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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 150599 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Aprile 26, 2008, 09:55:52 am »

Sul palco a Torino allestito in piazza San Carlo

ATTACCA IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Il 25 aprile secondo Beppe Grillo «Siamo noi i nuovi partigiani»

Seconda edizione del V-Day, dedicata a un'informazione «degna di Ceausescu e Pol Pot».

Banchetti in 450 piazze

«Guerra di cifre e giallo sulle firme»


TORINO - Beppe Grillo, appena salito sul palco allestito in piazza San Carlo, rivolgendosi alla folla di grillini che lo applaude, inizia la sua manifestazione con un pensiero rivolto a quanti in piazza Castello manifestando per la festa della Liberazione. «Dedichiamo questa manifestazione -ha aggiunto Grillo- a coloro che stanno manifestando nell'altra piazza, noi siamo la naturale continuazione dei nostri nonni, di quei valori di quella gente che ha combattuto, ha perso la vita per lasciarci una nazione più libera o quasi. Se avessimo un decimo di cuore di quelle persone o un centesimo di coglioni di quelli noi compiremo un lavoro per loro».

I NUMERI - «Da una stima dicono che in questa piazza siamo in 120-140 mila». Così azzarda Beppe Grillo. Ma la piazza, secondo le forze dell'ordine, al massimo o può contenere tra 45-50 mila persone ed essendo affollata, gli osservatori dell'ordine pubblico stimano tra 40-50 mila presenze. Poche migliaia di persone, invece, sono rimaste in piazza Castello a seguire la manifestazione per il 25 aprile, indetta dal Comitato della Regione Piemonte per l'affermazione dei valori della Resistenza.

L'ATTACCO AL PRESIDENTE - E dopo aver salutato con entusiasmo solo quelle che lui definisce le «televisioni libere» e cioè Al Jazeera, Cnn, Bbc, la tivù australiana attacca: «Il presidente Napolitano dovrebbe essere il presidente degli italiani, non dei partiti. I partiti non ci sono più». Questo a proposito del mancato referendum sulla legge elettorale. «Il presidente della Repubblica, «Morfeo» Napolitano, dorme, dorme, poi esce e monita. Il referendum sulla legge elettorale andava fatto prima delle elezioni non dopo perchè farlo dopo è come mettersi un preservativo dopo che si è trombato».

CELENTANO - «Quello che vuol dire Grillo è che bisogna fare qualcosa prima che sia troppo tardi per controbilanciare la falsità delle cose che quotidianamente ci propinano». Così Adriano Celentano intervenuto al V-day di Torino con un contributo video. «Stiamo andando incontro - ha detto Celentano - alla scomparsa delle cose che custodiscono il sentimento dell'essere umano. Non è vero - ha aggiunto - che Grillo è l'antipolitica, che Grillo è contro il governo, lui anzi vuole dare una mano a chi vuole abbassare la tasse. E io credo - ha concluso - che tra poco le tasse si azzereranno perché le pagheremo direttamente agli editori dei giornali liberando il governo dall'infamia». Un saluto a Grillo è stato portato anche dal magistrato di Catanzaro, Luigi de Magistris mentre non c'è Clementina Forleo. «Quella gran donna - ha annunciato il comico genovese - non è potuta venire a Torino».

GIORNALI - «Vorrei un giornale pagato da chi lo legge e non dai finanziamenti pubblici». Grillo, citando i tre referendum per l'abolizione dei finanziamenti pubblici all'editoria, per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti e della legge Gasparri, ha ricordato: «Non esiste e non può esistere un Ordine. Chiunque deve essere libero di scrivere. Perché mai ci deve essere un Ordine dei giornalisti e non un Ordine dei poeti?». Grillo ha poi urlato: «Basta con le cose del passato, se vogliamo un Paese giovane e dinamico dobbiamo dire basta». E poi rincara:«Nei cda dei giornali ci sono le banche, i partiti, gli industriali con le pezze al culo che chiamano i giornalisti e gli dicono chi intervistare e dettano le scalette, ma da oggi tutto questo inizierà a finire». Elencando i finanziamenti pubblici che vengono dati a tutti i giornali italiani, Beppe Grillo se la prende in particolare con l'Unità e dice: «È L'Unità il giornale che ieri ci ha messo in prima pagina dicendo che siamo contro i valori della Resistenza. Un giornale che prende soldi per stampare 120 mila copie, ne vende 70 mila e le altre le butta in discarica. Noi disboschiamo la Val d'Aosta per finanziare quelli lì». Grillo attacca anche la legge Gasparri: «È un affronto alla democrazia e alla libertà» e che fa sì che Berlusconi possa avere «in un Paese civile tre televisioni, 20 giornali ed essere presidente del Consiglio. Non esiste al mondo».

TRAVAGLIO - «Questa giornata deve essere un atto d'amore per l'informazione e per i giornalisti che la danno. Dedichiamo questa giornata a Enzo Biagi ed Indro Montanelli». Così Marco Travaglio ha concluso a Torino il suo intervento sul palco di piazza San Carlo davanti a quanti, numerosissimi, hanno partecipato al secondo V-Day di Beppe Grillo. «Anch'io scrivo sui giornali italiani, sui giornali che prendono i fondi per l'Editoria ed io auspico che non ci siano più questi finanziamenti. Come? Basterebbe imporre un tetto della pubblicità in televisione». Sulla proposta di abolizione dell'Ordine dei giornalisti, Travaglio ha ricordato che «Noi abbiamo un Ordine che non era riuscito nemmeno ad espellere un giornalista che faceva la spia con i soldi del Sismi. Questo è l'ordine che va abolito, ma l'idea in se non era sbagliata». Per il giornalista torinese il referendum più importante tra quelli proposti da Grillo è però quello relativo alla cancellazione della Gasparri: «È un passaggio fondamentale. Se si riuscirà a cancellare la Gasparri si risolveranno molti problemi dell'informazione». «Quello di oggi deve essere un Vaff... ad un sistema che ci fa conoscere i servi ma non contro tutta l'informazione. Questa deve essere invece un atto d'amore per l'informazione».


IL SALUTO - «Oggi è iniziato qualcosa che porteremo avanti con le liste civiche»: è il commiato di Beppe Grillo alla piazza. «Ragazzi dai 20 ai 40 anni entreranno nei Comuni - ha detto - Si inizia da lì la politica. Saremo cittadini informati dentro i Comuni». Poi ha congedato il pubblico dicendo: «Siete stati meravigliosi. Non c'è stato alcun incidente. Se vi portate via l'immondizia siete perfetti».

LE REAZIONI - Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, risponde a Beppe Grillo che da Torino ha criticato il sistema dell’informazione italiana. «L’Italia è l’unico Paese al mondo dove una persona, come Beppe Grillo, può andare in giro a dire che l’Ordine dei giornalisti è stato creato dal Fascismo e secondo quelle logiche - ha detto Del Boca -; quando, invece, è nato nel 1963 da un’apposita legge. Questo significa non conoscere la storia, significa sbagliare. Quindi, al "Vaffa" di Grillo dovrei forse rispondere «ma Vaffa tu!’».

CALDEROLI - «Caro Grillo lei è un Catone mai eletto da nessuno, che fa i soldi sul qualunquismo, alla stessa maniera di quelli che vorrebbe combattere. Alcuni spunti positivi li ha anche avuti, in termini di discussione, però oggi, mi spiace, da parte mia non riceverà un V2 quale quello che oggi lei ha celebrato, ma riceverà un V3, al cubo, che poi lei capirà benissimo. Continui a fare il comico, perché di politici comici ne abbiamo già abbastanza, compreso magari il sottoscritto...». Così il senatore Roberto Calderoli, coordinatore delle Segreterie Nazionali della Lega Nord e vice presidente del Senato.

DI PIETRO- «Nel nostro Paese c'è un monopolio dell'informazione, pubblica e privata. Oggi più che mai aggravato dal fatto che la vittoria di Berlusconi porta al governo una persona che ha il controllo dell'informazione pubblica e privata. E ha già detto che non vuole risolvere il suo conflitto di interessi, né vuole dare retta alla direttiva europea in materia di informazione». Antonio Di Pietro ha spiegato così la sua decisione di firmare a Milano per i tre referendum proposti da Beppe Grillo: per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, contro il finanziamento pubblico all'editoria e contro la legge Gasparri. Per l'Idv, «l'informazione deve essere trasparente, indipendente e plurale».


25 aprile 2008

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« Risposta #31 inserito:: Aprile 26, 2008, 09:57:36 am »

C'è spazio per una sinistra. Di governo e del socialismo europeo

di Maurizio Mesoraca



Il problema che si pone oggi, dopo questa pesante sconfitta elettorale è: c’è ancora in Italia uno spazio significativo per un partito di Sinistra? La mia risposta è “Si”, ma per una sinistra di governo e collocata nella famiglia del Socialismo europeo.
D’altra parte è questo quello che succede nel panorama Europeo, dove i partiti di sinistra con queste caratteristiche, sono al governo o primo partito di opposizione, vedi Inghilterra, Spagna, Germania e così via.
Una sinistra radicale, antagonista o che guardasse all’indietro alla falce e martello, ha solo la possibilità di essere una forza residuale o di pura testimonianza.
Non è stata questa, d’altra parte, la scelta che avevamo fatto con Mussi, promuovendo il movimento di Sinistra Democratica. Poi ci si è fatti risucchiare nella terra di “nessuno” e abbiamo pagato come gli altri.
Noi dobbiamo riprendere quella che era la nostra funzione: unire la sinistra e rinnovarla, aggiungo io, profondamente, nel progetto, nel radicamento sociale, negli uomini.
Lo spazio c’è se sapremo interpretare le trasformazioni che sono intervenute nella società nell’ultimo decennio.
Essa sta ormai navigando verso una divisione che ammette due ceti: quelli popolari e quelli dei ricchi. In mezzo c’è un arcipelago che prima rappresentava la classe media e ora rappresenta il ceto “indistinto”, senza cioè un’identità, ma anche senza una rappresentanza ideale e politica precisa. Questo ceto, proprio perché indistinto, si riconosce  per la gran parte, in tutto e il contrario di tutto.
È un mondo questo che include impiegati, insegnanti, autonomi, artigiani, commercianti, piccole e medie imprese che vivono di lavoro e spesso in simbiosi con i loro dipendenti.
Per queste categorie, assieme ai ceti popolari, dobbiamo avere una proposta economica e politica, e soprattutto dobbiamo esercitare un impegno quotidiano per dare risposte coerenti con le loro esigenze.
È qui la partita si gioca sul piano della credibilità delle proposte e dei gruppi dirigenti, che li vogliono rappresentare.
Con la caduta delle ideologie non ci sono più classi, tranne alcuni settori particolari, che sono automaticamente orientate, a destra, al centro, a sinistra. Ci sono delle risposte di centro, di destra e di sinistra. Sta alla sinistra, quindi, saper dare risposte convincenti e coerenti con un disegno complessivo della trasformazione del nostro paese in chiave democratica e socialista.
Una questione specifica e fondamentale è quella cattolica. In Italia non ci si può rapportare col mondo cattolico come hanno fatto Zapatero e Boselli, accettando o alimentando uno scontro di natura quasi ideologica.
La risposta allora è quella data dai DS che hanno rinunciato ad una identità di sinistra, fondendosi con la Margherita, pensando di includere la cultura cattolica? No, non credo funzionerà, perché rappresenta una fusione forzata e fuori dalla cultura europea. Noi dobbiamo essere Laici ma dialogare costantemente e proficuamente con il mondo cattolico, sviluppando la via che avevano già tracciato Gramsci e Berlinguer e che ha trovato nel concordato uno sbocco rispettoso e ragionevole.
D’altra parte gli ideali evangelici e quelli di ispirazione socialista, sono in gran parte più affini di tante altre culture. Le differenze vengono fuori quando le questioni si affrontano, da una parte e dall’altra, in termini di ideologie e di potere.
Io ho cercato di offrire qualche modesta riflessione ad una discussione che non è facile, ma che deve essere fatta e deve coinvolgere tutti, senza schematismi e rendite di posizione. Con quel risultato, tutto e tutti dobbiamo metterci in discussione.
Di una cosa sono certo: la sinistra non si riprenderà e non riprenderà il suo ruolo in Italia ed in Europa, se continuerà a rappresentare solo una serie di “minoranze”: immigrati, precari, gay, operai in termini classici, o con l’occhio rivolto al mondo prima del 1989. Questa visione di parte, penso sia stata il motivo principale della nostra sconfitta elettorale del 14 aprile.
Noi dobbiamo guardare al futuro, cercando di costruire una Sinistra moderna, democratica ed europea, capace di darsi una missione. Garantire il benessere economico e sociale alla stragrande maggioranza del paese e, allo stesso tempo, i diritti ed i doveri fondamentali dei cittadini a cominciare dal lavoro, e proseguendo con la salute, l’istruzione, la sicurezza dei più esposti, e nel contempo, ridurre al minimo le disuguaglianze, le povertà, le precarietà, le ingiustizie, le differenze tra le varie parti del paese, prima fra tutte quelle tra il Nord ed il Mezzogiorno.
In tutto ciò il ruolo della cultura è importante quanto quello della politica. Sono queste idee utopiche? No, se sono perseguite con coerenza, impegno, passione ideale e amore per il proprio paese, per la realtà in cui si vive.

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #32 inserito:: Aprile 26, 2008, 10:03:47 am »

Edmondo Berselli

Qui si è perso il territorio


A mano a mano che si approfondiscono le analisi del voto, le elezioni del 13 e 14 aprile rivelano sfumature nuove. Uno degli aspetti più interessanti è la differente prestazione del Partito democratico nelle aree metropolitane e nella provincia. Si tratta di una situazione 'americana': come i democratici negli Stati Uniti, il Pd è il partito delle città, anche nel Nord leghista. Il suo messaggio raggiunge i ceti qualificati, penetra nell'universo della popolazione a elevato livello di istruzione, mobilita settori rilevanti del lavoro dipendente qualificato e ad alto reddito.

Il che complica l'analisi. Vale a dire che non esiste soltanto una frattura sociale, politica ed economica sull'asse Nord-Sud, che prossimamente potrebbe far sentire i sui effetti nelle relazioni interne all'alleanza berlusconiana (come farà il Cavaliere a tenere insieme il federalismo fiscale nordista di Umberto Bossi e le clientele meridionali del siciliano trionfante Raffaele Lombardo?). Esiste anche una classica frattura fra città e non-città, fra assetti metropolitani e provincia. I nostri democratici, a cominciare da Walter Veltroni, riescono a farsi intendere nei centri maggiori, dove l'apertura delle classi sociali più dinamiche trova il modo di reagire agli esiti contemporanei della globalizzazione con creatività e ricerca di competitività. Invece la provincia è terreno di conquista del centrodestra; nelle regioni settentrionali ha successo il proselitismo leghista, con il lavoro davanti alle fabbriche, con i gazebo vicini alle polisportive e nei bar delle bocciofile.

Questa distinzione è inevitabilmente approssimativa, ma chiarisce almeno una delle ragioni dell'affermazione della macchina berlusconiana. Anche se in modo incerto, il Pd ha cercato di accreditarsi come un partito modernizzante, capace di intercettare la spinta di un'Italia che non accetta di restare ai margini dell'Europa. Nello spirito del partito di Veltroni c'è l'accettazione del mercato e della concorrenza come contesti in cui si esprime il merito, cioè una forma attualizzata di perseguimento dell'eguaglianza. Ma se nella metropoli diffusa e anche nella "megalopoli padana" appena descritta da Giuseppe Berta nel suo libro 'Nord' questo messaggio è stato raccolto, c'è tutta una fascia territoriale in cui le conseguenze della globalizzazione vengono osservate con inquietudine.

Per questo nelle aree non metropolitane ha successo il modello costruito empiricamente da Silvio Berlusconi, con l'ausilio intellettuale di Giulio Tremonti. Il Pdl e la Lega si caratterizzano come il soggetto di una 'modernizzazione reazionaria', che tende a marginalizzarsi rispetto ai grandi flussi della globalizzazione, ma offre una rassicurazione ai ceti intimoriti dalla violenza del cambiamento. Forza lavoro operaia messa in crisi dalle ristrutturazioni aziendali, piccole imprese sballottate dal mercato, pensionati intimoriti dalle tendenze inflazionistiche e dal problema della sicurezza quotidiana, ceti medi insofferenti del degrado urbano, tutti trovano una risposta alla propria condizione di 'uomini spaventati' (secondo una definizione di Ilvo Diamanti).

Per certi versi, questo rende ancora più difficile il ruolo del Pd. Perché fare breccia nelle frange modernizzanti della società italiana è tutto sommato agevole. Ma per contendere il consenso alla Lega e al Pdl sul territorio occorre qualcosa che al momento il Pd non ha. Cioè una presenza quotidiana sui luoghi, nella vita delle persone, nelle realtà di incontro sociale. Le elezioni hanno mostrato che non sembra possibile né condurre una campagna tutta basata sull'idea e la struttura del partito leggero, cioè mediatico e quindi volatile, né il ritorno volontaristico al lavoro politico capillare come faceva il vecchio Pci.

Ma se oggi la politica risulta modellata, plasmata in profondità dal territorio, cioè dalla dimensione geografica e spaziale, occorre agire presto per 'territorializzare' l'iniziativa politica. Questo può essere realizzato mobilitando le risorse migliori e più efficienti, dalsindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e chiedendo alla rete istituzionale un coordinamento, una rete nuova di competenze messe in comune. Ma forse è venuto anche il momento di pensare a un partito federalizzato, il Pd del Nord, del Centro e del Sud, con strutture innovative e leadership territoriali che affianchino e sostengano il leader centrale. Pier Luigi Bersani a Milano, Enrico Letta a Firenze, Massimo D'Alema per le regioni meridionali. Che sarebbe anche una buona idea per ridimensionare, mettendole sotto controllo, la questione settentrionale, la questione romana e la questione meridionale.

(24 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it

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« Risposta #33 inserito:: Aprile 26, 2008, 02:46:53 pm »

26/4/2008
 
Tutti in festa ma divisi
 
 
 
MATTIA FELTRI
 
Mi sono rivolto a tutti gli italiani», ha detto il presidente Giorgio Napolitano al culmine del suo generoso e onesto sforzo. Ma le piazze ieri erano centinaia, luoghi fisici e luoghi dello spirito, ognuno di noi con la sua celebrazione, ortodossa o no, minoritaria, personale e pure la celebrazione del nulla. Molti sanno vagamente quale sia la ricorrenza, molti sanno che è un giorno di ozio, e si organizzano la sacrosanta gita fuori porta. Qualcuno era sceso nelle strade, nottetempo, per affiggere manifesti di solidarietà ai combattenti delle nuove Brigate rosse sotto processo; qualcuno, a Milano, si era armato di bombolette spray per imprimere sui muri l’identità del nuovo assassino della libertà: Confindustria. Qualcuno, in Friuli, ha stampato e distribuito volantini neonazisti: «Achtung Banditen. Traditore della patria». Qualcuno, a Roma, dal centro del corteo, ha fischiato e insultato i fratelli Alberto e Piero Terracina, scampati ad Auschwitz, per la colpa di essere ebrei come gli ebrei che «occupano la Palestina».

Qualcuno, a Genova, ha contestato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, per le posizioni della Conferenza episcopale sugli omosessuali, sulle coppie di fatto, sull’aborto, sulla procreazione assistita. Qualcuno, a Firenze, è andato a deporre mazzi di fiori sulle tombe dei soldati americani. Qualcuno, a Cuneo, ha partecipato alla cerimonia di intestazione dei giardini pubblici a Claus von Stauffenberg, l’ufficiale tedesco che per qualche ora credette di aver ucciso Adolf Hitler nella Tana del lupo e di averne rovesciato la dittatura. Ognuno aveva la sua piazza, il suo vecchio e nuovo nemico, la sua calda memoria oppure il suo fresco rancore. È stato un 25 Aprile tutto sommato calmo, e paradossalmente frantumato. Beppe Grillo ha fatto esultante la conta dei presenti, che erano molti, e si è proclamato figlio e nipote dei partigiani di oltre sessant’anni fa; i nuovi fascisti stanno nelle redazioni, ha detto, e si ripromette di spazzarli via.

Chissà quanti del suo popolo erano lì per l’ultima Resistenza e quanti per godere dello show.

È la cronaca che si trascina appresso la storia, la tira per i capelli, se la ridisegna addosso.

I ragazzi dei centri sociali hanno mostrato i pugni alla sinistra sconfitta ed extraparlamentare per indicargli come si sta in piazza.
Il ballottaggio di Roma, vibrante e patetico, ha costretto i leader del Partito democratico ad argomentazioni lise: arrivano i fascisti, arriva la marea nera.
Silvio Berlusconi ha lavorato al governo e si è intrattenuto per il caffè col nostalgico Giuseppe Ciarrapico.
Roberto Maroni ha tosato l’erba.
Fausto Bertinotti si è chiuso nel silenzio.
Il neofascista Luca Romagnoli era dolente perché la data gli ricorda «violenza e sconfitta».

E siccome è la festa di tutti, tutti hanno fatto festa, a modo proprio, insieme con un ricordo, con un feticcio, con uno spettro o con niente.

 
da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 27, 2008, 11:20:47 am »

27/4/2008 (7:Fico -

RETROSCENA, COME LA BASE PUO' ESSERE MANIPOLATA

Altro che libertà del web i potenti ci sguazzano
 
Rodotà avverte: "La tecnologia illude di aprir porte, ma spesso chiude in stanze vuote"
 
Gli studiosi: democrazia diretta? Si rischia il populismo

ANNA MASERA


TORINO

La libertà è partecipazione, è il ritornello di una vecchia canzone di Giorgio Gaber.
In quest’era digitale, ci si casca volentieri nella retorica tecno-entusiastica di Beppe Grillo sulla grande libertà di informazione e possibilità di partecipazione democratica resa possibile da Internet. O meglio dal «Web 2.0», termine di moda per definire quella rete sociale globale che celebra il trionfo dei «dilettanti» e dà l’illusione ai singoli cittadini di contare allo stesso livello dei governi e delle multinazionali, almeno online. Ma attenzione, avvertono gli studiosi del fenomeno, a non confondere le straordinarie potenzialità del mezzo con una conquista di e-democrazia, tutt’altro che raggiunta. Anzi: sempre più un miraggio.

«Il fenomeno Grillo in Italia» è una forma di «cyberpopulismo», democrazia plebiscitaria elettronica che trova in Internet uno strumento non meno adeguato della vecchia tivù, sostiene Carlo Formenti, autore di Cybersoviet (sottotitolo «Utopie postdemocratiche e nuovi media»). Secondo Formenti la retorica del Web 2.0 sta alimentando illusioni sulle prospettive della democrazia digitale. Grillo attribuisce ai nuovi media elettronici un ruolo rivoluzionario puntando sulla «postdemocrazia come utopia»: dove le decisioni non vengono prese a colpi di maggioranze o minoranze, ma all’unanimità, attraverso il convincimento reciproco e l’attribuzione di leadership nei confronti di chi si conquista la fiducia del gruppo. Ma attenzione: da una parte i blogger in vetrina riducono la sfera pubblica a sommatoria di conversazioni private e indeboliscono la capacità di influire sul sistema politico e mediatico. Dall’altra non ci sono garanzie di trasparenza, che deve essere «asimmetrica»: controllo dei governi che devono operare in una «casa di vetro», ma tutela per il diritto alla privacy dei cittadini.

I cybersoviet sono le comunità virtuali create dal popolo della rete. E di conseguenza la democratizzazione del Web 2.0 non prelude a una presa del potere dai parte dei produttori/consumatori, bensì «all'espropriazione capitalistica dell'intelligenza collettiva generata dalla cooperazione spontanea e gratuita di milioni di donne e uomini».

La tecnologia «dà l'illusione di aprire le porte alla libertà, ma poi spesso ci si ritrova in stanze vuote chiuse a chiave» avverte Stefano Rodotà, ex Garante per la privacy. Un esempio? The Economist cita la falsa e-democrazia di un indirizzo Internet diponibile per comunicare con un premier, che in realtà collega i cittadini solo a un computer: in cambio di questa promessa di accesso, subiamo la volontà di controllo di governi e aziende. «Il potere politico ed economico sa oggi infinitamente più cose sui cittadini di quante essi non ne sappiano sui potenti».

Dal Web 2.0 emergono nuove disuguaglianze, smentendo il mito di una nuova «giustizia distributiva»: il cosiddetto «digital divide» non si riferisce solo a chi ha e chi non ha accesso a Internet, ma alla stratificazione sociale che si crea fra differenti categorie di utenza: l’élite rispetto alla massa. «E’ ora di decostruire l’inganno del Web 2.0», sintetizza il teorico dei media australiano-olandese Geert Lovink, nella raccolta di interventi dal titolo «Web 2.0: Internet è cambiato. E voi?») di Vito di Bari. «Invece di celebrare i “dilettanti”, dobbiamo sviluppare una cultura di Internet che aiuti i “dilettanti” (in maggioranza giovani) a diventare “professionisti”». Perché Beppe Grillo riempie le piazze, ma sono sempre troppo poche le voci che chiedono ai governi di adottare e applicare regole chiare e condivise per l’e-democrazia.

www.lastampa.it/masera
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« Risposta #35 inserito:: Aprile 28, 2008, 10:00:17 pm »

Vicenza, vince il movimento. E chi lo ha ascoltato


A metà marzo, avevano presentato la loro lista “Vicenza Libera”. I No dal Molin erano scesi in campo per costruire una città libera «dai disastri naturali, dalla cementificazione, dalle servitù militari, da coloro che vogliono svenderla», insomma una «Vicenza libera di poter costruire da sè il proprio futuro». A guidare la lista come candidata sindaco c’era Cinzia Bottene, una dei leader del movimento che da oltre un anno si batte contro l’ampliamento dell’aeroporto militare Dal Molin.

Al primo turno avevano raccolto un risultato più che dignitoso, un 5 per cento che aveva marcato a chiare lettere il fatto che a Vicenza la protesta del comitato No Dal Molin ha messo radici. E infatti, in controtendenza con il voto di pancia, il voto di appartenenza e le strumentalizzazioni delle altre campagne elettorali, a Vicenza ha vinto chi ha parlato di contenuti veri.

Achille Variati, vicentino, 55 anni, una laurea in matematica e un lavoro in banca, è in politica dagli anni Ottanta, già sindaco della città dal 1990 al ’95, è diventato consigliere regionale, prima nelle fila del partito Popolare poi in quelle della Margherita, ora del Pd. Vince al ballottaggio con il 50,5%, beneficiando dell’appoggio dei No Dal Molin che hanno riversato su di lui le speranze di vedere lo stop allo sciagurato progetto della base. Ma certo, non si sono ammorbiditi. E cinque minuti dopo la proclamazione di Variati sulla poltrona di primo cittadino, gli mandano un messaggio. Tanti auguri, in sostanza, ma ora si rispettino i patti.

«Se sarò sindaco – precisava Variati a pochi giorni dal ballottaggio – promuoverò in consiglio comunale una delibera di segno opposto a quella che ha dato il via libera al progetto e organizzerò una consultazione popolare per dare alla città la possibilità, fin qui negata, di dire sì o no a questo progetto di costruzione della nuova base militare americana al Dal Molin. E per far sì che questa operazione abbia un senso, chiederò con fermezza allo Stato e alle autorità americane una sospensione nell’esecuzione dei lavori, così da rispettare i tempi – il più possibile brevi – dell’espressione della volontà vicentina». Insomma, un referendum, e il rispetto della volontà popolare.

Ora i No Dal Molin non perdono tempo a ricordargli quelle parole: «La vicenda Dal Molin – scrivono sul www.nodalmolin.it – è stata determinante nel risultato delle elezioni amministrative vicentine. Ha vinto chi, in campagna elettorale, si è dichiarato contrario al progetto statunitense. Ora ci aspettiamo il rispetto del patto che Achille Variati ha fatto con la città: il nuovo consiglio comunale dovrà immediatamente annullare l’ordine del giorno che esprimeva parere favorevole all’installazione militare».

Dopo due mandati saldamente nelle mani di Lega e Forza Italia, dopo le decisioni «che la giunta passata ha accettato supinamente», Vicenza finalmente cambia rotta. Il Tar del Veneto, nel frattempo, ha stabilito che il ministero della Difesa dovrà mettere a disposizione degli avvocati delle associazioni che si battono contro l’ampliamento della base tutto il carteggio tra il governo italiano e il Pentagono. Documenti che finora nessuno aveva mai potuto vedere.

Pubblicato il: 28.04.08
Modificato il: 28.04.08 alle ore 19.56   
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 29, 2008, 10:59:55 am »

POLITICA

Rutelli chiama Alemanno: "I miei auguri nell'interesse della città"

"Abbiamo perso sulla sicurezza, anche se ci sono state strumentalizzazioni"

Francesco, il giorno più amaro "Capire perché ci hanno punito"

di ALESSANDRA LONGO

 

ROMA - Alle 18.30 Francesco Rutelli affronta lo stesso martirio che è toccato a Walter Veltroni solo due settimane fa. Si fa strada tra facce tese, deluse, piangenti e siede con il suo foglietto di appunti che è una sentenza crudele. Ci sono 55mila voti di differenza sulla città di Roma tra lui e Nicola Zingaretti, neopresidente della Provincia: "Bisogna capire che cos'è successo", dice. Un voto disgiunto che fa male, che suona come uno sfregio, una scomunica personale.

Ma questo è un pensiero trattenuto, le parole escono filtrate, frutto del sangue freddo o forse solo della stanchezza che ancora soffoca la rabbia: "Nella mia vita pubblica ho avuto molte soddisfazioni e successi. Oggi è il giorno della sconfitta e provo un'amarezza grande". Non si può sempre vincere, mettiamola così. Ma è dura entrare in quella sala. E' dura ammettere che Roma, la tua città, la tua "passione", ti ha voltato le spalle, salvando però il collega diessino candidato alla Provincia ("Per fortuna, almeno lui ce l'ha fatta..."). E' dura quando sei stato due volte sindaco, hai sfidato Berlusconi sfiorando il successo, sei appena uscito dall'ultimo governo con le cariche di vicepremier e ministro della Cultura, è dura aggrapparti all'ultima della speranze, la più piccola, la più modesta, le circoscrizioni: "Speriamo che nei Municipi che sono in ballo finisca bene".

Quando arriva a spiegare l'inspiegabile, a sottoporsi al rito democratico e autoflagellante della presa d'atto, ha già chiamato il vincitore, il nuovo inquilino del Campidoglio, Gianni Alemanno, l'alleato di Bossi al governo, il politico di destra, il ragazzo dei campi hobbit e delle croci celtiche: "Ti faccio i miei auguri nell'interesse della città". Chissà quanto gli è costato prendere quel telefono, chiuso nella sua stanza, le segretarie a vigilare fuori dalla porta: "Non disturbate Francesco, lasciatelo in pace". Selva di microfoni appoggiati sul tavolo, talmente tanti che lui cerca di fare dell'ironia: "Ho bisogno di qualche centimetro. Siate carini, spostateli un po' questi microfoni, sennò dove metto le mie carte?". In piedi accanto a Rutelli c'è Linda Lanzillotta, con una camicia di seta rossa, e poi Patrizia Sentinelli, con una borsa rossa. E poi ancora Renzo Lusetti che di rosso ha la cravatta. La senatrice Binetti rimane all'aria aperta e, in assoluta controtendenza, prefigura scenari meravigliosi per il suo leader: "Torna una risorsa al Pd". Le "carte" di Rutelli sono in realtà poche righe di cortesia: "Ringrazio gli elettori e le elettrici che mi hanno votato, i militanti e le militanti che hanno generosamente condotto questa campagna al mio fianco". Sì, è andata male, davvero male: "Le elezioni le ha vinte Alemanno". Secco, senza giri di parole.

Se non altro non c'è il rimorso: "Ho fatto il mio dovere, mi sono messo a disposizione della coalizione e di Roma, con passione, senza risparmio". Perché i romani l'hanno abbandonato? Si è fatto, a caldo, un'idea: "Ho perso sulla sicurezza". Lo hanno penalizzato, dice, le immagini di una città violenta (che poi le statistiche smentiscono ma chi vota non le legge, si affida alle proprie paure), quell'ultimo stupro commesso dal cittadino rumeno, un altro viottolo buio dove si è scatenato l'inferno, lo stesso patito dalla signora Reggiani. Modalità che si ripetono, fatti di cronaca orrendi. "Ci sono state strumentalizzazioni - accusa Rutelli - ma occorre riflettere molto seriamente sui limiti del centrosinistra in materia di sicurezza". Alemanno, con la sua controffensiva militare, è stato ritenuto più credibile, Zingaretti, come suggerisce Massimo Brutti, anche lui al capezzale dello sconfitto, non è stato invece vissuto come responsabile dell'ordine pubblico, e dunque non ha pagato prezzo.

Che non fosse "una passeggiata" Rutelli l'aveva detto: "O vinco subito o saranno dolori perché tira un vento di destra". Effetto trascinamento delle politiche, anzi "effetto bandwagon", come lo chiamano gli esperti, salti sul carro del vincitore perché è più grande e più comodo, soprattutto quando il vincitore di Palazzo Chigi, Berlusconi, fa irritualmente capire che dialogherà solo con un sindaco di suo gradimento. Ma ha poi un senso andare a ricercare lontano i meccanismi che hanno portato alla disfatta? Rutelli non esagera, non si accanisce sulla malasorte. Succede. Succede di perdere anche "per una richiesta, per certi versi naturale, di discontinuità". Forse non doveva correre lui questa battaglia ma ha accettato perché glielo hanno chiesto, perché, in realtà, nessuno lo voleva fare ("France', se per caso ti andasse..."). E' stato vissuto come la continuità doppia: continuità con il governo Prodi, continuità con Walter Veltroni che lo aveva consacrato in un Palalottomatica gremito: "Sarà un grande sindaco".

Invece volevano la discontinuità. Sull'altare della svolta, la gente è sembrata dimenticare gli anni di buona amministrazione, il Giubileo senza incidenti, l'orgoglio di un Auditorium dove si fa la fila per ascoltare gratis lezioni di storia e di matematica. Pietro Barrera, storico capo gabinetto di Rutelli, ha gli occhi cerchiati, cerca le ragioni della sconfitta e le trova soprattutto in questa voglia di voltare pagina. Ha fatto più presa la campagna di Alemanno che diceva: "Roma cambia". Mentre è evidente che la città delle Fosse Ardeatine, dei mille ebrei deportati ad Auschwitz, non risponde più agli appelli antifascisti, non si turba se tra gli sponsor di Alemanno c'è gente che fa ancora il saluto romano e venera il Duce o regala stampelle a Rita Levi Montalcini invitandola a tornare nel ghetto.

Centomila elettori del centrosinistra si sono astenuti, non sono andati a votare per il ballottaggio, "forse un contraccolpo al risultato nazionale". C'è anche questo nei pochi appunti di Rutelli. E c'è il doveroso finale di speranza che parla di "energie importanti", di una fede "immutata" nel Pd e nel suo progetto. Si fa così, si abbozza, anche quando "l'amarezza è grande", anche quando ti dicono che "c'è chi ha votato Zingaretti e Alemanno", una scelta che è un messaggio di disagio, di rancore. Davvero "un voto inimmaginabile", commenta con gli occhi lucidi Lanzillotta che fiuta anche, nella sconfitta annunciata, "qualcosa di organizzato".

Ridotto all'osso il rito dei riflettori, Rutelli si chiude nuovamente nella sua stanza. Con lui la moglie Barbara, Gentiloni, Lusetti, Vincenzo Vita. I ragazzi dello staff mettono negli scatoloni pacchi di volantini ormai inutili. Goffredo Bettini viene intercettato dai cronisti che gli si fanno sotto. Quasi tra sé e sé commenta: "Tutto il mondo mi rompe i coglioni". Si spengono presto le luci al comitato elettorale. Roma cambia.

(29 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Aprile 30, 2008, 07:21:27 pm »

POLITICA

Barbara Palombelli ha parlato della sfida di Roma nella sua trasmissione

"Chi ha interesse sapeva che Berlusconi avrebbe avversato un sindaco Pd"

"I poteri forti sono stati decisivi mio marito non li garantiva"

di ANTONIO DIPOLLINA

 
ROMA - Una partenza con gli "auguri sinceri" al vincitore e la speranza che l'"adorata Roma" non perda il suo valore principale, ossia la concordia. Ma poi, via, dentro la polemica rivendicando almeno un paio di volte un concetto forte: "Tutti avevano capito che il nuovo governo avrebbe avversato il sindaco di centrosinistra: questo ha pesato sul voto di chi gestisce molti interessi a Roma". Prima dice così, Barbara Palombelli, moglie dello sconfitto candidato Rutelli, ai microfoni di Radiodue, impegnata ieri come ogni giorno nel suo "28 minuti". Poi precisa che quelli che si sono indirizzati su Alemanno per paura di spiacere a Berlusconi sono "i poteri forti". Quali? "I giornali, eccetera: hanno tutti nome e cognome".

La Palombelli ha dedicato l'intera puntata al voto di Roma, aveva come ospiti Bianca Berlinguer e l'euforico direttore del Tg2 Mauro Mazza: quest'ultimo si è concesso la gag alla quale tutti pensavano, ascoltando il programma, ossia dire alla conduttrice "la prossima volta però le domande sulle elezioni romane le faccio io a te, sicuramente le tue risposte saranno più interessanti delle mie". Palombelli ha ammiccato ("Faccio il mio mestiere di cronista della politica") ma come detto ieri è stata una conduttrice molto partecipe. Ha rivelato che a mo' di consolazione ha scherzato col marito sul fatto che quindici anni di potere di sinistra a Roma stavano pericolosamente avvicinandosi come durata al ventennio del fascismo in Italia, ha detto la sua nel dibattito prolungato, soprattutto con la Berlinguer, sulle ragioni della sconfitta globale del centrosinistra: oppure sulla difficoltà in futuro di trovare un equilibrio per una metropoli che deve coniugare sicurezza dei cittadini e tolleranza.

E Alemanno? La Palombelli dice: "L'ho incontrato l'ultima volta al derby Roma-Lazio", e qui Mazza affonda il colpo: "E nemmeno quella volta credevi che avrebbe vinto la Lazio". Ma, assorbite le gag, è tornato il concetto dei poteri forti (o di chi "ha molti interessi su Roma") che hanno voltato le spalle a Rutelli. Infine una sorta di ammonimento ai vincitori: con i chiari di luna in arrivo, "la crisi dell'Alitalia, l'Unicredit che compra Capitalia e si parla di migliaia di esuberi tra i colletti bianchi delle banche, la richiesta di trasferire una rete Rai a Milano, insomma con tutto questo Roma sarà un problema enorme da gestire nei prossimi anni". E in chiusura l'annuncio: "Da domani basta politica qui in trasmissione, per alcuni giorni parleremo di libri".

(30 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 30, 2008, 07:26:36 pm »

Tonino l'antagonista


di Antonio Carlucci


Collaborazione sulle riforme. Ma no secco a nuove regole ad personam. L'opposizione secondo il leader Idv. Colloquio con Antonio Di Pietro

La vittoria con il raddoppio dei voti e l'arrivo alla Camera di 28 deputati e a Palazzo Madama di 14 senatori. E la sconfitta, secca, della coalizione di centrosinistra di cui Italia dei Valori faceva parte. Antonio Di Pietro racconta il dopo elezioni e gli obiettivi che si pone. A cominciare dai rapporti con il Partito democratico e l'opposizione che vuole fare.

Ministro Di Pietro, chi ha votato Italia dei Valori?
"Abbiamo raddoppiato i consensi intercettando un voto di fiducia della società civile e del mondo della Rete. È il consenso per come il nostro partito ha portato avanti da una parte i problemi della sicurezza e della giustizia, e dall'altra la capacità di creare rapporti sul territorio, anche quando non eravamo noi al governo locale, per far nascere infrastrutture che fossero un reale beneficio per i cittadini. In questa ottica molti italiani che avevano votato la sinistra radicale e antagonista in funzione anti-Berlusconi o che avevano votato a destra pensando di essere così dalla parte della legalità hanno intravisto in Italia dei Valori un partito post ideologico in grado di parlare a tutta la società italiana".

Tanti voti, ma alla fine la sconfitta politica della coalizione. E adesso come userà i voti e i parlamentari?
"Intanto, sentiamo tutto il peso della affermazione del partito che comunque mette all'angolo tutti coloro che avevano consigliato a Walter Veltroni di non allearsi con noi. Da un punto di vista generale dobbiamo seguire l'indicazione degli elettori ed arrivare a un bipartitismo perfetto in cui due grandi formazioni non ideologiche sappiano interpretare la società contemporanea in senso liberale e si confrontino da un punto di vista riformista - noi e il Partito democratico - o conservatore. Fanno così americani, inglesi, francesi, spagnoli, ciascuno con il carattere della propria nazione. Noi pensiamo di lavorare per un modello in cui lo sviluppo economico e la crescita si accompagnino alla solidarietà che presuppone giustizia nella redistribuzione delle risorse".

Questo da un punto generale. Poi c'è la realtà nuova alle porte con Italia dei Valori che deve decidere se sciogliersi dentro il Pd, oppure camminare fianco a fianco con formazioni distinte?
"L'alleanza con il Pd resta il perno della nostra politica. Dunque si può, anzi si deve, costruire una casa comune di IdV e Pd nei tempi che la politica consentirà".

Che tipo di casa comune immagina?
"In prospettiva si deve arrivare ad un'unica realtà politica".

Un solo partito?
"Sì, un solo partito riformista di cui noi vogliamo essere i costruttori insieme al Pd. E che sia il punto di arrivo del processo cominciato con le elezioni. Quello che non condivido è che il punto di arrivo - la casa comune - sia il punto di partenza. Ha il sapore dell'annessione, con una una formazione che fagocita l'altra perché è più grande. È come se Italia dei Valori chiedesse al Pd si sciogliersi ed entrare nel nostro partito in Molise solo perché siamo più grandi e abbiamo tolto la Regione al centrodestra".

Sullo sfondo si intravedono anche problemi di posti e di visibilità.
"Io non ho questi problemi, tanto che ho lasciato a Veltroni, in quanto leader della opposizione, la libertà di decidere chi si deve occupare di che cosa nel futuro Parlamento. Come vede ci comportiamo già come fossimo in una casa comune. Così Veltroni ha la possibilità di far entrare in campo altri partiti dell'opposizione".

Quale sarebbe la sua reazione se degli incarichi destinati alla opposizione fossero affidati da Veltroni al partito di Casini invece che a uomini di Italia dei Valori?
"Dipende solo da chi si deve occupare di che cosa. Le faccio due esempi. Se il leader dell'opposizione dovesse scegliere Bruno Tabacci per occuparsi di problemi economici non avrei nulla da ridire, ma se fosse scelto Cuffaro per questioni attinenti alla giustizia e alla legalità sarebbe un colpo mortale alla alleanza con il Pd".

Martedì 29 comincia la nuova legislatura. Che tipo di opposizione si appresta a fare il suo partito?

"Costruttiva sulla politica del fare, radicale sull'etica e sui valori. In particolare, spianeremo la strada a provvedimenti sensati in materia di sicurezza, di infrastrutture, di sviluppo dell'economia. Sicuramente daremo il nostro contributo su tutte le riforme, anche costituzionali, necessarie. Ma su tutti quei temi - penso al conflitto di interessi, alle leggi ad personam, all'informazione, ai diritti - in cui la maggioranza cercherà di scrivere regole a suo uso e consumo e del suo leader noi ci opporremo in Parlamento e nel Paese".

In campagna elettorale, ed anche subito dopo, i toni nei confronti di Silvio Berlusconi sono stati all'insegna della moderazione. Solo Italia dei Valori ha strillato al ritorno del Caimano. Perché questa scelta?
"Il raddoppio dei voti indica che una parte degli italiani ritengono che Berlusconi ancora oggi non fa politica per servire il Paese ma per i suoi interessi personali, a cominciare da quelli del rapporto con la giustizia".

Ma li ha già risolti nell'altra legislatura con le leggi ad personam.
"No, li ha risolti nella legislatura appena finita perché il governo di centrosinistra non ha avuto il coraggio di fare quello che doveva in termini di conflitto di interessi, legge sulla informazione, riforma della giustizia, sicurezza. È così paradossale che proprio in questi giorni il centrodestra si atteggia a paladino della difesa dei cittadini avendo compiuto sfracelli sostenendo l'indulto con una maggioranza inciucista trasversale, bloccando la giustizia, aprendo le porte senza alcun filtro ai romeni che oggi vorrebbero cacciare. È davvero incredibile come gestendo potenti apparati di informazione stiano riuscendo a passare per vittime. Eppure sono i carnefici".

(28 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:23:52 pm »

«No a una fase di mugugni, chi ha altre idee parli chiaro»

Andrea Carugati


Senatore Tonini, il Pd risponde nel day after di Roma con la conferma di Anna Finocchiaro come capogruppo al Senato. Come va letto questo segnale?
«Come un atto di grande compattezza e coesione attorno alla proposta del segretario Veltroni, che prevede la conferma dei capigruppo uscenti. Il segnale è chiaro: metterci subito a lavorare in Parlamento. Subito dopo la fiducia al governo Berlusconi vareremo l’altro strumento-chiave della nostra opposizione, il governo ombra. Poi seguirà, entro l’estate, il rinnovamento degli organismi di partito, per superare la fase provvisoria».

Veltroni ieri ha proposto un congresso a breve, anche entro il 2008. Che senso ha questa proposta?
«Veltroni ha fatto bene a proporlo, perché dobbiamo evitare un pericolo mortale: una lunga fase di mugugni e mezze recriminazioni, sassi lanciati e mani nascoste. Non ci possiamo permettere una fase di autologoramento. Dunque, se c’è l’esigenza di una verifica democratica è bene farla subito e nel modo più ampio e aperto possibile: con un congresso. Se ci sono altre idee su come andare avanti vengano allo scoperto. Altrimenti si procede nella linea che abbiamo presentato agli elettori, e che ha avuto un riscontro positivo anche nella sconfitta, visto che il Pd è stato votato da un italiano su tre».

Eppure oggi governano Berlusconi e Alemanno...
«Non siamo ancora riusciti a sfondare al centro, ma era difficile poter sperare in un risultato tondo in un colpo solo: dovevamo fare due cose, salvare il progetto del Pd dalla crisi dell’esperienza di governo e vincere. Il primo obiettivo l’abbiamo pienamente raggiunto. Adesso bisogna lavorare per il secondo obiettivo, ma senza demolire il primo».

Ritiene che qualcuno nel partito voglia fare marcia indietro sullo stesso progetto del Pd?
«Nessuno vuole tornare indietro. È invece aperta la discussione su come colmare il gap che ancora ci separa dal governo. C’è chi, come Veltroni, vuole valorizzare la nostra vocazione maggioritaria del Pd, come i grandi partiti europei. Altri invece pensano alla costruzione di alleanze in più direzioni, secondo uno schema più tradizionale. Queste due linee prevedono due ipotesi diverse anche per quanto riguarda la riforma elettorale. Discutiamone in un congresso, non a mezza bocca».

Però la proposta di un congresso subito incontra resistenze: D’Alema, Marini...
«L’importante è che la proposta Veltroni l’abbia fatta, così ha sgomberato il campo da qualunque sensazione di arroccamento. Ora ci sarà tempo e modo per riflettere».

Quanto pesa il voto di Roma dentro il Pd?
«È stata una botta molto forte, anche dal punto di vista simbolico. Ma quel voto va interpretato, visto che lo stesso giorno Zingaretti ha vinto in città. Gli elettori hanno scelto la discontinuità al termine di un ciclo politico. Forse è stato un errore riproporre un ex sindaco, anche se è stato un grande sindaco: i cittadini non votano mai in nome del passato, ma del futuro. La nostra è sembrata una proposta legata al passato, anche se avevamo messo in campo la personalità più forte».

Ha contato la scelta del candidato a porte chiuse, senza primarie?
«Avevamo immaginato di avere più tempo per preparare il dopo-Veltroni: ma il precipitare degli eventi ci ha portato a scegliere in fretta, anche sacrificando la democrazia. Questo elemento ha pesato».

Quali errori vede nella strategia del Pd dalle primarie in poi?
«Sulle scelte di fondo non vedo errori. Le amministrative della scorsa primavera hanno segnalato una caduta verticale del consenso alla nostra azione di governo: il Comitato dei 45 decise, su proposta di Prodi, di eleggere direttamente un segretario per salvare il progetto del Pd dalla crisi dell’esperienza di governo».

E dopo le primarie che errori avete fatto?
«Quando si sperimenta è possibile sbagliare: un messaggio, una candidatura, ma sono dettagli. La strada intrapresa è giusta, l’errore più grave e imperdonabile sarebbe mollare perché ci siamo accorti che la strada è in salita. Ma lo sapevamo: ci vuole il passo del montanaro, i polmoni allenati. Il voto di tre giorni fa è anche quello di Vicenza e di Sondrio, città dove eravamo al 30% al primo turno e poi abbiamo vinto il Comune. Se sapremo fare un’opposizione coerente con la campagna elettorale, di merito, per noi la strada sarà aperta. La vicenda Alitalia ci mostra un governo già in stato confusionale ancor prima di nascere...»

A proposito di gruppi dirigenti: si parla di un ridimensionamento di Bettini e Franceschini...
«Veltroni farà una proposta complessiva sui nuovi assetti di vertice all’assemblea nazionale. Siamo tutti al servizio di un progetto più grande di noi, tutto il resto viene dopo».


Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.14   
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« Risposta #40 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:28:50 pm »

La Lezione della Sconfitta

Nicola Cacace


Le sconfitte fanno male se non si sa metterle a frutto. Come avviene dopo un brutto incidente - scendendo a 50 all’ora in bici ed essendo finito in ospedale, da allora uso i freni molto più di prima - la lezione può anche risultare vitale. Se il centrosinistra avesse vinto o perso per il rotto della cuffia ci saremmo salvati l’anima e avremmo tirato avanti come prima o peggio. Così non è e, dico, per fortuna.

Qui mi concentro su due grosse mancanze della nostra politica responsabili dell’80% delle sconfitte, nazionale e romana, che appaiono slegate tra loro ma che slegate non sono, sicurezza ed equità e sui mutamenti di rotta che il Pd e la sinistra devono imprimere da subito alle loro politiche.

Sulla sicurezza la destra ha un vantaggio storico, Legge ed Ordine è da anni un suo slogan, che, alla luce delle nuove forme di insicurezza, ha assunto un peso non facile colmare. Nostra colpa specifica è stata non capire i cambiamenti strutturali che da venti anni a questa parte la criminalità ha subito. Primo cambiamento è stato l’apporto che una immigrazione vorticosa, mal gestita e peggio contenuta ha avuto sulla criminalità: col 7% di immigrati il loro contributo si aggira intorno al 30% degli arresti e la cosa è abbastanza naturale se solo si considerano le condizioni di estremo disagio in cui molti immigrati vivono. Secondo cambiamento deriva dai luoghi in cui la criminalità si esercita, mentre prima, in Italia come nel resto del mondo, i crimini si concentravano nelle aree metropolitane, da qualche tempo l’intero territorio ne è investito. Anche per le maggiori protezioni delle aree centrali più ricche, la criminalità si è diffusa nelle periferie e nelle province pacifiche e sicure sino ad ieri. Questo ha aumentato enormemente il numero di persone coinvolte ed ha “abbassato” il livello sociale dei colpiti; a differenza di ieri quando erano pochi e benestanti quelli che dovevano guardarsi dal crimine, oggi sono milioni quelli più colpiti dalla insicurezza. Basta guardare al boom di voti di Alemanno nelle periferie romane che prima guardavano a sinistra per convincersi. In conclusione, anche se l’Italia ha tassi di criminalità non superiori alle medie europee, la condizione di insicurezza vissuta sulla pelle da milioni di cittadini è una nuova realtà che solo tardivamenente, e pochi a sinistra tra cui i sindaci di Bologna e di Padova, hanno colto nella loro gravità. Lasciando alla Lega e ad An un vantaggio difficile da colmare senza correzioni serie di politiche, di inclusione e di sinistra, ma efficaci nel rassicurare i cittadini.

Altra grossa mancanza delle nostre politiche è culturale: il ritardo di analisi, denuncia e cura delle crescenti iniquità che la globalizzazione e la finanziarizzazione stanno portando all’interno dei nostri Paesi. La globalizzazione ha ridotto i divari tra Paesi ma aumentato quelli all’interno dei Paesi. Il problema riguarda l’Italia ma non solo, anche l’America del presidente Clinton e la Gran Bretagna di Tony Blair poco o niente hanno fatto per ridurre la deriva dei divari crescenti di redditi e di ricchezza. Pochi dati per una realtà arcinota: in Italia, tra il 2001 ed il 2006 i salari reali non sono cresciuti mentre i profitti delle imprese sono raddoppiati. Il 5,3% di aumento reale del Pil in quel periodo sono andati tutti a profitti e rendite. Naturalmente la distribuzione di ricchezza tra benestanti da un lato e operai e ceti medi dall’altro ne ha sofferto, secondo la Banca d’Italia il 10% delle famiglie oggi possiede quasi il 50% della ricchezza nazionale. Negli Usa tra il 1980 e il 2000 i guadagni dei dirigenti sono passati da 30 volte a 120 volte quelli medi (Economist, 20 gennaio 2007). Tony Blair ha battuto ogni record: nei suoi 11 anni di governo i patrimoni dei 1000 inglesi più ricchi, stazionario sotto la Thatcher, è addirittura quadruplicato (Sunday Times, cittato su Repubblica del 28 aprile).

Se operai e ceti medi vedono i loro redditi peggiorare e quelli di ricchi e super ricchi crescere, ma perché mai devono votare a sinistra?

Non è giusto dire che l’equità aveva lo stesso peso nei programmi del Pd e del Pdl. È giusto dire che sia nei comportamenti concreti della Casta - tutti hanno votato scala mobile e altri privilegi dei parlamentari - sia nel dibattito politico elettorale, il tema dell’equità sociale non è apparso centrale né nei comizi, tantomeno nell’azione di governo. Oggi che molte differenze tra destra e sinistra non sono più rilevanti come ieri, si pensi alla sicurezza, la coesione sociale e l’equità sono tra le poche differenze identitarie da far emergere con molta più determinazione e chiarezza di prima.

Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.14   
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« Risposta #41 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:32:19 pm »

30/4/2008
 
Federalismo con garante al Quirinale
 
 
GIOVANNI GUZZETTA*
 

Il ministero per le Riforme a Bossi suggella lo straordinario successo elettorale della Lega e ne conferma il principale contenuto programmatico: un federalismo spinto. Sono vent’anni che la Lega calca la scena politica. Ha ottenuto indubbi successi, ma il cuore della battaglia per il decentramento non è ancora stato raggiunto. Solo il «federalismo fiscale» sembra poter soddisfare l’obiettivo di imprimere al nostro regionalismo una svolta in senso competitivo, differenziato, eventualmente anche asimmetrico. Tra i possibili modelli, il federalismo «competitivo» è senz’altro il più «centrifugo». Spinge molto verso concorrenza e differenziazione territoriale. I suoi teorici confidano che ciò crei degli shock positivi che, alla lunga, avvantaggino tutti. Non entro nel merito politico della questione. Constato che questa prospettiva è perseguita da Bossi ormai da anni e che essa ha dalla sua almeno un argomento: dal 2001 l’art. 119 Cost. (sulla fiscalità locale) non ha ancora ricevuto attuazione.

Ci sono due modi per affrontare questa sfida. Il primo è difensivo. Arginare il più possibile il cammino riformistico. È, a mio parere, una strada perdente. Rischia di produrre l’ennesima riforma frutto di veti incrociati, una soluzione né carne né pesce, che costringerebbe così la Corte costituzionale a rattoppare i vari pasticci, come fa ormai da anni. La seconda strada è quella di «andare a vedere» e promuovere un federalismo funzionante, partendo da una seconda Camera che offra alle spinte territoriali un luogo per fronteggiarsi ed equilibrarsi a vicenda. Il solo dossier «federalismo» però non basta a scongiurare aggressive spinte centrifughe. La storia costituzionale insegna che le esperienze federali e regionali funzionano se alla dinamica del decentramento corrisponde un solido impianto delle istituzioni nazionali. In Italia questo solido impianto non esiste, così come non c’è un sistema partitico stabilizzato.

La fragile semplificazione politica, risultata dalle ultime elezioni, non basta né per evitare l’instabilità né per contenere le spinte al decentramento estremo. Il rischio di sfaldamento politico e sfilacciamento economico-territoriale è in agguato. La Francia è un esempio di coesione istituzionale. Attraverso riforme istituzionali ben congegnate ha guarito, più di 40 anni fa, il sistema politico dalla malattia dell’instabilità congenita. La stessa che ha l’Italia. Anche molti ordinamenti federali o regionali (come gli Usa) si sono orientati verso meccanismi di legittimazione immediata dei vertici istituzionali. Paesi come il Belgio, all’opposto, rischiano di continuo che l’instabilità governativa si saldi con le spinte secessionistiche, con conseguenze imprevedibili.

Per l’Italia di oggi c’è una via maestra per perseguire questa coesione istituzionale. Consiste nell’elezione diretta del titolare dell’indirizzo politico, possibilmente del Presidente della Repubblica. Un Capo dello Stato legittimato direttamente dai cittadini (con un Parlamento conseguentemente rafforzato) è la più sicura garanzia per preservare l’unità nazionale e dare continuità all’indirizzo di governo, sperimentando contemporaneamente un federalismo avanzato. Varie personalità del riformismo si sono pronunziate per il modello francese. E alle elezioni entrambi gli schieramenti hanno avuto il merito di guidare i partiti verso scelte coraggiose. Bisogna perseverare in quel coraggio e dar vita a una grande e organica riforma dello Stato che lo attrezzi per le sfide che da tempo ci sono state lanciate sullo scenario globale. Ci troviamo nella fortunata circostanza che il mandato dell’attuale Presidente della Repubblica finirà insieme con quello del Parlamento appena eletto. Approvando la riforma subito, il prossimo Presidente potrebbe essere scelto non dal futuro Parlamento, ma dai cittadini tutti.

* Presidente del Comitato promotore dei referendum elettorali
 
da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Maggio 01, 2008, 07:39:13 pm »

Sabina Guzzanti: sulla stampa Grillo sbaglia

Toni Jop


Le ragioni della sinistra, le ragioni del paese, le ragioni di Roma, le ragioni della democrazia: dunque, vediamo, al momento di questo repertorio non ci resta granché. Certo, sono cose che non muoiono mai ma, come si diceva, in scaffale c’è quasi niente in attesa di nuovi arrivi.

Se crede, abbiamo tuttavia a disposizione Le ragioni dell’aragosta le quali, non sarà Das Kapital e nemmeno i Quaderni del carcere, a detta di molti non sono così lontane dalle nostre. Certo si tratta di un film, con tutti i limiti delle immagini rispetto alla infinita duttilità della parola ma, si fidi, ne trarrà beneficio poiché illustra con stile garbatoamaro un problema politico dei nostri giorni: come articolare un’azione collettiva che punti a cambiare la realtà in assenza di riferimenti organizzativi di massa. Contando, ovviamente, sugli affetti e sulla condivisione. Fine del gioco, speriamo che a Sabina Guzzanti, regista del bel film ora venduto in Dvd, sia d’accordo con lo spot perché, a volte basta niente, non ci va di starle sulle balle, non ci va soprattutto di fare la fine delle compagne aragoste. Intanto, eccovi Sabina Guzzanti, la regista, autore di satira messa fuori da tutte le tv del regno dai tempi del Primo Impero dei Biechi Blu.

Ecco la prima domanda banale, oggi una specie di bestemmia, se ci pensate, in questi tempi che, tra una sberla e l’altra, hanno omologato il feeling della sinistra all’altezza del locale delle caldaie: come stai?
«Ah, bene, tutto sommato bene. Anzi, direi bene...»

Ok, sei matta come un cavallo...
«Forse sì e forse no. Dopo i risultati elettorali ho visto in tv un bel po’ di gente di sinistra sorridente, senza tracce di un qualche colpo ricevuto. L’altra sera ho rivisto persino Lucia Annunziata in un brodo di giuggiole. Non capisco allora perché noi dovremmo farci il sangue cattivo...»

Ho visto anch’io, da Vespa, scene di una gioia di sinistra, sincera, stabile come un bel giorno di primavera. Beati loro...
«È gente contenta perché in Parlamento si sta bene. Soldi e garanzie, è umano essere contenti. Del resto anch’io, come ti ho detto, sto bene, è come se fossi insensibile...

Sarà per le troppe botte...
«Neanche per sogno. Siamo al capolinea e sono di buonumore, ora diventerà d’obbligo riflettere su cosa significhi oggi essere socialisti...»

E chi se lo immaginava che eri iscritta alla sezione Rosa Luxemburg? Insomma te lo aspettavi che le cose andassero come sono andate...
«Esatto. Lo sapevo che sarebbe successo...»

La prossima volta, via Mannheimer e le sue tabelle e dentro Sabina con le sue profezie, comprese le aragoste...
«Ripeto: era nell’aria, un passo necessario, ora sarà il caso che nascano nuovi soggetti politici...»

Ancora? Magari c’è già qualcuno pronto a celebrare i funerali della prima vera novità del panorama politico italiano, il Partito Democratico...e tu chiedi novità...A proposito: ricordo che avevi annunciato che non avresti votato, questa volta...
«E invece ho votato, anche Pd. Ma non lo voto più, non a queste condizioni. Per me, devono fare autocritica sia i dirigenti del Pd che quelli di Rifondazione: non mi risulta che si siano mai impegnati fino in fondo per far saltare la legge Gasparri, argomento che la sinistra ha accuratamente evitato. Sarà chiaro che una delle chiavi di questa sconfitta, forse la principale, è proprio l’informazione, o meglio la non informazione che ha investito la stragrande maggioranza dei cittadini? Nossingori: questa era la strada per definire l’identità del Pd, della sinistra in generale ma l’hanno evitata. In più, non puoi puntare a chiarire la tua identità ricorrendo al linguaggio della sicurezza che la destra ha elaborato sulla paura. Ma insomma...»

Per quanto riguarda il voto al Pd, sta tranquilla, non credo che te lo chiederanno a breve. Non vedi l’ora che facciano la festa a Veltroni?
«Per niente. Non sono d’accordo con chi addebita a Veltroni la responsabilità di quel che è accaduto. Anzi: era il meglio che si poteva avere, ma era solo, gli altri erano molto peggio e non si può costruire quella forza politica con un uomo solo. Rutelli è meglio che lo lascino stare, ha fatto le sue furbate tra pacs e fecondazione, non piaceva né a destra né a sinistra. Speriamo non lo riciclino, sarebbe una pessima mossa».

Forse non vedi l’ora che facciano la festa all’Unità. Tu che sei stata al primo V-Day e condividi la strategia del Grillo dovresti apprezzare la sua scelta di gettare ai pesci, come ha fatto in pubblico, anche questa testata accusata di succhiare vergognosamente denaro pubblico...
«Beh no. Intanto al secondo V-Day non c’ero e poi Grillo è Grillo e io sono io. Ha pregi e difetti. Su alcune cose concordo, altre non le condivido. Per esempio, sulla questione del finanziamento pubblico della carta stampata io sono perché sia confermato, che vada aggiustato in modo che non aiuti la sopravvivenza di finte testate. Anzi, mi piacerebbe che venisse spostata per legge molta pubblicità dalla tv alla carta stampata e la pubblicità è meglio dei soldi pubblici, non credi?»

Certo che sei dispettosa e impertinente. Col cavolo che torni in tv con questo carattere...
«Senti questa: stavo lavorando a una cosa su La7. Dopo le elezioni hanno mandato a casa il direttore e quindi...»

Poco male, puoi sempre contare sul pesce grosso, la Rai...
«Da dove manco dal 2003, come no. Però ho visto che riabilitano Saccà, ma è evidente che quello che ho fatto io è ben più grave di quello che ha fatto lui...».

Ora capisco il tuo buonumore: tra Berlusconi e Alemanno, Gasparri e La Russa così in prima fila, ti ritrovi un sacco di carne al fuoco, come e più che ai bei tempi. Hai visto qualcuno del nuovo serraglio di fronte al quale ti sei detta: orpo, questo è una miniera d’oro?
«È vero, son tornati. Mi ha colpito Giordano, il direttore del Giornale. Ma è fin troppo facile, un lavoro come si dice di bassa soddisfazione, in due settimane butto giù una sceneggiatura di cinque ore. Abbiamo tutto il tempo per fare le cose con calma».


Pubblicato il: 01.05.08
Modificato il: 01.05.08 alle ore 6.34   
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« Risposta #43 inserito:: Maggio 01, 2008, 07:41:13 pm »

Dalla parte dei salari

Giorgio Tonini


Ai cantieri navali di Fano, il settore che tira di più è quello degli yacht di lusso. Per comprare il modello più «economico» bisogna staccare un assegno da cinque milioni e mezzo di euro. E bisogna mettersi in fila, c’è da aspettare qualche anno. Perché nel mondo - solo due su dieci di questi giocattoli vengono comprati da italiani - per fortuna i ricchi aumentano.

Dico per fortuna non solo perché, come ci ha insegnato Olof Palme, dobbiamo combattere la povertà e non la ricchezza. Ma anche perché questi ricchi capricciosi consentono di vivere e prosperare ad una dinamica filiera di vivacissime medie imprese italiane, a loro volta traino di uno sciame di piccolissime aziende artigiane. La ristrutturazione del nostro sistema produttivo, in questi anni, è avvenuta proprio così: attorno a qualche migliaio di medie imprese che hanno imparato a nuotare nel mare aperto della globalizzazione, facendo della qualità la loro carta vincente e dell'integrazione con un alone di piccole e microimprese il loro nuovo modello organizzativo.

Gli operai dei cantieri di Fano guadagnano meno di mille euro al mese. Per comprare le favolose barche che producono non gli basterebbero 400 anni di lavoro. Molti di loro sono extracomunitari: e così il cerchio della globalizzazione si chiude. I poveri del mondo vengono da noi a produrre i giocattoli di lusso per i ricchi del mondo. Ma ci sono ancora tanti operai italiani. Per i quali è forse ancora più difficile vivere con quella cifra. Eppure, le indagini sociometriche ci dicono che la maggior parte di loro, in Italia, vota a destra. Quasi nessuno ha votato la Sinistra Arcobaleno. In tanti, ma minoranza, hanno votato il Pd.

Perché non abbiano votato la Sinistra Arcobaleno è presto detto. Perché parlare loro di lotta di classe, o di ripudio della globalizzazione, è semplicemente insensato. Loro vivono di globalizzazione. Ed hanno interiorizzato, tanto più quanto più l’impresa in cui lavorano è piccola, la cultura delle compatibilità. Sanno bene che se vai fuori mercato ti devi cercare un altro posto di lavoro e difficilmente lo troverai a condizioni migliori. La battuta di Bertinotti contro Veltroni che aveva annunciato la candidatura dell’operaio della Thyssen e del giovane imprenditore («uno dei due è di troppo») alla loro concreta esperienza di vita non dice nulla, è vuota ideologia.

Dall’altra parte, la destra propone loro la detassazione degli straordinari e magari, un domani, delle tredicesime. Solo gli straordinari, sono quasi uno stipendio l’anno in più. Quattro miliardi di euro l’anno, a favore del lavoro. A noi democratici non piace questa soluzione, perché frammenta il mondo del lavoro, identifica l’aumento di produttività solo con l’aumento di orario, perché è tendenzialmente unilateralista, cioè ignora o quanto meno marginalizza la contrattazione collettiva e perché, come ha bene evidenziato Pietro Ichino, è pure maschilista, dato che gli straordinari li fanno quasi solo gli uomini e quasi mai le donne. Ma a molti operai la proposta della destra è piaciuta e piace, perché ha il pregio di essere terribilmente concreta.

La nostra proposta è certamente migliore: è la proposta di riformare la struttura delle relazioni industriali, enfatizzando il ruolo della contrattazione di secondo livello, aziendale e territoriale, l’unica in grado di incentivare la produttività, di concepirla non come mero aggravio del tempo di lavoro, ma come miglioramento della sua qualità, e di ridistribuirla, destinandone una quota significativa al salario e non solo al profitto. Ma la nostra proposta ha un difetto, che è poi anche il suo pregio: presuppone un accordo tra le parti sociali, un impegno in prima persona del sindacato e poi anche un nuovo modo di contrattare, più aderente ai luoghi di lavoro e quindi allo stesso tempo più democratico e più competente. Ce la faremo a dimostrare ai lavoratori italiani che la proposta migliore può essere anche concreta e che loro non devono scegliere tra l’uovo oggi e la gallina domani? Questa è la sfida dinanzi alla quale ci troviamo. Questa è la strada da percorrere per conquistare i consensi che ci mancano, anche nel mondo del lavoro, che non è più altra cosa dal mondo dell’impresa. Auguriamoci, in questo Primo Maggio, di riuscire insieme ad esserne capaci.

Pubblicato il: 01.05.08
Modificato il: 01.05.08 alle ore 6.33   
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« Risposta #44 inserito:: Maggio 01, 2008, 09:58:01 pm »

POLITICA

L'ex presidente di Confindustria collaborerà con l'esecutivo "per spirito di servizio"

Proseguono a ritmo frenetico gli incontri per la formazione del governo

Berlusconi convince Montezemolo

Sarà ambasciatore del Made in Italy

 
ROMA - Ambasciatore del Made in Italy nel mondo: questo, nelle intenzioni di Silvio Berlusconi il futuro di Luca Cordero di Montezemolo. Il leader del Pdl, che lo avrebbe voluto nel suo governo, ha modificato la sua proposta. E oggi, dopo un incontro a Palazzo Grazioli, l'ex presidente di Confindustria ha dato la sua disponibilità a collaborare "per spirito di servizio" con l'esecutivo. Per il Cavaliere, dal punto di vista dell'immagine, è comunque un bel risultato. Intanto proseguono con ritmo frenetico gli incontri per definire la squadra dei ministri.

L'accordo è stato trovato nel pomeriggio. Berlusconi ha illustrato a Montezemolo il programma che intende portare avanti nei primi cento giorni: detassazione degli straordinari, abolizione dell'Ici ed altri provvedimenti ribaditi in campagna elettorale. Poi i due hanno parlato della creazione di una figura capace di rappresentare ai massimi livelli il nostro Paese, i suoi prodotti e il suo stile nel mondo: una sorta di ambasciatore del Made in Italy e dell'Italia. Un incarico non ufficiale e nemmeno di governo. Una sorta di collaborazione super partes con l'esecutivo. "Sarai il nostro fiore all'occhiello nel mondo, con i successi che hai riportato", ha detto il presidente del Consiglio in pectore. E Montezemolo, "per spirito di servizio", ha garantito la sua disponibilità ad assumere questo ruolo.

Sono giornate intensissime per il leader del Pdl. E i numerosi incontri non sono certo semplici da gestire, anche per un politico navigato come il Cavaliere. ''Ci sono da dire tanti no, ed è una cosa dolorissima'', ha confessato Berlusconi.

Oggi il presidente del Consiglio in pectore ha avuto numerosi faccia a faccia con gli esponenti dei partiti della coalizione. La vittoria a Roma di Gianni Alemanno, possibile ministro del Welfare, ha creato qualche tensione con An. Il partito di Fini, che dovrebbe piazzare Altero Matteoli alle Infrastrutture, Ignazio La Russa alla Difesa e Adriana Poli Bortone alle Politiche comunitarie o alle Pari opportunità, non chiede necessariamente quel Ministero, ma rivendica comunque un incarico di pari importanza. In alternativa, la rinuncia sarebbe compensata in qualche modo con una più nutrita pattuglia di viceministri.

La Lega ostenta sicurezza. Umberto Bossi garantisce che la squadra padana è fatta e non cambierà. Maroni andrà al Viminale, Roberto Calderoli (o lo stesso Bossi) alle Riforme e Luca Zaia all'Agricoltura. Roberto Castelli, invece, dovrebbe fare il viceministro alle Infrastrutture con delega al Nord.

Tra i forzisti, punti fermi del prossimo esecutivo restano Gianni Letta, come sottosegretario unico a Palazzo Chigi, Giulio Tremonti, come ministro dell'Economia e Franco Frattini agli Esteri. Claudio Scajola dovrebbe tornare alle Attività produttive, anche se non è escluso un suo incarico come ministro della Giustizia, dove resiste anche la candidatura di Elio Vito. Se non dovesse diventare guardasigilli, l'ex capogruppo di Forza Italia andrebbe ai Rapporti con il Parlamento al posto di Paolo Bonaiuti, che diventerebbe portavoce del governo.

Tra le caselle date per sicure, Mariastella Gelmini all'Istruzione e Sandro Bondi ai Beni culturali. Michela Brambilla resta in corsa per il ministero dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo è in bilico tra le Politiche comunitarie e il rientro alle Pari opportunità. Alla Famiglia dovrebbe andare Mara Carfagna, mentre la Salute, tramontata l'ipotesi Maurizio Lupi, potrebbe andare ad un tecnico. Quanto a Roberto Formigoni, il governatore della Lombardia rimarrà al suo posto, ma sarà anche vicepresidente di Forza Italia con la promessa di una ricandidatura nel 2010.

(30 aprile 2008)

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