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Autore Discussione: Domande su Kabul  (Letto 3633 volte)
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« inserito:: Giugno 26, 2007, 09:41:28 pm »

Domande su Kabul

Luigi Bonanate


Un allucinante gioco al massacro si svolge sotto i nostri occhi senza quasi che ce ne accorgiamo. Ha ben ragione, ora come ora, il ministro della Difesa italiano, Parisi, a indignarsi, ma dov’era lui, dov’eravamo tutti noi, la settimana scorsa (e nei mesi prima), quando 32 militanti islamici sono stati uccisi da colpi di missili esplosi contro luoghi ritenuti sotto controllo di Al Qaeda? Nessuno sa chi li abbia tirati: le agenzie di stampa si contraddicono; i portavoce governativi pure.

E ora altri 52 civili, a quanto pare (mentre secondo la Nato sono «soltanto» 25), sono morti sotto il fuoco «amico» allungando la lista di quelli che vengono pudicamente chiamati danni collaterali.

Il Segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, ha deciso l’apertura di un’inchiesta sull’episodio, ma possiamo tranquillamente anticipargliene l’esito: le condizioni di pericolo e incertezza nelle quali i soldati della missione agiscono, circondati dall’ostilità dei nemici e dal terrore dei civili, fanno sì che errori indotti dalle cattive informazioni, indifferenza per il valore della vita umana e paura spingano i soldati dell’Isaf a sparare prima che pensare. Non c’è neppure da scandalizzarsene, se prendiamo gli episodi uno per uno. Ma non dobbiamo cadere in questa trappola retorica: non siamo semplicemente di fronte a una serie di eventi sfortunati e involontari, ma a una striscia di sangue che una strategia incosciente sta tracciando lungo la storia contemporanea. Per la democrazia stiamo facendo morire migliaia di persone. Come riusciremo a spiegarlo? Quale idea potrà mai farsi il mondo della nostra occidentale concezione della società e dello Stato? A quali principi morali ci riferiamo? Ormai i morti non si contano più e noi andiamo in giro a raccontare che è meglio un democratico morto che un islamico vivo?

Tre giorni fa a Baghdad 87 sciiti sono stati uccisi in un solo attentato, presumibilmente sunnita (almeno, questa è la logica perversa che la nostra meccanicistica abitudine bellica ci ha inculcato); soltanto ieri 5 caschi blu spagnoli dell’Unifil sono stati uccisi da una mina in Libano. Queste cose, «prima», non succedevano. Dobbiamo oggi arrestare questa corsa alla morte e interrogarci sulla politica che stiamo seguendo o alla quale diamo comunque un contributo significativo, seppure non determinante, con la buona fede dell’alleato storico che non aveva precedentemente ragione di dubitare del suo alleato. In fondo, che un Paese come l’Italia, che respinge la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, partecipi all’operazione Isaf non è indifferente per nessuno. Non soltanto per il nostro sistema politico, nel quale comprensibilmente il dibattito cresce e i dubbi non possono che aumentare, ma per la coalizione stessa alla quale partecipiamo.

Che atteggiamento tenere con i nostri alleati? Dobbiamo continuare a far finta di non capire quel che sta succedendo e che la missione nella quale ci hanno trascinati non è «di pace»? Non dobbiamo discuter con loro di come vanno le cose e cercare di convincerli che l’impresa afghana (così come è stata condotta) si è rivelata un fallimento totale e incondizionato? Eravamo andati a cercare bin Laden e non l’abbiamo trovato; allora ci siamo detti: almeno impiantiamo lì una democrazia, e non ci siamo riusciti. Volevamo schiacciare i talebani e li abbiamo risuscitati, ridare dignità alle donne, e ora esse stanno ancora peggio; dovevamo estirpare la produzione di oppio e il raccolto del 2006 è stato il migliore e il più grande della storia afghana. Non si adempie in questo modo una «missione di pace». Se anche iniziò così, ora non lo è più, almeno per chi, come è stato per il nostro Paese, vi partecipò muovendo da altri presupposti e confidando in ben altri risultati. Se questi non ci sono stati, e anzi riscontriamo che, seppure involontariamente, abbiamo ancora peggiorato le condizioni di vita degli afghani, ebbene è molto più «eroico» ammetterlo e portare gli alleati sulle nostre posizioni che non sbattere testardamente contro il muro dei «danni collaterali», come se le vite umane non contassero nulla.

Cambiare giudizio su una strategia politica non è una forma di codardia o di incoerenza, ma accettare le dure repliche della storia (come diceva Hegel), imparare la lezione e farne tesoro. Invece che aggredirci reciprocamente (anche soltanto a parole) come facciamo noi qui, che siamo al sicuro, come se ammazzare o essere ammazzati fosse una questione che può distinguere centrosinistra e centrodestra, dovremmo aprire un vero dibattito su ciò che sta succedendo nel mondo, chiedendoci: se il prodotto ottenuto ha corrisposto all’investimento fatto, se tra gli alleati qualcun altro la pensa come noi; se tra le opinioni pubbliche in giro per il mondo non emergano valutazioni dello stesso tipo, se non sia ora — non dico di «dichiarar guerra agli Stati Uniti» — di dir loro serenamente che l’impresa è fallita, che il progetto era buono, ma poi qualche cosa è andato storto: vorremo andare avanti 10 anni come in Viet Nam, prima di capire la lezione? Ma perché mai tutto ciò che Bush decide dev’essere, per ciò stesso, giusto e da adottare? Non sarebbe meglio che fossero gli Stati Uniti a seguirci e non viceversa?

Altrimenti gli Stati Uniti trascineranno tutti i loro alleati nella stessa condanna che la storiografia un giorno darà di questa pagina sconvolgente e insensata della nostra storia internazionale: dirà che la parte più evoluta, avanzata, colta, e ricca, del mondo si era gettata in un abisso senza senso e senza fondo, non curandosi di preventivare le conseguenze delle sue azioni e senza essere riuscita ad accrescere di una sola unità la democrazia del mondo.

Pubblicato il: 26.06.07
Modificato il: 26.06.07 alle ore 13.58   
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