Notizie dal PAESE dei berluschini...

<< < (2/13) > >>

Admin:
12/9/2008
 
Tintinnar di manette
 
 

GIANCARLO DOTTO

 
Ricetta infallibile. Manette (e gogna) agli ultras di ogni tipo, a quelli del sesso a pagamento sulle strade e a quelli della violenza gratuita negli stadi. Gli uni e gli altri liquidati come scarto sociale, delinquenti da mettere al bando. Vecchia storia. La politica che mostra i muscoli confessa pubblicamente due cose, il suo fallimento strategico oltre che il suo deficit intellettuale. Ovvero, l’incapacità di meditare sul tema. Se poi a mostrare i muscoli non è Ignazio La Russa ma Antonio Matarrese, l’effetto esilarante è garantito. Da tempo i comizi di Tonino surclassano quelli di Totò in quanto a comicità. La gente fa la fila come al cabaret. Nella smania di mostrarsi più duro del duro Maroni, il presidente della Lega stavolta ha esagerato.

Matarrese ha detto: «Se necessario mettiamo delle celle negli stadi. O siamo forti o ci arrendiamo, noi non ci arrendiamo». Attorno a lui, tutto un darsi di gomito e di risatine, a cominciare dallo stupefatto Roberto Maroni che, fino a un attimo prima, era convinto di essersi seduto a un tavolo istituzionale.

Tonino a parte, il clima che si respira oggi un po’ ovunque è questo: bastonare uguale semplificare. Gli stadi non sono ancora sicuri? Lungo i marciapiedi dilaga il vizio? Chiudere gli stadi, perimetrare i marciapiedi. Totale sintonia tra Mara, intesa come Carfagna, e Maroni. Matarrese a parte, non sono al sicuro nemmeno i comici. Ritornano divise, pagelle e insegnanti unici. A quando il ripristino della censura al cinema per decreto regio? Il modello politico imperante è Giorgio Bracardi in versione Catenacci: tutti in galera!
Se la politica è occupata a bastonare e ad amputare, proviamo noi a ragionare. E a distinguere. Meretricio e violenza. Nel primo caso c’è la pena, ma non esiste il delitto. Nel secondo c’è il delitto, ma non si capisce bene quale sia la pena. Si chiamavano cortigiane e poi lucciole, puttane, prostitute, ma quella del sesso mercenario è storia che va avanti da millenni. Dalla legge Merlin ai giorni nostri è tutta una pirotecnica di proposte, uno strepitare di proclami, purché nulla accada. Incapaci di regolamentare e di educare, non ci resta che stroncare. Stroncare il racket? No, criminalizzare il cliente. Si alza la voce per negare il problema. Tutti in galera! Ottimo. Riapriamo allora i bordelli? C’inventiamo i quartieri a luci rosse, recintiamo l’orrida pulsione? Macché. Zero.

Si finge di non sapere che appiccicare la lettera scarlatta a prostitute e clienti è solo un modo per fuorviare la meditazione sulla donna offesa. La donna che si prostituisce forse, ma anche quella spesso degradata a macchina di riproduzione, umiliata a schiava del sesso, condizione sancita e prescritta dall’alibi di un contratto matrimoniale.

E ancora. Sono davvero tutti patologici gravi i nove milioni d’italiani che, secondo i dati forniti dallo stesso dipartimento delle Pari Opportunità, il ministero della Carfagna, cercano sesso a pagamento? La Mara si sente certo bene quando si dice dentro il suo impeccabile tailleur: «Come donna le case chiuse mi fanno rabbrividire...». Fosse per lei, avrebbe schiaffato in galera miliardi di malafemmine e di uomini depravati, inclusi Baudelaire, Picasso e Simenon, per non parlare di Fellini. Più illuminata di Solone, che istituì le prime case di piacere ad Atene, e di Camillo Benso conte di Cavour, che per arruffianarsi i francesi autorizzò le prime case di tolleranza in Italia. Dovere di un ministro è identificarsi con i suoi cittadini. Ha mai provato la leggiadra Mara a identificarsi con il ripugnante settantenne ancora sessualmente vispo, disgrazia sua, anche perché, dalla farmacia oggi gli passano di tutto, tra Viagra e Cialis, e nelle promozioni televisive gli spiegano che la vecchiaia non esiste, che è un pregiudizio e lui poveraccio ci crede?

Ancora scorciatoie. Blindare gli stadi, vietare le trasferte, risultato garantito. Ma a che prezzo? E quale la prospettiva? Vincenzo Paparelli fu trapassato da un razzo ostile il 28 ottobre del 1979, quasi trent’anni fa. Una vita. Da allora, solo la spettacolare resa delle istituzioni rispetto a un fenomeno che si poteva e si doveva controllare. Solo polizia e muro contro muro. Lo Stato che fa concorrenza al teppista, nella sfida del «odia il prossimo tuo almeno quanto odi te stesso».


da lastampa.it

Admin:
12/9/2008
 
Alitalia, un boccone amaro
 
 
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
C’è qualcosa di più del crepuscolo, si spera definitivo, della vecchia Alitalia nel trascinarsi delle trattative tra governo, azienda e sindacato in un clima nervoso, pieno di malessere e rancori, con qualche tensione con la polizia e gli ennesimi disservizi a Fiumicino: un Paese che ha tranquillamente accettato l’eclissi dell’Olivetti, e altrettanto tranquillamente è di fatto uscito da settori strategici come la chimica e la farmaceutica, che non ha capito il valore economico e sociale rappresentato dalle proprie grandi imprese non può ora piangere su una delle peggio gestite tra queste, della quale resterà poco più che il nome (e forse bisognerebbe cambiare anche quello).

I «diritti acquisiti» dei dipendenti Alitalia vanno certamente salvaguardati e va fatto ogni sforzo per trovare nuove occasioni di impiego per i lavoratori in eccesso; non si può però subordinare una trasformazione strutturale, della portata necessaria a risolvere il nodo Alitalia, alla sistemazione prioritaria, in ambito aziendale, di tali diritti e di tali occasioni.
Occorre domandarsi se il trattamento da riservare ai lavoratori colpiti da questa grave crisi aziendale debba essere migliore di quello della generalità dei lavoratori delle imprese in difficoltà.

O se il problema non debba invece essere affrontato in termini più generali, con la revisione delle «reti di sicurezza» per chi rischia di trovarsi privo del posto di lavoro.
Quello che sta tramontando non è solo il relitto della «compagnia di bandiera», bensì l’intero sistema di relazioni industriali. Sta terminando, in un orizzonte europeo perturbato - sullo sfondo non solo dell’attuale stagnazione italiana, ma di una possibile crisi europea e mondiale - il modo tradizionale di concepire il cambiamento industriale, di gestire le strategie delle imprese in difficoltà specie nel settore pubblico (o comunque nei servizi pubblici). Le procedure tradizionali hanno avuto i loro successi ma, in un quadro di interdipendenza globale, sono senz’altro superate.

In questo contesto, è in particolare il sindacato a doversi interrogare sulla gestione specifica di questa vicenda, nella quale proprio il «no» sindacale alla soluzione Air France, che avrebbe garantito una certa continuità aziendale, è stato determinante per il fallimento del progetto del governo Prodi. La parola «autocritica» è certo passata di moda, sia in politica sia nel mondo dell’economia, ma in ogni caso, quando tutto sarà terminato, è opportuno che proprio il sindacato dia inizio a un riesame spassionato - che deve coinvolgere anche governo e parti sociali - del proprio ruolo in questa vicenda con l’intento di contribuire a un miglior sistema di governo delle imprese di servizio pubblico.

In tempi molto più brevi, mondo del lavoro e mondo della politica si trovano di fronte al piano industriale messo a punto dalla «cordata» di imprenditori intenzionata a rilevare quanto di economicamente valido rimane dell’Alitalia. Quando si lasciano colpevolmente partire tutti gli autobus, non rimane che prendere l’ultimo, anche se i sedili non sono comodi e se occorre sperare che non si rompa per strada, lasciando tutti a piedi. È vero, come ha detto un rappresentate sindacale, che oggi la scelta è «o mangiare questa minestra o saltare dalla finestra», ma quando si poteva scegliere tra più minestre, il mondo sindacale non l’ha fatto.

Di questo piano industriale si può dire che esso appare ragionevole dati i pesantissimi vincoli di partenza; che l’articolazione della nuova Alitalia in sei sedi differenziate costituisce una netta rottura con il passato, necessaria proprio perché la cultura «romana» della vecchia compagnia si è tradotta in un’organizzazione particolarmente costosa e inefficiente; che è probabilmente vero che, per le finanze pubbliche e dal punto di vista sociale, la sua attuazione comporterà costi inferiori a quelli che deriverebbero dall’attuale assenza di qualsiasi altra alternativa. È in particolare apprezzabile la prospettiva di riuscire a riannodare, in un periodo di tempo relativamente breve, discorsi di collaborazione e partecipazione con grandi compagnie estere, senza i quali la vita della nuova Alitalia sarebbe comunque sempre risicata e vulnerabile a eventi esterni, come le variazioni del prezzo del petrolio, che incidono sensibilmente su questo settore.

Ci si deve augurare, insomma, che l’accordo si trovi e che la nuova Alitalia finalmente nasca; ma, per favore, risparmiateci la retorica e il trionfalismo. Ricordiamo che si sta trangugiando un boccone molto amaro che sancisce un declassamento del Paese, nella speranza che ne derivino prospettive migliori.

mario.deaglio@unito.it 


da lastampa.it


------------------------------


Voli & SPRECHI: Il volo Roma-Albenga e i soggiorni degli equipaggi al Lido di Venezia

Trucchi e segreti della casta volante

Politici, manager, calciatori. La saga della compagnia. Anche una commissione a 8 per scegliere i nomi degli aerei


ROMA — C'era una volta una compagnia aerea che perdeva 25 mila euro l'anno per ognuno dei suoi dipendenti. Che aveva 5 (cinque) aerei cargo sui quali si alternavano 135 (centotrentacinque) piloti. Che arrivò ad avere un consiglio di amministrazione composto di 17 poltrone: tre per i sindacalisti e una assegnata, chissà perché, al Provveditore generale dello Stato, l'uomo incaricato di comprare le matite, le lampadine e le sedie dei ministeri.

Che istituì perfino una commissione di otto persone per decidere i nomi da dare agli aeroplani: e si possono immaginare i dibattiti fra i sostenitori di Caravaggio e quelli di Agnolo Bronzino. Che in vent'anni cambiò dieci capi azienda, nessuno uscito di scena alla scadenza naturale del suo mandato. E che negli ultimi dieci anni ha scavato una voragine di tre miliardi chiudendo un solo bilancio in utile, ma unicamente grazie a una gigantesca penale che i preveggenti olandesi della Klm preferirono pagare pur di liberarsi dal suo abbraccio mortale.

C'era una volta, appunto. Perché una cosa sola, mentre scade l'ultimatum di Augusto Fantozzi, è certa: quella Alitalia lì non c'è più. La corsa disperata di cui parlò Tommaso Padoa-Schioppa quando ancora confidava di poter passare la patata bollente ad Air France, dicendo di sentirsi come «il guidatore di un'ambulanza che sta correndo per portare il malato nell'unica clinica che si è dichiarata diposta ad accettarlo», è comunque finita. E con quell'ultimo viaggio, fallito in modo drammatico, si è chiusa un'epoca. Con un solo rammarico: che la parola fine doveva essere scritta molti anni prima. Se soltanto i politici l'avessero voluto.

Già, i politici. Ricordate Giuseppe Bonomi? Politico forse sui generis, leghista e oggi presidente della Sea, ora ha chiesto all'Alitalia 1,2 miliardi di euro di danni perché la compagnia ha deciso di lasciare l'aeroporto di Malpensa. Anche lui è stato presidente dell'Alitalia: durante la sua presidenza la compagnia prossima ad essere «tecnicamente in bancarotta», per usare le parole del capo della Emirates, Ahmed bin Saeed Al-Maktoum, sponsorizzò generosamente i concorsi ippici di Assago e piazza di Siena. Alle quali Bonomi, provetto cavallerizzo, partecipò come concorrente. Ma senza portare a casa una medaglia. Ritorno d'immagine? Boh.

E ricordate Luigi Martini? Ex calciatore della Lazio, protagonista dello storico scudetto del 1974, chiusa la carriera sportiva diventò pilota dell'Alitalia. Poi parlamentare e responsabile trasporti di Alleanza nazionale: ma senza smettere mai di volare. Per conservare il brevetto gli fu concesso di mantenere anche grado e stipendio. Faceva tre decolli e tre atterraggi ogni 90 giorni, quando gli impegni politici lo consentivano, pilotando aerei di linea con 160 passeggeri a bordo. Inconsapevoli, probabilmente, che alla cloche c'era nientemeno che un parlamentare in carica. Questa sì che era degna di chiamarsi italianità. In quale altro Paese sarebbe stato possibile?

Domanda legittima anche a proposito di quello che accadde nel 2002, quando con la benedizione di Claudio Scajola venne istituita una linea quotidiana Alitalia fra Fiumicino e Villanova D'Albenga, collegio elettorale dell'allora ministro dell'Interno. Numero massimo di passeggeri, denunciò il rifondarolo Luigi Malabarba, diciotto. Dimesso il ministro, fu dimessa anche la linea. Ripristinato il ministro, come responsabile dell'Attuazione del programma, fu ripristinato pure il volo: in quel caso da Air One, con contributi pubblici. Volo successivamente abolito dopo la fine del precedente governo Berlusconi e quindi ora, si legge sui giornali, riesumato per la terza volta.

Ma politici e flap in Italia hanno sempre rappresentato un connubio spettacolare. Lo sapevano bene i 9 sindacati dell'Alitalia, che non a caso nei momenti critici, ha raccontato al Corriere Luigi Angeletti, regolarmente pretendevano di avere al tavolo il governo, delegittimando la controparte naturale, cioè l'amministratore delegato. E i ministri regolarmente si calavano le braghe. Forse questo spiega perché mentre tutte le compagnie straniere, alle prese con le crisi, tagliavano il personale e riducevano i costi, all'Alitalia accadeva il contrario.

Nel 1991, dopo la guerra del Golfo, si decisero 2.600 prepensionamenti. Poi arrivò Roberto Schisano, che diede un'altra strizzatina, e i dipendenti scesero nel 1995 a 19.366. Armato di buone intenzioni, Domenico Cempella nel 1996 li portò a 18.850. Nel 1998 però erano già risaliti a 19.683. L'anno dopo a 20.770. E nel 2001, l'anno dell'attentato alle Torri gemelle di New York, si arrivò a 23.478. Poi ci si stupì che per 14 anni, fino al 1999, fosse stato tenuto in vita a Città del Messico, come denunciò l'Espresso, un ufficio dell'Alitalia con 15 dipendenti, nonostante gli aerei avessero smesso di atterrare lì nel lontano 1985. Come ci si stupì che gli equipaggi in transito a Venezia venissero fatti alloggiare nel lussuoso Hotel Des Bains del Lido, con trasferimento in motoscafo. O che per un intero anno (il 2005) la compagnia avesse preso in affitto 600 stanze d'albergo, quasi sempre vuote, nei dintorni dell'aeroporto, per gli equipaggi composti da dipendenti con residenza a Roma ma luogo di lavoro a Malpensa. Per non parlare della guerra sui lettini per il riposo del personale di bordo montati sui Jumbo, al termine della quale 350 piloti portarono a casa una indennità di 1.800 euro al mese anche se il lettino loro ce l'avevano. O dell'incredibile numero di dipendenti all'ufficio paghe del personale navigante, che aveva raggiunto 89 unità. Incredibile soltanto per chi non sa che gli stipendi arrivavano a contare 505 voci diverse.

Tutto questo ora appartiene al passato. Prossimo o remoto, comunque al passato. Della futura Alitalia, per ora, si conosce soltanto il promotore: Compagnia aerea italiana, Cai, stesso acronimo di un'altra Cai, la Compagnia aeronautica italiana, la società che gestisce la flotta dei servizi segreti. E le cui azioni, per una curiosa e assolutamente casuale coincidenza, sono custodite nella SanPaolo fiduciaria, del gruppo bancario Intesa SanPaolo, lo stesso che supporta la cordata italiana per l'Alitalia.

Sergio Rizzo
12 settembre 2008

da corriere.it

Admin:
ECONOMIA   

Istat, produzione industriale in calo

E' il terzo ribasso da maggio


ROMA - La produzione industriale ha registrato un calo dell'1,1% congiunturale a luglio e dello 0,6% tendenziale. Lo comunica Istat, segnalando che in sette mesi la produzione industriale ha accumulato una diminuzione dell'1,4% rispetto al 2007. Si tratta del terzo calo consecutivo da maggio.

Nel confronto con luglio 2007, gli indici della produzione industriale corretti per i giorni lavorativi relativo ai raggruppamenti principali di industrie hanno segnato tutti variazioni negative: 3,9% i beni intermedi, 3,3% i beni strumentali, 2,9% l'energia e 2,3% i beni di consumo (- 2,4% i beni non durevoli, - 2,0% i beni durevoli). Nel mese di luglio 2008 l'indice della produzione industriale corretto per i giorni lavorativi ha segnato variazioni positive solo nel settore degli alimentari, bevande e tabacco (+0,1%). Le diminuzioni più marcate hanno riguardato i settori delle raffinerie di petrolio (-12,5%), delle pelli e calzature (- 12,3%), dei minerali non metalliferi (-7,6%) e del legno e prodotti in legno (-7,6%).

(12 settembre 2008)

Admin:
I sindacati: «Subito un incontro in Comune per il nuovo progetto»

Flop per lo «sportello Biagi», solo 32 occupati

Fallito il progetto che doveva dare lavoro ai milanesi più sfortunati.

Dopo tre anni l'esperienza si è chiusa. Spesi 4 milioni di euro 
 
Tre anni per trovare lavoro a 32 persone.


E il tutto spendendo quattro milioni di euro dei sette stanziati. Gli sportelli Marco Biagi dovevano dare uno stipendio ai milanesi più sfortunati. Quelli a cui la città del lavoro volta le spalle: ultracinquantenni licenziati, disoccupati da almeno un anno, persone sole con figli a carico ma senza un impiego. Dopo tre anni l'esperienza si è chiusa. In modo deludente. Gli «sportelli Marco Biagi» non esistono più. Le vetrofanie con il nome del giuslavorista ucciso dalle nuove Brigate rosse sono state tolte nel marzo scorso dalle sedi di via Savona e via Satta, a Quarto Oggiaro.
La sperimentazione era stata lanciata esattamente tre anni prima — il 14 marzo 2005 — dal sindaco Gabriele Albertini. «Con gli sportelli Marco Biagi ancora una volta Milano si conferma sede dell'innovazione in materia di lavoro — disse l'allora ministro del Lavoro, Roberto Maroni —, vogliamo replicare questa soluzione in altre regioni ». Nella sostanza l'obiettivo era ricollocare a tempo indeterminato 500 disoccupati «difficili» e coinvolgerne in progetti di riqualificazione altri 4.500. Il tutto con l'aiuto di sette agenzie per il lavoro (società private autorizzate dal ministero del Lavoro a intermediare manodopera) selezionate tramite concorso.
Le cose sono andate diversamente. Alla fine dei sette miliardi stanziati (5 e mezzo dal ministero del Lavoro e 2 dalla regione Lombardia) ne sono stati spesi poco meno di quattro. I soldi sono serviti a pagare le strutture, le agenzie del lavoro, i dipendenti del Comune. Ma anche a dare 400 euro al mese ai lavoratori coinvolti nel progetto in cambio della disponibilità a seguire corsi formazione. Al momento di tirare le somme, però, solo 32 hanno conquistato il posto fisso grazie agli sportelli. Gli altri (circa 2.300 persone) si sono dovuti accontentare nella migliore delle ipotesi di qualche contratto a termine. E il tutto in una città dove il tasso di disoccupazione è da anni sotto la soglia fisiologica del 4 per cento. E in cui ogni anno le agenzie del lavoro in affitto trattano un centinaio di migliaia di curriculum.
Da alcuni mesi sindacato e Comune discutono di un nuovo progetto su cui dovrebbero essere investiti i soldi non spesi dagli sportelli Marco Biagi (circa un milione e mezzo di euro). Si tratterebbe di una rete di sportelli in grado di orientare i milanesi nel vasto mondo dei servizi forniti dal Comune. «L'esperienza degli sportelli Marco Biagi è stata quantomeno deludente — valuta Antonio Lareno, segretario della Cgil che partecipa alla trattativa sulla sulla loro riconversione —. Il 23 settembre è previsto un incontro in Comune per mettere a punto il nuovo progetto. È forse l'ultima opportunità per dimostrare che questa città è in grado di produrre iniziative utili per i cittadini».

 
Rita Querzé
12 settembre 2008

da corriere.it/vivimilano

Admin:
Fnsi: «Cè la volontà di affievolire la capacità di ricerca della verità»

Perquisita redazione dell'Espresso

Guardia di Finanza anche nelle abitazioni dei due giornalisti che si sono occupati dell'immondizia a Napoli



ROMA - La Guardia di finanza di Napoli ha perquisito la redazione de "L'Espresso" e le abitazioni e il luogo di lavoro dei giornalisti dell'Espresso Gianluca De Feo ed Emiliano Fittipaldi. I redattori del settimanale si sono occupati dello smaltimento dei rifiuti in Campania.

FNSI: «INACCETTABILE» - «È davvero inaccettabile» ha sottolineato il Segretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Franco Siddi. «Comprendiamo che l'attività della magistratura sia in questa fase in una situazione delicata ma non possiamo accettare che l'attività giornalistica di inchiesta venga trattata come fosse illegale e sotto tutela. Ci pare che fin troppo chiaro - ha proseguito Siddi - il tentativo di affievolire la capacità di ricerca della verità da parte dei giornalisti. Sono ormai, infatti, troppi in questi mesi gli interventi sui colleghi e sulle redazioni. Abbiamo immediatamente chiamato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per esprimergli tutto il nostro disappunto sull'accaduto e per chiedergli un incontro urgente».


12 settembre 2008

da corriere.it

Navigazione

[0] Indice dei messaggi

[#] Pagina successiva

[*] Pagina precedente