«Il sindacato rappresenta anche i fannulloni»
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Fannulloni
Pietro Spataro
Joubert aveva 23 anni, veniva dal Sudafrica con la speranza negli occhi: è caduto da un ponteggio nella Darsena di Viareggio. Vincenzo ne aveva 73, lavorava ancora perché con i seicento euro della pensione non si vive: è volato giù dal secondo piano di una palazzina in ristrutturazione a Napoli. Xholi aveva anche lui 23 anni, veniva dall’Albania, ed era orgoglioso del suo lavoro di elettricista in una ditta appaltatrice dell’Enel a Civitella Val di Chiana: è finito fulminato da una scarica potentissima. Massimo di anni ne aveva 40, lavorava in una fornace.
È morto schiacciato da un carrello, solo come un cane dentro un tunnel. L’elenco potrebbe continuare perché è lunghissimo. È fatto, da ieri, di cinquecento nomi, che messi uno accanto all’altro fanno la lunga, drammatica scia che insanguina l’Italia dall’inizio del 2007. Morti sul lavoro. Omicidi bianchi. Qualcuno dice, più delicatamente, incidenti. Ad essere coinvolti sono i poveri della terra, gli ultimi, i meno protetti. Quelli che pur di lavorare accettano condizioni di sicurezza minime. Quelli che li vedi spesso lungo le strade, all’alba, mentre aspettano i nuovi «caporali», viaggiano su pulmini scassati e la sera tornano distrutti nelle loro povere case. Quelli che non hanno voce e che solo il sindacato considera una emergenza nazionale. Quelli che spesso, tanto spesso, vengono da paesi lontani, dilaniati dalla povertà e dalla guerra, a cercare una speranza in più nel nostro paese ma che spesso, troppo spesso, trovano disperazione, sfruttamento e morte.
È il nostro dramma. Perché l’Italia, nonostante l’impegno di questo governo, resta il Paese con il più alto tasso di morti sul lavoro. È un dramma al quale dare risposte. Diciamolo con parole semplici: prima di tutto la dignità e la sicurezza. Prima di tutto la vita sul lavoro, e non la morte. E allora si fermi con ogni mezzo questa assurda e ignobile guerra che fa più morti della mafia.
Dietro ognuno di quei nomi ci sono storie di vita, famiglie distrutte. Ci sono figli e mogli e padri e madri che restano e che soffrono, spesso nell’assoluta solitudine. Che lottano per avere giustizia e spesso non l’avranno. A loro noi dobbiamo qualcosa.
A loro gli imprenditori devono qualcosa. Il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, non ha mai speso una parola importante - di quelle per intenderci che fanno titolo sui giornali - per questi poveri cristi. Nelle sue ormai quotidiane crociate contro il mondo intero, nelle sue continue scomuniche contro il governo, la sinistra, i sindacati, i lavoratori (l’ultima contro il sindacato che difende i fannulloni), non ha mai sentito il dovere di dire una frase su un dramma che tocca direttamente pezzi importanti della categoria che rappresenta.
Quanti sono gli imprenditori fannulloni che in cambio di un appalto in più, di una commessa in più, di un vantaggioso contratto in più mettono a repentaglio la vita dei loro operai? Montezemolo domani mattina, appena mette piede nel suo studio di presidente degli industriali italiani, prima di pronunciare l’ennesima difesa della superiorità morale e politica della sua categoria, se lo chieda. E in tutta onestà, perché ne è capace, si dia una risposta sincera.
pspataro@unita.it
Pubblicato il: 24.06.07
Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.15
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Dal Senato un buon segnale
Franco Marini
Il 27 giugno l'Aula del Senato ha approvato un importantissimo provvedimento che contiene nuove misure a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e la delega al governo per il riassetto e la riforma normativa della materia. Arriva così dal Parlamento una prima decisa risposta per fronteggiare il fenomeno drammatico delle morti bianche e degli infortuni sul lavoro che quotidianamente scuotono le nostre coscienze e ci interrogano sulla nostra capacità di intervento. È la prima volta dal 1994, quando fu varata la nota legge 626 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, successivamente integrata nel 1996, che si affronta la materia in maniera organica.
Nelle ultime legislature, si è discusso a lungo nelle aule parlamentari circa la necessità di introdurre nuove norme a tutela dei lavoratori per fronteggiare le dinamiche, peraltro non sempre lineari, di un mondo del lavoro sempre più complesso. Ma non si è giunti ad alcuna determinazione.
Ora il provvedimento approvato dal Senato passa all’esame della Camera. Sono certo che verrà approvato in tempi brevi per consentire anche l’entrata in vigore di alcune norme, immediatamente precettive, scaturite dal lavoro parlamentare, per rispondere concretamente ad una emergenza drammatica in attesa che l’esecutivo, entro nove mesi dall’approvazione definitiva del provvedimento, proceda alla razionalizzazione dell’apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, e, quindi, al riassetto complessivo dell’intera normativa in materia di sicurezza.
Tra le misure che saranno fin da subito operative figurano la modifica delle procedure degli appalti pubblici al ribasso; l’indicazione nei bandi di gara dei costi per la sicurezza e l’obbligo per gli imprenditori di destinare gli importi delle sanzioni eventualmente comminate per il mancato rispetto delle norme ad interventi di prevenzione. Inoltre il Ministero del Lavoro viene autorizzato ad assumere nuovi 300 ispettori.
Si tratta di interventi mirati, volti a dare subito maggiori tutele ai lavoratori. Ma sono anche il frutto di una forte proficuità dei lavori del Senato. E di una risposta alla costante preoccupazione espressa dal presidente della Repubblica che più volte nel tempo è intervenuto per sollecitare la fine di questo stillicidio di morti e infortuni.
Il provvedimento è stato approvato con i soli voti della maggioranza. C’e’ stato un confronto parlamentare vivace, com’ e’ naturale quando non si registra un pieno accordo, ma voglio dare atto ai gruppi di maggioranza di averlo portato avanti con determinazione e ai gruppi di opposizione di aver rinunciato durante l’esame del provvedimento all’uso legittimo degli strumenti regolamentari che avrebbero potuto influire sui tempi di approvazione.
Il disegno di legge sulla sicurezza introduce anche un nuovo e importante principio che estende l’applicazione delle sue norme a ’’tutti i lavoratori e lavoratrici, autonomi e subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati’’. Ma questo non è il primo provvedimento rilevante che il Senato ha recentemente licenziato in materia di lavoro.
Lo scorso 12 giugno, infatti, l’Aula di Palazzo Madama ha dato il primo via libera ad un altro disegno di legge volto a combattere con strumenti incisivi la piaga del caporalato. Un testo normativo che introduce, tra l’altro, nel Codice penale il reato di ’’grave sfruttamento’’ di immigrati prevedendo pene severe fino all’arresto obbligatorio in caso di flagranza. Misure che consentono di fronteggiare fenomeni altrettanto drammatici come la riduzione in schiavitù nella difesa dei diritti di tutti i lavoratori.
Altri provvedimenti saranno necessari per dare risposte al lavoro che cambia. Tuttavia la piena attuazione del Testo unico sulla sicurezza consentirà un altro importantissimo passo in avanti. Sarà uno strumento fondamentale per recuperare la dignità del lavoro ripensandolo ponendo al centro la persona e i suoi diritti faticosamente conquistati.
*Presidente del Senato
Pubblicato il: 30.06.07
Modificato il: 01.07.07 alle ore 10.23
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Dopo l’editoriale di Repubblica, parla il segretario confederale Cgil rilasciando una intervista a "Liberazione"
(pubblicata oggi 10 luglio 2007)
Scalfari dice falsità. C'è chi vuole far cadere Prodi
di Roberto Farneti
Scalfari dice delle palesi falsità». Paolo Nerozzi, segretario confederale Cgil, respinge con forza le accuse mosse ai sindacati (e al presidente della Camera Fausto Bertinotti) dal fondatore del quotidiano la Repubblica con l’editoriale di domenica scorsa. «Noi corporativi? Si parla tanto dello scalone, giustamente, ma ricordo - ribatte Nerozzi - che stiamo facendo una trattativa unica. Vogliamo risposte precise anche su pensioni basse e precarietà».
Secondo Scalfari, Cgil Cisl e Uil, chiedendo l’abolizione dello scalone, non starebbero rispettando l’accordo siglato con l’allora ministro Maroni.
Cosa falsa. Contro quella riforma delle pensioni abbiamo fatto molti scioperi, qualcuno da soli, e anche molto duri.
Repubblica però insiste. Ricorda che, in realtà, l’unico sciopero esclusivamente sulle pensioni lo avete fatto nel marzo 2004, dopo l’approvazione della riforma.
Non è vero, ne facemmo uno generale e altri articolati. E’ vero che molti scioperi ebbero come bersaglio anche le leggi finanziarie, ma perché dentro le finanziarie c’erano anche le pensioni. Quindi Repubblica continua a mentire sapendo di mentire. Altrettanto falsa è l’affermazione di Scalfari sul presunto accordo tra noi e Maroni per il rinvio della revisione dei coefficienti. Lo stesso Maroni ha smentito, la Cisl e la Uil pure. Perché un giornale si spinge a dire cose talmente false? Aggiungo: perché improvvisamente si scoprono i giovani? Anche qui, un tema viene evocato ma non per risolverlo, bensì per aumentare la confusione sulla trattativa. La mia opinione è che ci sono forze, anche all’interno della maggioranza, che non vogliono fare l’accordo con il sindacato perché non vogliono modificare lo scalone di Maroni. Penso che ci sia qualcuno che lavora per far cadere questo governo e poi addossare la responsabilità ai sindacati “corporativi” o a qualche forza di sinistra.
Prodi ha però già detto chiaramente che lo scalone va superato e che presto farà una sua proposta.
Prodi deve avere il coraggio di fare un accordo con le parti sociali e su questo costringere le forze della maggioranza a esprimersi, anche tramite un voto di fiducia.
Non a caso si parla di inserire l’eventuale intesa sulle pensioni dentro la Finanziaria.
A me questo interessa meno, l’importante è che si faccia l’accordo e si trovi poi il modo per farlo passare, perché lo scopo del sindacato è non avere più lo scalone.
Avete chiesto al governo e a Prodi di presentare una proposta condivisa, ma i sindacati non sembrano compatti. C’è la Cisl che vede con favore il mix di quote e scalini, ipotesi che Uil e Cgil hanno detto di non condividere...
Se c’è l’accordo il sindacato sarà compatto, le proposte che abbiamo finora presentato sono unitarie.
Qual è la linea del Piave della Cgil?
Innanzitutto io penso che i lavori non siano uguali e che ci sono categorie di lavoratori per i quali 57 anni sono anche troppi. Altri possono essere accompagnati da forme di incentivi.
I famosi “lavori usuranti”, difficili però da definire...
La nostra proposta è di escludere chi lavora su tre turni, chi lavora alla catena di montaggio, chi fa i lavori cosiddetti “vincolati”, cioè ripetitivi. Comunque le strade per arrivare all’accordo sono tante. La base di partenza, che dò per scontata, è che non si parli di alzare l’età pensionabile delle donne e che si possa andare in pensione con 40 anni di contributi. Altrimenti non discutiamo neanche.
Tornando ai giovani. Domani (oggi ndr) il governo incontrerà una delelegazione del Forum nazionale dei Giovani. Nel frattempo Capezzone sogna una marcia dei 40mila «per dare un futuro ai nostri ragazzi». Il significato propagandistico di queste iniziative è evidente: brandire l’arma del conflitto generazionale per sostenere la necessità dell’innalzamento dell’età pensionabile. Più o meno lo stesso schema utilizzato da Berlusconi quando, per manomettere l’articolo 18, spiegava che se i giovani fanno fatica a trovare lavoro la colpa è delle eccessive tutele sindacali conquistate dai loro padri. In questo caso, l’argomento è che se non si interviene, tra qualche anno l’Inps non avrà più i soldi per pagare le pensioni ai giovani. Cosa rispondi?
La mia prima risposta è una domanda: che cos’è il Forum dei Giovani, chi rappresenta? Mi risulta che tutti i sindacati dei precari, a cominciare dal Nidil, non siano stati invitati. Mi risulta che il sindacato più votato dagli studenti alle recenti elezioni universitari non sia stato invitato. In ogni caso, mi auguro che il governo sottoponga al Forum dei giovani il superamento dei contratti a tempo determinato, norme di sicurezza contro il precariato, misure di sostegno per l’affitto, borse di studio per la formazione e la ricerca. Se non proporrà niente di tutto questo, sarà l’ennesima presa in giro. Quanto alla sostenibilità del sistema previdenziale, dai dati dell’Inps si vede che i soldi ci sono, soprattutto per i lavoratori dipendenti. E ciò grazie anche al contributo dei tanti lavoratori immigrati. L’allarme sui conti e sul futuro dei giovani è perciò strumentale.
da www.sinistra.democratica.it
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Cisl e Uil: «Le distanze non sono grandi, gli incentivi vanno bene»
Pensioni, lunedì incontro governo-sindacati
Ferrero: contro di noi un'offensiva centrista Convocazione probabile a inizio settimana prossima.
Rifondazione: «La riforma in Finanziaria dopo il referendum tra i lavoratori»
ROMA - «Le condizioni sindacali per chiudere l’accordo ci sono. Il quadro politico, invece, non è ancora stato completato». Lo hanno affermato fonti sindacali sabato al termine dell'incontro in mattinata del ministro del Lavoro, Cesare Damiano, con i responsabili della previdenza di Cgil, Cisl e Uil per fare il punto della situazione. Secondo le stesse fonti si sarebbe trattato di un incontro di «transizione» in attesa di una convocazione che potrebbe arrivare già lunedì. Ma intanto si apre un problema politico all'interno della maggiornza. Dopo le uscite di Rutelli e Dini sulle ipotesi di riforma, il ministro ferrero (Rifondazione) replica: «Contro di noi c'è un'offensiva dei centristi»
SINDACATI FAVOREVOLI A CONTRIBUTI - «Uil, Cgil e Cisl sono d'accordo con la proposta Damiano per gli incentivi». Lo ha riferito il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti. «Basterebbero gli incentivi per aumentare l'età pensionabile media. Peccato che Damiano non abbia potuto nemmeno spiegare la sua proposta, perché bocciato dalla sua stessa maggioranza», ha aggiunto il sindacalista. Una posizione simile è stata espressa dal segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni: «Tra governo e sindacati non ci sono grandi distanze. L’accordo si farà lo se si vorrà fare. Chi lavora contro l’accordo pagherà il conto con la gente».
DUE IPOTESI - Restano due ipotesi: "scalino" a 58 anni a partire dal 1° gennaio 2008 con passaggio a quota "95" (anni di età + anni di contributi, ndr) dopo due anni, e quota "96" dopo un ulteriore biennio; oppure direttamente quota "95" a partire dal prossimo anno, aumentandola progressivamente ogni due anni fino a raggiungere al massimo quota "97". Per chi svolge attività usuranti sarebbe comunque garantito il diritto a uscire dal lavoro a 57 anni.
RIFONDAZIONE: PENSIONI IN FINANZIARIA - «È essenziale che si arrivi rapidamente a un accordo. Le norme sullo scalone dovrebbero essere messe nella Finanziaria: si consentirebbe così la consultazione dei lavoratori in autunno». È l'opinione espressa dal ministro della Solidarietà socialePaolo Ferrero al comitato politico di Rifondazione comunista. «Sulle pensioni non c'è un problema economico, le risorse ci sono e sono interne al sistema previdenziale. C'è invece un problema politico: è in atto un'offensiva centrista di Dini e Rutelli contro il sindacato e i lavoratori». È la stessa linea del segretario del partito, Franco Giordano: «Il sindacato ha chiesto una consultazione di massa, una cosa giusta. Mi pare evidente che bisognerà dare tempo al sindacato di fare la consultazione».
IN 10 ANNI +1,8 MILIONI - Tra il 1995 e il 2005 le pensioni sono aumentate di oltre 1.800.000 unità con una crescita dell'8,5%, arrivando a 23.257.480. L'elaborazione è dell'ufficio studi dei commercianti di Mestre. L'incremento più elevato si è registrato nel Lazio (+17,3%). In Umbria e Liguria ormai ci sono quasi 50 pensioni ogni 100 abitanti.
14 luglio 2007
da corriere.it
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Niente scaloni tra padri e figli
Stefano Fassina
Per conoscere il Patto annunciato nei giorni scorsi dal presidente Prodi per risolvere il difficile negoziato sulla riforma delle pensioni dobbiamo ancora attendere. Nel Consiglio dei Ministri di ieri non se ne è parlato. Nell’attesa, forse è utile provare a capire perché è così difficile giungere ad un compromesso che ammorbidisca lo «scalone», salvaguardi i lavoratori prossimi alla soglia dei 57 anni ed impegnati in attività usuranti ed attui quanto chiaramente disposto dalla Riforma Dini del 1995 sui coefficienti di trasformazione per rendere sostenibile la spesa pensionistica in relazione all’allungamento della vita.
Le ragioni delle difficoltà sono molte e profonde. Certamente tra esse c’è la regressione economico-corporativa della cultura politica di importanti forze del centrosinistra, prima ancora che del sindacato. Certamente c’è la debolezza di numeri e di capacità egemonica dei settori riformisti della maggioranza e delle forze sociali.
Tuttavia, forse, c’è anche altro. Forse, c’è un’impostazione sbagliata dei termini del problema da affrontare. Anche oggi, come già avvenuto alla fine degli anni 90 in tema di pensioni, di Statuto dei Lavoratori e di contratto nazionale di lavoro, il dibattito ruota intorno al conflitto generazionale: meno ai padri, più ai figli. Eliminare le pensioni di anzianità dei padri per dare ammortizzatori sociali ai figli precari.
Siamo sicuri che la variabile generazionale sia quella rilevante per portare in porto la riforma del welfare? Siamo sicuri che il problema oggi, nell’Italia in declino non solo economico, ma anche etico, rispetto ai paesi europei, sia ridistribuire risorse tra coorti anagrafiche, in un gioco a somma zero, dove qualcuno perde (i padri) e qualcun altro vince (i figli)? No, non sono questi i termini corretti e fecondi per tematizzare il problema. Vediamo perché.
L’Italia, come ha meritoriamente ricordato Veltroni al Lingotto, è un paese che, nell’ambito dei paesi sviluppati, si distingue per essere una società sostanzialmente castale. Il coefficiente di permanenza dei figli nel decile di reddito dei padri è intorno a 0,6, ossia il 60 percento dei figli «eredita» il titolo di studio e la collocazione reddituale dalla famiglia. Tale livello di immobilità sociale accomuna l’Italia al Brasile, un paese emergente, caratterizzato da profondissime disuguaglianze frutto di decenni di dittature militari. L’Italia è molto lontana dai livelli delle economie sviluppate, non solo quelle a maggiore mobilità come il Canada e la Svezia (rispettivamente, 0,21 e 0,28), ma anche Stati Uniti, Regno Unito e Francia (intorno a 0,42). La spiegazione dell’immobilità italiana risiede in larghissima parte nel sistema educativo: i figli ereditano la condizione reddituale della famiglia perché ne ereditano, innanzitutto, il livello di scolarizzazione. La lettura delle valutazioni Ocse sulle competenze linguistiche e logico-matematiche degli alunni dei 27 paesi membri, non lascia dubbi sull’ereditarietà del nostro sistema scolastico. Il peggioramento del livello medio di preparazione degli studenti italiani (ventesimi su 27), è sintesi di un’enorme differenza dei risultati a seconda della famiglia di provenienza e del territorio di residenza: il figlio di genitori con la licenza media o senza titolo di studio, residente nel Centro-sud ha una capacità linguistica pari a quella media di uno studente messicano, all’ultimo posto nella classifica Ocse; all’estremo opposto, il figlio di genitori laureati, residenti nel Nord raggiunge risultati pari alla media degli studenti finlandesi, al vertice della classifica Ocse. Oltre che nella scuola, la spiegazione dell’immobilità sociale italiana risiede nell’assenza del merito tra i criteri di selezione delle posizioni sociali: come ha documentato un recente rapporto della Luiss («Generare classe dirigente»), l’Italia è un’economia delle conoscenze, più che della conoscenza. La famiglia di origine, oltre al titolo di studio, assicura anche l’accesso alla professione dei genitori, sia nei settori privati che in quelli pubblici: il dipartimento di medicina dell’università di Bari, come ha scritto Walter Tocci, ha un elenco di professori che sembra un pacchetto di certificati di famiglia. Allora, è evidente che la faglia principale sul terreno delle opportunità e dei diritti non ha natura anagrafica, ma sociale: è enormemente più ampio lo squilibrio di opportunità e diritti tra un giovane figlio di operai a Taranto e un coetaneo figlio di professionisti al Milano, che quello tra padre e figlio di Taranto e padre e figlio di Milano, per quanto possano essere peggiorate le aspettative delle generazioni più giovani.
Se è così, ed è così, perché un operaio, anche se non «usurato» dal lavoro, o un impiegato dovrebbe rinunciare alla certezza della pensione di anzianità e, spessissimo, al reddito aggiuntivo da attività in nero o in grigio, quando sa che, nel migliore dei casi, le risorse a cui rinuncia andrebbero a lenire la precarietà del figlio che comunque eredita la sua condizione sociale? In tale quadro di immobilità, è difficile che non prevalga il familismo, nostro male endemico: la redistribuzione al figlio la fa il padre direttamente, senza correre i rischi di una intermediazione incerta ed inefficiente delle amministrazioni pubbliche in un mondo immutabile.
Allora, per superare le resistenze dei padri è necessario invocare e proporre non «un nuovo grande Patto tra le generazioni», confinato al welfare e alla redistribuzione di risorse (scarse) in un quadro statico, ma «un nuovo grande Patto tra le corporazioni», proiettato all’accumulazione e alla crescita in un’ottica economica e sociale dinamica. Insomma, dal compromesso al ribasso, in vigore negli ultimi tre decenni in funzione risarcitoria, ad un Patto per lo sviluppo in chiave promozionale.
Un patto scrivendo il quale le corporazioni continuano a difendere interessi particolari, ma diventano lungimiranti, smettono di litigare per conservare fette di una torta sempre più piccola e cooperano per fare una torta più grande.
Insomma, un gioco a somma positiva, dove vincono tutti, padri e figli, perché l’Italia si rimette in moto, torna a crescere, moltiplica le opportunità, spezza le catene delle caste. Nel patto per lo sviluppo, dovrebbe essere scritto che la rinuncia alle pensioni di anzianità avviene, innanzitutto, in cambio del rilancio della scuola pubblica e dell’università, della liberalizzazione dell’accesso alle professioni, della centralità del merito e del principio di responsabilità nella selezione e nella promozione nelle amministrazioni pubbliche.
Per fare solo un altro esempio, ma la lista è lunga, nel Patto per lo sviluppo dovrebbe anche essere scritto che la rinuncia all’evasione fiscale avviene in cambio della riqualificazione dei servizi pubblici e privati alle imprese ed ai cittadini (dalle banche all’energia, dalle assicurazioni alle professioni), della modernizzazione delle infrastrutture, della riforma e del contenimento delle spese pubbliche e, quindi, della riduzione delle tasse. Forse, proporre ogni specifica riforma nell’ambito del Patto per lo sviluppo renderebbe meno ostili le corporazioni. Ad una condizione, però: il proponente del Patto deve essere credibile nell’impegno a condurre in porto la modernizzazione del Paese in tutti gli ambiti, con equità e determinazione.
Chiudere senza eccessive concessioni corporative il negoziato sulle pensioni è condizione necessaria per una Legge Finanziaria in grado di intervenire su altri importanti capitoli di spesa e per realizzare il ventaglio di riforme strutturali in discussione in Parlamento. Il Pd lavorando nella società può contribuire non poco alla sfida.
Pubblicato il: 14.07.07
Modificato il: 14.07.07 alle ore 12.56
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