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Autore Discussione: Gianni Cuperlo. Oggi all’assemblea nazionale del Partito Democratico sono ...  (Letto 2959 volte)
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« inserito:: Aprile 03, 2023, 11:00:00 am »

Gianni Cuperlo
  ·
Oggi all’assemblea nazionale del Partito Democratico sono intervenuto e ho detto alcune cose che, come sempre, vi riporto qui (se avete voglia).
Un abbraccio

*
Penso che solo una cosa oggi ci sia proibita.
Ed è sprecare l’occasione di guidare la sinistra fuori dalla crisi di questi mesi.
Alle spalle abbiamo due stagioni, e due segreterie, che non hanno retto la prova degli eventi.
Non è stata una colpa dei singoli, ma una responsabilità comune.
Oggi, però, un terzo rovescio non ci è consentito.
Perché non lo reggerebbe questa comunità.
E perché al potere c’è la destra peggiore.
Quella che appalta le libertà in cambio di consenso e potere.
Quella che vuole disunire il paese.
Spezzarne l’unità che non è data solo da una lingua, ma dal sentimento profondo, unico, di una nazione che nel bisogno sa camminare assieme.
Che sa piangere e rispettare i morti.
Mentre loro neppure questo sembrano in grado di fare.
“C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire” è scritto nell’Ecclesiaste.
Penso che noi abbiamo demolito abbastanza.
E che ora sia il tempo del riscatto.
Abbiamo fatto un congresso sincero.
Ognuno ha speso le parole, le idee, che sentiva giuste.
Le mie – le nostre – erano nella volontà di arricchire la partecipazione e la democrazia.
È avvenuto in uno spirito di rispetto tra noi.
E anche questo conta.
Poteva non bastare, perché per settimane siamo stati oggetto di critiche e sarcasmi.
C’era chi intimava di scioglierci giudicando fallito il progetto e spenta la speranza.
Poi, accade che un milione esca di casa in una domenica piovosa.
Tante e tanti più del previsto, pronti a investire in questo progetto e in molti scorgendo nella guida di una donna giovane la rottura di una prassi durata evidentemente anche troppo a lungo.
Accade questo e il giorno dopo gli stessi – quelli del “dovete sciogliervi” – di colpo cambiano accento e messaggio.
Io dico, grazie!
Vorrei solo dire che non ci sentivamo orfani della speranza neppure prima.
E tanto meno lo siamo adesso.
Qui ci sono una leader, un partito, una comunità, consapevoli che la ricostruzione non sarà semplice né breve.
Consapevoli soprattutto che l’unità di questa forza chiederà fatica e molta buona volontà.
Per prima cosa nell’unire i due affluenti che sono stati decisivi per arrivare dove siamo: gli iscritti al Partito Democratico e la platea larga delle primarie.
Oggi c’è una nuova direzione legittimata da un voto che ha rovesciato l’esito dei circoli.
Non è una ferita, tutt’altro.
Sono le nostre regole.
Ma è certamente una responsabilità in più.
Che assieme dobbiamo gestire anche per rispettare la passione di chi ha creduto e ancora crede nell’impegno per sé.
In una militanza vissuta.
Qualche anno fa da un palco di Piazza Navona Nanni Moretti sferzò la sinistra con un’accusa severa.
Disse “Con questi dirigenti non vinceremo mai”.
Oggi alcuni fuori da qui vorrebbero parafrasare la stessa formula spiegando che, “con questi iscritti non avreste mai vinto”.
Credetemi, sarebbe una sintesi sciocca e offensiva.
Perché quegli iscritti sono il patrimonio di questa comunità.
A loro dobbiamo dire che c’è un partito disposto a cambiare davvero.
E allora, benissimo aprire il tesseramento, ma per bloccare la deriva di questi anni bisogna che a circoli e iscritti venga restituita una quota di potere vero.
Ascoltandoli.
Consultandoli sulle scelte di fondo.
E facendo in modo che la direzione di federazioni, regionali, quella nazionale, eviti da ora in avanti doppi o tripli incarichi e non sia più affidata solamente a chi siede nelle istituzioni.
Oggi però – e lo ripeto – la novità è grande.
Il Pd ha una segretaria.
Che è la segretaria di tutte e di tutti.
Degli iscritti che l’hanno votata e di chi non lo ha fatto.
Il punto è che l’unità tra noi si costruirà mattone sopra mattone perché la discontinuità dovrà fondarsi sui contenuti.
E per farlo – perché quel riscatto diventi una alternativa alla destra – penso che avremo bisogno di due cose.
La prima saranno le battaglie sui diritti strappati a chi ne ha più bisogno.
Un lavoro.
Un reddito.
Lo studio.
E sopra a tutto il diritto a curarsi.
Su questo si plasmerà il sentire comune delle opposizioni.
Nella spinta di movimenti, associazioni, delle piazze come quella di sabato a Firenze.
Assieme a questo a noi servirà l’anima – un pensiero coraggioso sui tormenti e le risorse di un mondo che non è mai stato simile a com’è ora.
Anche questo sarà un lavoro lungo, e allora sarà bene partire subito.
Io penso che lo si debba fare muovendo dal capitolo più drammatico che questo tempo ci ha messo dinanzi e che una volta ancora è la guerra.

Il capitolo della pace e della guerra.
Della capacità di convivere o della volontà di distruggere l’altro.
“C’è un tempo per uccidere e un tempo per guarire”.
Anche questo è scritto nell’Ecclesiaste.
Giorni fa ho letto un piccolo testo prezioso di Edgar Morin, filosofo che ha varcato il secolo di vita.
La guerra mondiale, l’ultima, lui l’ha attraversata.
Vi ha combattuto.
Noi oggi sappiamo dalla televisione delle bombe russe sulle città ucraine.
Lui, allora, aveva vissuto la distruzione di Dresda.
1.300 aeroplani inglesi e americani.
2.430 tonnellate di bombe.
300.000 morti.
C’era da abbattere il nazismo?
Sì, certo.
Ma la guerra porta sempre con sé il peggio che l’umanità è in grado di determinare.
E noi da più di un anno con quella atrocità conviviamo.
Angosciati quando leggiamo chi la tragedia te la racconta nella voce, negli occhi, nei corpi delle vittime.
Ma al fondo, sempre noi, come assuefatti all’idea che poiché esiste un aggressore e un aggredito non si possa dire nulla più di quanto si continua a ripetere da giorni, settimane, mesi.
Mentre un paese finisce dilaniato.
E a migliaia continuano a morire.
Dinanzi a quelle immagini, certa informazione si cura solo di capire se la nuova leadership del Pd cambierà linea.
E magari se questo potrebbe avvantaggiare l’altra opposizione ferma oggi nel dire No all’invio di nuove armi.
La nostra segretaria ha risposto.
Ha usato parole nette e rivendicato le scelte compiute.
Ma il punto non è negare ciò che abbiamo detto e fatto sinora.
Il punto è altrove.
Lo dico così.
Possiamo noi – possono la sinistra di questo paese e la sinistra in Europa – subire il ricatto di quanti scomunicano chiunque invochi o insegua una tregua necessaria e una pace possibile?
Io credo di no.
E penso che un nuovo pensiero coraggioso trovi esattamente qui, sul terreno più terribile ma decisivo, il suo banco di prova.
Ancora Morin spiega perché “ogni guerra racchiude in sé manicheismo, isteria bellicosa, menzogna”.
E soprattutto “preparazione di armi sempre più mortali”.
Per questo dinanzi agli orrori della guerra non è consentito banalizzare.
Perché poi c’è differenza tra chi semplifica e chi banalizza.
Aldo Moro quel concetto lo spiegava benissimo.
“Chi semplifica – diceva Moro – toglie consapevolmente il superfluo.
Chi banalizza toglie inconsapevolmente l’essenziale”.
Io mi chiedo: che cosa è accaduto in questi tredici mesi che ha spinto tanti – troppi – a togliere inconsapevolmente l’essenziale?
Lo sappiamo.
La Russia questa guerra non può e non la deve vincere.
E quindi aiutare anche militarmente l’Ucraina a difendersi prima che necessario è un obbligo politico e morale.
Ma cosa significa stare da una parte – nel caso nostro, la parte giusta – “fino alla fine”?
Se siamo la sinistra e se pensiamo che il 6 agosto del 1945 abbia cambiato per sempre il corso della storia con un’etica che solo pazzi, autocrati o dittatori hanno rifiutato: se tutto questo è vero, compito nostro è ricollocare nella storia il concetto della pace e delle azioni utili a perseguirla.
Dobbiamo farlo perché leggere il mondo nella sua complessità è la prima garanzia per non cedere alla banalità.
Lo facciano altri, ma noi non possiamo indossare lenti che riducono il mondo a una contrapposizione tra il Bene e il Male.
La cultura forse rimane la risorsa principale che quella deriva può impedire.
Nei mesi passati c’è stato persino chi, anche nel nostro paese, ha pensato di annullare un corso universitario su Dostoevskij.
Come se le opere di Puškin, Tolstoj o Čechov possano essere imputabili di collusione coi crimini di Putin.
Sono le scorie di una regressione che la guerra produce da sempre.
Al culmine della loro follia, i nazisti misero al bando la cultura francese e quella russa.
Tutta.
Musica, libri, espressioni dell’arte.
Ma davanti al plotone nazista che lo avrebbe fucilato le ultime parole di Jacques Decour, militante comunista della resistenza e cultore della letteratura tedesca, furono solo: “Imbecilli, è per voi che muoio”.
Ma noi?
Io penso che il tema per noi sia come riprendere un pensiero che non sia solamente la distinzione sacrosanta tra aggredito e aggressore, ma che ridia senso all’interrogativo decisivo che oggi è: “per chi muoiono le centinaia di migliaia di donne e uomini di questa guerra che ci appare senza una fine?”.
Lo chiedo qui – in questa giornata importante per la nostra ripartenza – perché dalla risposta che daremo dipende la certezza su cosa voglia significare “andare fino in fondo”.
Viviamo una terza guerra mondiale a pezzi, ha detto la voce più autorevole che parla al mondo.
E quella in Ucraina è già una guerra dalle implicazioni globali.
Per le ricadute che ha sul cibo e non solo.
Perché può accelerare il conflitto tra Washington e Pechino.
Ma se è così radicalizzare quel conflitto – decifrarlo rinunciando alla sua complessità – può condurre a esiti ancora più devastanti.
Penso che questo non possiamo permettercelo.
E non possiamo perché noi siamo la democrazia – la democrazia liberale e occidentale – mentre la Russia è un regime dispotico.
Ed è questa differenza a consentirci analisi che lì sono perseguitate e represse.
Noi possiamo dire che la strategia degli Stati Uniti verso Mosca è stata negli anni contestata anche da voci autorevoli della stessa diplomazia americana.
Noi possiamo dire – perché degli Stati Uniti siamo alleati, non succubi – che l’Europa sino a qui ha avuto una voce flebile.
O quasi nessuna voce.
Si dice che Putin non ha alcun interesse a parlare con noi.
E nemmeno con Macron e Sholz.
Ma è l’Europa che ha un interesse a parlare con la Russia di oggi e di domani.
Ed è l’Europa che per non sprofondare nel passato peggiore ha bisogno di risvegliare la sua potenza diplomatica e politica.
Non è un interesse condiviso da tutta l’Europa, ma è tempo di dire che questo oggi è il nostro interesse.
E allora parlare in ogni contesto, interno e internazionale, di una tregua, di negoziati, della ricerca testarda di una pace futura, non può più essere descritta come una complicità con le azioni criminali di Putin.
Con i dittatori non si discute?
Li si abbatte e basta?
Ma nella sua storia, l’Occidente ha negoziato con molti dittatori.
E a dirla tutta lo ha fatto con maggiore slancio quando in gioco erano i nostri interessi economici.
Industriali.
Militari.
Oggi fermare questa carneficina è interesse nostro come del mondo intero.
Credo che collocare il nuovo Partito Democratico su questa frontiera – l’Ucraina deve difendersi, la pace ha da imporsi – sia il messaggio più potente per una sinistra che voglia tenere assieme le culture che sedici anni fa a questo partito – e al suo splendido nome – hanno dato vita.
Facciamolo e la ripartenza diverrà riscatto di un’etica della politica che prima di quanto pensiamo ci aiuterà a battere la destra e ad aprire una speranza per l’Italia.

da FB del 12 marzo 2023
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