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Autore Discussione: GIOVANNI DE LUNA - Il tempo perduto e il peso del passato  (Letto 3776 volte)
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« inserito:: Dicembre 31, 2007, 05:20:12 pm »

31/12/2007
 
Il tempo perduto e il peso del passato
 
GIOVANNI DE LUNA

 
Arriva un 2008 carico di anniversari. Sarà come sfogliare una grande «agenda del Novecento», partendo dal 1918 della Prima guerra mondiale, per poi ricordare il 1938 delle leggi razziali, il 1948 dell’attentato a Togliatti (della Costituzione e del 18 aprile), il 1958 della morte di Pio XII ( ma anche della legge Merlin), il 1968, il 1978 del rapimento di Aldo Moro e così via. Certo che c’è qualcosa di malato nella logica degli anniversari. È come se il calendario si prendesse la rivincita sugli storici, obbligandoli a ragionare per date e per eventi, in un tempo senza spessore. E a quella stessa logica obbedisce la scelta di schiacciare gli anniversari nella morsa della celebrazione o dell’esecrazione.

Vanno in questo senso le avvisaglie di quello che sarà il dibattito sul ‘68. Da un lato un grottesco processo a una generazione di scansafatiche che ha prodotto guasti senza pagare nessun prezzo e anzi costruendo molte carriere di successo; dall’altro il ricordo compiaciuto di anni «formidabili», un tumultuoso affollarsi di memorie dei protagonisti incapaci di sottrarsi al fascino di un passato che «non passa». E se provassimo ad ancorare gli anniversari solo alle ragioni della ricerca storica? Prendiamo proprio il ‘68. Fu un fenomeno planetario che dagli Stati Uniti all'Europa si sviluppò con idee e strumenti comuni, con gli stessi slogan, la stessa spontaneità, le stesse letture, le stesse canzoni, gli stessi film. Il sasso lanciato a Berkeley nel 1964 diventò una valanga. In California tutto iniziò quando le autorità del campus limitarono l’attività politica degli studenti. Poi, alle rivendicazioni universitarie si affiancarono la ribellione contro le segregazione razziale, la guerra del Vietnam, la fame nel mondo e la rivolta diventò una critica generale alla società Usa.

Fu così negli altri paesi del capitalismo maturo, in Italia, in Germania, in Francia dove il movimento sembrò sfiorare la conquista del potere. Ma fu così anche nella Spagna di Franco, nei paesi comunisti (Polonia e Cecoslovacchia) e nella Jugoslavia di Tito, nel Brasile della dittatura militare e nell’opulento Giappone. Tutto questo aspetta ancora una spiegazione soddisfacente. Perché proprio allora? Perché in tutto il mondo? In questo senso c’è da augurarsi che l’«anniversario» (per il ‘68 come per le altre date dell’«agenda» del 2008) sia l’occasione per avviare risposte soddisfacenti a queste domande, alimentando più le ragioni della conoscenza storica che quelle dei fogli dei calendari

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 31, 2007, 05:30:58 pm »

31/12/2007 - VERSO IL 2008
 
Voglia di futuro
 
MASSIMO GRAMELLINI

 
Per una di quelle ironie in cui la storia è maestra, l'ingresso nel Duemila e l'allungamento della vita hanno estirpato, almeno in questa fetta di mappamondo, il desiderio di futuro. Gli individui, le famiglie, le aziende e gli Stati pattinano su un eterno presente, attraversato da torcicolli nostalgici per un passato ingigantito dai ricordi e un avvenire che si pone come orizzonte estremo la fine del mese.

L'idea che un raccolto copioso abbia bisogno di semine lunghe e un progetto ambizioso di investimenti non immediatamente remunerativi sembra essere diventata il ghiribizzo di qualche sognatore, mentre per millenni è stato il propellente del progresso. Questa superficialità isterica ci ha ridotti allo stremo: depressi, infelici, colmi di rabbia senza orgoglio, in crisi di identità, poveri dentro e ormai pure fuori. Prima che un verdetto economico, il declino occidentale è anzitutto un'atrofia del cuore e della mente, incapaci di progettare il mondo che non abiteranno solo i nostri figli ma anche noi, la generazione più longeva dell'avventura umana. L'anno che verrà può rappresentare il punto di rottura, quindi di svolta. Ed è un'altra ironia della storia che esso coincida con il quarantennale dell'ultima utopia di massa: il Sessantotto. Quel desiderio di portare l'immaginazione al potere da parte di chi al potere ha poi finito per portarvi soprattutto l'immagine: la propria.

L'immaginazione ci serve adesso. Per progettare nuove forme di convivenza, rilucidare valori etici, studiare strategie economiche che tengano conto del cambiamento vorticoso introdotto dall'irruzione di oltre un miliardo e mezzo di indiani e cinesi nel cortile del consumismo. C'è un bisogno gigantesco di futuro, da queste parti. E poiché ogni bisogno, prima o poi, genera una voglia, il miglior augurio che possiamo farci per il 2008, come singoli e come comunità, è che sia l'anno giusto per ricominciare a sfidare la vita con l'animo dei pionieri. Consapevoli che dietro ogni porta che si chiude ce n'è sempre un'altra che si apre. Basta volerla cercare.


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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 12, 2018, 06:54:45 pm »

Il tricolore non appartiene ai razzisti

Pubblicato il 05/02/2018

GIOVANNI DE LUNA

Quello che è successo a Macerata era nell’aria da tempo. Ma nessuno avrebbe potuto immaginarne una portata simbolica così dirompente. Il saluto romano, il tatuaggio nazista, il monumento ai caduti, il tricolore: una scenografia studiata per rileggere tutta la nostra storia nazionale all’insegna del fascismo mussoliniano e indicare nel razzismo e nella violenza i valori di fondo della nostra comunità. Quel tricolore indossato come un mantello a coprire i risvolti più tremendi di un gesto disgustoso suona come una chiamata alle armi, quasi che su quella bandiera ci fosse ancora lo stemma sabaudo o il fascio di Salò. 

Non è così. Però è inquietante che il nostro Paese veda riaffiorare quei simboli in un contesto di violenza dichiaratamente politica e proprio nel momento in cui la convivenza con i migranti sta diventando un nodo aggrovigliato. 

Un nodo che Salvini e tutta una parte politica cercano di sciogliere proponendo agli italiani di rispecchiarsi in “un’autobiografia della nazione” segnata dall’odio xenofobo e dall’intolleranza razziale. Oggi ce ne accorgiamo: non eravamo pronti né culturalmente né politicamente a misurarci con religioni, tradizioni, abitudini diverse dalle nostre e che hanno investito in modo massiccio i luoghi della nostra quotidianità.

Come suggeriva Bobbio, già agli inizi degli Anni 90, se l’etnocentrismo è infatti una sorta di «predisposizione mentale e culturale», è solo dal «contatto materiale», dalla convivenza negli stessi spazi pubblici e privati che nasce la pulsione della xenofobia, il desiderio di cacciare l’«Altro» fuori da casa propria. Sulla constatazione puramente fattuale della diversità che esiste fra uomo e uomo, si sovrappone un giudizio di valore per cui uno è buono l’altro cattivo, uno è superiore l’altro inferiore, in un percorso che si sviluppa attraverso la segregazione, poi con il rifiuto di ogni forma di comunicazione o contatto, la discriminazione, per arrivare al dileggio verbale, all’aggressione e alla violenza. I fascisti di oggi prosperano sfruttando il pregiudizio (il «credere senza sapere»), che non solo provoca opinioni erronee, ma è difficilmente vincibile perché l’errore che esso determina deriva da una credenza falsa e non da un ragionamento errato o un dato falso che tali possono essere dimostrati empiricamente. 

 In questo senso, sul piano culturale l’unico antidoto appare la conoscenza, la capacità cioè, di restare ancorati alla prova dei fatti, di rifiutare le scorciatoie offerte dal pregiudizio e dal senso comune, di relazionarsi con un «Altro» che non sia inventato o virtuale. 

Sul piano politico la strada è indicata invece proprio da quel tricolore vergognosamente indossato dall’attentatore. Quella è la bandiera della Repubblica nata dalla Resistenza. E’ il simbolo di una «religione civile» che propone un insieme di principi in grado di recintare uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un Paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali gli italiani sono sollecitati ad abbandonare le nicchie individualistiche racchiuse nel terribile slogan «ognuno è padrone a casa propria». Questa religione civile trova il suo fondamento in una Costituzione che propone un’autobiografia della nazione radicalmente diversa da quella fascista. Lo spazio pubblico della cittadinanza che vi è disegnato suggerisce che nel diventare cives gli individui accettino dei vincoli e si riconoscano in uno Stato legittimato anche da un insieme di narrazioni storiche, figure esemplari, occasioni celebrative, riti di memoria, miti, simboli che riescono a radicare le istituzioni non solo nella società, ma anche nelle menti e nei cuori dei singoli cittadini. In queste narrazioni c’è il Risorgimento, c’è la Resistenza; non c’è il fascismo. 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/05/cultura/opinioni/editoriali/il-tricolore-non-appartiene-ai-razzisti-a5zcb7asgaBuxE77y9DOhL/pagina.html
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