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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 79584 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Agosto 04, 2010, 04:43:35 pm »

4/8/2010 (7:31)  - IL CASO

Fini e i suoi eroi

Così diversi così finiani

L'esordio in Aula del gruppo "Futuro e libertà"

MATTIA FELTRI
ROMA

Forse i due che si assomigliano maggiormente sono il più giovane e il più vecchio, l’onorevole Gianfranco Paglia, quarant’anni, e l’onorevole Mirko Tremaglia, ottantaquattro. Paglia ha perso l’uso delle gambe nella battaglia del Pastificio, Mogadiscio 1993, e ne ha guadagnato una medaglia d’oro al valor militare. Tremaglia combatté diciassettenne, con onore e dalla parte sbagliata, quella di Salò, l’epilogo della Seconda guerra mondiale. Sono due dei quarantatré finiani - trentatré alla Camera e dieci al Senato - che scuotono la legislatura. Tremaglia, il vecchio bergamasco, vive con tensione altalenante il matrimonio con Gianfranco Fini, che pareva definitivamente interrotto dopo la qualifica che il capo diede del fascismo - male assoluto - altamente lesiva dell’orgoglio di una generazione. Fini non può più fare il leader, disse Tremaglia.

Cambiare idea è sacrosanto, e infatti questo nutrito manipolo di guastatori è bello eterogeneo, come vogliono i tempi moderni. C’è per esempio la marocchina Souad Sbai, grande paladina dei diritti delle donne islamiche, e c’è Maurizio Saia, che ebbe l’onore dei corsivi quattro anni fa, quando giudicò Rosy Bindi indegna del ministero della Famiglia in quanto lesbica (secondo lui): «Guardiamoci in faccia», disse Saia, e Fini lo guardò in faccia e disse: «E’ un imbecille». Ma poi tutto si scorda e s’aggiusta e Saia oggi segue convinto il vecchio boss ma cede al magone perché «stavolta rompiamo con gente con cui facevamo insieme i campi hobbit».

I capibastone sono pochi. Ai tempi erano vice dei vice: i vari Italo Bocchino, Fabio Granata, Adolfo Urso, Carmelo Briguglio. La star è l’attore Luca Barbareschi. Il cervellone è Mario Baldassarri, ex viceministro all’Economia, specializzato al Mit del Massachusetts con Franco Modigliani e Paul Saumelson anche se di Baldassarri, in lampi di frivolezza, la stampa ricorda più frequentemente la seduta spiritica del ‘78, quando il fantasmino cercò di spifferare a lui e a Romano Prodi dov’era recluso Aldo Moro. Il fedelissimo è Donato Lamorte, 79 anni, una specie di combinazione vivente delle casseforti finiane. Le ibarruri sono soprattutto Flavia Perina e Giulia Bongiorno. La Bongiorno è l’ultima arrivata, ma già splende di gloria nuova, tanto è vero che la si ricorda sempre meno per la strepitosa difesa di Giulio Andreotti assunta a Palermo, o per quelle successive e non così fortunate di Francesco Totti e Vittorio Emanuele, e invece la si considera una trasposizione illuminata di Niccolò Ghedini, poiché in favore del capo fa filosofia del diritto, stende le leggi, apparecchia le querele.

Flavia Perina è fra i più solidi della truppa. Quattro anni fa seppe resistere agli schiaffoni di Fini per il quale la direzione del Secolo, affidata alla Perina nel 2000, era fallimentare: «Di questo giornale non sappiamo che farcene». Lei, a dir la verità, a svecchiare il quotidiano ci provava da tempo (senza l’aiuto del partito) e con una linea che ormai è compiuta e che, secondo i detrattori, pare una riedizione fuori tempo massimo dell’Unità veltroniana, così pop ecumenica, in cui vien buono tutto, Francesco Guccini, Hannah Arendt, Tintin. E però la Perina ha il merito - per chi lo considera tale - di essere diventata finiana prima di Fini, visto che nel 2005, intervistata da Claudio Sabelli Fioretti, già criticava le leggi sulla giustizia e il nostalgismo, difendeva il kapò Martin Schulz e i diritti degli extracomunitari, e vedeva Stefania Prestigiacomo «appiattita sulla pappetta post femminista».

E poi, andando avanti, abbiamo in Maria Grazia Siliquini l’ex casiniana, in Benedetto Della Vedova l’ex pannelliano. Abbiamo in Giuseppe Consolo il giurista napoletano, l’insegnante alla Luiss, il padre dell’attrice Nicoletta Romanoff che, per via materna, discende dagli zar di Russia. Consolo, lo scorso maggio, si produsse in una tirata contro i vigili urbani di Roma che con atteggiamento pretestuoso, disse, gonfiavano di multe lui e i suoi colleghi parlamentari. C’è Maria Ida Germontani che è stata la prima deputata di destra eletta a Reggio Emilia nel Dopoguerra. C’è il senatore Francesco Pontone, ottantatré anni, al quale dobbiamo l’istituzione della festa del nonno. Abbiamo la bella Catia Polidori, di Città di Castello, che nel sito personale ancora esibisce le foto col Cavaliere. Abbiamo Silvano Moffa, ex presidente della Provincia di Roma. E abbiamo, per concludere, il deputato bellunese Roberto Menia, promotore della legge con cui è stata istituita la giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe, un merito che non è certo oscurato dalle celebri immagini delle Jene, che proposero un Menia portato in trionfo in Perù, dov’era andato per prestare soccorso a quell’«incredibile macchina della tecnica e della natura che è il colibrì».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57319girata.asp
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 16, 2010, 09:24:33 am »

15/8/2010 (7:10)

La politica e il declino dell'(est)etica

Non solo inchieste: così il look sfacciato mostra il lato debole del potere.

Da Scajola a Tulliani


MATTIA FELTRI
ROMA
L’altro giorno, quando abbiamo visto sui giornali le foto di Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini, con la Ferrari da quasi 200 mila euro, la maggior parte di noi non si è chiesta dove il giovanotto avesse raccattato i denari per acquistare il bolide. Ma come gli fosse venuto in mente di lavarlo per strada. L’epica del sabato mattina con la spugna e lo shampoo per carrozzeria è, appunto, ormai epica, e non soltanto per i titolari di utilitarie, poiché nessuno più oserebbe vantarsi di pistoni e cromature. Quella foto spiega una verità trascurata: le società mostrano il declino non tanto nei disastri etici, quanto in quelli estetici.

La fiducia ripetutamente accordata dagli elettori a Silvio Berlusconi - con i suoi conflitti di interessi, le sue pagine nebbiose, le sue relazioni spericolate - e il sostanziale fastidio manifestato, di conseguenza, per l’opera replicante di moralizzazione politica da parte della magistratura, sono il segnale che i governati hanno imparato sulla loro pelle - e sulla pelle dei padri - che il potere conduce quasi inevitabilmente al furto e alla soperchieria, da che mondo è mondo. Non li indigna la malversazione, ma l’inconcludenza e l’arroganza. Tutte le scatole cinesi e tutte le leggi ad personam non varranno mai l’immagine dell’ex ministro Claudio Scajola con la moglie al fianco e dietro di loro il finestrone vista Colosseo. Un’imbarazzante esibizione di grandeur da ganassa, e per di più sotto costo, e per di più a loro insaputa. Il nesso fra la morale e l’estetica non è questione relegata ai sussidiari di filosofia: basta sfogliare un patinato.

Non si vuole generalizzare: ognuno ha la propria storia. Ma è il carosello globale che lascia senza fiato. Silvio Berlusconi è stato accolto prima nel mondo dell’imprenditoria e poi in quello della politica come il parvenu, l’arricchito, quello che sventaglia i villoni e il costoso caschetto Playmobil calzato sul cranio. Ma sono state le reiterate battute su Rosi Bindi, bolse anche in un bar per militari di leva, oppure le sfilate di ragazzine e mignotte nei palazzi del potere, come nelle abitudini di certi raìs africani, ad annichilire i fedelissimi del voto a centrodestra. E chi non ama Gianfranco Fini non si capacita - prima ancora che della fronda e della gestione dei beni - dell’abbigliamento festivo, dei giubbotti di pelle alla Arthur Fonzarelli, degli occhialini da sole stile capobastone di quartiere, dei chewing gum masticati nei dibattiti pubblici, dei palpeggiamenti e dei manifesti turgori sulla barca (e lo dovresti sapere che i teleobiettivi guardano lontano). Fu fra due teli da bagno gemelli e zebrati, uno per lui e uno per Elisabetta, che fece capolino il dubbio.

Del resto basta fare un salto a Montecitorio, un giorno qualsiasi, in quella che sarebbe la cattedrale laica, il sacrario della Repubblica, per rendersi conto che qualsiasi forma di rispettosa soggezione non agli uomini, ma alle istituzioni, è calpestata da All Star verdi, le calzature preferite delle nuove leve leghiste. Umberto Bossi, con le sue canottiere, col suo turpiloquio antico e politicamente scorretto, è in fondo obbediente alla ragione sociale (iper popolare) della Lega. Esattamente come Antonio Di Pietro, che riunisce sull’aia, fra trattori e galline, i contadini di masserie vicine e i politici simpatizzanti. Il loro rapporto con l’estetica è una schietta rivendicazione politica, ruspante anziché volgare. Né l’uno né l’altro - che vanno alla Camera vestiti come i nostri vecchi andavano a messa - si sognerebbe di entrare in Aula con magliette girocollo o con giacche a vento, come fanno gli accoliti. I leader abbronzati e smutandati, di destra e sinistra, compaiono su Chi appena prima del tronista depilato. Il dramma delle squinzie berlusconiane, prima ancora dell’eventuale insipienza, sono i sandali zeppoloni in Transatlantico, i colori sfolgoranti, le voci stridule, e si prova nostalgia per i caricaturali tailleur di Irene Pivetti, deferenti quanto più goffi.

Una classe politica che si accanisce chirurgicamente sul proprio volto (da Berlusconi in giù, molto più in giù) e che per innalzarsi calza scarpe con suole di gomma di dieci centimetri, è una classe politica perduta. Una classe politica che insiste col trafficare al telefono, con l’ordire corruzioni da diporto, con l’ordinare sollazzi inguinali come fossero pizze, con l’infarcire di sguaiatezze le conversazioni, e ancora non ha capito che sono conversazioni di pubblica disposizione, è una classe politica perduta. Denis Verdini non avrà - come moltissimi pensano - cercato di sovvertire per mezzo di loggia massonica le sorti repubblicane del paese, ma se va a cena con Flavio Carboni attenta a se stesso. Tutto questo governo di innamorati, che ostenta il più comune dei sentimenti mano nella mano davanti alle telecamere (ah, Gianni Agnelli, quando diceva che si innamorano soltanto le cameriere...), salvo poi pretendere la privacy, è un governo che ambisce a Beautiful. Giovanna Melandri che racconta le sue vacanze in Kenia come una parentesi di impegno sociale e poi viene fotografata mentre balla alla festa di Flavio Briatore a Malindi, e nega finché le foto non escono, va oltre l’umorismo vanziniano e oltre la caricatura dei cuori a sinistra coi portafogli a destra.

L’opinione quasi sacerdotale che si aveva dello scranno e del ruolo - che non è roba da parrucconi, ma forma e dunque sostanza - si è trasformata in un rivendicato autodisprezzo en plen air, una piazzata perenne, liti di ringhiera, abbigliamento da centovetrine, sogno di eterna giovinezza studiato su Postalmarket. I Palazzi del potere non sono più templi, neanche per i templari. E quando frana la torre, cade Babilonia la grande.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57629girata.asp
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 01, 2010, 09:08:37 am »

1/9/2010

Cosa ci lascia l'estate della politica cafona
   
MATTIA FELTRI

Due belle facce: come dire, il volto dell’estate. Il ricciolo nero incatramato di Muammar Gheddafi e la grinta di terracotta di Silvio Berlusconi, impietriti nei loro sorrisi, e noi impietriti davanti alla tv. Ecco, è questo il gran finale di stagione con i cavalli berberi che facevano l’ammuina, ognuno per i fatti propri, in un disordine meticoloso ma molto plateale. E’ stata la regola stagionale: tanta roba purché scasciata. Ormai si rubacchia da mattina a sera. Si fa un quotidiano bottino misero. La ristrutturazione a gratis, il mutuo a condizioni irrinunciabili, il massaggio tutto compreso. Siamo alla tangente piccolo borghese perché è il gusto che si è livellato rasoterra. L’alta carica istituzionale veste secondo lo stile del potenziale filarino delle ragazze di Ostia, quelle simpaticissime del «calippo e ’na bira»: quindi pinocchietto, occhialini neri, infradito (se rinfresca, giubbottino di pelle?). E’ la standa globale. Il menu di tutti noi era pennette tricolori e gamberetti in salsa rosa, o giù di lì. E qualcuno avverta Berlusconi che il maglione appoggiato sulle spalle fa tanto sanatorio.

e si nota una differenza fra l’Italia di oggi e di ieri - fra le villeggiature di oggi e di ieri - è la cafonalizzazione dei costumi (non necessariamente da bagno). Un formidabile Nanni Loy, anno 1965, girò «Made in Italy» (una specie di sequel de «I mostri») e c’era un episodio in cui certi riccastri rifuggivano il ristorante d’eccellenza per farsi insultare in trattoria romana. Quel famolo strano è diventata norma ventiquattr’ore su ventiquattro, i politici del dissenso si contorcono in barca con le mogli, le mani sul sedere, quelli di governo aspettano il tramonto per suonare la chitarra e cantare con le camicie aperte sul petto; in generale offrono nudità e spensieratezza, la classe dirigente e la classe diretta. Non si capisce a quale categoria appartenga il giovanotto che lava la Ferrari per strada, a Montecarlo, incredibilmente persuaso di muovere invidie. A quale appartenga la famiglia che posa su poltrone di velluto come nelle foto ufficiali delle satrapie orientali.

Ecco, è stata un’estate così, rubinetteria placcata oro, risse da pollaio, innamoramenti da «Bolero», e tutto dentro il Palazzo. Non si distingue un leghista da un democristiano, e non perché il leghista abbia smussato il vocabolario. Non si distingue un capogruppo da un tronista e anzi negli affari sentimental-erotici il ministro ha scalzato Fabrizio Corona dalle pagine calde del gossip. Il turpiloquio è così diffuso, così esibito, così intonato al lifting e ai calzoni rossi da non provocare scandalo ma noia. Ah, se gli scazzottatori d’aula avessero la misura e il nodo della cravatta di Walter Chiari che insegue Tazio Secchiaroli! E invece abbiamo fatto una mezza rivoluzione perché ci stavano sul gozzo gli impellicciati della Scala. Ma è davvero molto meglio questa universale frittata di cipolle e rutto libero?

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7770&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 09, 2010, 09:07:41 pm »

9/9/2010
 
A Venezia la mostra dei fanfaroni
 
 
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MATTIA FELTRI
 
Fin qui siamo nella media.
Ma si conserva la speranza di far meglio dell’edizione scorsa quando, a Venezia per la mostra d’arte cinematografica, arrivarono le ragazze d’oro dell’estate: Noemi Letizia e Patrizia D’Addario. Gli astri della Lolita di Casoria e della Maddalena di Bari vennero oscurati da Michele Placido (sempre lui) che nel presentare il suo lavoro elogiò Renato Curcio, il fondatore delle Brigate Rosse.

Il film era «Il grande sogno», sulle origini del ’68, e Placido confidò nel fascino del maledettismo: «Rispetto Renato Curcio perché ha bruciato la sua vita». Un frase più sexy che assertiva e addirittura trattenuta rispetto all’elogio che la grande Fanny Ardant aveva dedicato al medesimo Curcio nel 2007. Intervistata sul settimanale «A», l’attrice francese aveva preannunciato l’arrivo in Laguna con una dissertazione sulla differenza antropologica fra i terroristi italiani e quelli suoi compatrioti: «Non è diventato un uomo d’affari come è successo agli uomini del Sessantotto francese». E pertanto Curcio era un «eroe» per la Ardant, che aveva «sempre considerato il fenomeno Brigate Rosse molto coinvolgente e passionale».

Il tema dell’etica del male, dunque, non è stato introdotto da Placido commentando - quest’anno - il suo Vallanzasca. Gira da tempo. Piace. Vien fuori a ogni srotolar di tappeto rosso. Nel 2006 il regista Jean-Marie Straub, trattenuto a casa, mandò un contributo scritto nel quale illustrava il sentimento da cui nasceva il suo film, «Quei loro incontri»: «Finché ci sarà il capitalismo imperialistico americano, non ci saranno mai abbastanza terroristi nel mondo». La missiva fu letta in conferenza stampa e fine. Arrivederci. Insomma, buono tutto. Buono l’entusiasmo per Hugo Chávez, buona la periodica minaccia d’espatrio, buonissimo il puntuale calcio nel sedere al ministro in carica.

E infatti il festival di Venezia non è più una semplice mostra cinematografica ovviamente e occasionalmente degenerata in polemica politica della domenica pomeriggio, ma una specie di palestra della fanfaronata, dove l’ultimo che passa offre la sua (tipo che Giuseppe Mazzini era un terrorista, dice il regista Mario Martone, e un terrorista come Toni Negri, aggiunge Luca Barbareschi, quando Mazzini e Negri sono due cose completamente diverse, ma in comune hanno che nessuno dei due era terrorista), e più grossa è più si prende i titoli sui giornali, e poi magari si addolora perché il fango della polemica ha prevalso sullo spirito dell’arte.

E dunque va benissimo anche Placido quando s’accende per Vallanzasca, e sostiene che in fondo in Parlamento siedono criminali più criminali del bel René. E certo che è così. E poi piove governo ladro, e che cosa ci vuole fare signora mia: è tutto un magna magna.

Ma la verità, forse, è che fra la gente di cinema, come fra i politici, c’è chi preferisce spiccare per le baggianate che velarsi col buon senso.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7802&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 12, 2010, 09:00:21 am »

7/9/2010 (7:30)  - LA STORIA

Pdl, il partito col peccato originale

Troppo fragile fin dal suo congresso fondativo

MATTIA FELTRI
ROMA

Il Popolo della libertà morì nei giorni del battesimo. Uno che la vide lunga fu il politologo Giovanni Sartori: «Io credo che il successore di Berlusconi, Berlusconi vivente, lo decide Berlusconi, e quindi non sarà certo Fini». E aggiunse: «I colonnelli sono già tutti sistemati». Avevano già cambiato generale. Era venerdì 27 marzo 2009, apertura del week end del congresso di fondazione del partito unitario di destra. Alla domenica sera, la sintesi del segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, fu micidiale: «A Berlusconi faccio tanti auguri, a Fini ne faccio tantissimi».

Sabato 28, dopo il discorso del presidente della Camera, il premier aveva devoluto ai retroscenisti materiale di grande abbondanza e di grande sapore; voci dal backstage avevano spifferato il seguente commento offerto dal cofondatore uno al cofondatore due: «Hai fatto un discorso stre-pi-to-so, stre-pi-to-so. Il miglior discorso che io abbia mai sentito. Sono d’accordo su tutti i punti». E poiché Berlusconi è di notoria generosità, si produsse in un elogio di Elisabetta Tulliani: «Ti devo fare i complimenti per la tua donna che è un modello di stile e di compostezza». Ma che cosa aveva detto Fini? Essenzialmente tre cose. Primo, la Lega va sfidata (allora si parlava del referendum elettorale) «perché discutere è il peso della democrazia»; secondo, le riforme costituzionali si fanno insieme con il Partito democratico; terzo, va sconfessata la legge sul testamento biologico perché è da «stato etico».

I due avevano come al solito appena finito di litigare. Si erano visti in settimana, un pranzo col fiore in bocca, per la battuta di Berlusconi secondo il quale bisognava consegnare diritto di voto (in aula) soltanto ai capigruppo così si sarebbe risparmiato tempo. Fini difese l’istituzione rappresentata, e coi toni che ama. Berlusconi spiegò di essere stato frainteso, naturalmente. Un precedente fra mille. Il più celebre era quello delle «comiche finali», denunciate da Fini poco più di un mese dopo la “rivoluzione del predellino”, piazza San Babila, novembre 2007. Una volta ceduto, Fini avrebbe detto che il nuovo partito sarebbe stato «un partito ampio, plurale, inclusivo ed unitario, non di una persona, ma di una nazione» (a Panorama, una settimana prima del congresso fondativo). In un’intervista alla Stampa, poi, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno (l’ultimo dei colonnelli ad abbandonare Fini, e nonostante in quel momento fosse già considerato un berlusconiano per la presa di posizione nel caso Englaro), disse che uno dei compiti del Popolo della libertà sarebbe stato quello di «costituzionalizzare Berlusconi», e cioè di sottoporlo alle regole, consegnargli la leadership attraverso il voto anziché attraverso il plebiscito, farlo uscire dalla «legittimazione carismatica» per farlo entrare in quella di un «partito strutturato».

Roba che a Berlusconi sarebbero venute le bolle. E infatti, al termine del Congresso, fu incoronato per inerzia e per acclamazione da seimila delegati e il Pdl vide la luce col peccato originale. Domenica 29 marzo, Berlusconi chiuse il trittico e si esibì in una estrosa predica, pura e rilucente bigiotteria, e a Fini dedicò le carezze che si dedicano ai faciulli, ma soprattutto sventolò il programma del Partito popolare europeo dicendo «questi sono i valori del berlusconismo». Non del partito, del «berlusconismo». Su due dei tre punti (Lega, bioetica, riforme) sollevati da Fini non rispose, sul terzo disse: «Se Fini ci riesce, tanto di guadagnato... Ma non credo. Per intanto andremo avanti da soli».

A chi gli chiese conto di una tale sgarberia, Berlusconi rispose: «Io non ho un linguaggio da uomo del palazzo. Non uso il politichese. Me ne guardo bene. Né tantomeno finisco nelle polemiche politiche il più delle volte incomprensibili. Mi tengo fuori dal teatrino della politica. Sono un uomo del fare, io. Da sempre». Insomma, nel giro di tre giorni si era tracciato il canovaccio della commedia recitata nel successivo anno e mezzo. Fini chiedeva regole, dibattito, politica soda, quell’altro gli offriva trance mediatica, monologo fascinoso, politica spiccia del «ghe pensi mi». E si notò, quella domenica pomeriggio, l’assenza del presidente della Camera. Non era in prima fila a celebrare l’incoronazione. Si parlò di precedente impegno istituzionale, ma era il segno di un’illusione già abortita.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58303girata.asp
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 30, 2010, 05:15:04 pm »

30/9/2010 (7:17)  - PERSONAGGIO

Silvio e l'inutile mercoledì da doroteo

I toni concilianti non lo salvano da una valanga di insulti

MATTIA FELTRI
ROMA


Era intrattabile, alla fine, e ancora non conosceva i numeri. Ma se ne stava rintanato in una stanzetta di Montecitorio a ripensare
all’umiliante rito cui s’era dovuto sottoporre, da mattina a sera, e in previsione del trionfo finiano. Tutto quel cumolo di chiacchiere - meglio non le considera - uscite da bocche di deputati dell’ombelico del mondo di cui Silvio Berlusconi nemmeno sa i nomi, i titoli, i meriti. Fermo al banco, la mano sulla fronte, sulla guancia, il gomito a reggere l’armamentario, per ore a sorbirsi la smitragliata di insulti (Wanna Marchi della politica, sognatore, bugiardo, barzellettiere...). E non era servito a niente che gli dicessero dell’ultimo salto triplo dell’ultimo parlamentare eletto in Argentina, che era lì lì pronto a mollare i finiani per rincasare.
E siccome doveva essere il gran giorno di Gianni Letta - del pacificatore, del saggio contabile - il premier si era presentato in mattinata con le migliori intenzioni, cioè con un discorso narcotico, Piero Calamandrei, il dialogo, le ragioni delle minoranze, l’armonia, il tragico elenco dei successi, e ancora dottrina liberale in tono doroteo; e allora reazioni composte, al massimo la sghignazzata quando Berlusconi s’era avventurato nell’ignoto: «Stiamo finendo la Salerno-Reggio Calabria». E bastava che volasse una mosca per oscurare la faccia del comiziante: «Faccio fatica a trattenere le battute pungenti...».

Il seguito aveva la cadenza della tortura, immaginate il bon vivant alle prese con le citazioni di Brecht, Nietzsche, Pessoa, Montesquieu offerte dall’intero emiciclo, impietoso: sembrava che ogni parlamentare avesse qualcosa da ridire, ogni finiano avesse da fare il paternalista, finché calava persino un pietrificante Leoluca Orlando col richiamo di Goethe in lingua originale. La sfacciataggine di Massimo Donadi aveva infine mosso Berlusconi a intercettare il capogruppo dipietresco che stava per uscire dall’aula; la conversazione (ricostruita da Donadi) era più o meno questa. B: «Ma lei è sempre così cattivo?». D: «No, sono buono, non ce l’ho con lei, ce l’ho con quello che fa». B: «Anche io sono molto buono. Pensi che Cossiga nel ‘92 mi sconsigliò di entrare in politica per via della mia bontà». D: «E doveva seguirlo, quel consiglio».

Si può intuire l’allegria, povero Berlusconi. Che pure era il suo compleanno, settantaquattro anni. E tutti sono passati da lì, a stringergli la mano, a fargli gli auguri, anche Pierferdinando Casini, e il Cavaliere con un orecchio ascoltava il buon auspicio, con l’altro la più interminabile sequela di insulti cui sia mai stato sottoposto di persona. Per dare il senso, il grande Mirko Tremaglia, 84 anni, mezzo piegato dall’età e da un femore appena ricomposto, si era aggrappato a una stampella e stava giusto spiegando perché mai e poi mai (questioni di diritti degli italiani all’estero) si sarebbe negato il gusto di dire in faccia al presidente del Consiglio tutto quello che pensava di lui, e sul più bello era arrivato Fini («sempre sull’attenti davanti a Tremaglia!») e, capita la situazione, il presidente della Camera cercava di dissuaderlo («gli fai un favore, così... Vota la fiducia...»), ma niente: «Non lo voto! Mai e poi mai!», e restava la curiosa testimonianza di un Fini che non raccatta voti per Silvio neanche se lo vuole.

Questa era l’aria. E non sarebbe migliorata visto che nel pomeriggio erano fissate le dichiarazioni di voto affidate ai leader, cioè ai più incattiviti. Nella replica Berlusconi aveva cercato di mantenere la caratura alto-istituzionale, si era giusto tolto qualche sfizio, furente per l’accusa di corruzione di parlamentare, poi l’ever green di una pedata alla magistratura, qualche giudizio digrignante. Ma Antonio Di Pietro, costretto dal grillismo ai superlativi, sconfinava nel paranoico, dava al premier dello stupratore della democrazia, dell’erede di Nerone, del criminale, e Berlusconi si era prima limitato a picchiarsi l’indice sulla tempia, poi s’era alzato a protestare con un Fini giudicato troppo morbido nel contrasto all’oltraggio in diretta tv. Quel poco di grazia era definitivamente evaporata, anche sotto i colpi di un Pierluigi Bersani in forma smagliante, nettamente il migliore in campo, ieri, e della certificazione della vittoria di Fini. Chissà se la festa organizzata dalle deputate di più rigida osservanza decorativa, subito dopo, a Palazzo Grazioli, giusto per una fetta di torta e una canzone, è servita per salvare in extremis il compleanno più inglorioso.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58979girata.asp
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 05, 2010, 11:31:48 am »

5/11/2010

Una guerra casalinga

MATTIA FELTRI

Nel settembre 2009, Fini salì a Todi, alla scuola di politica di Bondi, per dire tutto quello che pensava (o quasi) di Berlusconi.

E per esprimere la sua opinione sul modo del Cavaliere di condurre il partito.

Il sugo era: io qui dentro non conto più nulla, decide tutto lui, ci vorrebbe più dibattito. Aggiunse qualche sostanziosa questione sulle allarmistiche politiche dell’immigrazione e della sicurezza, qualche squisita rivendicazione morale, qualche perplessità sul varo di leggi di molto circoscritto interesse. Ripeté le stesse cose, grosso modo, nella primaverile giornata in cui puntò il dito. «Sennò che fai, mi cacci?», disse al premier che lo invitava alle dimissioni da presidente della Camera, se voleva riprendere a far politica.

Ci sarebbe da ragionare - valutata l’indole di Berlusconi, e paragonata a quella di Fini, e ai sistemi spicci con cui Fini tenne il Movimento sociale e Alleanza nazionale - su quanto ci fosse di sostanzioso, già allora, e quanto di personale. Oggi collaboratori vicini e lontani compilano il quaderno delle memorie e, su una ricchissima aneddotica, fondano la teoria di un odio profondo e antico, e a lungo dissimulato. Ora i due gareggiano sfacciatamente a chi sa tenere il petto più in fuori, a chi è il galletto con la migliore crestina. Del resto, a parte qualche momento di ambizione istituzionale, per esempio ieri in alcune parti del discorso di Berlusconi, il grosso è stato scazzottata di cortile.

E infatti da mesi non si discute di altro che del famelico presidente del Consiglio e delle fameliche parentele del presidente della Camera. Ora, bisogna essere sciocchi per ignorare le implicazione pubbliche e politiche delle frequentazioni serali di Berlusconi, delle sue telefonate con bugia alla Questura di Milano, o dei criteri di vendita del patrimonio immobiliare di An, con miracoloso rientro in famiglia della casa venduta sottocosto. Ma bisogna essere altrettanto sciocchi per non capire che i due si sono sentiti sbirciati, perquisiti, violentati nel privato, vilipesi negli affetti. Senza contare il gusto non sempre guascone con il quale sono state sollevate le sottane e con la quale è stata messa in dubbio la tenuta morale dei protagonisti. Così più va avanti questa storia, più i contendenti troveranno buono ogni pretesto per dimostrare l’intima abiezione dell’altro. Vengono in mente, più che i duellanti di Conrad, i coniugi Roses, che si innamorarono per combinazione in una notte a caso, e finirono con l’accopparsi al termine di una spettacolare sequela di rancori e vendette.

Da quanto, seriamente, i due non parlano di politica? Da quanto non cercano di ricongiungere le divergenze con una franca discussione che non sia invece ripicca, misero calcolo, tattica buona fino a domattina o, appunto, disprezzo per gli affari casalinghi? Anche quando si mettono sul piatto altissimi principi, per esempio sulla giustizia, si sente sempre un sapore di rappresaglia, con Berlusconi persuaso che Fini voglia soltanto abbatterlo, e con Fini persuaso che Berlusconi voglia soltanto salvarsi, e forse hanno ragione entrambi. E persino ieri, all’Altare della Patria, dopo minuti di gelido imbarazzo, Berlusconi e Fini sono riusciti a scambiare qualche parola, e il meticoloso lavoro dei lettori di labiale ha tirato fuori una conversazione di non elevatissima implicazione sociale, e cioè sull’età delle delegate alla distensione notturna del premier, se i convocanti avessero verificato la carta d’identità delle convocate.

Non è un caso se la Seconda repubblica, costruita su partiti carismatici, compreso l’ultimo, in cui il nome “Fini” è stampato a caratteri da urlo, non meno che quello di Berlusconi o di Di Pietro o di Pieferdinando Casini, è passata dalla sfida fra leader alla sfida fra uomini, cocciuta, tignosa, spietata, senza esclusione di colpi, sopra e sotto la cintura, con le tifoserie attorno aspettando il sangue che scorre, e intanto che l’impero si sfalda.

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« Risposta #22 inserito:: Novembre 20, 2010, 09:07:46 am »

Politica

20/11/2010 - PERSONAGGIO

"Mara la traditrice" l'ultima campagna Pdl

Escalation di accuse da colleghi, così lei ha deciso di sfilarsi

MATTIA FELTRI

Si gira di qui? Tradisce. Si gira di là? Non tradisce. Finché Mara Carfagna, imputata nell'interminabile processo indiziario da sentenza quotidiana - oggi condannata, domani scagionata - ha minacciato di sfilarsi con gesto di giovanile sussiego. Certo, la diceria è paranoica e inesauribile: coinvolge tutti, il silente consigliere vede nella sguaiataggine del supporter la prova della slealtà, e viceversa, e soprattutto il pettegolezzo è diventato malinconico oggetto di trafelate interviste. Da una testata all'altra, il ministro azzimato contro la sulfurea zarina, servitori esuberanti contro assistenti contenuti, la ricerca del collaborazionista è da ridotta di Valtellina. Alla fine, però, c'era sempre di mezzo lei: Giancarlo Lehner che ne traduce urbi et orbi le titubanze nei passaggi cruciali, il presidente della provincia di Salerno Edmondo Cirielli che imposta nella corrispondenza dell'intero Parlamento gli articoli della stampa locale, come se dimostrassero in via definitiva l'intelligenza col nemico. E infine, proprio ieri l'altro, quella ferocissima giaguara di Alessandra Mussolini che il nemico lo fotografa proprio, ed è il solito Italo Bocchino intrattenuto alla Camera dalla Carfagna medesima. «Vergogna!», è il ruggito della fiera con l'istantanea sbandierata agli increduli. Girano maldicenze, in quei luoghi di esibita austerità, e una vuole che fra il neocolonnello di Gianfranco Fini e la titolare delle Pari Opportunità resistano antiche tenerezze. Né antiche né contemporanee, replica lei: «Si maligna su tutto. Italo è stato importante per la mia formazione politica. Poi abbiamo preso strade diverse. Restano la stima e la gratitudine», disse a Stefano Lorenzetto poche settimane fa. Però niente toglie dalla testa di questo esercito di berlusconiani impegnati su mille fronti che gli infami stanno all'interno, e chiunque ti trascina negli angiporti di palazzo per ricordarti dove stava lei, quando si trattò di scegliere il nuovo coordinatore campano, e dove sta adesso, che il voltafaccia si consumerebbe sul terreno dei rifiuti, e sempre a causa di questi amorosi sensi mai sopiti. Povera Carfagna, la solidarietà vien da concedergliela ampia e incondizionata, viste le spiegazioni che ci si diede ai suoi esordi in politica. Che ci fa qui? Se lo domandarono commentatori compunti, e con l'immunità accordata alla satira fu Sabina Guzzanti a superare l'allusione con l'assioma: Mara più che una quota rosa è una quota a luci rosse, disse parlando di notti arcoriane.

In un silenzio planetario e meschinello. Sulla questione gravano richieste di risarcimento danni, ma la testimonianza è che la signora non ha mai avuto vita facile, nonostante si sia diplomata allo scientifico col sessanta e si sia laureata in Legge col centodieci. Ragazza più intelligente che bella, dice di lei il promesso sposo, il supermegamiliardario Marco Mezzaroma, il quale così illustra la portata intellettuale della fidanzata: «Per conquistarla le ho regalato “Le uova del drago” di Pietrangelo Buttafuoco». Il politicamente scorretto che le si è rivoltato addosso sembra cercare riscatto in un politicamente corretto instancabilmente distribuito in occasioni formali e informali. Non c'è categoria da lei teoricamente tutelabile - bambini, omosessuali, immigrati, donne, handicappati eccetera - che non intenda patrocinare con leggi che secondo i canoni liberali sono da protezione della specie. E' però nei giochini di società che emerge nitida l'ansia d'apparire impeccabili: le donne che ammira di più sono Oriana Fallaci e Margaret Thatcher, perfettamente stemperate da un'Alda Merini. Molti si sono ricreduti, per carità.

Su tutti Dario Franceschini che, quando era segretario del Pd, a questo giornale disse di aver rivisto il pregiudizio: «La Carfagna è brava e preparata». Anche dentro la coalizione di governo, ormai, è più rispettata che sfotticchiata, le vecchie foto scollacciate, il vallettume cui si sottopose, racconta, per pagare gli studi, sono argomenti casermicoli e di risulta. Stefania Prestigiacomo la adora e la difende, Maria Stella Gelmini né più né meno. Epperò se le seconde e le terze file sostengono che sotto il tailleur continua a non esserci niente, soltanto la ragazzina spensierata e volubile eccetera, ecco, basta e avanza. E' offesa offesissima, Mara Carfagna, negandosi così l'applicazione di quel meraviglioso e altero proverbio: ubi maior...

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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 06, 2010, 09:15:19 am »

Politica

06/12/2010 - ANALISI

Cedere lo scettro a leader più giovani? Impossibile

I nemici del Cavaliere rischiano di uscire di scena assieme a lui

MATTIA FELTRI

ROMA
Quando Berlusconi si dice consapevole di avere una certa età, che presto dovrà cedere il passo e di volerlo cedere non ai maneggioni di palazzo ma a una nuova genia di politici, dimostra un'ambizione (antica).

Quella di organizzare abbandono e avvicendamento come assaggio di immortalità. Che ci riesca o meno, sarà uno dei tanti motivi che renderanno appassionante la fine dell'epoca berlusconiana. Ma forse il presidente del Consiglio tende a sopravvalutarsi, con tutte le buone ragioni di questo mondo, ma con un'ostinazione implacabile. Oggi, infatti, tira un'arietta dentro cui ci si annusa la fine dei maneggioni, che Berlusconi la voglia oppure no.

Questa stagione politica, delirante e sanguinolenta, e che qualcuno ha giustamente definito come la coda interminabile della Prima Repubblica, difficilmente evolverà per pianificazione in qualcosa di più ragionevole, di più scontatamente occidentale, con partiti che si sfidano, si battono, fanno opposizione, prendono rivincite e tutto si chiude lì. Soprattutto con i partiti attuali e con gli attuali leader. Quale ruolo si attribuiranno, e con quale successo, i protagonisti di questi anni, sia di destra che di sinistra, è misterioso. Proprio due giorni fa - per proporre l'esempio più recente - Massimo D'Alema ha dichiarato l'inutilità e l'estinzione della socialdemocrazia. La notizia è stata data dall'ex presidente del Consiglio con grande disinvoltura e con la medesima disinvoltura è stata diffusa. E così D'Alema - che aveva trascorso un terzo della vita a sostenere le ragioni del comunismo e un secondo terzo a sostenere le ragioni della socialdemocrazia - ora si appresta a percorrere qualche altra via con la medesima convinzione ed esuberanza argomentativa con cui aveva percorso le due precedenti.

Negli ultimi giorni qualcuno ha fatto il calcolo di quanti anni avessero trascorso in Parlamento - una novantina in tutto - i tre «responsabili», Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli. Di per sé non è undifetto. Ma, a parte Casini (che dietro ha una millenaria tradizione cattolica e ha contestato e coerentemente concluso il sodalizio con Berlusconi), gli altri due hanno slalomeggiato fra le grandi questioni degli ultimi secoli - fascismo e antifascismo, laicismo e clericalismo - e fra le piccole questioni quotidiane, qualche volta scoprendo l'acqua calda. E con la vecchia prosopopea hanno affrontato la nuova opera di proselitismo.

Ora, è vero che cambiare idea non è soltanto legittimo ma (quando si abbandona il fascismo, per esempio) anche encomiabile, però bisognerebbe trarne le conseguenze politiche, altrimenti è soltanto esercizio retorico. E sarebbe pure bello - come succede altrove, a Bill Clinton e Tony Blair - che i leader, concluso un mandato o persa un'elezione, si facessero da parte. Ma qui il punto è un altro: si ha l'impressione che tutti questi capoccia della Seconda Repubblica non abbiano mai avuto la forza di proporre un cambiamento della società con idee nuove, e per cui, all'opposto, abbiano cambiato le idee in base ai mutamenti della società. E pertanto è complicato capire che paese abbiano in testa Oliviero Diliberto o Walter Veltroni o Antonio Di Pietro. Se non un paese deberlusconizzato. E invece che paese avesse in testa Berlusconi era piuttosto evidente, come è evidente il totale fallimento: le tasse sono alte come nel ‘94, i parlamentari sono ancora mille, la burocrazia è imbattibile, il federalismo è poco più che un battibecco.

Insomma, le condizioni della nostra politica sono chiare a tutti: oggi reggono su Berlusconi e sugli avversari di Berlusconi. Venuto meno il Cavaliere, è molto, molto probabile che verranno meno i nemici giurati, per mancanza di proposta, e si facciano avanti quelli come Matteo Renzi, e cioè quelli che non sbucano da un sottoscala del Novecento, e sono in grado di sfidare l'apparato e di maciullarlo. Questo vale a sinistra, ma anche a destra. Angelino Alfano, Mariastella Gelmini, Raffaele Fitto, sono giovani politici in qualche caso valorosi, avranno nuove chance, ma la caduta del loro padrino Berlusconi sarà così fragorosa che è difficile immaginare come ne usciranno. Il berlusconismo e l'antiberlusconismo dureranno quanto Berlusconi, non oltre. I leader dell'Italia di domani spunteranno al momento giusto, e non per nomina padronale.

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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 08, 2010, 05:24:50 pm »

Politica

08/12/2010 - IL CASO

L'emergenza carceri il grimaldello per dire sì al Cavaliere

Bonino: quello che conta è cosa accadrà dopo il 14

MATTIA FELTRI

ROMA
E naturalmente ieri è arrivata la rassicurazione: i voti dei radicali non sono all’asta. L’incontro fra Marco Panella e Pierluigi Bersani ha sollevato tutti. Specialmente tutti quelli che non volevano capire. Ore e ore di dirette e di repliche, su Radio Radicale, avevano l’obiettivo di annunciare il ritiro delle vacche pannelliane dal mercato. Obiettivo evidentemente non raggiunto, se c’era bisogno di questo faccia a faccia e delle epifaniche dichiarazioni successive. Purché siano bastate. E malgrado i colonnelli del Grande Capo Bianco avessero già buttato i sassolini a indicare la strada buona. Ieri mattina, quasi esausta, Emma Bonino aveva ripetuto: «Occorre parlare del dopo 14 dicembre (data del voto di fiducia al presidente del Consiglio, ndr), perché i problemi fondamentali di questo Paese restano anche dopo, a partire dalla giustizia». E Rita Bernardini, deputato ed ex segretario del partito, aveva offerto il passo in più: «Tutti pensano al 14, ma nessuno dice che cosa accadrà il 15, il 16 e il 17. Non escludiamo di presentare noi una sfiducia». Questione chiusa? Probabilmente no.

Negli ultimi tempi, gli scioperi della fame di Marco Pannella sono stati ispirati dalla disonorante condizione delle carceri. Eccesso di detenzione preventiva, sovraffollamento, condizioni igieniche, assistenza sanitaria e così via. Quotidianamente (quella che riportiamo è una dichiarazione di lunedì) Pannella dice: «Sulla giustizia e sulle carceri denunciamo una situazione gravissima. Si tratta, ormai, di spaventosi nuclei di Shoa, vere metastasi neonaziste nella democrazia reale italiana». Sempre la Bernardini (e torniamo a ieri) ha aggiunto: «I radicali stanno tentando di dire che se Berlusconi va a casa non si risolvono i problemi del paese». Messi assieme tutti questi indizi, nella sede di via di Torre Argentina spiegano che cosa succederà non tanto il 14, che è chiaro: tutti presenti, tutti sfiducianti. Ma che cosa succederà, caso mai, il 15. E dunque non è escluso che un nuovo governo, anche presieduto dal vecchio premier, se dovesse impegnarsi solennemente e pubblicamente ad affrontare le emergenze della giustizia, senza però cedere agli eccessi guerrafondai dei rapaci pidiellini, e soprattutto se dovesse impegnarsi solennemente e pubblicamente ad affrontare l’obbrobrio delle prigioni, magari studiando una volta per tutte un piano di pene alternative (invece che stare in gattabuia vai a pulire i giardini pubblici), ecco, forse i radicali potrebbero starci. E se poi si ritenesse di affidare questa seconda questione a un tecnico, uno di area, non serve che sia del partito, magari Luigi Manconi o piuttosto Franco Corleone, allora le possibilità sarebbero in ulteriore crescita.

Non è un piano, sia chiaro. Si vedrà se un Berlusconi bis trova sostenitori a sufficienza. Si vedrà quanto alla Lega garbi e quanto sostenga una conversione garantista delle ferree e forsennate politiche per la sicurezza, pur di condurre a meta il federalismo. Di sicuro Pannella non è tipo da trascurare le occasioni che gli si presentano né gli mancano uomini pronti a mettersi a disposizione. A ben vedere (gioco ozioso fino a un certo punto) ha figliocci ovunque. Ha un figlioccio alla corte di Re Artù, Daniele Capezzone. Ha un figlioccio tra i finiani, l’attiguo Benedetto Della Vedova, uno che fu mandato a destra da Pannella medesimo («perché non si sa mai») e che continua a coltivare le antiche amicizie. Volendo ha persino un figlioccio nel versante cattolico del Terzo Polo: l’indimenticato Francesco Rutelli. Sono personaggi che incrociano storie personali e politiche con Gaetano Quagliariello ed Eugenia Roccella (ex radicali ora pro-life del Pdl), con Elio Vito e Giorgio Stracquadanio (curvaioli di centrodestra), con Giuseppe Calderisi e Mario Pepe, con alcuni a sinistra (la stessa Bernardini, Marco Beltrandi) meno scandalizzati all’ipotesi di lavorare assieme al centrodestra, dove da anni si intrattengono rapporti di cordialità per esempio con Ignazio La Russa.

Ormai sono trascorsi secoli, ma operazioni del genere sono già state messe in piedi da Pannella nel 1992, quando era pericolante il governo di Giuliano Amato, e nel 1993, quando la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, persuasa che fosse venuto il tempo di prendersi Roma, aveva deliberato di pensionare Carlo Azeglio Ciampi. Anche nel ‘92, guarda un po’, i deputati radicali erano sei, e Pannella li portò dall’opposizione all’appoggio esterno. Si parlò di gesto di responsabilità nazionale, poiché c’era da completare la Finanziaria e i conti erano come al solito malmessi. Naturalmente era così, ma non si trascuri che all’inizio del 1993 i pannelliani incassarono la triplicazione della dose minima giornaliera di droga, dose oltre la quale il possesso veniva considerato ai fini di spaccio. Con Ciampi le cose andarono storte: nemmeno idee di rimpasti e governi bis ricondussero alla ragione il Pds.
Si andò al voto, Pannella si mise con Berlusconi e tuttavia non superò la soglia del 4 per cento. Ma Emma Bonino divenne commissario europeo, e su di lei si edificò la rivincita.

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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 29, 2010, 06:38:53 pm »

Politica

29/12/2010 - CENTRODESTRA, VERSO UN ALTRO STRAPPO

Giovani e Libertà il nuovo partito di Silvio

Nomi e facce inedite: il Cavaliere riorganizza il movimento in vista del voto

MATTIA FELTRI

ROMA
In qualche sms informale, inviato per dettaglio, si spende la parola «rivoluzione». Di che stoffa siano le rivoluzioni all’italiana si sa, ma la terminologia indica i sentimenti di attesa per il nuovo partito di Silvio Berlusconi e per le posizioni personali, quelle in salita e quelle in disgrazia.

Annuncio
Nella conferenza stampa della settimana scorsa, il premier ha annunciato la nascita del nuovo partito. Ha detto di non volere acronimi, che non commuovono e sanno di muffa - Pdl come Dc o Psdi - e di essere alla ricerca del nome giusto. Nelle riunioni coi deputati o coi senatori, o nei brindisi prenatalizi, il capo ha esortato tutti a spremersi le meningi nella speranza che l’ultimo disperato abbia il colpo di genio. Si è detto che il nome sarà costituito da due parole, una delle quali sarebbe Italia, ma l’idea di riverniciatura forzitaliesca ha ceduto il passo alla parola unica. Se ci sono ipotesi, non sono oggetto di spifferata. Per rendere l’idea, sarà qualcosa tipo Amore o Felicità o Patria. O più semplicemente Libertà.

Accelerazione
Berlusconi sa che il vantaggio di tre voti alla Camera non è maggioranza, perché presuppone la presenza in aula di mezzo governo. Anche una buona campagna acquisti non basta per una seconda parte di legislatura riformatrice. L’ingresso dell’Udc nell’esecutivo è oggi improbabilissimo. Così il premier pensa alle elezioni e ci andrà con un nuovo simbolo e con aria fresca. E dopo, che sia vittoria o sconfitta, risistemerà il partito. I suoi luogotenenti lo vorrebbero strutturato e pesante. Berlusconi lo farà leggero. Anzi, aereo.

Stelle cadenti
Dei triumviri che gestiscono il Pdl, l’unico con un futuro è Denis Verdini. Anche lui, per disinvolte frequentazioni e imprudenti iniziative, ha creato grane. Ma ha sgobbato per il partito e lo sporco lavoro prima del voto di fiducia gli ha garantito ammirazione e riconoscenza. Sandro Bondi, si sa, presto lascerà la Cultura: gli erano stati affidati due incarichi nella speranza che ne fosse all’altezza, invece ha fallito su entrambi i fronti. Ignazio La Russa è quello messo peggio. Le sembianze demoniache, quel tono di voce d’oltretomba, quella predisposizione quotidiana allo scatto d’ira - tutte qualità apprezzate nel Msi e in An - sono in contrasto con l’ideale estetico berlusconiano provincial-conservatore. Malmessa è anche Mara Carfagna le cui impuntature, spiegano nello staff del premier, sono state inopportune e intempestive. Lo stesso vale per Stefania Prestigiacomo.

Nuovi pretoriani
Angelino Alfano è l’uomo che per conto di Berlusconi più sta lavorando al progetto. Il premier lo considera serio, riservato, capace di mediazione e di offensiva. Ora è indicato come l’unico vero erede e forse sarà il coordinatore unico del partito. Vola alto anche Maurizio Lupi, che quando parla alla Camera ridesta il premier narcotizzato da altri, tipo Fabrizio Cicchitto, che ha tante buone qualità ma non la stoffa postmoderna richiesta ai collaboratori di domani. Cicchitto sarebbe, schifanianamente, un perfetto presidente della Camera. Lupi è poi uomo di Formigoni, espressione politica di Comunione e liberazione con la quale Berlusconi vuole rinsaldare i rapporti. Per ragioni diverse, sono intoccabili la pugnace Mariastella Gelmini, Altero Matteoli, con cui Berlusconi ha un buon rapporto, il sincero e irreplicabile Maurizio Gasparri, ma soprattutto Andrea Augello, piccolo fuoriclasse capace di far vincere Gianni Alemanno a Roma, Renata Polverini in Regione e di riportare a casa Silvano Moffa e Maria Grazia Siliquini. Augello ha poi il vantaggio, non trascurabile per un ex aennino, che non dà l’eterna impressione di essere appena uscito da una catacomba fascista. Berlusconi è molto compiaciuto da come Beatrice Lorenzin sa stare in tv. Altre figliole (Anna Maria Bernini, Mariarosaria Rossi, Nunzia Di Girolamo) avranno un ruolo per presunta mancanza d’autonomia.

In bilico
Soprattutto Claudio Scajola e Daniela Santanché. Per alcuni hanno un posto al sole, per altri sono sotto il diluvio. Ma bisogna tenere conto che Berlusconi non ha il dono della sincerità ed è anche piuttosto lunatico. Scajola, che ha radunato attorno a sé una grancassa di circa cinquanta parlamentari, vorrebbe occuparsi del partito anche in posizione occulta. Berlusconi è perplesso perché le frottole sulla casa di via del Fagutale lo hanno esposto. Quanto alla Santanché, i modi priebkiani le hanno causato parecchie antipatie, finora arginate da qualche capacità di mondo.

Gli intoccabili
Gianni Letta e Giulio Tremonti, il primo come sempre, il secondo nonostante il caratteraccio.

I giovani
Quando va ad Atreju, la festa dei ragazzi ex An organizzata da Giorgia Meloni, Berlusconi si diverte come un pazzo. Si nutre (castamente, stavolta) di gioventù, riprende vigore. Dice che in un partito l’unico vecchio dovrebbe essere lui. Ultimamente - dopo le battaglie correntizie, le invidie intestine, le liturgie santificate - lo ripete con accenni di stizza. Non vuole essere attorniato da incanutiti cerimonieri della bagattella parlamentare. Seguire le manifestazioni di piazza contro la riforma dell’Università, gli ha fatto venire voglia di un partito agile, tambureggiante, che si organizza su Facebook e occupa le strade con manifestazioni gioiose. Berlusconi punta su Annagrazia Calabria, nata a New York, ventottenne, sveglia, dai modi e dalle fattezze garbate, credente. Sarà lei a occuparsi dei giovani ex Forza Italia. Berlusconi non vuole un team di incravattati laureandi in Economia, ma una specie di Carosello scoppiettante. Ha incaricato la Calabria di prendere contatto coi ragazzi di Cl, fin qui completamente esclusi dalla vita di partito (e da qualche decisione importante, a proposito di riforma universitaria). L’idea è bellissima, come spesso lo sono le idee. Non sarà facile realizzarla.

Lo spirito
Nessuno si aspetti la rispolveratura della rivoluzione liberale, o altre rivisitazioni moderne di ideologie classiche. Come al solito, Berlusconi punterà sulla fascinazione. Vuole dirigenti update, maneggiatori di I-Pad, trottole multilingue in giro per il mondo, una squadretta di yuppies tecnologici del terzo millennio. E sotto, questo esercito di giovanotti spigliati che ridimensioni l’idea di un movimento votato soprattutto dal popolo delle partite Iva e dalla vecchiette: nel 2011 diventano maggiorenni quelli nati nel ‘93, per i quali Mani pulite è storia da bigino. Berlusconi sogna all’americana: grandi comitati stretti attorno a pochi ideali. Il partito, in ogni caso, conserverà luoghi della burocrazia, uffici collegiali, cariche non strettamente onorifiche con le quali dare un senso a quelli che provengono da esperienze più tradizionali, novecentesche, abituati ad obbedir tacendo, purché gli sia assicurato un appezzamento di potere. Saranno organismi che Berlusconi additerà, come fa già ora, come le palestre della democrazia nelle quali saranno prese decisioni malgrée soi, naturalmente sbagliate. Che piaccia o no, questa è la macchinina su cui il Cavaliere vuol correre la sua ultima (ultima?) corsa.

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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 19, 2011, 12:27:42 pm »

19/1/2011

Il tradimento dei leccapiatti

MATTIA FELTRI

E’ davvero così: a guardarlo dagli amici ci avrebbe dovuto pensare Dio. Il sapore della disfatta è tutto lì, nelle conversazioni miserelle dei compari, nelle valutazioni sguaiate e ginnasiali delle ragazze di cui Silvio Berlusconi credeva d’aver conquistato il cuore con fascino e munificenza. Il peggio sta nella risatina oscena di chi sa di avere realizzato la circonvenzione del vecchio famelico sempre col cuore e il portafogli aperto: il dialogo fra Emilio Fede e Lele Mora varrebbe un ultimo atto da ovazione.

L’agente dei divi - quello che in caftano bianco porgeva i piedi al massaggio dei tronisti e allo scatto del fotografo - si ritrova colmo di debiti e chiede soccorso al direttore del Tg4. E’ il direttore che per primo ostentò l’adulazione, la fascinazione incrollabile, la fedeltà incondizionata per lo stupor mundi. Fede ha la soluzione. Va lui da Berlusconi. Gli parla lui. Glielo dice: Lele non sta bene, è preoccupato, «una mano bisognerebbe dargliela, hai fatto tanto bene a tanta gente, lui poi se lo merita più degli altri...». Lele è felice, gli pare tutto perfetto, dice a Fede di spiegare a Berlusconi che poi lui metterà in vendita due o tre cose e restituirà il prestito... «Tanto poi campa cavallo che l’erba cresce...».

Un bella compagnia di giro. Si direbbe il gatto e la volpe, sebbene ora dicano di essere stati fraintesi. Fede ottiene un milione e duecentomila euro, ottocentomila vanno a Mora, quattrocentomila se li tiene lui per il disturbo, e figurarsi Mora: «Benissimo, meraviglia, meraviglia, bravo direttore, bravo». E ancora Fede: «Dimmi che sono bravo e sono un amico». «No bravo, di più», dice Mora, che sull’amico - sul termine - non si sbilancia: qui conta la riuscita del piano. I quattrini saranno spillati per mezzo di assegni circolari.

Poi ci sono le ragazze. Sono entrate nell’harem di Berlusconi, per lui si sono spogliate eccetera. Una legge al telefono la lettera che gli ha scritto nella speranza di ricavarne un impiego, si rivolge al suo amore, scrive amore di qui e di là, e quando arriva alla parola «amore» le viene da ridere. Meglio ancora sono le sorelle De Vivo, Eleonora e Imma, scafate frequentatrici dell’harem. In cambio di moine devono aver intascato gioiellini e banconote, ma ora il giochino sembra incepparsi, una dice all’altra: «L’ho visto un po’ ingrassato, imbruttito, l’hanno scorso era più in forma... Adesso sta più di là che di qua. E’ diventato pure brutto. Deve solo sganciare...». Insomma, niente più sta in piedi. La scenografia si sbriciola, gli amici raccattano le banconote da terra, le ragazze scansano il vegliardo, dicono che bisognerà mettersi a rubargli in casa, un po’ è il mondo che Berlusconi vagheggiava e che sfuma, un po’ è la storia dell’eterna ingratitudine umana che si realizza nei modi più desolanti.

In fondo è una vicenda che va avanti, plateale, da un anno. Il primo era stato Gianfranco Fini che si era emancipato dal fascismo e dal mussolinismo per Berlusconi e la rivoluzione liberale, attraverso cui non aveva guadagnato una presentabilità nei sacrari della democrazia, ma un posto dentro all’arco costituzionale sì. E poi, giunto alla maturità nei paraggi della sessantina, Fini ha scoperto che non soltanto il Duce e le leggi razziali, ma anche il Cavaliere e le leggi ad personam - tante volte da lui votate - erano il male assoluto. Poi c’erano stati Gianni Letta e Giampiero Cantoni, gli amici di una vita, e dai dispacci diffusi da Wikileaks era saltato fuori che in certe occasioni conviviali si erano lasciati andare nella descrizione del presidente del Consiglio che fa notte con le fanciulle, e alla mattina sta su per scommessa, e si appisola ad ogni occasione istituzionale. Non c’è sodale che non lo abbia abbandonato, alcuni con peccato mortale, altri veniale. Ma sono una pugnalata via l’altra. Anche il doppiogiochista Marcello Dell’Utri - se avesse ragione la procura di Palermo nelle motivazioni della condanna - che rassicurava Berlusconi sul contenimento delle minacce mafiose, e ai mafiosi diceva di averli introdotti nella fortezza del potere. La fotografia del crepuscolo è questa: è il generale nel suo labirinto, e attorno soltanto ombre di leccapiatti e traditori.

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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 05, 2011, 09:43:57 am »

Politica

05/02/2011 - INTERVISTA

Calderoli: "Abbiamo fatto prevalere le urgenze al bon ton"

«Con Napolitano ottimo rapporto: ci sta aiutando moltissimo»

MATTIA FELTRI

ROMA
Ministro Calderoli, il presidente della Repubblica dice che il governo è stato scorretto.
«Io l’ho sentito ieri sera (giovedì ndr) e Bossi lo ha sentito stamattina (venerdì, ndr). Posso dire che il suo è stato un sollecito formale che noi avevamo già recepito. Con Giorgio Napolitano i rapporti sono eccellenti. Lui ci sta aiutando moltissimo e lo ha dimostrato l’ultima volta l’altro giorno a Bergamo, la mia città, dicendo che il paese ha bisogno di riforme come quella del federalismo».

E allora con chi ce l’aveva?
«Sottolineava un disappunto formale. Quali siano i rapporti fra la presidenza del Consiglio e il Quirinale, non spetta a me dirlo».

Insomma, ha giudicato irricevibile il decreto e scorretto il modo in cui è stato varato.
«Comprendo l’irritazione di Napolitano. Purtroppo in certi momenti prevalgono le urgenze politiche. Qualcuno si sarà dimenticato qual è il bon ton istituzionale. Ma non sono giornate facili. Mario Baldassarri, che è un finiano, aveva votato a favore nella sua commissione e si è astenuto nella commissione bicamerale. Io credevo di averle viste tutte, invece...».

Baldassarri è la cosa peggiore che ha visto?
«Non dico di Baldassarri, dico in generale».

Però, scusi, la drammatizzazione politica dipende da voi. E’ stato Bossi a dire che, senza una solida maggioranza in commissione, tutto sarebbe saltato».
«Non credo lo abbia detto Bossi».

E allora chi?
«Non Bossi».

Ministro, chi?
«Non lo so. Dico che la politicizzazione della bicameralina è un errore da parte di tutti. Da parte nostra e soprattutto da parte dell’opposizione. Enrico La Loggia ed io abbiamo ricevuto soltanto complimenti da parte di parlamentari dei gruppi di minoranza per la linearità di un percorso che si è dimostrato costruttivo».

Però poi il voto...
«Appunto. Poi di colpo Bersani, Fini e Casini si sono messi a dire in coro che il federalismo lo avremmo portato a casa, ma soltanto senza Berlusconi. Allora capite che il merito della riforma non c’entra più, c’entra soltanto la tattica».

Se è come dice lei, l’occasione era ghiotta.
«Altroché. In un colpo solo mandare sotto la maggioranza e farlo sulla riforma più importante dell’intera legislatura. Davvero, è deprimente».

Questo non succederebbe se la maggioranza fosse più solida.
«La maggioranza è solida e lo dimostra voto dopo voto. Semmai a me dispiace se una rivoluzione come quella rappresentata dal federalismo finisce in mezzo ad altre faccende che non c’entrano niente come i balletti di Arcore, Ruby, la casa di Montecarlo. Io sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto. Mi piace meno quello che succede in queste ore».

Ma siete stati voi a improvvisare un Consiglio dei ministri dopo il voto contrario della commissione...
«Ma noi non abbiamo scavalcato nessuno. Scusate, ma la bicameralina doveva esprimersi sulle proposte di modifica del relatore, non sul testo. E dopo l’approvazione di altre sei. Ora Napolitano ci chiede di portare la questione in aula e noi infatti ci stavamo organizzando per farlo. Questo è il merito, e sul merito non c’è alcuna frattura con la presidenza della Repubblica. L’unico guaio è stato quello di tenere il Capo dello Stato all’oscuro, ma si è trattato di una distrazione».

Ma perché tutta quella fretta?
«Perché a un’offensiva così massiccia abbiamo voluto rispondere al brucio: Bossi e Berlusconi procedono di concerto e di corsa».

Di corsa... Adesso questo intoppo farà rinviare il tutto di dieci-quindici giorni.
«E allora? Lo aspettiamo da trent’anni, il federalismo. Cosa saranno dieci giorni?».

Chiederete la fiducia?
«Lo proporrò al Consiglio dei ministri se l’aula produrrà un documento su cui si deve votare. Al momento il documento non c’è. Al momento, noi dobbiamo soltanto informare le camere».

Lei si è lamentato della composizione della bicameralina, dice che non rispetta la maggioranza. Ma la maggioranza in aula è di tre voti.
«Bè, ieri (giovedì, ndr) avevamo la maggioranza assoluta, 315 voti. Perché in bicamerale no?».

A questo però dovete pensarci voi.
«Niente affatto. Ci devono pensare i presidenti delle camere».

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« Risposta #28 inserito:: Febbraio 09, 2011, 11:04:09 am »

Politica

09/02/2011 - PERSONAGGIO

Bondi, il mistero del ministro scomparso senza dimissioni

Non è stato sfiduciato, ma da quasi due mesi nessuno l'ha più visto ai Beni culturali

MATTIA FELTRI
ROMA

Il ministro Sandro Bondi non si vede al lavoro da un periodo approssimativamente compreso fra i quaranta giorni e i due mesi. Sul punto divergono i dipendenti del Mibac (ministero per i Beni e le attività culturali) e i più stretti collaboratori del titolare, ma riconvergono sul succo: Bondi è scomparso da prima di Natale. Per mettersi in contatto con lui, comunicargli l’avvio di un’iniziativa, ottenere un’autorizzazione, strappare una firma, bisogna chiamarlo alla sede romana del Pdl, oppure a casa, magari a Novi Ligure al recapito della compagna, l’onorevole Manuela Repetti. Ma lui, probabilmente, non risponderà. È più facile che risponda lei, Manuela Repetti, e non perché sia un’emula di Yoko Ono, ma perché (pare di avere capito) intende difendere il fidanzato in un periodo che un illustre ed esasperato dipendente ministeriale definisce di «agonia». Forse agonia è eccessivo. Forse è più corretto parlare di disillusione, ripulsa, animosità. Da un mese il presidente del Consiglio ha sulla scrivania la lettera di dimissioni di Bondi, il quale si aspettava che fosse accettata lunedì, al massimo ieri. La notizia era attesa anche al Mibac con un sentimento compreso fra la smobilitazione e la liberazione. Difatti lì dentro si contano sulle dita di una mano quelli che non vogliono bene al ministro. E’ persino amato. Ma la situazione, dicono e ripetono, è ormai insostenibile. «Il premier ascolti la sua voce, lo sciolga da questo vincolo insopportabile, non sottovaluti l’urlo di dolore. Se fosse il caso, si prenda anche questo interim. Ma ricominciamo a far funzionare il dicastero», dice un altro mister X. Aggiunge che «i collaboratori sono sgomenti», che nessuno ha capito perché Bondi abbia tanto insistito per una carica da cui si è disaffezionato così presto, sino a detestarla, e sottraendola a Paolo Bonaiuti che la considerava l’approdo di un’esistenza.

Le ragioni dello squasso psicologico, dicono al Mibac, vengono da lontano, sebbene le pretestuose polemiche sui crolli di Pompei siano state definitive. L’entusiasmo iniziale, peraltro domato dall’indole mite e riservata del ministro, è subito andato a sbattere contro il muro innalzato dall’oligarchia intellettuale, che ha accettato Bondi come sportello burocratico ma non come interlocutore culturale. O almeno così dicono al Mibac. Raccontano dello strazio muto del ministro nelle occasioni in cui scriveva lunghe, ponderose, equilibrate, quasi ossequiose lettere alla Repubblica su questioni di altissima erudizione, come il significato contemporaneo della Carta costituzionale, gli obiettivi ecumenici dei centocinquant’anni dell’unità patria in una coalizione coi federalisti della Lega, e se andava bene gli scritti sbarcavano sul sito internet del quotidiano. E quindi la legittimazione concessa al Bondi coordinatore del Pdl (che sui temi della gestione del partito, della dialettica parlamentare, dei dissidi con i finiani era intervistabile anche tutti i giorni) non è stata estesa al Bondi motore e coordinatore della politica cinematografica o archeologica. Lui ha cercato di consolidare il ruolo con scelte a dir poco al ribasso, come per esempio la compilazione settimanale di brevi recensioni bibliofile per Panorama. Che a un suo rifiuto sarebbero state affidate a Pinco Pallino. La reazione di Bondi al formidabile snobismo è stata di rivalsa qualche volta sopra le righe. La drastica deliberazione di negarsi alla Biennale di Venezia o alla Prima della Scala fu umanamente comprensibile ma strategicamente disastrosa. L’interlocuzione con chi lo scostava con uno sbuffo è stata relegata al battibecco. Governare un mondo così indocile, così avido, così aristocratico con il diverbio giornaliero ha qualcosa di orgoglioso e molto di suicida. Quando gli consigliavano una dose minima di ipocrisia, qualche pranzo organizzato col direttore del museo o col sovrintendente, qualche occasione in cui fingere di ascoltare con interesse supremo, una passerella alla prima teatrale, lui rifiutava per ritrosia. E’ finita come si sa. Una mozione di sfiducia individuale che, alla Camera dei deputati, i gruppi di opposizione hanno sostenuto con ragioni vaghe e alle quali il ministro ha risposto con accenti di rancore non sempre trattenuti. Una volta intascata la fiducia, ci si aspettava il ritorno di Bondi in ministero, se non altro per il piccolo trionfo, se non altro con i ritmi pre-natalizi, quando il ministro si rifugiava a Novi Ligure dal venerdì al martedì.

Invece Bondi ha deciso che con la cultura ha chiuso. Il problema è che non lo ha deciso il governo. Così il Mibac procede nella ordinaria amministrazione, con il sottosegretario Francesco Giro e il direttore generale del patrimonio culturale Mario Resca che insistono cocciuti nelle mansioni cui sono stati destinati. Lo fanno da mesi. Da quando Bondi si accasciava sui rotocalchi di gossip che ospitavano le imbarazzanti interviste alla ex moglie, e sui quotidiani che davano conto degli spericolati (e non onerosi) ingaggi di parenti, ed erano articoli visti come armi non convenzionali nella battaglia politica. E se è così, è alla politica e soltanto alla politica che Bondi vuole tornare. Il doppio incarico è stato un terribile errore (il ministero della Cultura in Italia non dovrebbe contare meno dell’Interno). Bondi ora rivuole il partito e nient’altro. E dunque metterà in pratica gli insegnamenti tratti da recenti e appassionate letture dei testi fondamentali della filosofia politica.

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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 14, 2011, 04:05:19 pm »

Politica

14/02/2011 - REPORTAGE

Prove generali del Comitato di liberazione da Berlusconi

Dalle suore alle icone del Che.

Ma niente bandiere di partito e politici defilati

MATTIA FELTRI
ROMA

Le bandiere di partito, ospiti sgradite, sono rimaste a casa. «Tutto il cielo al cielo», dice la signora brizzolata, una bella testa di capelli ricci raccolti a coda. La spiegazione sarebbe tutta lì: un moto dell’anima, un’assonanza sfavillante. E’ la società civile con o senza l’aggettivo “mitica” e con tutta la trasversalità tradizionale - d’età, di genere, di classe, di estrazione politica - che marcia sulla piazza perché ha qualcosa di urgente da dire. E’ proprio un messaggio visivo: basterebbe guardare il palco.

C’è la regista di sinistra (Cristina Comencini), la politica della destra finiana (Giulia Bongiorno), la studentessa coetanea di Ruby, la ragazza nera, la suora ex missionaria, la docente universitaria, la gran capa della Cgil (Susanna Camusso), il maschio possibile (Stefano Ciccone, esperto di identità sessuata maschile). Un meticciato di censo e un’ostentata ibridazione ideologica che sarebbero la garanzia della purezza d’intenti, ben più del simbolico bianco, il colore di giornata.

Una mescolanza tenuta assieme dall’obbiettivo così ben raffigurato sui cartelli che ieri pomeriggio circolavano innalzati da decine di braccia: il fotomontaggio di Silvio Berlusconi dietro alle sbarre: «Ti vogliamo così!». Il Comitato di liberazione nazionale - questa riedizione di fronte partigiano a sessantasei anni dall’esecuzione di Benito Mussolini, lanciato mesi e mesi fa da Pierferdinando Casini, e rilanciato di volta in volta, annusato e desiderato dall’ex fascista Gianfranco Fini, dall’ex magistrato Antonio Di Pietro, dagli ex comunisti e naturalmente dagli ex berlusconiani - ieri ha compiuto i primi passi.

Una cosa piuttosto scenografica, tutto sommato meno rancorosa del previsto ma molto decisa, più che altro la classica festa di strapaese e dell’intransigenza. C’era, per esempio, l’angolo di piazza del Popolo occupato da animatori da centro sociale, una quantità di cartelloni bianchi piazzati a terra e nugoli di bambini dotati di pennello, di piattino di plastica in ruolo di tavolozza e intenti a trovare il sublime accostamento cromatico, per esempio la “e” di Berlusconi verde con la sfumatura gialla nella scritta “Berlusconi vattene”.

Disegnano e dipingono facce su facce, i piccoli, mentre i grandi fanno lo spelling: «Ma chi tte vole?”, dettato e scritto proprio così, in perfetto romanesco e spedito al solito indirizzo. Allora era naturalmente una manifestazione a tutela e a riscatto della dignità femminile, con tutto il Partito democratico in piazza ma discosto, Pierferdinando Casini che da Ostia mare, all’inaugurazione di una sede dell’Udc, manda i suoi rispetti, Di Pietro che sfila digrignante a Milano, Fini che, appunto, ha sul campo la sua Bongiorno, l’intera sinistra radicale ed extraparlamentare schieratissima, a cominciare da Fausto Bertinotti che voci di popolo vogliono ai tavolini del caffè Rosati a seguire gli interventi delle oratrici.

Uno stand vende libri come “Palestina ai palestinesi” e “Give peace a chance”, per dire della consueta egemonia. Sono arrivati anche i soliti smerciatori di t-shirt, slogan ricorrenti, sopra c’è scritto love your mother, guerrilla, padrone di niente servo di nessuno, vietato vietare, zero regole, disobbedisco, ieri partigiani oggi antifascisti, Che Guevara, Mafalda che urla «basta!», una ragazza incinta ha la maglietta personalizzata: «Voglio nascere in un paese che ha rispetto per le donne». Dall’altoparlante arriva il saluto delle suore stimmatine.

Una ex ragazza sfida l’universo scrivendo a pennarello sulla canottiera «sono stanca di non trovare lavoro perché sono troppo brutta». Arrivano i saluti di pensionate, casalinghe, mariti mortificati. Eccolo, insomma, è il Cln dei tempi nostri. Lo si capisce al volo che qui ci sono potenziali elettori di tutti i partiti antiberlusconiani. Ci sono le signore attempate che riassaporano il gusto della barricata, per quanto ingentilita. Ci sono le ragazze che sentono il gusto della prima volta. Il loro motto è «ora basta ma non basta». Ma soprattutto ci sono gli uomini.

Sono al seguito delle fidanzate e delle mogli. Esibiscono cartelli di ampia mortificazione: «La mia donna non è in vendita». Oppure tengono i cani e i bambini. C’è chi pare in piena esibizione di paternità: si è conquistato un coriandolo di piazza, ci improvvisa il picnic coi due figli riluttanti.

Qualcuno maneggia l’Iphone o il Blackberry e cerca di connettersi a Livescore. com per i risultati delle partite ma la gente è troppa, la linea non c’è. Tutti ridono rumorosamente ai “monologhi della vagina”, ormai un evergreen delle occasioni femministe. Un altro ancora, seduto sulla fontana del Nettuno, ha ammainato lo striscione che offre le ministre del governo Berlusconi a cattivo esempio di dignità femminile. Cinque oche gonfiabili, poco più in là, portano il cognome delle sgradite signore: Brambilla, Carfagna, Minetti, Gelmini, Santanché. Un impietoso calderone.

E’ quello che spinge per esempio Barbara Saltamartini, deputato del Pdl, a dire che quella moltitudine non dimostra per le donne ma contro l’esecutivo. Ma naturalmente che è così: è il Cln. Anzi, ne è l’ambizione. «Magari», dice una signora della Roma bene, quartiere Prati, che sta giocosamente incitando le vicine a spingersi fino a Palazzo Grazioli: «Che ci facciamo qui?». Quasi un’altra citazione dopo quella di Primo Levi e del suo «Se non ora, quando?», il libro che raccontava altri partigiani, altri nemici, altre dignità.

E quindi, sul palco, ognuno tenta il distinguo, la precisazione, il vero problema sono le pari opportunità, sono i tagli al welfare, sono gli asili nido, sono le differenze sociali, le differenze razziali. Non c’è nulla che non vada bene, in una giornata simile. Ma è al nome lì stramaledetto che si accendono gli entusiasmi, gli applausi collettivi, i sogni di liberazione.

Un secolo e mezzo d’Italia («da Silvio Pellico a Silvio Pelvico») che attende lo scatto morale nella circostanza dell’anniversario. Manca soltanto la cordata politica per l’ultimo scontro. Tanto si sa che deve finire così.

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