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Autore Discussione: FRANCESCO RIGATELLI - Il mea culpa di Fidel  (Letto 2439 volte)
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« inserito:: Dicembre 31, 2007, 10:45:58 am »

31/12/2007 (8:10) - IL CASO

Il mea culpa di Fidel
 
"E' da giovani e sciocchi aggrapparsi al potere". Andreotti: ma io lo assolvo

FRANCESCO RIGATELLI


Gioventù anagrafica o spirituale. Potere per fare o potere per il potere. A Cuba come in Italia, nel 1968 e quasi nel 2008: questi son temi eterni. E non a caso è l’imperituro Fidel Castro, 81 anni di vita e 48 di dittatura sull'isola di Cuba, a tirarli fuori in una lettera di fine anno al suo Parlamento: «La giovinezza - ha scritto il Líder máximo - e la mancanza di coscienza mi hanno spinto ad attaccarmi al potere, ma questa epoca è finita». Una frase paradossale da parte di un uomo dalla salute incerta, che non appare in pubblico dal luglio 2006 ma lascia filtrare notizie su una sua ricandidatura, mentre è il giovane fratello Raul, appena 76 anni, a governare l'esecutivo da quasi un anno e mezzo. E una dichiarazione che fa il paio con quella secondo cui, in un futuro imprecisato, egli si limiterà a «portare esperienze ed idee» alle nuove generazioni, non avendo intenzione, appunto, di «aggrapparsi al potere».

Premettendo che «Dio conservi Castro a lungo, perché la successione a un regime nato dalla corruzione non è facile», Giulio Andreotti vede la soluzione ideale in «una sintesi tra la situazione precedente a Fidel e ciò che lui ha fatto di positivo», mentre su gioventù e potere contestualizza la situazione: «Io avevo di fronte il comunismo europeo, lui si trovava il regime di Batista: non gli fu facile prendere il potere. Certo, l'età deve aver influito nelle sue scelte, ma ciò che conta è come nasce la passione politica. Per questo ho sempre avuto un occhio benevolo per lui e, quando ci conoscemmo, mi diede molte ragioni perché avevo studiato alla scuola pubblica, mentre lui dai Gesuiti».

Molto «sorpreso» dell'uscita di Castro rimane invece Pietro Ingrao: «A Cuba mancano i diritti fondamentali degli esseri umani e la vicenda non è restringibile a singoli eccessi giovanili: c'è stato un moto di liberazione reale, ma poi è rimasto solo un regime totalitario. Non riesco a legare la gioventù e la vita di Castro ad un ideale e ad una pratica comunista. Spero i giovani si ispirino ad altri esempi per prendere il potere: Gramsci è molto meglio di Fidel. E mi dispiace che nel mio campo ci siano stati tanti errori di valutazione nei confronti di quest’ultimo, anche da parte dell'Unione Sovietica».

E che ne è della generazione che in Italia ha provato a fare la rivoluzione? Per Massimo Fini, giornalista, «da giovani si coltivano delle illusioni. Ma nel 1968 i leader del movimento non volevano la rivoluzione, ma entrare in pompa magna nel sistema che criticavano. A parte l'eccezione positiva di Mario Capanna, tutti gli altri erano in malafede fin dall'inizio. Nel mio ultimo libro, “Ragazzo. Storia di una vecchiaia”, spiego invece come il vecchio sia attaccato al potere perché questo diventa la sua unica ragione di vita: da giovane ci sono sentimenti e avventura a distrarti. Invece Pertini a 90 anni voleva essere rieletto. E Berlusconi vuole le elezioni subito per vincerle! Anche Castro è un caso simile. E se non lo si mantiene in prima persona, il potere, lo si affida alle mogli, come per Clinton».

Edmondo Berselli, che ha appena scritto «Adulti con riserva. Com'era allegra l'Italia prima del '68», pensa a differenza di Fini che per chi era giovane 40 anni fa «il potere era inscindibilmente legato alla rivoluzione, il che era eccitante, ma pure un fraintendimento: si è gridato allo Stato borghese che si abbatte e non si cambia. Quando in realtà il problema era far funzionare ospedali, scuole, trasporti, mercato. C'era un'impazienza legata ad una cultura sommaria che ha fatto perdere tempo rispetto alle necessità del Paese». Barbara Palombelli ha toccato qualche anno fa questi temi da un punto di vista più intimo nel libro «Diario di una mamma giornalista»: «Mettere i pantaloni, uscire la sera, togliere il lucchetto al telefono, usare la pillola: per noi donne era tutta una battaglia perché tutto era proibito. Ovvio che oggi siamo un po' stanche. E se i miei figli hanno 100 canali satellitari e viaggiano low cost, forse è per questo che non hanno la stessa grinta di allora. La nostra aggressività si allenava anche su piccole conquiste. Poi si rifletteva nel lavoro e si ritrovava nelle scuole e nelle piazze. Da questo punto di vista, sulle lotte sociali e di costume la mia generazione ha vinto: l'Italia era rimasta un Paese integralista, dove si usava ancora il velo come oggi in certi Paesi islamici».

da lastampa.it
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