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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 135691 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:49:31 am »

Il commento
I dubbi sulle nomine per De Gennaro

Di Sergio Rizzo

Nella sentenza che ha confermato le condanne per alcuni responsabili delle efferatezze alla scuola Diaz la Cassazione scrive che quei fatti «hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». Ma si sa che in Italia le parole scorrono come l’acqua fresca. Ora però la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito che quelle persone (non meritano di essere chiamati poliziotti) si macchiarono di un crimine orrendo qual è la tortura. E questo giudizio è decisamente più pesante, per gli effetti reputazionale sul Paese.

Al punto da far sorgere una domanda che già si doveva porre dopo la sentenza italiana. Qualcuno in effetti la fece. Prima i deputati Andrea Sarubbi e Furio Colombo, poi il loro collega Ermete Realacci. Inutilmente, però. La domanda riguarda l’opportunità di certe scelte. È opportuno che la presidenza della Finmeccanica, società pubblica più esposta ai giudizi internazionali insieme all’Eni, sia stata affidata a chi era capo della polizia mentre si consumava quella pagina nera della democrazia italiana? Conosciamo la giustificazione: De Gennaro è stato pienamente assolto da ogni accusa. Siamo felici per lui. Ma non ci sfugge nemmeno la differenza che passa fra responsabilità penale e oggettiva. Che vanno sempre tenute ben distinte.

Dopo i fatti del G8 De Gennaro è salito al vertice dei servizi segreti, poi a Palazzo Chigi con Monti. Infine alla presidenza della Finmeccanica con Letta, confermato da Renzi. E con tutto il rispetto per l’ex capo della polizia e i suoi meriti professionali, ci permettiamo di insistere: è stato opportuno?

8 aprile 2015 | 15:17
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_aprile_08/i-dubbi-nomine-de-gennaro-0fbd1e52-ddef-11e4-9dd8-fa9f7811b549.shtml
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« Risposta #226 inserito:: Aprile 20, 2015, 05:57:38 pm »

Il caso
Pedaggi lievitati del 70% in 15 anni Così paghiamo 2 volte le autostrade
Nella Sblocca-Italia una norma che consente la proroga automatica delle concessioni in caso di accorpamenti delle tratte.
I costruttori attaccano: società di gestione favorite

Di Sergio Rizzo

È lì soltanto da pochi giorni e il nuovo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio già deve affrontare un paio di faccende mica da ridere. La più impellente è la sostituzione del presidente dell’Anas Pietro Ciucci. Ma quanto a difficoltà non è niente al confronto della battaglia sulle concessioni autostradali.

Urge un riepilogo. La scorsa estate la potente lobby dei gestori mette a segno un colpo da maestro. Il governo Renzi fa passare nella cosiddetta legge Sblocca-Italia una norma che consente la proroga automatica delle concessioni in caso di accorpamenti delle tratte. La motivazione è quella di favorire gli investimenti, ma questo non impedisce che scoppino furiose polemiche. Anche perché salta fuori che dal ‘99 (anno della privatizzazione della società Autostrade) al 2013 le tariffe sono salite del 65,9% a fronte di un’inflazione del 37,4%. E che nel 2014 c’è stato un altro aumento medio del 3,9 contro un rincaro del costo della vita dello 0,2. Bilancio finale: in 15 anni i pedaggi sono lievitati quasi del 70%, praticamente il doppio dell’inflazione.

Le super proroghe delle concessioni
Ma il governo non si fa impietosire, e in Parlamento l’ammorbidimento della norma è pressoché impalpabile. Per riaprire i giochi ci vuole il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, che bolla quel beneficio assegnato dalla legge ai concessionari come contrario alla concorrenza. Siamo all’inizio di febbraio scorso, e il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi fa elegantemente spallucce, ricordando come Bruxelles abbia appena approvato una proposta del governo francese del tutto simile a quella italiana.

La risposta di Lupi non dice però che le concessioni francesi sono state ottenute con una gara a monte, cosa che non vale per molte concessioni italiane, frutto invece di semplici acquisizioni. Né dice che le proroghe delle concessioni francesi sarebbero mediamente di 2 anni e 11 mesi, mentre da noi si andrebbe ben oltre. I gestori italiani hanno presentato tre domande, sottoposte al vaglio dell’Ue. Mentre non è nota la proroga della concessione delle Autovie Venete, impegnate a un miliardo e mezzo di investimenti, per le sette concessioni del gruppo Gavio sarebbe in media di 16 anni a fronte di 5,2 miliardi di investimenti. Per l’Autobrennero l’allungamento risulterebbe addirittura di 20 anni, con 3 miliardi di lavori.

Gli appalti esterni
Non bastasse la presa di posizione di Cantone, ecco l’uscita di scena dello stesso Lupi a rendere lo scenario ancora più fluido. Al punto che ogni pronostico sulla sopravvivenza di quella proroga automatica è ora assai difficile. Per non parlare della nuova offensiva dei costruttori contro i gestori. Ai parlamentari che lo convocano in audizione, il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti porta un documento ustionante di 23 pagine. Lì si ricorda che nel 2009, quando al governo c’era Silvio Berlusconi e alle Infrastrutture Altero Matteoli, passò la regola che consentiva ai concessionari di realizzare il 60% dei lavori «in house», cioè usando esclusivamente le proprie aziende. La motivazione fu che era necessario garantire gli investimenti previsti dalle convenzioni. Peccato però, sostiene l’Ance, che da allora quegli investimenti sono stati realizzati solo per poco più di tre quarti: 78%. La prova? I dati secondo cui gli appalti esterni dei concessionari autostradali sarebbero diminuiti da un miliardo 403,3 milioni del biennio 2007-2208 ad appena 119,8 milioni nel periodo 2013-2014.

L’esposto dell’Ance
L’Ance cita il caso Pavimental, controllata del gruppo Atlantia-Autostrade, che grazie ai lavori in house ha avuto dalla casa madre commesse per 1 miliardo e 133 milioni in cinque anni, scalando la classifica delle maggiori imprese italiane fino al posto numero 12. Spiegazione dell’amministratore delegato di Autostrade, Giovanni Castelucci: «Con Pavimental i tempi medi di esecuzione sono stati di tre anni, con soggetti terzi da cinque a nove anni. L’Ance ci chiede di rivolgerci a Pavimental perché così i subappaltatori vengono pagati».

Ma se le imprese terze toccano poche palle, fa capire il documento dei costruttori, i concessionari autostradali guadagnano due volte. La prima con le tariffe, la seconda con i lavori assegnati a se stessi. Cosa che ha indotto l’Ance a presentare un esposto europeo nei confronti della Società autostrada tirrenica, concessionaria (grazie a ripetute proroghe) fino al 2046 della Civitavecchia-Livorno, che sta realizzando in house il tratto fra Civitavecchia e Tarquinia: fino a tre anni fa controllata da Autostrade, ora metà del capitale è controllato dal gruppo Caltagirone e dalle coop. Da 13 anni è presieduta da Antonio Bargone, ex sottosegretario ai Lavori pubblici con Prodi, D’Alema e Amato.

17 aprile 2015 | 08:01
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_aprile_17/pedaggi-lievitati-70percento-15-anni-cosi-paghiamo-2-volte-autostrade-05f8a30a-e4c5-11e4-845e-5bcd794907be.shtml
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« Risposta #227 inserito:: Aprile 25, 2015, 04:43:54 pm »

Il caso
Buchi neri di clientele e scandali Viaggio nel fallimento delle Regioni
Nel libro di Buccini il sistema degenerato attraverso le esperienze dei governatori Galan: andrebbero abolite.
Oppure va abolito lo Stato. Uno dei due è di troppo


Di Sergio Rizzo

Le parole che non t’aspetti sulle Regioni le pronuncia un incarognito Giancarlo Galan: «Andrebbero abolite. Oppure va abolito lo Stato. Uno dei due è di troppo». Quantomeno irriverente, penserete, da parte di chi è stato un decennio potentissimo presidente della Regione Veneto e poi ben due volte ministro prima di essere azzoppato dall’inchiesta giudiziaria sulle tangenti del Mose. Ma il suo sfogo dagli arresti domiciliari con il giornalista del Corriere Goffredo Buccini che lo intervista per il suo libro «Governatori - così le Regioni hanno devastato l’Italia», edito da Marsilio e da oggi in libreria, è la fotografia più nitida dell’assurda deriva imboccata dal nostro Paese con un regionalismo protervo a accattone.

Il crollo della partecipazione al voto alle ultime elezioni in Emilia-Romagna e Calabria è un sintomo che dovrebbe preoccupare una classe politica miope e distratta. Mai come in questo momento, alla vigilia di una tornata elettorale cruciale, le Regioni sono state in crisi di popolarità e di identità. Fra scandali sull’uso oltraggioso dei denari pubblici, sprechi vergognosi di risorse collettive e inefficienze nella sanità, hanno toccato il punto più basso dalla nascita, nel 1970. Tanto da far sorgere interrogativi sulla loro stessa esistenza. «Se la democrazia italiana non si libererà dalla zavorra delle Regioni», scrive Buccini, «le Regioni trascineranno a fondo la democrazia italiana. Accomunate dal brutto neologismo di Rimborsopoli o da scandali altrettanto devastanti, le Regioni sono fumo negli occhi per sei italiani su dieci secondo l’Istat. Nel 2000 il 44 per cento degli italiani se ne fidava, nel 2008 il 39 per cento, nel 2014 solo il 14 per cento. Almeno trecento sono stati i consiglieri regionali inquisiti. Le leggi regionali vigenti sono oltre ventimila e il contenzioso Stato-Regioni è arrivato a pesare per un terzo sul lavoro della Corte costituzionale (...) Ma soprattutto, a marcare la differenza fra il prima e il dopo, è la nascita di venti piccoli capi di Stato...».

Quelli ormai diventati, in un immaginario collettivo deformato dai media i «governatori». Sono i protagonisti di questo libro sorprendente, che attraverso le loro parole e le storie di ognuno mette a nudo le metastasi di un sistema degenerato. Perché dietro a tutto ci sono gli uomini e le donne.

C’è l’ex presidente della Lombardia, il «Celeste» Roberto Formigoni che paragonava se stesso a Gesù («...anche lui ha amato intensamente ma vissuto virginalmente»). L’uomo che è stato al potere per diciotto anni consecutivi, più di ogni altro politico italiano nel dopoguerra. Incurante del diluvio di polemiche e indagini. Per quelle, si appella alla legge dell’Altissimo: «Sono un peccatore, non un colpevole».
Nemmeno Galan, con il suo «sguardo da lampadina fulminata», nella gabbia dei domiciliari, si reputa colpevole. Dice che ha patteggiato la condanna per costrizione. Ammette che se in Italia c’è oggi aria da 1992 è colpa anche dei politici. Ma poi ringhia che «il popolo ama Gheddafi fino al giorno prima e poi lo uccide barbaramente con i suoi figli. Il popolo è Robespierre». Sarà per risentimento verso gli elettori giacobini che non si è ancora dimesso da presidente della commissione Cultura della Camera?

C’è Piero Marrazzo, travolto dalla vicenda delle sue frequentazioni con transessuali, che ancora non sembra aver realizzato che cosa davvero ha combinato. «D’accordo, ho sbagliato come persona pubblica (...) però quello che mi è successo (...) non è successo in una Regione italiana ma nella vita di una persona, hanno solo colpito un uomo e la sua famiglia». C’è pure chi di Marrazzo ha preso il posto, Renata Polverini: «Non è una donna, è un’unità combattente». Che però non riesce ad arginare la frana che travolge prima il consiglio regionale e poi la sua giunta. C’è Antonio Bassolino, a sua volta travolto dalla valanga immane dei rifiuti che sommerge la Campania otto anni dopo. E adesso recrimina: «Se avessi potuto rifare il sindaco... altro che presidente di Regione. Quella era la mia vita!».

C’è Giuseppe Scopelliti, «Peppe o’ dj», simbolo vivente del naufragio della Calabria, con il suo «incedere curiale, una stretta di mano morbida, rotondità da antico democristiano». C’è Nichi Vendola, che confessa di non aver mai pianto in vita sua come quando è finito il grande freddo con i genitori sconvolti dalla rivelazione della sue omosessualità. Fu un giorno che sentirono alla radio il suo discorso al Gay Pride del 2000. «Mi telefonò mia madre: “Papà ha detto che ti dobbiamo chiedere perdono”». E racconta che la sua battaglia più grande «è sempre stata contro il centrosinistra. Era più facile battere Fitto che non D’Alema». C’è Rosario Crocetta, il «Poeta tragediatore», gay dichiarato al pari di Vendola, che vuole cambiare «una Regione nella quale, degli ultimi due presidenti, uno è in galera e l’altro sotto processo per questioni legate alla mafia...» Ma deve fare i conti con la maledizione di un’autonomia che ha ridotto la sua Sicilia a un rovinoso buco nero di clientele.

C’è Vasco Errani, estromesso per una condanna: lascia a Stefano Bonaccini un’Emilia-Romagna che gli elettori hanno abbandonato. Sovvertendo l’adagio andreottiano secondo cui «il potere logora chi non ce l’ha». Né poteva mancare Roberto Cota, eclissato da un paio di mutande color verde leghista. Che grazie a questo libro scopriamo non essere mai state proprio verdi. E nemmeno mutande. «Erano pantaloncini», dice lui. «Di che colore?», fa Buccini. «Non so, di diversi colori. A fiori. Da bagno, capito?». Buccini insiste, senza pietà: «Coi fiori. Fondo verde?» «Non me lo ricordo. Ma non erano verdi! Quando si è avviata l’inchiesta ho fatto mente locale, erano finiti per sbaglio nei rimborsi. Ho rimediato, ripagato. Prima dell’avviso di garanzia. Quindi non esiste neanche il fatto che fossero pagati con soldi pubblici, che poi erano privati». Privati, sì: ma dei privati contribuenti, caro Cota.

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23 aprile 2015 | 07:52

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_aprile_23/buchi-neri-clientele-scandali-viaggio-fallimento-regioni-ff83d300-e979-11e4-8a77-30fcce419003.shtml
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« Risposta #228 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:50:03 am »

IL COMMENTO
Incendio in aeroporto, aerei in tilt: tutta colpa di un frigorifero
Il Leonardo da Vinci vuole triplicare il numero di passeggeri. Ma basta un corto circuito per paralizzare i voli

Di Sergio Rizzo

La società che gestisce l’aeroporto di Fiumicino garantisce: l’allarme ha funzionato. Siamo sollevati. Anche se non possiamo fare a meno di pensare a che cosa sarebbe accaduto se invece l’allarme non avesse funzionato. Perché le conseguenze dell’incidente non sono state esattamente trascurabili. Lo scalo aereo più grande d’Italia è rimasto paralizzato per ore. Paralizzati anche i collegamenti ferroviari e stradali. Ma è ancora niente, in confronto alle ripercussioni che il blocco di Fiumicino ha avuto sul traffico aereo internazionale.

Tutta colpa di un frigo
E tutto per un frigorifero in corto circuito. Tre anni fa Aeroporti di Roma ha presentato un ambizioso progetto di ampliamento che dovrebbe triplicare la capacità di traffico portandola a 100 milioni di passeggeri. L’investimento è in linea con quelle ambizioni. La previsione è di 12 miliardi di euro. Una somma pari al Prodotto interno lordo di Stati come il Mozambico, il Senegal o l’Islanda. Nuove piste, nuovi piazzali, nuovi hangar: fantastico. E poi il potenziamento dei collegamenti stradali e ferroviari: meraviglioso. Per non parlare di nuovi alberghi, nuovi business center, nuovi parcheggi: sublime. Ma anche nuovi frigoriferi, ci auguriamo.

7 maggio 2015 | 13:51
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_maggio_07/incendio-aeroporto-aerei-tilt-tutta-colpa-un-frigorifero-6d96c070-f4ae-11e4-83c3-0865d0e5485f.shtml
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« Risposta #229 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:56:16 am »

L’inchiesta

Cinque governi e 33 rapporti: ma la spesa pubblica sale di 107 miliardi
Confartigianato: se l’Italia avesse seguito la media Ue avrebbe risparmiato 23,2 miliardi.
Nel 2015 la riduzione dei tassi sul debito farà però calare la spesa pubblica


Di Sergio Rizzo

«Tesoro: parte la revisione della spesa, nominata commissione di esperti». Titolava così l’agenzia Ansa il 16 marzo del 2007. Governava Romano Prodi con Tommaso Padoa-Schioppa ministro dell’Economia e la «revisione della spesa» era un oggetto così misterioso che la principale agenzia di stampa del Paese aveva fino ad allora pubblicato appena cinque notizie contenenti le parole inglesi spending review. Revisione della spesa, appunto. Ovvero, il procedimento di matrice anglosassone per rendere più efficiente la spesa pubblica ed eliminare gli sprechi. Elementare.

Così elementare che da quel momento l’inondazione non si è più fermata. La formula spending review è stata citata in 9.844 lanci dell’Ansa, a una media di 3,29 citazioni al giorno. In cinque differenti governi si sono alternati 15 fra commissari e consiglieri: con la parentesi dei quattro anni dell’esecutivo di Silvio Berlusconi. Prima il pool di dieci consiglieri incaricati da Padoa-Schioppa. Quindi, nel 2012, Enrico «mani di forbice» Bondi. Poi il ragioniere generale dello Stato Mario Canzi. Per arrivare al ministro Piero Giarda e quindi, con il governo di Enrico Letta, a Carlo Cottarelli. E infine a Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, installati al timone della spending review da Matteo Renzi.

Con un simile spiegamento di parole e di risorse umane, viene da domandarsi, chissà quali risultati saranno stati raggiunti. La risposta è in un dossier dell’Ufficio studi della Confartigianato. Eccola: 33 rapporti scritti, per un totale di 1.174 pagine. Un diluvio di parole. Tutto qui? In sostanza, sì. Ha calcolato l’organizzazione degli artigiani che dal 2007 la spesa pubblica corrente primaria è salita di 107,2 miliardi di euro, con un incremento del 18,1 per cento in sette anni. In parallelo, la spesa per gli investimenti è scesa di 9,2 miliardi, con una flessione superiore al 20 per cento, mentre le entrate hanno registrato un’impennata di 77,2 miliardi. Il che ha confermato all’Italia il primato assoluto continentale nell’aumento della pressione fiscale. Il tutto senza alcun effetto positivo sulla crescita economica, se è vero che nel periodo in esame il Prodotto interno lordo è sceso in termini reali di ben l’8,2 per cento: nell’eurozona nessuno ha fatto peggio di noi.

La spesa pubblica, insomma, continua a restare qui un macigno impossibile da scalfire. Anche se, ricorda il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti, «senza risparmi e maggiore efficienza nell’uso delle risorse pubbliche rischiamo di incappare nelle clausole di salvaguardia imposte dal Patto di stabilità. Non vorremmo essere costretti a riparare sprechi e inefficienze con nuove tasse e imposte». Nel 2015 è previsto che la spesa pubblica si attesti a 827 miliardi e 146 milioni, pari al 50,5% del Pil, con un calo di 0,6 punti rispetto all’anno scorso: ma senza considerare l’impatto della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocca degli adeguamenti pensionistici decretato dal governo Monti. E se un calo modesto si verificherà lo dovremo soprattutto alla riduzione della spesa per gli interessi sul debito, stimati in 69,3 miliardi contro i 75,2 del 2014. Merito della discesa dei tassi e della moneta unica, che ci ha consentito l’unico vero risparmio mai registrato negli ultimi 15 anni. Nonostante l’aumento enorme del debito oggi spendiamo per gli interessi, in termini reali, una trentina di miliardi in meno rispetto al 2001.

E vediamo che cosa hanno fatto, al contrario, gli altri Paesi. Dice il dossier Confartigianato che fra il 2010, quando cioè è iniziato l’aggiustamento dei bilanci pubblici conseguente alla grande crisi dei debiti sovrani, e il 2015, la spesa pubblica primaria dell’eurozona è rimasta pressoché stabile, con un incremento di appena lo 0,1 per cento. In Germania, per esempio, si taglia dell’1%. Mentre in Italia la spesa corrente sale dell’1,5%. Il confronto porta alla conclusione che se avessimo seguito non l’andamento della più virtuosa Germania, bensì quello della media della zona euro, oggi spenderemmo 23,2 miliardi di euro in meno. E non è tutto. Perché un paragone fra la spesa pubblica italiana e quella degli otto principali Paesi della moneta unica aveva indotto gli esperti coordinati dall’ex commissario Cottarelli a prevedere una possibile correzione strutturale valutabile in 42,8 miliardi.

Ma tant’è. Cottarelli predicava nel deserto. Il fatto è che alcune voci del bilancio pubblico, lui l’aveva detto, crescono in modo inarrestabile. Come le pensioni, per effetto dell’invecchiamento della popolazione: e questo è forse comprensibile. Assai di meno, invece, è l’esplosione dei trattamenti di invalidità civile, nonostante l’emergere sempre più frequente di scandali e abusi e l’intensificazione dei controlli. Fra il 2003 e il 2013 il loro numero è aumentato da un milione 834.208 a 2 milioni 781.621: +51,7%. Quasi un milione di invalidi civili in più in soli dieci anni. E per un costo annuale lievitato di 6 miliardi 836 milioni rispetto al 2003. Non solo spendaccioni e improduttivi, dunque. Siamo anche il Paese degli invalidi: c’è un invalido civile ogni 21 abitanti, neonati e bambini compresi. E questo forse dice tutto del perché in Italia spending review sia soltanto un termine inglese molto in voga negli ambienti giornalistici.

18 maggio 2015 | 10:41
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_18/cinque-governi-33-rapporti-ma-spesa-pubblica-sale-107-miliardi-d52704f6-fd38-11e4-b490-15c8b7164398.shtml
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« Risposta #230 inserito:: Maggio 25, 2015, 11:18:28 am »

I privilegi insostenibili
Pensioni, un guazzabuglio imprigiona il Paese
L’Italia spende per la previdenza più di ogni altra nazione avanzata.
Non solo: lo fa male, perché le categorie forti si sono fatte regole più vantaggiose degli altri

Di Sergio Rizzo

Dice l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli che l’Italia spende per la previdenza il 16,5 per cento del Prodotto interno lordo, record continentale assoluto. L’Ocse calcola invece che sia pari al 14 per cento, ma contro una media dei Paesi industrializzati del 7,2. Si tratta di stime contestate da molti esperti, nonché dai sindacati, con la motivazione che nel calderone figurano voci diverse dalle pensioni. Tenendo conto di ciò, è la tesi, si avrebbe un risultato in linea con il dato medio europeo: ogni allarme è quindi infondato.

Resta però un fatto. Fra il 2001 e il 2011, prima del blocco degli adeguamenti all’inflazione decretato da Monti e bocciato dalla Corte costituzionale, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita in termini reali di circa 62 miliardi di euro: di questi, ben 57 miliardi per il solo capitolo «Protezione sociale», rappresentato per la stragrande maggioranza proprio dalle pensioni. Sono dati della Ragioneria, facilmente verificabili. Dai quali si desume che quel capitolo rappresentava, nel 2011, oltre il 40 per cento della spesa pubblica complessiva.

Che si spenda tanto e sempre di più, dunque, è accertato. Peggio ancora, però, spendiamo male. Anzi, malissimo. Per questo la cosa peggiore che la classe politica potrebbe fare oggi sarebbe quella di limitarsi a tappare i buchi aperti nel bilancio pubblico dalla sentenza della Consulta, senza coglierne il messaggio profondo. Cioè che un sistema così pieno di assurde disparità e folli contraddizioni alla lunga non potrà reggere.

Lo sosteneva già nel 1997 un ben più giovane Stefano Fassina allora impegnato nella battaglia «meno ai padri, più ai figli» di blairiana (e anche dalemiana) memoria: «Il problema principale è smantellare un sistema previdenziale corporativo e iniquo. In Italia ci sono cinquantadue regimi pensionistici diversi, e ciò è dovuto al fatto che le categorie più forti si sono fatte regole migliori rispetto a quelle più deboli».

Una verità illuminante, purtroppo, ancora oggi.
L’elenco di quelle regole, molte abolite dalle varie riforme ma che ancora dispiegheranno i propri effetti per decenni, è sterminato. Ci sono le leggi che hanno garantito le baby pensioni, i trattamenti privilegiati dei militari e l’assegno sociale da subito ai dipendenti pubblici che non

avevano accumulato un minimo di contributi. C’è la legge Mosca che ha regalato migliaia di trattamenti previdenziali a politici e sindacalisti sulla base di semplici dichiarazioni avallate dal partito o dal sindacato. Ecco quindi le regolette che hanno spalancato la strada alle pensioni d’oro dei telefonici, i pareri del consiglio di Stato che l’hanno concessa ai commissari delle authority (alcuni sono consiglieri di Stato), i codicilli che consentono ai dipendenti di Camera e Senato di andare ancora in pensione a 53 anni con assegni superiori allo stipendio, o che hanno rinviato di otto anni l’applicazione della riforma contributiva Dini per i dipendenti della Regione Siciliana... Oppure i prepensionamenti senza soluzione di continuità, grazie a cui abbiamo poligrafici pensionati dall’età di 52 anni mentre i manovali sono costretti a volteggiare sui ponteggi fino a 67.

E poi le furbizie piccole e grandi occultate nelle pieghe delle normative, grazie a cui un avvocato comunale ha potuto riscuotere una pensione tripla rispetto allo stipendio. O i meccanismi curiosi delle casse autonome, ognuna delle quali segue proprie regole, come quella dei giornalisti. Per non parlare della miriade di pensioni bassissime distribuite a pioggia senza un solo contributo versato, come pure degli assegni di invalidità, cresciuti del 52% in dieci anni. Con il risultato che oggi in Italia c’è una pensione di invalidità ogni 21 abitanti.

Su tutto, la politica: vitalizi parlamentari che si possono liberamente cumulare a vitalizi regionali, a vitalizi europei e a pensioni regalate a lor signori dai contribuenti con il meccanismo odioso dei contributi figurativi. Ma guai a toccarli. Subito i beneficiari insorgono a difesa dei presunti diritti acquisiti e dell’autodichia: principio in base al quale la politica decide per sé in totale autonomia e le sue decisioni non sono sindacabili.

Un enorme guazzabuglio nel quale privilegi, clientele e assistenzialismi si mischiano a orribili ingiustizie che riguardano soprattutto i giovani e i precari. Il tutto basato su un principio di fondo: l’assenza per la maggior parte delle pensioni pagate oggi e ancora a lungo nel futuro di qualunque rapporto con i contributi versati. Dice tutto il rapporto presentato da Antonietta Mundo al congresso nazionale degli attuari di due anni fa. Nel 2015 le pensioni contributive sono appena l’1,1% del totale, contro l’86,9% di quelle retributive pure. Ma ancora nel 2050 non raggiungeranno che il 40,4%.

Con la popolazione sempre più anziana, il lavoro sempre più intermittente, e i versamenti contributivi sempre meno ricchi. Renzi ora promette flessibilità. Benissimo. Ma certo non basta. Per quanto possiamo ancora permetterci un sistema simile? Non sarà il caso di studiare, e in fretta, i correttivi necessari? Forse non lo dobbiamo ai nostri figli?

22 maggio 2015 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_22/pensioni-guazzabuglio-imprigiona-paese-cccc8892-004b-11e5-9620-f7b479d580d7.shtml
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« Risposta #231 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:27:19 pm »

Rubati» 236 miliardi al Pil:
Il costo di evasione e corruzione
Il rapporto del centro studi Economia reale di Baldissarri rivela come la lotta agli sprechi in 13 anni avrebbe fatto salire il Pil da un minimo di 128 a un massimo di 141 miliardi

Di Sergio Rizzo

Immaginate un Paese dove il debito pubblico sia al 58,3% di un Pil superiore di qualcosa come 236 miliardi al nostro di oggi. Roba da far schiattare d’invidia tutta la cancelleria tedesca, cominciando da Angela Merkel. Quel Paese sarebbe l’Italia, se solo si fosse fatta una lotta seria a sprechi, corruzione ed evasione fiscale. La stima è nell’ultimo rapporto sull’Italia del centro studi Economia reale dell’economista Mario Baldassarri. Neppure stavolta mancherà chi di fronte a calcoli del genere scrolla le spalle, riesumando il formidabile aforisma di quel Pier Peter impersonato dieci anni orsono dal comico Antonio Albanese: «L’economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti». Ma qui purtroppo c’è davvero poco da ridere.

I numeri, innanzitutto. Baldassarri parte dal presupposto che sprechi e corruzione siano direttamente proporzionali all’andamento della spesa pubblica corrente. E per valutare che cosa sarebbe accaduto dal 2002 al 2014 se si fosse davvero dichiarata la guerra a questa piaga ha fatto due ipotesi, entrambe agganciate a drastici interventi sulla spesa pubblica corrente. La prima, il taglio secco di 45 miliardi, da destinare per 40 miliardi alla riduzione delle tasse (25 di Irap e 15 di Irpef) e per 5 miliardi agli investimenti. La seconda il congelamento della spesa corrente ai livelli del 2002 e l’eliminazione dei 25 miliardi di trasferimenti a fondo perduto.

Le proiezioni sono impressionanti. In tredici anni il Pil sarebbe salito da un minimo di 128 a un massimo di 141 miliardi. I posti di lavoro sarebbero cresciuti fino a un milione e 180 mila posti di lavoro, con un deficit pubblico ridotto fino a 105 miliardi e un debito pubblico ridimensionato di una somma enorme: compresa fra 530 e 840 miliardi.

E la lotta all’evasione, continua la simulazione di Baldassarri, avrebbe fatto il resto. In questo caso l’ipotesi è una sola: controlli incrociati severissimi utilizzando tutte le banche dati disponibili e l’introduzione di meccanismi di deduzione per alimentare il conflitto d’interessi. Il concetto è semplice: se so che posso detrarre dalle tasse il conto dell’idraulico, gli chiederò la fattura e lui pagherà le tasse. Grazie a questo piano d’azione, stima l’economista, sarebbe stato possibile recuperare una decina di miliardi circa per dieci anni consecutivi. Con il risultato che il nostro Pil potrebbe essere ora più alto di 95 miliardi e il debito pubblico più basso di 266.

Fosse andata davvero così, chiosa il documento che viene presentato domani a Roma, l’Italia avrebbe potuto rispettare senza alcuna difficoltà il «famigerato» Fiscal compact e la nostra economia, navigherebbe in acque ben più tranquille: con un Prodotto interno lordo superiore del 17 per cento circa a quello attuale.

Se poi a tutto questo si fosse aggiunta una condizione astrale favorevole, ovvero un euro non così sopravvalutato rispetto al dollaro, ecco che si sarebbero schiuse le porte del paradiso. Secondo il rapporto del centro studi Economia reale il super-euro ci è costato dal 2002 al 2014 ben 168 miliardi di Pil e 403 miliardi di debito pubblico.

Ma purtroppo non è andata così. E Baldassari, che per ben cinque di quegli anni ha avuto una responsabilità diretta, come viceministro dell’Economia del governo di Silvio Berlusconi, non esita a ricordare nel rapporto anche quella fase piena di scelte controverse e titubanze, e poi di contrasti nell’esecutivo, con minacce di dimissioni reciproche mai portate a compimento, sfociati in una pace che non ha portato a nessun cambiamento concreto. Tanto sul piano della lotta agli sprechi e alla corruzione quanto su quello del contrasto vero all’evasione. «Perché non si è mai fatto nei quindici anni passati e non si profila tuttora che qualcuno intenda farlo, almeno per i prossimi cinque anni?», si chiede Baldassarri. «Semplice: è un nodo squisitamente e profondamente politico, o meglio è un nodo di interessi contrapposti. Da un lato ci sono i circa 2 milioni di italiani che in tutti questi anni hanno continuato a prosperare ed accumulare patrimoni illeciti con gli sprechi e le ruberie di spesa pubblica e con l’evasione fiscale. Dall’altro lato ci sono gli altri milioni di italiani che hanno subito e subiscono la crisi e la disoccupazione con prospettive disarmanti per i giovani che scappano sempre più all’estero. Questi ultimi hanno perso tra il 2002 ed il 2014 circa 250 miliardi di Pil, hanno subito il raddoppio della disoccupazione e nonostante le sempre precarie condizioni della nostra finanza pubblica, hanno anche subito pesanti aumenti della tassazione».
Una situazione, conclude il rapporto, destinata a non durare a lungo senza gravi conseguenze. «L’Italia potrà anche galleggiare, ma certamente il Paese continuerà a subire un processo di bradisismo economico e sociale».

5 luglio 2015 | 09:12
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_05/rubati-236-miliardi-pil-costo-evasione-corruzione-777e3cf0-22e2-11e5-85fc-cb21ea68cb1f.shtml
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« Risposta #232 inserito:: Luglio 12, 2015, 06:05:32 pm »

L’editoriale
Le ragioni (smarrite) della Ue

Di Sergio Rizzo

Il diffondersi del timore «che l’euro non sia irreversibile». È questo che dal precipitare della crisi greca teme il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, più che gli effetti sui nostri conti pubblici. «Non irreversibile». È un termine che evoca scenari inquietanti, ben oltre le implicazioni dell’eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica. Perché se l’euro fosse davvero «non irreversibile», potrebbe mai esserlo la stessa Unione Europea?

Per quanto si stenti ancora a prenderne coscienza, c’è questo in ballo nella partita fra Atene, Francoforte e gli altri Paesi dell’eurozona. E la sensazione che si stia giocando con il fuoco sulla pelle dell’Europa è sempre più netta. L’ escalation dei toni con cui Alexis Tsipras prefigura per domenica una scelta senza ritorno, dopo aver rivendicato nei giorni scorsi addirittura il pagamento dei danni della Seconda guerra mondiale, e di rimando il gelo di Berlino spargono un odore sinistro. Lo stesso odore che aveva ammorbato il Continente per secoli e secoli, ed è per non sentirlo più che i padri fondatori avevano fatto nascere la Comunità europea. Decretando che le ragioni per stare insieme in pace sono immensamente più numerose e importanti di quelle che avevano insanguinato fino ad allora l’Europa. Ragioni ora smarrite nell’insorgere degli egoismi nazionali: come quelli di certi Paesi ex comunisti inondati di contributi europei che però sbattono la porta in faccia a un migliaio di rifugiati. Oppure soffocate da regole che rendono l’Europa una camicia di forza insopportabile. O di più, schiacciate da un rigore dei conti pubblici sacrosanto, ma la cui applicazione pratica non prevede il buonsenso. Con il risultato che basterebbe una scintilla per mandare in fumo tutto. Tsipras ci pensa?

L’abisso che sembra adesso dividere dall’Europa anche i più europeisti ha certo molti colpevoli. Il principale però è l’ignoranza. Dalla nascita della Cee sono trascorsi 58 anni, e ben 23 da quando c’è l’Unione. Esiste anche una bandiera: per legge campeggia sulla facciata degli edifici pubblici. Ma quanti cittadini europei sanno che cosa davvero rappresenta?

Prendiamo l’Italia. Non c’è una legge che imponga nelle scuole l’insegnamento della storia e delle istituzioni dell’Unione. Solo due mesi fa il dipartimento delle politiche europee ha firmato con il ministero dell’Istruzione, il Parlamento di Strasburgo e la commissione Ue un «accordo di programma» per istituire «un partenariato strategico allo scopo di garantire nelle scuole italiane l’Educazione civica europea». Bene. Ma l’orizzonte per colmare finalmente la lacuna non è vicino: il governo «spera» nel 2020. D’altra parte, dice Palazzo Chigi, «molti docenti sono digiuni di nozioni basilari sull’Ue e quindi non riescono a inserire unità didattiche ad essa relative nelle loro programmazioni».

Dovremo dunque attendere cinque anni perché i nostri figli (o forse i loro) imparino che cosa sono il Parlamento e la Commissione europea? Ma soprattutto perché è nata l’Unione (mai più guerre in casa nostra!) e qual è la nostra storia? Cinque anni, e il mondo cambia in 5 giorni. Ci fosse stata la volontà di farlo, si sarebbe introdotto da tempo l’insegnamento di Istituzioni e Storia d’Europa. Magari con una delle tante riforme della scuola: utilizzate invece per demolire i programmi e risolvere i problemi dei professori anziché quelli degli studenti.

9 luglio 2015 | 09:22
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_09/ragioni-smarrite-ue-90f702ea-25fb-11e5-9a08-f80f881ecc8e.shtml
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« Risposta #233 inserito:: Luglio 30, 2015, 10:18:12 pm »

Nuova giunta
Il Giubileo per Marino è l’ultima occasione
Marino ha cambiato squadra e forse formula Si tratta di un affiancamento o di un commissariamento?
Dipenderà dalla scelta di Palazzo Chigi sul responsabile della gestione dell’Anno Santo, sempre più imminente

Di Sergio Rizzo

Auguri a Ignazio Marino e al suo nuovo vicesindaco Marco Causi. Altro non si può dire dopo l’annuncio del debutto della nuova giunta comunale di Roma. L’augurio è che si arrivi in fondo ad almeno uno dei propositi che sono stati ripetutamente enunciati in questi due anni: cosa che finora non è riuscita. Ma non solo. I teorici dello stato di perenne belligeranza fra il sindaco di Roma e Matteo Renzi, capaci di cogliere in un movimento delle sopracciglia del premier i cambiamenti del clima fra i due, diranno che l’«affiancamento» assomiglia tanto all’anticamera del «commissariamento». Se addirittura non è un commissariamento mascherato. Fantasie? Si vedrà probabilmente fra qualche giorno, quando si deciderà (a Palazzo Chigi...) come (e chi) avrà la responsabilità di gestire il Giubileo che inizia fra quattro mesi. Certo è che se Silvia Scozzese era arrivata un anno fa con l’incarico di assessore al Bilancio con l’imprimatur dei fedelissimi renziani, anche il suo successore Causi sbarca al Campidoglio con una procedura non troppo dissimile. Vicesindaco, per di più, proposto da Renzi e dal commissario del Pd romano, Matteo Orfini.

Chi conosce bene com’è andata nelle ultime settimane, dal crac dell’Atac allo psicodramma del licenziamento a mezzo conferenza stampa dell’assessore ai Trasporti Guido Improta, fino alle dimissioni di Silvia Scozzese e di tutta la sua squadra, azzarda che forse è l’estrema mossa per evitare l’irreparabile.

Per come si sono messe le cose, non soltanto Marino rischia di vedersi caricare sulle spalle, con un minimo contributo personale di errori e titubanze, colpe non sue, ma lo stesso Partito democratico potrebbe pagare un conto elettorale salatissimo a causa dello stato di degrado in cui versa la Capitale. Se poi dovesse fallire anche il Giubileo (e in Vaticano non si nasconde una sensazione di disagio per il vuoto di decisioni che tuttora aleggia intorno all’evento) la catastrofe sarebbe assicurata. Né far precipitare la situazione, al punto in cui è arrivata, sarebbe stata considerata, nonostante l’impulso, una soluzione accettabile. Tutt’altro.

Meglio cercare di rimettere insieme i cocci, affidandosi a qualcuno che sa dove mettere le mani, e più in fretta possibile, in quel pandemonio dove si scaricano tutte le tensioni e le possibilità di prendere la scossa sono all’ordine del giorno. Chi, allora, se non colui che già ce le ha messe in passato? Anche se la scelta di Causi è destinata inevitabilmente a far discutere. E non potrebbe essere diversamente: anche lui ne è consapevole. Oggi parlamentare democratico, è stato infatti assessore al Bilancio della giunta di Walter Veltroni. La stessa a cui venne imputata nel 2008 dal centrodestra, vincitore delle elezioni con Gianni Alemanno, la responsabilità di un indebitamento della Capitale così imponente da indurre il governo a nominare un commissario per consegnare i conti comunali immacolati al nuovo sindaco. Da allora Causi si è dovuto ripetutamente difendere dalle bordate dell’attuale opposizione. Che d’ora in poi, non stentiamo a crederlo, si faranno sempre più intense. Già vediamo qualcuno pronto a puntare il dito per indicare chi ritorna sul luogo del presunto delitto.

E bordate arriveranno, per Marino, anche da sinistra, e nel suo stesso partito. Il nuovo assessore ai Trasporti Stefano Esposito è l’autore del libro Tav sì, apertamente favorevole alla linea ferroviaria Torino-Lione, contestatissima dalla medesima sinistra, scritto a quattro mani con Paolo Foietta.

La nuova giunta che dovrebbe evitare al Pd un tracollo politico nella Capitale con possibile reazione a catena rischia dunque di trovarsi stretta in una tenaglia micidiale. Non senza strascichi insidiosi. Di che tipo? Tanto Marco Causi quanto Stefano Esposito sono parlamentari. E per quanto nessuna norma impedisca loro di mantenere il seggio, il problema della compatibilità fra l’incarico da onorevole e il governo municipale esiste eccome. Non fosse altro per un problema di impegno, che farebbe crollare verticalmente l’indice di produttività di entrambi, con Causi certamente costretto ad abbandonare il podio della classifica Openpolis, dove oggi è terzo assoluto. Questione che già aveva ripetutamente sollevato critiche da parte della sinistra quando a ricoprire il doppio incarico erano stati gli esponenti della destra, e proprio a Roma. Per esempio Mario Cutrufo, che si trovava in una situazione pressoché identica a quella di Causi essendo vicesindaco e assessore nonché senatore, e Alfredo Antoniozzi, il quale sommava al seggio da europarlamentare il posto da componente della giunta di Gianni Alemanno.

29 luglio 2015 (modifica il 29 luglio 2015 | 09:29)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_29/giubileo-marino-l-ultima-occasione-8e2196ae-35c1-11e5-b050-7dc71ce7db4c.shtml
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« Risposta #234 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:15:16 pm »

La Capitale questione nazionale

Di Sergio Rizzo

Il Comune di Roma ha cambiato nome per legge il 3 ottobre 2010. Oggi, a cinque anni di distanza, sarebbe interessante conoscere il numero di italiani al corrente del fatto che da allora si chiama «Roma capitale», com’è scritto sulle fiancate della auto della polizia municipale, sulle pagine del sito ufficiale del Campidoglio e sui documenti dell’amministrazione comunale romana. Anche se possiamo presumere che quel numero sia piuttosto esiguo.

Il fatto è che non basta cambiare nome a una città perché diventi quello che già è da quasi un secolo e mezzo, ma che nell’immaginario collettivo di moltissimi nostri concittadini non è mai stata: la capitale d’Italia. Al punto da chiedersi se non sia arrivato il momento di far diventare la questione romana una questione nazionale.

Sorge il sospetto che solo per esorcizzare questo sconcertante dato di fatto che rende Roma l’unica capitale-non capitale d’Europa la nostra storia recente sia stata costellata da una sequela di provvedimenti, spesso improbabili. Leggi speciali, riforme costituzionali che garantiscono particolari autonomie alla città, fino al cambiamento del nome. Questa gara non ha mancato di regalarci pagine indimenticabili. Per tutte valga la legge di un solo articolo approvata nel gennaio 2012 dal Consiglio regionale del Lazio, Regione allora governata dal centrodestra. Testuale: «Roma è la capitale d’Italia e sede del governo e dei ministeri». Come se non esistesse una Costituzione che già lo prevede. E forse per ribadire che è l’etichetta a contare più della sostanza, i consiglieri di Roma capitale si fregiano ancora oggi, senza essere assaliti dal dubbio di collocarsi in questo modo almeno sopra le righe, dell’appellativo di «onorevoli» che dovrebbe spettare di regola ai parlamentari. Certo, se guardiamo al passato la mitologia di Roma capitale non ha offerto spunti meno singolari. Basterebbe ricordare che nel 1861 il Parlamento di palazzo Carignano a Torino approvò una mozione che proclamava solennemente Roma capitale del neonato Regno d’Italia. Quando la città, per inciso, era ancora capitale di una nazione straniera, lo Stato della Chiesa di Pio IX. La prima di ben tre proclamazioni, seguita dalla legge di dieci anni dopo e dalla Costituzione del 1948.

Il diluvio secolare di mozioni, norme costituzionali, leggi nazionali e locali non ha però mai cambiato la sua condizione di capitale-non capitale. Non staremo qui a rammentarne le ovvie ragioni storiche. Ma certo a partire dal 1870, e al di là di una retorica fine a se stessa a tratti stucchevole e grottesca, Roma è stata considerata non una capitale, ma soprattutto una città grande, piena di occasioni meravigliose per gli speculatori e ricca di problemi che non potevano, perché non dovevano, essere risolti. Tanto che ancora oggi sono ben lontani dall’esserlo.

Un trattamento analogo le ha riservato anche la politica. E non da ora. Prova ne è che la carica di sindaco della capitale d’Italia non è mai stata particolarmente ambita, al contrario delle altre capitali europee, dalle personalità di maggior livello del panorama politico, qui più interessate ad altri obiettivi istituzionali. Questo, naturalmente, sempre con le dovute (e sparute) eccezioni. Ma quando è avvenuto, è stato frutto più di scelte personali che di considerazioni strategiche.

Si può dire che la politica, con i partiti romani più simili a comitati d’affari che a organizzazioni dedite a rappresentare i cittadini, non si sia affatto adoperata perché i mali di Roma non si radicassero così in profondità. Offrendo anzi in qualche caso un contributo determinante. Nessuno, sia chiaro, può chiamarsi fuori. Non lo può fare la sinistra, che ha governato la città ininterrottamente per tre lustri spesso a briglia sciolta. Non lo può fare la destra, che qui di recente ha avuto il potere per cinque anni, e la città ne porta ancora i segni profondi. Né lo possono fare coloro che in questi anni hanno lucrato consensi con lo slogan di «Roma ladrona», senza riuscire a cambiare il Paese, meno che mai a cambiare Roma.

Le storie di Mafia Capitale (e non è un caso se anche la parola mafia si è guadagnata l’appellativo di capitale...) sono il risultato di tutto questo. Quelle storie offrono un quadro allucinante dell’impasto fra clientele politiche, corruzione, affari privati, interessi torbidi e criminalità, non troppo diverso da quello mirabilmente descritto da Roberto Mazzucco nel romanzo storico I sicari di Trastevere , ambientato nel 1875. Come se nulla in 140 anni fosse cambiato. E nulla potesse mai cambiare. Tanto che in una città nella quale un killer della banda della Magliana ha trovato per decenni sepoltura in una chiesa cristiana prima che la salma venisse rimossa - e soltanto in seguito a furiose polemiche - a distanza di pochi anni si celebra un funerale in stile Padrino per rendere omaggio a un boss defunto dei Castelli. Difficile immaginare una scena del genere a Parigi, Londra, Berlino o Madrid. Così come Parigi, Londra, Berlino o Madrid non hanno avuto bisogno che il loro nome fosse accompagnato dal sostantivo «capitale» per essere riconosciute come luoghi e simboli dell’unità delle rispettive nazioni.

Non sappiamo ora se la decisione di affrontare il Giubileo con un metodo simile a quello seguito per l’Expo sia un segnale. Speriamo. Ma certo il governo di Matteo Renzi farebbe male a non cogliere la gravità della situazione in cui Roma è precipitata. E continuare come i predecessori da cinquant’anni a questa parte a considerare i suoi problemi come problemi dei romani anziché di tutti gli italiani. Mai come adesso, ne siamo convinti, l’emergenza romana dev’essere un’emergenza nazionale.

22 agosto 2015 (modifica il 22 agosto 2015 | 07:23)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_22/roma-capitale-questione-nazionale-editoriale-rizzo-corriere-3205c30a-488a-11e5-adbb-a52649bc660c.shtml
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« Risposta #235 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:08:56 am »

Quella leggina che concede soldi pubblici ai partiti (senza controlli)

Di Sergio Rizzo

Non è una cosa seria. E viene il sospetto che non lo sia mai stata fin dall’inizio. Da quando tre anni fa, sull’onda dell’indignazione popolare, il Parlamento approvò una legge che dimezzava i rimborsi elettorali, doppiata un anno dopo da un provvedimento che ci è stato venduto come «l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti». La prova che non è una cosa seria è nella leggina maleodorante che consentirà il versamento dei soldi pubblici spettanti per il 2013 e il 2014 pur in mancanza del visto di conformità della commissione incaricata di verificare i rendiconti. Prima i partiti approvano in Parlamento una legge che mette nelle mani dei magistrati il potere di controllare i loro bilanci per poter incassare i denari. Poi però si scopre che la commissione di quei magistrati non ha il personale sufficiente per esaminare le carte, le fatture e gli scontrini fiscali. E il bello è che non si scopre tre giorni o tre settimane più tardi, ma tre anni dopo! Sembra uno scherzo. Quando poi il presidente lo denuncia, spunta addirittura una proposta di legge: una legge del Parlamento per affiancare ai magistrati una decina di impiegati! In soli tre mesi, però, da giugno a oggi, non se ne viene fuori. Allora ecco l’inevitabile sanatoria. Un classico dell’orrore, che sembra studiato a tavolino: si approva una legge sapendo già in partenza che non sarà applicata. E poco importa se questo fiaccherà ancora di più la fiducia degli italiani, già al lumicino, nei politici. Purtroppo anche in quelli onesti e capaci, e per fortuna ce ne sono, che saranno purtroppo gli unici a farne davvero le spese. Ci permettiamo soltanto di dare un consiglio a Lor Signori: quando l’affluenza alle urne crollerà di nuovo e i sondaggi diranno che i cittadini non ne possono più di questi partiti, perché andando avanti di questo passo fatalmente accadrà, non date colpa a ciò che chiamate antipolitica. Perché l’antipolitica siete voi.

10 settembre 2015 (modifica il 10 settembre 2015 | 13:49)
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_10/altro-colpo-poca-fiducia-forze-politiche-512a6f72-5782-11e5-b3ee-d3a21f4c8bbb.shtml
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« Risposta #236 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:10:32 pm »

Pensioni
Politici e vitalizi, l’ipotesi di una sforbiciata da 100 milioni
A 2 mila di loro assegni ribassati del 50%: così si dovrebbe ridurre il divario fra il vecchio metodo di calcolo retributivo e il nuovo sistema contributivo

Di Sergio Rizzo

C he si tratti solo di un’idea, o che la cosa sia destinata ad assumere la forma di un nuovo piano per le pensioni in vista delle legge di Stabilità pare essere un dilemma ancora da sciogliere. Ma di sicuro all’Inps i calcoli si stanno facendo, eccome, per vedere come si possa introdurre il principio dell’«equità attuariale». Principio sacrosanto, che dovrebbe ridurre il divario attualmente esistente fra il vecchio metodo di calcolo retributivo, cioè basato soltanto sullo stipendio percepito dal lavoratore, e il nuovo sistema contributivo: quello cioè che tiene conto esclusivamente dei contributi versati. E se è fin troppo facile prevedere che il presidente dell’istituto di previdenza Tito Boeri non sia allergico all’ipotesi di dare una sforbiciatina alle pensioni retributive d’oro, eventualità del resto alla quale aveva pensato anche l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, in questo schema non manca a quanto pare una sorpresa anche per i vitalizi dei politici. E che sorpresa.

L’ipotesi è di intervenire con il ricalcolo attuariale sui vitalizi di ex parlamentari ed ex consiglieri regionali di importo superiore ai 63.700 euro lordi annui, circa 5.300 euro mensili. Le persone coinvolte sarebbero 2 mila e i loro assegni, secondo le stime, potrebbero subire tagli molto consistenti. Dell’ordine del 49-50 per cento. Con un risparmio certo modesto, in confronto alle esigenze del bilancio statale, ma niente affatto trascurabile considerando il piccolo universo che verrebbe interessato: un centinaio di milioni. Ciò significa che l’esborso pubblico per i vitalizi parlamentari e regionali, oggi pari a 400 milioni, si ridurrebbe di un quarto.

Si tratterebbe di una iniziativa senza precedenti. Non soltanto per la caratura dei personaggi interessati dalla misura. Nell’elenco dei vitalizi pubblicata tempo fa da Primo Di Nicola sull’Espresso il club degli over 5.000 euro netti comprende nomi come quello di Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Luciano Violante, Carlo Vizzini, Walter Veltroni, Achille Occhetto, Beppe Pisanu... e tanti altri. Il fatto è che mai il governo è intervenuto con una propria proposta su una materia di competenze esclusiva del parlamento, dove vige ancora la rigida (e anacronistica) regola dell’autodichìa. Ma adesso le condizioni potrebbero essere diverse, soprattutto se il taglio dei vitalizi rientrasse nell’alveo di un intervento più generale sulle pensioni retributive ricche: le quali, ovviamente, subirebbero decurtazioni per nulla rapportabili a quelle assai rilevanti degli ex onorevoli. I quali, oltre a beneficiare di trattamenti senza alcuna proporzione con i versamenti, avevano anche in molti casi il privilegio di non dover rispettare requisiti anagrafici.

Da tempo i vitalizi sono nel mirino dell’opinione pubblica, al punto che i consigli regionali sono stati indotti ad abolirli partendo da questa legislatura. Mentre a Montecitorio e palazzo Madama sono stati sostituiti con decorrenza 2012 da trattamenti contributivi, per quanto ancora più favorevoli rispetto a quelli dei comuni mortali. Tuttavia per i vitalizi del passato nulla o quasi era stato fatto, nonostante lo squilibrio enorme con le normali pensioni. Le regole perverse hanno consentito per esempio fino a pochi anni fa di ritirare l’assegno senza limiti di età, e di fatto senza limiti minimi di mandato. In alcune regioni, poi, quei criteri assurdi sono rimasti in vigore. Nel 2013 ha fatto scalpore che l’ex presidente del consiglio regionale della Sardegna Claudia Lombardo abbia cominciato a riscuotere a soli 41 anni di età un vitalizio superiore ai 5 mila euro mensili netti. Mentre nel Lazio, dove la base per il calcolo del vitalizio comprendeva anche la diaria (cioè le spese per il ristorante e l’albergo!), ancora pochi mesi fa c’era chi poteva incassare a 50 anni 2.167 euro netti al mese per aver passato appena tre anni da consigliere. Per non parlare delle possibilità di cumulo. Chi aveva fatto il parlamentare e il consigliere regionale portava a casa due vitalizi. E magari anche il terzo, del parlamento europeo. In più, la pensione ordinaria regalata: per gli eletti è infatti previsto che l’ente di previdenza provveda ad accreditare virtualmente i contributi di spettanza del datore di lavoro.

Il taglio dei vitalizi per legge è forse l’unica strada percorribile. Ma certo non si presenta in discesa. Già vediamo il diluvio di ricorsi per aver lo Stato leso i diritti acquisiti, come accaduto già in alcune regioni. Il Lazio, per dirne una, aveva stabilito un ridimensionamento del 17 per cento e in più di settanta ex consiglieri si sono rivolti al Tar. Che ha bocciato il loro ricorso. Non domi, hanno minacciato di rivolgersi alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Quella che condanna la tortura, pensate...

6 ottobre 2015 (modifica il 6 ottobre 2015 | 08:00)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_06/parlamentari-vitalizi-l-ipotesi-una-sforbiciata-100-milioni-682a679c-6be9-11e5-bbf5-2aef67553e86.shtml
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« Risposta #237 inserito:: Novembre 02, 2015, 08:39:31 pm »

L’esito finale di scelte pasticciate
Roma e il caso Marino, dalle primarie al notaio: fallimento da non ripetere

Di Sergio Rizzo

A Roma la festa della democrazia, perché tale è l’elezione di un sindaco scelto con il libero voto, finisce dunque nel peggiore dei modi. Ovvero, davanti al notaio incaricato di registrare le dimissioni dei consiglieri: l’epilogo meno democratico possibile.

Ignazio Marino esce di scena accompagnato da uno strascico velenoso di scontrini ma senza altra colpa se non quella grave di non avere forse avuto il fisico adatto e i nervi saldi per governare la città più ingovernabile del Paese. Marino esce di scena, in più, con il paradosso che al suo posto arriva il prefetto di Milano, città che al contrario di Roma secondo Raffaele Cantone ha gli anticorpi contro la corruzione. Decisione che pare simbolicamente sovrapporre il successo dell’Expo al rischio di insuccesso del Giubileo.

Questo esito avvilente per la stessa democrazia ha un punto di partenza preciso: le primarie del Pd. Lo strumento che dovrebbe garantire agli elettori il diritto a scegliere è servito invece spesso a coprire ipocritamente operazioni di bieco potere interno.

Anche lo sbarco di Marino a Roma va ascritto a questo meccanismo. «Il primo sindaco di Roma libero dai partiti», come egli stesso si è definito, non è affatto un marziano. Si aggancia al Pd attraverso un politico non esattamente di primo pelo come Massimo D’Alema. Da parlamentare si candida addirittura alla segreteria del partito. Sconfitto, scende in lizza per diventare sindaco della capitale. Alle primarie, assente il favorito Nicola Zingaretti ormai governatore della Regione Lazio, lui sbaraglia tanto David Sassoli quanto Paolo Gentiloni: certo non grazie alle sue radici genovesi ma a una delle volpi più scafate della vecchia politica romana. Goffredo Bettini gli confeziona la vittoria. Il che non scoraggia Marino dall’utilizzo in campagna elettorale di slogan populisti come «Non è politica, è Roma».

Il suo sponsor poi lo scaricherà prontamente dopo i primi infortuni, a conferma ulteriore che questa vicenda celebra il fallimento definitivo delle primarie made in Pd. Avendone preso atto, a un partito serio non resterebbe che assumersi la responsabilità di scegliere la persona giusta senza foglie di fico per mascherare manovre di corridoio. Nel rispetto, se non altro, degli elettori.

31 ottobre 2015 (modifica il 31 ottobre 2015 | 07:25)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_31/roma-primarie-notaio-pd-marino-sindaco-889ab196-7f97-11e5-8b57-f1b8d18d1f0e.shtml
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« Risposta #238 inserito:: Novembre 04, 2015, 06:23:58 pm »

Il dossier
I trasporti campani e il Casinò
Tutti gli sprechi Regione per Regione
La spesa sanitaria gestita dalle regioni italiane ha registrato nei primi dieci anni di questo secolo una crescita forsennata, in rapporto al crollo della ricchezza nazionale
Di Sergio Rizzo

Fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino non sappiamo chi riderà di più. Una cosa però è certa: il divertimento sarà assicurato. Le Regioni lamentano di essere da anni sotto pressione, così da rischiare, denuncia il dimissionario presidente della loro Conferenza, la stessa sopravvivenza. I tagli, affermano, sono insostenibili al punto che in certi casi non sarebbe possibile garantire servizi sanitari essenziali. Roba da far venire i brividi. La verità è che dal 2010, anno in cui la spesa per la sanità aveva toccato il tetto di 117,2 miliardi, nel 2016 lo stanziamento pubblico si fermerà a quota 111. Meno 5,3%: calo che però in termini reali, tenendo conto dell’inflazione, arriva all’11,6%.

Raccontato così, i brividi vengono eccome. Ma la prospettiva cambia decisamente se allarghiamo l’orizzonte temporale del confronto. Nel 2000 la spesa si attestò a 71,2 miliardi: il che significa che nel 2016 il costo reale per il mantenimento del sistema sanitario risulterà del 18,8 per cento superiore a quello di una quindicina d’anni prima. Quando l’età media della popolazione era di sicuro inferiore, ma probabilmente non lo era la qualità del servizio, che del resto disponeva di un numero di posti letto ben maggiore.

Il fatto è che la spesa sanitaria gestita dalle regioni ha registrato nei primi dieci anni di questo secolo una crescita forsennata, non soltanto al confronto di un’inflazione inferiore di quasi 19 punti, ma soprattutto del crollo della ricchezza nazionale. Il Fondo monetario stima per il prodotto interno lordo pro capite reale un calo del 6,1% fra il 2000 e il 2016, con un gap di quindi ben 25 punti rispetto alla dinamica dei costi della sanità. Sappiamo che le statistiche internazionali non considerano il dato italiano fuori linea rispetto alla media dell’Unione europea. Ma questi numeri non fanno sospettare se non altro sprechi e inefficienze, e non sono forse sufficienti per una riflessione seria, soprattutto considerando come in Italia esistano venti sanità con differenze abissali?

Per non parlare poi di altre voci della spesa regionale. Tornato alla sua prima vita di professore universitario a Bologna, l’ex deputato del Pd Salvatore Vassallo si è messo a lavorare a un libro bianco sulla governance delle regioni. Lo ha fatto partendo da uno degli enti territoriali considerati in assoluto più efficienti, l’Emilia Romagna. E nonostante questo il lavoro del suo staff ha fatto emergere una serie di «patologie burocratiche». Per esempio la gestione della dotazione informatica, delle sedi (in alcune realtà numerosissime e costosissime) e delle società partecipate: sulle quali aveva acceso invano un riflettore anche l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Inutile aggiungere, come fa Vassallo, che certe patologie possono tranquillamente essere estese, in modo maggiore o minore, a tutte le altre Regioni.

Alle società partecipate la Corte dei conti ha dedicato nello scorso mese di luglio un lungo e dettagliato rapporto, ricordando che recentemente le sezioni locali hanno formulato pressoché dappertutto una serie impressionante di rilievi alla loro gestione. Si va dalle perdite, in alcuni casi rilevantissime come nella Regione Campania, dove la gestione delle società di trasporto pubblico si è rivelata un bagno di sangue con un buco di 100 milioni nel solo 2010. Per arrivare a «carenze nell’esercizio delle verifiche». Fino all’aumento dell’indebitamento regionale finalizzato a tappare i buchi delle società. E qui saltano fuori casi spettacolari, come quello della ricapitalizzazione del Casinò de la Vallée di Saint Vincent costata alla Regione Valle D’Aosta una cinquantina di milioni: 390 euro per ogni valdostano. A dimostrazione del contributo formidabile che può arrivare dalle partecipate, la cui utilità è spesso assai discutibile, al rigonfiamento dei bilanci regionali. Dove il grasso, a dispetto delle grida di dolore che si levano davanti a ogni taglietto, non manca certo.

Qualche mese fa la Confcommercio ha deciso di calcolare quanto ci costano le inefficienze nella gestione di quegli enti territoriali partendo dal presupposto che tutte le Regioni funzionassero come la Lombardia. Ne è scaturito un conto stellare di 82,3 miliardi, dei quali oltre metà (42 miliardi) attribuibili a sole quattro regioni: nell’ordine, Sicilia (13,8), Lazio (11,1), Campania (10,7) e Calabria (6,4). E il bello è che fra le inefficienze non sono nemmeno comprese quelle che per giunta ci fanno perdere un sacco di soldi europei. Al 31 maggio del 2015, secondo il sito Opencoesione, avevamo speso 34,3 miliardi degli importi disponibili per i programmi 2007-2013: nemmeno il 74 per cento del totale. E se per 23 di quei programmi il livello previsto era stato oltrepassato, per altri 22 non si era raggiunto nemmeno il minimo sindacale nell’impiego delle risorse.

4 novembre 2015 (modifica il 4 novembre 2015 | 10:07)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_novembre_04/tutti-sprechi-regione-regione-trasporti-campani-casino-de-vallee-9fa7a286-82d0-11e5-a218-19a04df8a451.shtml
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« Risposta #239 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:31:29 pm »

Il corsivo del giorno
Il sindacato vince i ricordi e fa perdere la fiducia
Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole

Di Sergio Rizzo

Si potrebbe tirare in ballo anche in questo caso la facilità con cui in Italia i Tribunali del Lavoro danno sempre ragione ai dipendenti. E di sicuro la storia raccontata da Ernesto Menicucci sul Corriere di giovedì scorso ne offrirebbe una facile occasione. Accade infatti che il suddetto Tribunale annulli il sacrosanto obbligo alla rotazione delle zone di competenza imposto ai vigili urbani di Roma dall’ex sindaco Ignazio Marino. Obbligo, peraltro, al quale si era arrivati anche in seguito a un pronunciamento dell’autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone.

La ragione della rotazione è intuitiva: un vigile che presta servizio per troppo tempo nello stesso territorio può essere più facilmente indotto in tentazione. Si tratta dunque di una misura tesa non solo a ostacolare la corruzione spicciola ma anche a tutelare l’onorabilità degli stessi vigili urbani, preservando i valori etici. La cosa però non è piaciuta ai sindacati. I quali, non potendo per evidenti ragioni eccepire nel merito, si sono appigliati alla forma. E il giudice ha dato loro ragione condannando il Comune per «comportamento antisindacale»: non aveva informato il sindacato prima di approvare il Piano anticorruzione nel quale era prevista la rotazione dei vigili, ma soltanto il giorno dopo. Non fa una grinza.

Così ora si può festeggiare: per le vecchie e rassicuranti rendite di posizione il pericolo è cessato. Complimenti dunque al Tribunale. Ma complimenti anche a chi al Comune ha alzato il pallonetto ai sindacati, non rispettando per filo e per segno le procedure: un comportamento tanto maldestro da far pensare a una mossa studiata. Soprattutto, però, complimenti alla Uil che ha promosso il ricorso. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole.

21 novembre 2015 (modifica il 21 novembre 2015 | 09:33)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_novembre_21/sindacato-vince-ricordi-fa-perdere-fiducia-738c9326-9029-11e5-ac55-c4604cf0fb92.shtml
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