche come segno di fame antica. Ma quei lavoratori erano anche orgogliosi e combattivi e dopo la Liberazione (luglio 1943) ripresero a battersi con i sindacati e i partiti della sinistra per migliorare le loro condizioni di vita, per cambiare il loro paese, la Sicilia feudale e baronale. Lottavano per il lavoro e il salario ma anche per avere l’acqua, le scuole, centri di aggregazione sociale per cambiare la loro collocazione nella società, in una parola per essere cittadini titolari di diritti e non solo di doveri.

Oggi, con disinvoltura culturale disarmante, si descrivono gli Anni 50 come quelli in cui la sinistra proponeva la rivoluzione mancata e aspettava Stalin. In verità in quegli anni lo scontro sociale fu durissimo e con tanti morti (la mafia uccise in Sicilia 40 dirigenti sindacali) e in gioco c’era la modernizzazione del Paese. Senza le lotte per la riforma agraria nel Meridione non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico al Nord che si avvalse anche dell’emigrazione dalle cento Niscemi del Sud. Il bracciante politicamente colto, socialmente emancipato fu una grande risorsa non solo per la sinistra ma anche per la società nel suo complesso al Nord e al Sud. Un mutamento che investiva anche il costume.

E negli Anni 70 il Sud del «delitto d’onore» votò a grande maggioranza il referendum per conservare le leggi sul divorzio e l’aborto. Ho fatto questa premessa per dire che i partiti in quegli anni ebbero anche un ruolo nell’emancipazione civile e nel grande processo di civilizzazione, un ruolo anche «pedagogico» che oggi viene contestato e disprezzato. Filippo Penati, che è stato comunista a Sesto San Giovanni, oggi presidente della Provincia di Milano, ha detto che «il Pd, diversamente dai partiti che lo hanno preceduto, deve rappresentare più che educare». Preoccupazione superflua dato che da anni la sinistra non «educa» e oggi al Sud forse «diseduca». Eppure, il fatto che tra i nipoti dei braccianti che io frequentavo ci siano la ragazzina assassinata e tre ragazzi assassini, in quel contesto che ci hanno raccontato mi ha colpito, mi ha ferito, mi ha fatto riflettere.

Cos’è oggi per questi vecchi centri bracciantili del Sud la «modernizzazione»? I partiti, la Chiesa non hanno più un ruolo «educativo» e non lo ha nemmeno la scuola. L’unico mezzo che in questi paesi trasmette cultura è la tv e oggi Internet anche con YouTube. I quotidiani in Sicilia non fanno certo battaglie di idee. Io non penso certo di «educare» la tv delle veline e dei tronisti eroi dei nostri giorni, i rotocalchi di gossip e altro materiale simile. Non puoi fermare una valanga con le mani. E chi pensa a censure è un cretino. Ma non penso nemmeno che bisogna rassegnarsi e accettare la minestra (spesso velenosa) che ti passa il convento dei media. Penso invece che la battaglia delle idee, se è tale, non incontra solo la politica politicante ma anche la società nel suo complesso.

Ora da anni i partiti non fanno battaglie di idee. Amministrano, male, l’esistente. E anche i giornali che vanno contro corrente sono pochi e introvabili in questi Comuni del Sud. Il parroco di Niscemi ai funerali ha pronunciato parole durissime. Ma quali effetti hanno se poi tutto, anche nelle chiese, ricomincia come prima? E dopo un fatto così atroce e carico di segnali della società in cui viviamo, Penati e tanti che pensano come lui vengono a dirci che il suo partito deve essere agnostico e non deve mostrare alcun interesse per l’educazione ma per la rappresentanza. Ma, scusate, la rappresentanza di cosa ed espressa da chi?
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 29, 2008, 12:17:57 pm »

28/5/2008
 
Genova e il partito fantasma
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Don Baget Bozzo, sulla Stampa di domenica scorsa, ha commentato le vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’Amministrazione comunale di Genova come epilogo di «una città uscita da una storia guidata dalla sinistra che aveva deciso di gestirla come una rendita». L’analisi di don Gianni non è del tutto convincente (ci sono spunti interessanti) perché non è convincente la visione di una città separata, riserva di caccia di una sinistra separata, in cui è presente una destra separatamente sconfitta.

I processi sociali e politici, che hanno accompagnato la trasformazione di una Genova dove l’industria pubblica ebbe un ruolo centrale sono stati oggetto di studi e analisi. Processi che certo vanno tenuti presenti anche quando si valutano fatti politico-giudiziari che riguardano la sinistra che ha avuto un ruolo essenziale nella storia di Genova. Ma, a mio avviso, si tratta di fatti che vanno collocati nella crisi della sinistra italiana e nel contesto di ciò che oggi è il Partito democratico in cui una parte rilevante di quella sinistra si ritrova. La vicenda politico-giudiziaria di Genova non è un fatto isolato, un fulmine a ciel sereno. E non è certo convincente la reazione del sindaco Marta Vincenzi quando dice che è stata «pugnalata alla schiena» da suoi stretti collaboratori coinvolti nell’affare. E non è nemmeno convincente quel che dice Mario Margini dirigente storico del Pci-Pds-Ds e ora assessore del Pd: «Non avrei mai immaginato che ci fosse un gruppo di potere che voleva costruire un sistema parallelo».

I miei cari amici genovesi pensavano che i «gruppi di potere» nel Pd fossero solo in Calabria o in Campania, in Sicilia o nella Roma che ha mostrato in tv la Gabanelli? Prima che nascesse il Pd è stato osservato, anche da chi scrive questa nota, che né i Ds, né la Margherita avevano mai fatto un’analisi vera di cosa erano i due partiti, quali erano i loro insediamenti sociali, come venivano selezionati i gruppi dirigenti, cos’erano gli aggregati di potere che si costruivano attorno agli enti locali e alle società pubbliche e semipubbliche. Cosa erano i nuovi «apparati» non più fondati sui funzionari di partito ma sui «consulenti», gli «addetti», gli «esperti», i «collaboratori», scelti dai leader e dai leaderini, qual era il grado di vita democratica che regolava l’andamento interno nei due partiti. Il Pd si è configurato come la somma dei due «aggregati» (Ds-Margherita) con una democrazia plebiscitaria fondata su «primarie» con candidato unico che eletto ha nominato i suoi «collaboratori» e anche - grazie alla legge elettorale ben tollerata - i parlamentari. In questo quadro perché stupirsi che nascano e si alimentino gruppi di potere? Il Pd, ha dichiarato il presidente della Regione ligure, Claudio Burlando, «può autodepurarsi da certi fenomeni». E come? In quali sedi c’è un confronto democratico e anche una battaglia politica? O c’è l’epuratore?

La verità, miei cari amici, è che un partito si afferma quando sa chi è, cosa vuole e come vuole ottenerlo. Ho letto sull’Unità il resoconto del discorso di Walter Veltroni ai «portavoce dei circoli lombardi». Ecco una grande riforma: non più «sezioni» ma «unità di base», aveva sentenziato Occhetto dopo la svolta della Bolognina nel 1989. Ma i militanti continuavano a chiamarle sezioni. Ora quelle stesse sedi si chiamano «circoli» e i segretari «portavoce». Una rivoluzione! Intanto dove imperversa la bufera, nel Napoletano, il Pd è sparito: non si vedono né circoli e circoletti, né segretari né portavoce. Nulla. Nel discorso milanese Veltroni in due (dico due) righe ha parlato della «natura federale del partito dentro un’idea federale di Stato». Se le parole hanno un senso, «federale» significa che ci sono partiti regionali autonomi federati e Stato federale significa quel che significa: non più uno Stato con le Regioni come previsto dalla Costituzione, ma con Regioni-Stato. È questa la linea costituzionale e politica del Pd e della sua organizzazione? E si annuncia con dieci parole? O sono, come temo, solo chiacchiere e le cose restano come prima o peggio di prima? Come stupirsi se poi le cose vanno come a Napoli o a Genova?
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 25, 2008, 11:20:57 am »

25/6/2008
 
Leaderismi
 
 
EMANUELE MACALUSO

 
In Italia, dopo la lunga stagione dei grandi partiti di massa e di piccoli partiti d'opinione, abbiamo conosciuto il partito personale, quello messo in campo da Silvio Berlusconi, il quale, anche dopo la fusione tra Fi e An, resta sostanzialmente il padre-padrone del Popolo delle Libertà.

In questo tipo di partito non ci sono gruppi dirigenti, organi collegiali dove si confrontano posizioni diverse e si vota. C'è la decisione del «leader». Ho usato le virgolette perché nei grandi partiti socialisti o conservatori europei c'è un leader e un gruppo dirigente e c'è un ricambio di guida politica segnato dall'esito delle elezioni e dai congressi. In Italia oggi non è così. Anche nel partito dipietrista c'è un più modesto padre-padrone.

Nel Pd le cose sono più complicate. Il leader è stato «scelto» attraverso le cosiddette primarie. Ho usato le virgolette perché la scelta di Veltroni è stata fatta da cinque sei persone (D'Alema, Fassino, Marini, Rutelli, Franceschini) con il consenso di Prodi e votato plebiscitariamente da iscritti, elettori, simpatizzanti del Pd. Il partito non ha un organo vero di direzione. La scorsa settimana la Costituente (?) ha eletto una direzione di 150 persone e altre 100 sono membri di diritto: ci sono tutti e nessuno. Non c'è una sede, se non informale e personale, dove vengono assunte decisioni impegnative.

Ho scritto questa lunga premessa non per fare della politologia, ma per dire che il sistema politico vigente, frutto anche di una legge elettorale truffaldina, fondato su partiti che non hanno una reale vita democratica, sta producendo conflitti istituzionali di cui non si vede lo sbocco. E questo dopo tante chiacchiere sui nuovi rapporti tra governo e opposizione, premessa necessaria per attuare le riforme istituzionali e costituzionali di cui ha bisogno un paese moderno. Diciamo le cose come stanno: la lettera che il presidente del Consiglio ha indirizzato al presidente del Senato per giustificare un emendamento al decreto sulla sicurezza (che era stato firmato dal Capo dello Stato per motivi di «urgenza e necessità» come vuole la Costituzione), estraneo alla materia, non è solo una scorrettezza istituzionale ma un atto politicamente grave tale da mettere in mora anche la strategia con cui erano state fatte le elezioni dal partito del Popolo delle Libertà.

Ebbene dopo le ripetute e rabbiose esternazioni di Berlusconi, ormai è chiaro che la decisione dell'emendamento-bomba è stata assunta solo dal Cavaliere e dal suo avvocato. Tutti gli altri, compreso il ministro della Giustizia si sono adeguati e hanno sostenuto la decisione del Capo e del suo avvocato. Le conseguenze sono davanti a tutti: un conflitto in cui sono coinvolte tutte le istituzioni e i poteri. E non si vede ancora una via d'uscita. Il Pd è stato colto di sorpresa dalle mosse del Cavaliere anche perché non c'è stata una sede in cui si è seriamente discusso sul risultato elettorale e sul ruolo dell'opposizione in questa fase politica. E nessuno si assume la paternità dello scacco.

In questo quadro le critiche, le contestazioni, le richieste di dimissioni a Veltroni appaiono velleitarie e personalistiche. Soprattutto sembra che il malessere del Pd sia dovuto al brusco cambiamento della strategia berlusconiana. Se la salute del Pd dipende dalle mosse del suo avversario, sono veramente alla frutta. E coloro i quali pensano che la medicina sia il ritorno all'antiberlusconismo vecchio conio, alla Di Pietro, a mio avviso sbagliano. Non si può alternare la luna di miele e la guerriglia. Con la vecchia politica non si esce dal conflitto istituzionale. L'opposizione deve avere una sua politica alternativa a quella della maggioranza e una strategia nutrita di contenuti. Anche sulla giustizia. A oggi nel Pd - come nel Pci, Pds, Ds - in questo campo c'è solo una difesa acritica della magistratura dagli attacchi di Berlusconi. Non c'è una linea autonoma. Ma l'alternativa al berlusconismo deve manifestarsi soprattutto nella qualità della vita democratica del Partito. I tentativi leaderistici fatti con D'Alema, con Prodi, con Veltroni sono falliti. La sinistra e il centrosinistra (penso alla Dc) hanno altre storie. E scambiare il leaderismo fittizio per modernizzazione della politica è solo una sciocchezza. E nella politica le sciocchezze si pagano.

 
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:52:28 am »

27/6/2008
 
Fettina mafiosa
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Ieri, alle ore 13, l’agenzia Ansa trasmetteva la notizia dell’arresto a Palermo di dodici presunti mafiosi che imponevano a decine di imprenditori e commercianti il pizzo e anche il prezzo di vendita della carne. L’estorsione ha trasferito nelle casse della mafia di Altarello (borgata di Palermo) cinquantamila euro al mese che venivano reinvestiti nel narcotraffico.

Dico subito che la lettura di queste righe appare come uno dei bollettini quotidiani della procura palermitana, molto attiva nella repressione della criminalità mafiosa. In parte è così, anche se quelle righe ci rivelano un fatto inquietante: la capacità della mafia di riproporsi come forza presente in tutti i gangli della società, in grado di «governare» i mercati e di rinnovare i suoi quadri. Gli arrestati, infatti, sono tutti giovani: 21, 25, 30 anni. Il più vecchio ha 39 anni.

Quello della carne è un antico e sempre attivo mercato controllato dalla mafia. Oggi sembra scomparso il reato di «abigeato» con cui veniva rubricato il furto di bestiame, ma ancora nel recente passato era praticato dalla mafia rurale. A questo proposito ricordo che negli Anni 50 la mafia di Mussumeli (provincia di Caltanissetta), che con il suo capo Genco Russo aveva una «giurisdizione» regionale, impiantò nel cuore del feudo un mulino-pastificio e un salumificio. La Sicilia non era certo conosciuta per la mortadella e il salame, ma il salumificio di Genco Russo era attivo perché il bestiame rubato, che però era anche marchiato, veniva macellato e insaccato. Le botteghe di una vasta zona erano obbligate a vendere la mortadella di Mussumeli, anziché quella di Bologna. E negli anni del boom edilizio di Palermo le nuove botteghe, come le vecchie, dei macellai (ricordo che una si chiamava «Boutique della carne») erano in mano alla mafia. Per il riciclaggio furono aperte alcune macellerie anche a Roma.

Si tenga presente che in Sicilia è stata sempre attiva la macellazione clandestina che forniva, e forse fornisce ancora, carne fuori del mercato legale. A leggere la notizia Ansa di ieri sembra che tutto si riproduca e si aggiorni. La cosca di Altobello - ci dice la procura - si riuniva e fissava il prezzo della carne. Quel che non riesce allo Stato, in questo periodo in cui gli alimentari lievitano, a Palermo lo fa la mafia. La quale con una mano preleva dalle casse dei commercianti la sua quota estorta e con l’altra minaccia chi vuole fare concorrenza al macellaio che non ce la fa a tenere aperta la bottega. Il prezzo fissato dalla cosca deve regolare la concorrenza e tenere buoni anche i consumatori. Questo intreccio perverso, spezzato in una zona dalle forze dell’ordine, è certo un successo e fa respirare qualcuno. Ma ci dice anche che la mafia non sarà sradicata se non c’è un mutamento nella società, nella coscienza e nella cultura della gente. Non cambierà nulla se in quei quartieri al potere mafioso non si oppone non solo il carabiniere e il poliziotto, ma una parte della gente che si ritrova collettivamente e non isolatamente. Oggi questo non c’è: non ci sono più i partiti di sinistra che in passato lo facevano, non c’è un’articolazione del sindacato, la stessa Chiesa trova difficoltà a farlo. La sola aggregazione è la «cosca». Chi riflette su questi fenomeni che sono soprattutto politici? Se diamo uno sguardo al «dibattito» in corso, fra i partiti di governo e di opposizione, non stupisce né ciò che succede a Palermo, né ciò che succede a Treviso.
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 01, 2008, 04:02:14 pm »

1/7/2008
 
Walter, dai concretezza alla "laicità del futuro"
 
 
EMANUELE MACALUSO
 


Domenica sulla Stampa è apparsa una lunga lettera del segretario del Pd, Veltroni, in cui si parla della «laicità del futuro» come «ragione costitutiva del Partito democratico», come tratto identitario di un partito che «ha saputo e intende rompere gli schemi oppositivi del Novecento».

Lo spunto del ragionamento di Veltroni è un articolo di Edmondo Berselli sul Mulino, il quale tra l’altro auspicava che qualcuno prendesse l’impegno «di delineare una cultura unificata che, nel Pd, al momento non esiste».

Ma, se un partito non ha una cultura unificante non è un partito. Potrei aggiungere che, siccome i partiti non si inventano quando sono una cosa reale e seria, nascono da processi unificanti tra movimenti sociali e correnti culturali frutto di battaglie di idee. Processi che hanno incrociato gli interessi generali del Paese. Per restare in Italia così nacque il Partito socialista, così nacque il Partito popolare di Sturzo, così rinacquero i grandi partiti di massa con la Resistenza e la liberazione. Il fatto che oggi si cerchi «qualcuno» che delinei una cultura unificata del Pd è un segno della difficoltà che questo partito attraversa.

Se Veltroni con la sua lettera-articolo sulla Stampa voleva chiarire uno dei punti più oscuri dell’identità del Pd, «la laicità», debbo dire che siamo punto e a capo. Anzitutto c’è da chiedersi quali sono gli «schemi oppositivi» che su questo terreno avrebbero segnato la storia del Novecento. Schemi che il Pd avrebbe rotto? In Italia lo schema post-risorgimentale sulla laicità fu rotto dalla costituzione del Partito popolare di Sturzo e a sinistra dal pensiero gramsciano. Uno schema del tutto nuovo, infatti, lo ritroviamo con la presenza dei due grandi partiti Dc e Pci che, proprio sul tema della laicità, ruppero «i vecchi schemi» con atti costituzionali (art. 7 e altro) su cui si è giustamente tanto discusso anche con posizioni laiche oppositive a quel «compromesso». Parlare in Italia di «laicità del futuro», per dire che la religione non è solo un fatto privato ma ispirazione dell’agire pubblico, significa parlare della «laicità del passato».

L’Italia è stata governata per quarantacinque anni da un partito cristiano di ispirazione cattolica, una parte del movimento sindacale ha avuto e ha ancora come riferimento la Rerum Novarum. Togliatti in un suo discorso a Bergamo ai cattolici richiamava l’ispirazione cristiana nell’agire pubblico, politico per una convergenza nella lotta contro l’atomica. Berlinguer nel motivare il compromesso storico richiamava l’ispirazione politica dei cattolici. Nel corso di questi quarantacinque anni si sono fatte anche battaglie laiche, i cui meriti vanno soprattutto ai radicali e ai socialisti (leggi sul divorzio e l’aborto) e al sostegno del Pci. Ma va anche ricordato che mentre Fanfani segretario della Dc condusse la battaglia antidivorzista, Moro, che lo sostenne, spiegò come lo Stato laico doveva prendere atto di mutamenti nel costume che si riflettevano nei testi legislativi: una dialettica civile. Una dialettica che è stata negata nel 2005 nel momento in cui fummo chiamati a votare il referendum sulla legge 40 (fecondazione assistita). Veltroni su questi temi non deve fare discorsi generici e spiegarci il pensiero di Habermas. In occasione di quel referendum la Margherita ubbidì all’ingiunzione del cardinale Ruini e fece propaganda per l’astensione. Prodi disse che era un «cattolico adulto» e si sarebbe presentato ai seggi. Prodi ha pagato quel gesto. Ma i temi cosiddetti «eticamente sensibili» sono stati totalmente cancellati dai discorsi di Veltroni, nella campagna elettorale e dopo. Eppure si tratta di temi che danno concretezza alla «laicità del futuro» se guardiamo a ciò che si fa in tutta l’Europa.

Con amicizia vorrei dare un consiglio a Walter. L’identità politico-culturale di un partito non si costruisce con discorsi generici, con l’enunciazione di principi generali che sono pure necessari ma possono essere letti con favore da tutti, nel Pd e fuori di esso. Occorrono fatti e atti che danno senso a una politica. Se si fanno scelte nette e concrete sulla «laicità del futuro» certo non ci sarà quell’unanimità che si è registrata nell’inutile carta d’identità votata a Orvieto e altrove. Ma forse si comincerebbe a capire cos’è e cosa vuole il Pd.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 10, 2008, 09:58:14 am »

10/7/2008
 
Girotondi premier e Quirinale
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Nella sceneggiata di girotondini di Piazza Navona uno degli attori attaccava Napolitano e un altro l’esaltava, un guitto attaccava il Papa e un comprimario recitava una preghiera, il professore Bachelet se n’è andato e a un certo punto non si è più visto nemmeno l’onorevole Parisi. Ma Achille Occhetto, osservando lo spettacolo, ha dichiarato che «è possibile una rinascita di tutta la sinistra». Chi si contenta gode, si dice al mio paese. Io invece vorrei fare uno di quei ragionamenti che in matematica si definiscono «per assurdo», per spiegare meglio un teorema.

Ragioniamo come se l’opposizione fosse riuscita (anche grazie agli stimoli dei girotondini) a non fare passare in Parlamento né l’emendamento blocca processi, né il lodo Alfano (non si capisce perché si chiama lodo e si capisce meno perché viene attribuito ad Alfano) e quindi nei prossimi mesi a Milano si potesse svolgere il processo Berlusconi-Mills.

Continuiamo nel nostro ragionamento e guardiamo la scena in cui si vede che il presidente del Consiglio viene condannato a 4-5 o 6 anni di carcere. Quali scenari, in questo caso, si aprirebbero? La senatrice Finocchiaro, capogruppo del Pd, dice che una condanna di Berlusconi in primo grado non dovrebbe provocare le sue dimissioni. È così? Con una condanna infamante per corruzione di un testimone, anche se in primo grado, si può guidare il governo? Si può rappresentare il Paese all’estero? Non scherziamo.

E se il Cavaliere non si dimettesse, in Italia assisteremmo a manifestazioni che farebbero impallidire quella vista in Piazza Navona. Continuiamo il ragionamento sempre «per assurdo»: il Cavaliere si dimette attaccando, come fa sempre, i «magistrati politicizzati» e accusando l’opposizione di volere sovvertire il risultato elettorale e mortificare la volontà popolare alla quale si rimette. È chiaro che in questo caso il conflitto, che in queste settimane si è aperto nel Paese, tra legalità e volontà popolare si allargherebbe e acuirebbe in forme tali da mettere alle corde tutte le istituzioni.

È vero che con l’attuale ordinamento costituzionale le dimissioni del presidente del Consiglio non determinano lo scioglimento del Parlamento, ma è anche vero che la «Costituzione materiale», con una legge elettorale che consente l’iscrizione nella scheda del leader, ha ormai identificato la maggioranza parlamentare con quel leader investito dal voto popolare.

Anomalie italiane che concorrono però a determinare un clima e una situazione politica di cui il Capo dello Stato non può non tenere conto. Non è difficile capire che certamente dopo le dimissioni di Berlusconi si tornerebbe a votare con la stessa legge elettorale e con il Cavaliere «martirizzato», alla guida del suo «Popolo della Libertà». Come si presenterebbe il centrosinistra al voto lo affido all’immaginazione di chi ha guardato la sceneggiata di Piazza Navona. È chiaro che bloccare tutti i processi per non farne uno è una vergogna, e averlo tentato con un emendamento al decreto sulla sicurezza, già firmato dal Capo dello Stato per motivi di necessità e urgenza, è un’altra vergogna. Il cosiddetto lodo Alfano non è certo un modello a cui ispirarsi per la democrazia. L’opposizione non può certo votarlo. Anche perché se oggi si configura un conflitto come quello a cui abbiamo accennato la responsabilità è solo di una maggioranza che si identifica con Berlusconi e con tutti i suoi carichi penali pendenti, ereditati dalla sua attività di imprenditore. Ma è una maggioranza voluta dal popolo chiamato recentemente alle urne. L’opposizione non può fare ostruzionismo.

Quali sarebbero le conseguenze politiche dello scioglimento del Parlamento in uno scenario come quello che ho simulato a pochi mesi dalle elezioni? Ecco il punto che vorrei sottolineare: il Capo dello Stato deve o no tenere presente il quadro politico così come in concreto lo ha determinato il risultato delle elezioni e cercare di controllarlo affinché non si determinino strappi laceranti per la nostra democrazia? È quello che in questi mesi difficili sta facendo Napolitano mentre c’è chi nella maggioranza cerca nel Quirinale coperture alle sue magagne e, nell’opposizione, chi vorrebbe surrogare con gesti del Capo dello Stato la sua debolezza e impotenza. In momenti difficili come questi occorre guardare anzitutto all’interesse generale del Paese.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 17, 2008, 07:38:49 pm »

17/7/2008
 
Miseria politica
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La bufera giudiziaria che in Abruzzo ha coinvolto il presidente della Regione Ottaviano Del Turco, assessori e molti amministratori della Sanità ha scatenato un dibattito sui rapporti tra politica e giustizia per molti versi ripetitivo. Berlusconi ha colto l’occasione per dire, senza leggere le carte, che i magistrati abusano del loro potere e Di Pietro per ripetere che le toghe hanno sempre ragione.

Sul piano giudiziario la cosa che trovo sconcertante è il fatto che i media hanno avuto un’informazione sulla vicenda solo attraverso quello che dicono i magistrati, mentre Del Turco è in isolamento, non può parlare col suo avvocato e non si conoscono le sue ragioni se ne ha di valide. Voglio dire che quando l’azione penale per reati che hanno carattere altamente infamante coinvolge un uomo politico nell’esercizio delle sue funzioni, il giudizio della pubblica opinione, degli elettori è decisivo. E allora è giusto che l’accusato possa difendersi non solo nelle aule giudiziarie, ma anche attraverso i canali d’informazione che hanno diffuso le valutazioni e i giudizi dei magistrati che lo accusano.

Fatte queste osservazioni e in attesa degli sviluppi dell’azione giudiziaria, da ciò che si legge e si capisce emerge una questione politica: cosa sono e come operano i gruppi dirigenti dei partiti nelle regioni del Sud? Parlo del Sud non per dire che nel Nord tutto è trasparente e limpido, ma perché nel Mezzogiorno il problema della formazione delle classi dirigenti ha una storia particolare e si intreccia strettamente con quella che è stata definita «questione meridionale»: da Giustino Fortunato a Guido Dorso, da Luigi Sturzo ad Antonio Gramsci. E mi interessa parlare della sinistra, del centrosinistra, non perché la tempesta si abbatte in una Regione amministrata dal Pd, ma perché questo tema oggi sembra estraneo alla destra berlusconiana.

Insomma, ancora una volta dopo la vicenda dei rifiuti in Campania, dopo le traversie giudiziarie che hanno interessato il Pd calabrese, dopo il risultato elettorale siciliano, una domanda si pone: cos’è il Pd nel Mezzogiorno? Una domanda che io stesso posi nel momento in cui questo partito nasceva da una fusione a freddo dei gruppi dirigenti locali della Margherita e dei Ds. Partiti che nei loro congressi non si erano mai posti questo problema. Eppure, esso emergeva non solo in rapporto a vicende giudiziarie, ma per il fatto incontestabile che i gruppi dirigenti si formavano, si dissolvevano e si riformavano attorno alla gestione dei poteri locali: Comuni, Province, Regioni. E alla miriade di società pubbliche e semipubbliche, ai consulenti e agli assistenti che popolano tutte le strutture, politiche e amministrative.

Il Pd è nato con progetti ambiziosi, con dichiarazioni di intenti roboanti, accompagnati da analisi generali, a volte ricche di spunti culturali interessanti, di adesioni disinteressate ed entusiaste. Quel che mancava e manca ancora è un’analisi di ciò che in concreto è quel partito nella realtà in cui opera nel governo locale e dove dovrebbe svolgere l’opposizione come in Sicilia. Realtà in cui non c’è più un dibattito e una lotta sociale, politica e culturale tale da attrarre i giovani in un impegno nel volontariato politico.

Di fronte alla vicenda abbruzzese non basta certo dichiarare che in ogni caso il Pd sta con i magistrati o di giurare sull’onestà e la correttezza di Del Turco. Sulla questione giudiziaria abruzzese è giusto discutere e, via via, i fatti ci diranno come, su questo versante stanno le cose. Ma il risvolto politico c’è tutto. La miseria politica di quel gruppo dirigente è evidente. Che la sanità sia oggi la fascia ricca dei bilanci regionali e il rapporto tra pubblico e privato in questo campo il più inquinato, è un fatto. Che la sua gestione transiti dalla destra alla sinistra con un continuismo impressionante è un altro fatto. È su questo che occorre discutere nel Pd se si vuole coniugare, come è necessario, etica e politica. Richiamare la necessità dell’etica come fa ora Veltroni senza una politica è solo un gesto velleitario. Così come richiamare le dure regole della politica senza l’etica significa scadere nel cinismo della gestione intrecciando affari privati e iniziativa pubblica prescindendo dagli interessi generali. Ecco perché in questa situazione le dichiarazioni generiche lasciano le cose come stanno.
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 24, 2008, 03:59:25 pm »

24/7/2008
 
Proviamo a smuovere la politica
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Dopo la bagarre politica provocata da Bossi, Federico Geremicca su queste colonne ci ha raccontato come in meno di 100 giorni sono state liquidate due prospettive, emerse nel corso delle elezioni e immediatamente dopo la vittoria di Berlusconi (finalmente statista!), su cui si era tanto discusso e fantasticato. La prima, indicata come una «svolta epocale» dal Cavaliere e da Veltroni, consisteva nel fatto che il sistema politico finalmente si fondava su due grandi partiti pronti a inaugurare una «legislatura Costituente». La seconda prospettiva nel momento in cui la prima si annebbiava, faceva intravedere una intesa tra Pd e Lega che avrebbe allentato i rapporti tra Berlusconi e Bossi in vista della riforma per attuare il federalismo fiscale. Il dito medio alzato dal capo della Lega e indirizzato ai simboli dell’unità Nazionale faceva cadere anche questa prospettiva. E così è tornato il clima che si respirava prima delle elezioni. Anzi peggio dato che questi 100 giorni ci dicono che, nonostante una certa buona volontà mostrata a destra e a sinistra per cambiare registro e i ripetuti richiami del Capo dello Stato, non è possibile cambiare i rapporti tra i due schieramenti che da quindici anni si scontrano e si delegittimano senza tregua.

E il tema della giustizia è sempre al centro dello scontro. E intanto il Paese anziché andare avanti nello sviluppo, nella competitività, nell'esercizio dei diritti dei cittadini, va indietro.

A questo punto quindi è giusto, necessario e urgente porsi queste domande: con questi schieramenti e con questi leaders è possibile una svolta reale, una «legislatura costituente»? O bisogna fare qualcosa che rompa gli attuali assetti politici? Soffiare per far crescere il vento dell’antipolitica, l’abbiamo visto, peggiora le cose. Un mutamento nei due «grandi» partiti non è pensabile, chi aspettava il miracolo dalle unificazioni, a destra e a sinistra, raccoglie delusione. A destra non è cambiato nulla: il Cavaliere da 15 anni decide tutto per tutti e non c’è nessuna dialettica democratica per pensare a possibili alternative. Forza Italia era un insieme di ex (socialisti, Dc, repubblicani, liberali, comunisti e aziendali) e tale resta il «nuovo» partito (PdL) nel quale si ritrovano anche gli ex Msi poi An. Il rozzo condizionamento della Lega c’era prima e c’è oggi. Gli ex, penso soprattutto ai socialisti che hanno tanti ministri, sembra che abbiano acquisito lo status di rifugiati politici in un regno in cui il sovrano è intoccabile. La sua presenza al vertice di tutte le strutture politiche dopo 15 anni è una remora per dare alla destra un profilo, una cultura e una identità non identificabile in una persona? Non ci sono dubbi, ma all'orizzonte non si vedono, rimedi. E chi guarda ai tribunali per dare una soluzione a un problema decisamente politico non fa che ingarbugliare una matassa già ingarbugliata.

Nel centrosinistra nel quindicennio c’è stato un’alternarsi di candidati e presidenti del Consiglio: Occhetto, Prodi, D'Alema, Amato, Rutelli, ancora Prodi e infine Veltroni. Ma non c’è mai stata una guida politica forte e un grande partito. E oggi anche il Pd è solo un insieme di ex: Ds, Margherita, socialisti, prodiani, rutelliani ecc.. Pesantemente condizionato dal rozzo giustizialismo demagogico di Di Pietro. Un partito che non riesce ancora ad avere una identità e una leadership forte.

In questo quadro non è difficile capire che il rischio è l'impotenza politica che condanna il Paese all’immobilismo. Il rischio è che in questo Paese non ci siano forze politiche che al governo o all’opposizione si riconoscono nella Costituzione. Un’intesa per le riforme infatti dovrebbe garantire un comune sentire costituzionale e modernizzare il sistema. Cosa fare? Io penso che di fronte a una situazione politicamente bloccata bisognerebbe chiamare in causa il popolo sovrano. Penso che sia possibile eleggere, con il sistema proporzionale, un’Assemblea Costituente formata da 75 membri (tanti erano i costituenti che scrissero la Costituzione vigente) nella quale non dovrebbero esserci membri del Parlamento, (a meno che non si dimettano) col mandato di rivedere in un anno la Costituzione. Il testo inemendabile, varato dalla commissione dei 75, dovrebbe essere sottoposto a referendum. È chiaro che per il progetto che sommariamente espongo occorrerebbe una legge costituzionale e quindi un accordo fra i due schieramenti. Ma visto l’impossibilità di un lavoro comune nel Parlamento per le riforme un appello al popolo sarebbe un atto di grande responsabilità democratica. E una sede costituente separata dal Parlamento e autonoma garantirebbe tutti. O bisogna lasciare marcire la situazione prescindendo dal ricorso al popolo?
 
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 28, 2008, 11:30:31 pm »

28/7/2008
 
La bicamerale un'ipotesi sensata
 
 
 
 
 
SANDRO BONDI
 
Gentile direttore, ritengo sia giusto non far cadere nell’oblio il dibattito aperto da Macaluso sulla necessità di un’Assemblea Costituente per le riforme, e l’intervento di Geremicca pubblicato l’altro ieri dal Suo giornale ne è la conferma.

Geremicca, in verità, appare più incline all'ipotesi di una nuova Commissione bicamerale, sul modello di quella presieduta da D’Alema, e dunque nominata all’interno del Parlamento e non eletta dal popolo come una Camera di saggi al di fuori dello scontro politico. In una mia dichiarazione di commento all’editoriale di Macaluso ho già detto che per me la Costituente sarebbe una «extrema ratio», e che è invece necessario recuperare nel dibattito parlamentare quello «spirito di collaborazione istituzionale» che aveva caratterizzato i primi giorni della legislatura.

La proposta della Costituente per le riforme è suggestiva, ma segnerebbe una sorta di commissariamento del Parlamento attuale, che si vedrebbe spogliato di una delle sue funzioni fondamentali, quella di legiferare in materia costituzionale. Geremicca suggerisce invece di riprovare la strada di una Bicamerale presieduta dalla Lega. Credo che sia necessario riflettere attentamente su questa ipotesi, assolutamente sensata, nonostante per il momento il sentiero del dialogo appaia stretto e impervio. Ma quando si saranno spente le polemiche sulla giustizia e quando il Pd si sarà definitivamente lasciato alle spalle l’abbraccio giustizialista con Di Pietro, allora si potrà ricominciare a tessere il filo delle riforme senza bisogno di ricorrere a una Terza Camera di compensazione istituzionale che segnerebbe di fatto la sconfitta della politica. Che si parli di Bicamerale o di Costituente, non deve sfuggire a nessuno l’ineludibilità di affrontare concretamente il tema delle riforme in questa legislatura. Certo, alcune delle condizioni del dialogo oggi sembrano essere venute meno. D’altra parte, però, ritengo che sarebbe un errore se il centrodestra, pur forte del grande consenso di cui gode oggi nel Paese, si convincesse di non avere più bisogno del dialogo e di poter riscrivere da solo le regole del gioco.

La mia convinzione - da cui nasce un cauto ottimismo - è che il presidente Napolitano potrà essere determinante, con la sua moral suasion, per scongiurare un nuovo rinvio della stagione delle riforme. Il ruolo del Colle è già stato cruciale per disattivare il cortocircuito politico-giudiziario. E fin dal suo insediamento, il Capo dello Stato, non si è mai stancato di auspicare il dialogo tra gli schieramenti e l’apertura di una «fase nuova», con la consapevolezza della necessità di rafforzare i poteri del primo ministro, di rivedere il sistema bicamerale, di rivedere la riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001 dal centrosinistra e di accentuare le garanzie dell’opposizione. E celebrando nel gennaio scorso il sessantesimo anniversario della Costituzione, Napolitano fece un richiamo per ricordare un punto debole che era ben presente nella mente dei Costituenti, e cioè l’insufficiente garanzia della stabilità dell’azione di governo, un lusso che nessun Paese può più permettersi. E che è stato affrontato, sia pure parzialmente nella bozza Violante della scorsa legislatura. Qualcosa di più di un punto di partenza da cui riprendere il dialogo tra maggioranza e opposizione.

Ministro per i Beni e le Attività Culturali

Gli editoriali di Emanuele Macaluso (La Stampa del 24 luglio), con la proposta di un’Assemblea Costituente per le riforme, e di Federico Geremicca (26 luglio), con l’ipotesi di una Bicamerale presieduta dalla Lega, hanno aperto un dibattito anche nel Partito delle Libertà. Pubblichiamo gli interventi di Sandro Bondi e Roberto Rosso.
 


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28/7/2008
 
La costituente una via maestra
 
 
 
 
 
ROBERTO ROSSO
 
Gentile direttore, entrai in Politica perché amavo la libertà e sui banchi della minoranza di un piccolo consiglio comunale imparai quanto fosse importante la pratica democratica, la partecipazione popolare, l’affezione alla nostra patria repubblicana. Ho combattuto contro i comunisti perché temevo che, come altrove nel mondo, una volta al potere avrebbero guastato il fresco sapore della libertà e, in nome del popolo, avrebbero finito con l'impedirgli di esercitare le proprie prerogative sovrane. Eppure siamo stati noi che ci diciamo liberali a sopprimere le preferenze ed i collegi, trasformando il Parlamento degli eletti in un’accolita di nominati. Non contenti di averlo fatto per l’Italia ci riproponiamo, in autunno, di ripeterci anche nelle modalità di elezione per l'Europa.

È con sorpresa e con speranza, dunque, che ho letto, sulla prima pagina della Stampa, l’intervento di un vecchio combattente comunista, Emanuele Macaluso, nel quale si suggerisce di riassettare l’Italia partendo dalla via maestra: l’elezione di un’Assemblea Costituente che, legittimata dal popolo, produca una sintesi moderna di culture e storie spesso contrapposte, senza più legami con le ferite della guerra civile antifascista e anticomunista che seguì al disastro della seconda guerra mondiale. All’epoca di Roma lo scivolamento dalla Repubblica all’Impero avvenne silenziosamente dopo una serie di traumi che ne avevano sfibrato il tessuto e la capacità di tenuta. Maglio dunque, come propone Macaluso, rifondare oggi la Repubblica con l’avallo ed il contributo del popolo, piuttosto che rimpiangerla domani dalle pagine degli storici.

Deputato del PdL

Gli editoriali di Emanuele Macaluso (La Stampa del 24 luglio), con la proposta di un’Assemblea Costituente per le riforme, e di Federico Geremicca (26 luglio), con l’ipotesi di una Bicamerale presieduta dalla Lega, hanno aperto un dibattito anche nel Partito delle Libertà. Pubblichiamo gli interventi di Sandro Bondi e Roberto Rosso.
 


da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 29, 2008, 06:19:40 pm »

29/7/2008
 
Propaganda scambiata per politica
 

EMANUELE MACALUSO
 
Da gran tempo e spesso si lanciano allarmi sui rischi che nel nostro Paese correrebbe la democrazia. In queste ultime settimane le grida vengono da destra quando Berlusconi è convocato dai giudici per processi in cui è coinvolto per la sua attività d’imprenditore, e da sinistra quando il Cavaliere urla contro la «persecuzione giudiziaria» e la sua maggioranza sforna leggi ad personam.

Non c’è dubbio che in questo scontro la democrazia italiana è ferita e mortificata. Tuttavia non mi pare che alle porte ci sia il fascismo, come è stato detto in questi giorni, o altre forme di totalitarismo. Semmai questi scontri confermano che la nostra democrazia è sempre più anemica e i rischi sono nella crescita dell’antipolitica dovuti all’assenza di disegni con un grande respiro politico da parte dei partiti. Non c’è democrazia senza partiti, ma se questi sono privi di forza politica, di progetti che guardano al futuro e all’interesse generale, la democrazia langue. Coloro i quali pensavano che per rianimarla e fare funzionare le istituzioni bastasse liquidare, con la legge elettorale, i piccoli partiti e incentrare la dialettica parlamentare solo su due grandi formazioni, hanno oggi materia per riflettere: la crisi della democrazia di cui tanto si è parlato non è stata certo superata. Anzi, al sogno breve del dopo elezioni è seguito uno scenario più allarmante di prima. Sia chiaro, la frantumazione politica che abbiamo conosciuto è paralizzante e dà un potere di veto a piccole formazioni personali.

Ea gruppuscoli che alzano vecchie bandiere per coprire spesso piccoli interessi. L’abbiamo visto col governo Prodi. Tuttavia, la radice del male non sta nell’esistenza di piccoli partiti, ma nel fatto che i partiti, grandi e piccoli, non hanno un disegno politico e leadership autorevoli.

Il partito socialdemocratico di Saragat ebbe un ruolo tra il 1948 e il 1963 quando si fece il primo centrosinistra, poi decadde perché non ebbe più né un progetto né un leader. Il partito liberale di Malagodi, proprio quando nasceva il centrosinistra, ebbe voce sino a quando ebbe un progetto, il piccolo partito repubblicano di La Malfa e Spadolini esercitò un ruolo eccezionale. Penso agli Anni Sessanta e alla «nota aggiuntiva al bilancio» del ministro del Tesoro La Malfa che costrinse i grandi partiti, Dc e Pci, a misurarsi sul terreno di un riformismo moderno. I radicali sono stati sempre un piccolo partito, ma nessuno può negare che abbiano assolto un ruolo rilevante nella vita politica e civile di questo Paese. I piccoli partiti che sono stati spazzati forse non meritavano di più perché non avevano ruolo. Di Pietro e il suo partitino personale è stato invece salvato, grazie alla legge elettorale truffaldina, dal Pd di Veltroni.

Ma il punto dolente del quadro politico-parlamentare che abbiamo davanti riguarda soprattutto i grandi partiti (Pd - Pdl) che avrebbero dovuto dare una svolta alla vicenda politica del nostro Paese. Incredibile ma vero, il solo partito che sembra avere un progetto politico-costituzionale (condizione questa per definirsi un partito, diceva la buonanima di Antonio Gramsci) è la Lega di Bossi. Il suo progetto di federalismo fiscale, rozzamente esposto e demagogicamente propagandato, è al centro dell’attenzione e riceve consensi e dissensi imbarazzati e imbarazzanti nel Pdl e nel Pd. Si capisce così perché il mio giovane amico Federico Geremicca parla di una Bicamerale presieduta da un esponente della Lega.

Intanto i due «grandi» sono impegnati in uno scontro sulla giustizia i cui termini sono sostanzialmente questi: Berlusconi pensa a «riforme» punitive nei confronti dei magistrati (che osano inquisirlo) e il Pd reagisce pensando di costituire una cintura di difesa all’assetto attuale della giustizia italiana. Sulle condizioni e sul futuro di questo Paese si ragiona solo in termini propagandistici. La crisi è tutta qui. Quando i partiti e i loro leaders confondono la propaganda con la politica e non riescono più a capire che la prima è utile solo se c’è la seconda e a prevalere dovrebbe essere proprio la politica, nel senso più vero e alto della parola, la crisi democratica è irrisolvibile.

Pensare che in questo clima sia possibile, nel Parlamento, fare riforme istituzionali e costituzionali in grado di rendere il nostro sistema più moderno efficiente e giusto è un’illusione. Si vuole rimettere al centro la politica? La proposta che avevo fatto su queste colonne di chiamare il popolo per ridefinire un patto costituzionale tra le forze politiche, come condizione essenziale per rianimare la democrazia, aveva solo questo obiettivo. Insisto.
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 07, 2008, 09:28:18 am »

7/8/2008
 
L'unica via per fare le riforme
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Nel corso di una conferenza stampa Berlusconi ha detto che l’opposizione non è «leale», che non c’è quel rispetto (nei suoi confronti) necessario per fare insieme le riforme le quali, ha aggiunto, saranno comunque realizzate «con la forza di una vasta maggioranza che gli italiani ci hanno dato sia alla Camera che al Senato». Forse è bene ricordare al presidente del Consiglio che in questa legislatura non ci sono parlamentari eletti, ma solo nominati dai capipartito e che la maggioranza è larghissima anche perché ha usufruito di un premio in seggi parlamentari grazie a una norma costituzionalmente discutibile e politicamente indecente. È bene anche ricordare che l’articolo 138 della Costituzione ha previsto il meccanismo di approvazione delle modifiche costituzionali, anche con maggioranza semplice e possibilità di referendum, perché tutto l’impianto della Carta ha come premessa la legge con cui fu eletta la Costituente, cioè la proporzionale.

Nessuno certo pensa di mettere in discussione la netta vittoria elettorale della coalizione governativa, ma pensare che quella maggioranza può fare e disfare la Costituzione è solo delirio di onnipotenza. Non è un caso del resto che i presidenti delle due Camere e i leader della Lega insistono per riaprire un dialogo tra maggioranza e minoranza per fare le riforme. Fatta questa affermazione, occorre verificare - con onestà e realismo - se i rapporti politici fra governo e opposizione consentono di attuare quelle riforme con gli stessi protagonisti di entrambi gli schieramenti impegnati nello scontro quotidiano nelle aule parlamentari.

Luca Ricolfi, domenica scorsa su queste colonne, ha osservato che «sarebbe molto più facile cooperare sulle riforme economico-sociali che sulla riforma delle istituzioni». Questo è assolutamente vero. E anch’io, che sono più vecchio di lui, avverto, come lui, un brivido alla schiena tutte le volte che sento ripetere che «questa sarà una legislatura costituente». Del resto bastano i primi cento giorni che hanno caratterizzato la vita di questo Parlamento per capire che legislatura sarà.

Il Capo dello Stato fa il suo dovere quando disinnesca mine che possono fare saltare tutti i ponti tra le due sponde del Parlamento e fa bene a sollecitare l’attraversamento anche di un solo ponte per costruire qualcosa che serva alle istituzioni e al Paese. Ma non è un caso che, disinnescata una mina, ne viene confezionata un’altra: sono prodotti della realtà politica in cui viviamo. Infatti nel momento in cui dal Quirinale venivano diffuse esortazioni alla distensione e al lavoro comune, in un altro Palazzo (il Palazzaccio), l’onorevole Di Pietro depositava la richiesta per indire un referendum sulla legge Alfano. E questo senza sapere se e quando un’autorità giudiziaria si rivolgerà alla Consulta per contestare la costituzionalità di quella legge.

Bene ha fatto Veltroni a respingere la richiesta dell’ex pm di aiutarlo a raccogliere le firme. Ma abbiamo visto con quanta prontezza due autorevoli esponenti del Pd amici di Prodi, Arturo Parisi e Franco Monaco hanno manifestato sostegno caloroso all’iniziativa dipietrista. Non saranno i soli se guardiamo il ventre molle del Pd. Un partito che non riesce ancora ad avere una politica e un’identità chiare come abbiamo visto nel voto promosso dalla destra per aprire, sul caso della povera Eluana, un conflitto di competenze tra il Parlamento e la magistratura. Di Pietro, ma anche Parisi e altri, sanno che la fermezza di Veltroni non reggerà e saranno in molti nel Pd a firmare la richiesta del referendum.

Faccio una parentesi per dire come, Berlusconi da una parte e Di Pietro dall’altra, entrambi beneficiari della transizione post-tangentopoli, continuano a tenere il sistema in tensione. Insomma con il mio ragionamento voglio dire che nelle aule parlamentari non ci sono le condizioni per un comune progetto di riforme. Berlusconi continuerà ad accusare il Pd di «slealtà» e Veltroni a rinfacciare al Cavaliere di non volere seguire la linea suggerita dal Capo dello Stato. Un duetto che dura da anni e può durare ancora sino alla fine di questa legislatura checché ne pensi Tremonti. Il quale, nell’intervista alla Stampa, sulla base di dati politici incomprensibili, ritiene che la bicamerale resusciterà.

E così al pessimismo di Ricolfi che non vede soluzioni Tremonti risponde con soluzioni solo sognate. Ai miei due amici dico che occorre rompere questo giuoco e rivolgersi direttamente al popolo eleggendo con il sistema proporzionale 75 persone impegnate a trovare in un anno una soluzione condivisa o votata a maggioranza ma, in ogni caso, sottoposta a referendum popolare. Una forza che si chiama «partito del popolo» ha paura di un voto popolare? E una forza che si chiama «partito democratico» ha paura di una consultazione democratica?
 
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