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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 101644 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Gennaio 22, 2009, 12:48:57 am »

«Israele non ha vinto. Ora tratti con noi di Hamas»

di Umberto De Giovannangeli


«Volevano annientare la resistenza palestinese. Per riuscirci hanno impiegato ogni mezzo. Ma hanno fallito. Perché oggi la resistenza è più unita che mai.

Abbiamo fermato l’aggressione e il nemico non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi. Israele oggi sa che se vuole sicurezza deve negoziare con Hamas». È il leader di Hamas a Gaza. L’uomo più temuto da Israele. Il suo nome è Mahmud al Zahar, ministro degli Esteri nel governo Hamas. In questo colloquio con l’Unità, al Zahar avverte Israele: «Non deporremo le armi fino a quando esse serviranno a difendere il popolo palestinese e a raggiungere il nostro fine: lo Stato di Palestina».

Morte. Distruzione. Come fa Hamas a cantare vittoria?
«Quei civili massacrati sono un marchio d’infamia per il nemico. Il mondo ha conosciuto il terrorismo di Stato d’Israele. Per annientare la resistenza palestinese hanno impiegato ogni mezzo. Ma hanno fallito il loro obiettivo».

Israele è di avviso opposto. Abbiamo inferto un colpo durissimo a Hamas, ripetono i leader israeliani.
«È propaganda. Cattiva propaganda. Per i martiri che hanno ucciso, altri hanno già preso il loro posto. Ma la cosa più importante è un’altra».

Quale sarebbe?
«Solo un popolo unito poteva resistere ad un’aggressione così massiccia condotta da uno degli eserciti più armati al mando. Quella ottenuta a Gaza non è stata la vittoria di Hamas o di qualsiasi altra fazione palestinese. È stata la vittoria di un popolo».

Ed ora? Israele avverte: siamo pronti a riprendere l’offensiva se saremo attaccati.
«Israele ha una settimana per ritirarsi completamente dalla Striscia. In questo arco di tempo la resistenza manterrà il cessate il fuoco. Ma sia chiaro: non accetteremo che Gaza resti una prigione a cielo aperto. Se si vuole una tregua di lungo periodo, Israele deve riaprire i valichi».

La ministra degli Esteri israeliana Tzipi Livni ha affermato che i valichi non saranno riaperti se prima non verrà liberato il caporale Gilad Shalit (rapito da un commando di Hamas nel giugno 2006).
«Israele sa che Shalit può tornare in libertà se in libertà torneranno i palestinesi prigionieri di Israele. Israele sa quali sono i termini dello scambio (mille palestinesi scarcerati, ndr.). Se li accetta, Shalit sarà libero».

Lei parla di una resistenza che si è unità contro l’aggressione. Ma resta la spaccatura tra Hamas e l’Autorità palestinese del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).
«Siamo pronti a riprendere il dialogo nazionale ma Abu Mazen non può forzare la mano e imporre decisioni che portano alla spaccatura e non all’unità. Il suo mandato presidenziale è scaduto lo scorso 9 gennaio. Siamo disposti a discutere una soluzione transitoria che parta però dal riconoscimento che esiste un Parlamento palestinese ancora in carica e legittimato da un voto libero. Quel voto ha premiato Hamas. Abu Mazen non può negarlo».

Lo scrittore israeliano David Grossman ha scritto che Israele dovrebbe parlare anche con chi nega la sua esistenza. Cioè con Hamas.
«Grossman ha preso atto che la pace, qualunque essa sia, non può essere fatta contro metà del popolo palestinese. Negoziare con Hamas non è una concessione di Israele. Con le armi non l’avranno mai vinta».

Ma neanche il popolo palestinese potrà mai averla vinta con le armi.
«Le armi servono per mantenere in vita il nostro diritto a resistere all’occupante sionista. Il tempo è dalla nostra parte».

Gaza è ridotta ad un cumulo di macerie. Non si sente responsabile?
« La mia “colpa” è quella di non aver alzato bandiera bianca. Ne sono orgoglioso. E con me la mia gente».


udegiovannangeli@unita.it

da unita.it
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« Risposta #121 inserito:: Gennaio 22, 2009, 06:49:30 pm »

«Mano tesa all’Islam. Così finisce lo scontro di civiltà»

di Umberto De Giovannangeli


Un discorso «di svolta. Che chiude con il pensiero neo-con e le guerre preventive della precedente amministrazione. Un discorso che parla non solo alle leadership arabe e musulmane ma anche all’opinione pubblica araba e musulmana. Nel giorno della sua investitura, con la solennità del momento, Barack Obama si è manifestato in una doppia veste; quello del capo della più grande potenza mondiale e, al contempo, come un leader globale. Visto dal mondo arabo, quello di Obama è stato il discorso della speranza e della riconciliazione. Il dopo-Bush è davvero iniziato». A sostenerlo è il professor Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al Ahram (Il Cairo), tra i più autorevoli analisti del mondo arabo e musulmano.

Professor El Fattah, come leggere il discorso di investitura di Barack Obama nel rapporto con l’Islam?
«È stato un discorso di svolta. Che chiude un’epoca e ne delinea un’altra. Chiude l’epoca del “Conflitto di civiltà”, della sciagurata pratica delle guerre preventive che ha contraddistinto la precedente Amministrazione. Obama è chiamato a fare i conti con il pesante lascito di questa politica, tutto in saldo negativo sia per quanto riguarda la lotta al terrorismo che nel processo di stabilizzazione del Medio Oriente».

Quale nuova «epoca» delinea il discorso del neo presidente Usa?
«Quella della riconciliazione e del rispetto per un mondo - quello islamico - che Barack Hussein Obama non percepisce come entità ostile, da neutralizzare”. Rispetto. È un concetto-chiave per delineare un nuovo rapporto con l’Islam politico e culturale. Rispetto che, sul terreno più strettamente politico-diplomatico, porta con sé un cambiamento radicale di strategia: qui la parola-chiave è inclusione».

Tradotto nei dossier più caldi?
«Coinvolgere l’Iran nel processo di stabilizzazione del Grande Oriente, dalla Palestina all’Afghanistan. E, per ciò che concerne il Medio Oriente, partire dal conflitto israelo-palestinese e non, come era avvenuto nella prima presidenza di George W.Bush, dall’Iraq. In questa chiave, è estremamente significativo che la prima telefonata da presidente, Obama l’abbia fatta ad Abu Mazen (il presidente dell’Anp, ndr.). È il segno che la nuova Amministrazione democratica punta a molto più che il rafforzamento della tregua a Gaza. Punta ad una pace stabile e duratura».

Una politica inclusiva significa anche coinvolgere, in un futuro prossimo, anche Hamas in un negoziato di pace?
«Questo mi sembra prematuro, mentre ritengo più che probabile che gli uomini che Obama investirà sul Medio Oriente cerchino di aprire canali di contatto con esponenti di Hamas. Già questo rappresenterebbe una svolta».

Obama non deflette dalla guerra al terrorismo jihadista.
«Ma sa che la sconfitta dell’Islam radicale armato non può avvenire sul piano militare ma su quello politico, facendo il vuoto attorno ad esso, togliendogli potenti strumenti di propaganda come è stato, in queste settimane, la guerra a Gaza. Mi lasci aggiungere che Obama ha lanciato anche un messaggio molto chiaro alle leadership arabe...».

Quale è questo messaggio?
«Il loro futuro risiede nella capacità di conquistare il consenso dei loro popoli, costruendo e non distruggendo. E su questo, e non solo sulla “fedeltà”, l’America di Barack Obama valuterà i suoi alleati».
udegiovannangeli@unita.it


22 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #122 inserito:: Febbraio 04, 2009, 10:58:41 pm »

«Posso vincere. Tratterò la pace con i palestinesi moderati»

di Umberto De Giovannangeli


Il «soldato più decorato» d’Israele va alla «battaglia» delle urne. Ehud Barak, ministro della Difesa e leader del Partito laburista, è di nuovo in lizza per la carica di premier nelle elezioni del 10 febbraio. A pochi giorni dal voto, tra un meeting elettorale e una riunione del Gabinetto di sicurezza nazionale, l’Unità lo ha intervistato.

La sua corsa continua, come sostengono in molti, per assicurarsi anche nel prossimo governo il ministero della Difesa, visto che i sondaggi per la poltrona di primo ministro danno favorito il suo avversario di sempre, il leader del Likud, Benjamin Netanyahu?
«Il forte consenso dell’opinione pubblica riguardo il mio operato come ministro della Difesa mi inorgoglisce, ma mi creda: la mia candidatura a premier non è un azzardo, tanto meno ha il senso di una testimonianza. L’incarico di Primo Ministro d’Israele è uno dei più complessi al mondo e per svolgerlo serve una persona che unisce a elevate e provate doti individuali anche esperienze al massimo livello negli apparati più delicati della politica, dell’economia, della sicurezza nazionale della diplomazia e via dicendo. Ho cominciato a servire il mio Stato quando avevo meno di 18 anni e non sarei qui se non fossi fermamente convinto di poter dare al futuro di Israele un contributo migliore degli altri due candidati (Netanyahu e la leader di Kadima e attuale ministra degli Esteri, Tzipi Livni, ndr.)».

E quali devono essere i punti cardinali di questo futuro?
«È chiaro che nessun Paese ha un futuro senza la sicurezza di poter sopravvivere. Ci si dovrà quindi continuare ad occupare di sicurezza nazionale perché abbiamo più di un nemico che vorrebbe vederci sparire. Lo abbiamo fatto con Hamas quando non ci è stata lasciata più scelta, dopo otto anni in cui ha reso impossibile la vita ai cittadini del sud di Israele mettendo in pericolo le loro vite in ogni momento della giornata. Ma questo è nulla di fronte al pericolo nucleare iraniano che esula perfino dalla nostra regione geografica e rappresenta una minaccia per il mondo intero. Ma tutto ciò non ci impedirà di continuare a curare la crescita del Paese nella scienza, nella medicina e nella cultura dando il massimo peso all’istruzione, che è poi la vera chiave tanto per lo sviluppo del livello di vita dei nostri cittadini, quanto per l’avanzamento nell’ambito delle nazioni più progredite».

E Lei pensa che ci sia una possibilità che nel prossimo futuro vengano compiuti passi avanti nel cammino per la pace?
«Israele ha già fatto enormi passi sul cammino per la pace. Oggi la grande maggioranza dell’opinione pubblica israeliana accetta il principio di due Stati per i due popoli ed è pronta a valutare i compromessi per realizzarlo. In effetti questo dialogo è in corso ormai da anni con la parte moderata del mondo arabo e dei Palestinesi. Il problema sta nei fanatici fondamentalisti, per i quali l’unica soluzione possibile è la distruzione dello Stato ebraico. I Palestinesi devono prendere una loro decisione e se intendono trovare una soluzione e vivere pacificamente accanto a noi, devono decidersi a rigettare la strada della violenza e del terrorismo, che può portare solo ad altri spargimenti di sangue e tragedie».

Ma Hamas, nonostante tutto, è salito al potere dopo essere stato scelto a maggioranza dai Palestinesi in elezioni democratiche. Potrà mai essere un partner per la pace?
«Non entro nel merito né delle elezioni palestinesi, né della successiva violenta presa di potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, né tanto meno sul modo di mantenere questo potere, lontano anni luce da quello che intendo io - e penso anche lei - per democrazia. Israele non chiude alcuna strada con chi vuole sinceramente cercare una soluzione, ma non ci si può chiedere di trattare la pace con chi non è disposto ad accettare la tua stessa esistenza. È nostra speranza e interesse che i Palestinesi estendano la loro base moderata e che questa divenga la loro voce di maggioranza. Da quel momento, la pace sarà molto più reale e vicina».

Nei giorni scorsi i suoi avversari politici, fra i quali anche alcuni alleati di governo, l’hanno accusata di voler legittimare Hamas.
«Sono accuse strumentali, bassa propaganda elettorale. Nessuna legittimazione da parte mia verso chi usa l’arma del terrore per portare avanti le proprie idee. Ciò che ho sostenuto è che occorra iniziare a parlare con accenti più realistici. Sarà più utile affrontare le vere sfide del Medio Oriente piuttosto che (cullarci) in una realtà idealizzata che piaccia solo a noi. Per quanto mi riguarda, cerco di muovermi nel solco dell’insegnamento politico di David Ben Gurion (il leader laburista fondatore dello Stato d’Israele, ndr.), secondo cui Israele non ha interesse alla guerra ma non la teme. Abbiamo dichiarato un cessate il fuoco unilaterale, dando spazio alla mediazione egiziana, ma quando i miliziani palestinesi sono tornati a lanciare razzi contro Ashkelon e il Neghev, non abbiamo esitato ad agire con la necessaria determinazione. Il nostro diritto di difesa è fuori discussione, il che non significa che siamo in procinto di scatenare un’operazione "Piombo fuso" bis. L’uso della forza non può mai essere fine a se stesso e, comunque, non può sostituirsi ad una strategia politica che punta ad un intesa di pace con chi vuol vivere in pace con Israele. È questa la grande eredità lasciataci da Yitzhak Rabin. Un’eredità che non va delapidata».

udegiovannangeli@unita.it


04 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #123 inserito:: Febbraio 07, 2009, 10:38:47 pm »

«Vincerò la sfida. Con me in Israele finirà il tempo della paura»

di Umberto De Giovannangeli


Un viso oscurato e una voce di fondo che dice: «Agente del Mossad, responsabile della privatizzazione delle società governative, ministro dell’Immigrazione, della Giustizia, degli Esteri e Vice-Primo Ministro. Chi solleverebbe dubbi contro un candidato alla premiership che ha un record del genere ... se questo non fosse donna?». È lo spot elettorale forse più riuscito di questa campagna elettorale e presenta Tzipora Malka (Tzipi) Livni, 50 anni, avvocata di successo e leader del partito Kadima fondato da Ariel Sharon, impegnata in una corsa nella quale Benjamin Netanyahu, leader del Likud (destra), sembra essere in testa ma con un distacco che lascia ancora spazio a sviluppi e sorprese degli ultimi giorni.

In un Paese dove ancora una volta le elezioni saranno determinate dai temi di sicurezza nazionale, una donna - di fronte a un ex capo di stato maggiore (il laburista Ehud Barak) e a un ex ufficiale di unità di elite (Netanyahu) - deve lavorare molto duramente per convincere gli elettori della sua capacità di gestire future situazioni militari. «Ricordo la promessa che avevo fatto a lei e al suo giornale - ci dice Tzipi Livni in una pausa della sua estenuante giornata elettorale - di concederle un’intervista se fossi diventata primo ministro. Spero che mi sia di buon auspicio». Decisa, motivata, orgogliosa: «Sono pronta - afferma - per essere messa alla prova non solo per quanto ho detto, ma anche per quanto ho fatto: ho tutte le carte per diventare primo ministro». Un premier donna, 34 anni dopo Golda Meir.

Lei è stata in prima linea nella decisione di iniziare l’operazione Piombo Fuso contro Hamas. Non è in contraddizione con la sua intenzione dichiarata di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese basata sul dialogo e il negoziato?
«Israele si è ampiamente guadagnato la legittimità di reagire contro Hamas. Vorrei ricordare che la Striscia di Gaza è stata evacuata nel 2005 da qualsiasi presenza israeliana, civile e militare. I palestinesi, invece di lavorare per preparare le strutture di un loro futuro Stato, si sono impegnati in altri tipi di operazioni, sviluppando un sistema di gallerie per contrabbandare armi e continuando a lanciare per 8 anni attacchi e missili sulla popolazione civile di Israele, oltre novecentomila persone. Per tutto questo tempo Israele non ha reagito, ma tutto ciò non poteva assolutamente continuare. Il governo d’Israele non voleva questa guerra, ma non gli è stata lasciata scelta di fronte al dovere basilare che ogni Stato ha verso i propri cittadini: quello di difenderli. Ma l’operazione a Gaza non esula da quella che io vedo come la linea strategica da continuare a seguire: combattere gli estremisti e parlare con i moderati. Speriamo che il colpo ricevuto da Hamas dia i suoi frutti anche in un suo indebolimento politico che aumenti la possibilità di raggiungere un accordo con i moderati, rappresentati dal presidente Abu Mazen. Non si deve dimenticare che i maggiori oppositori a qualsiasi accordo di compromesso sono proprio loro, quelli di Hamas, secondo cui l’unico possibile finale al conflitto, è la cancellazione di Israele».

E quale è la sua soluzione?
«Io vengo da una famiglia cresciuta su valori che vedevano in Israele l’unico focolaio nazionale del popolo ebraico. Un Paese democratico e liberale. Anni fa mi sono allontanata dall’idea che tutto ciò doveva essere realizzato in tutto il territorio sul quale potevamo reclamare diritti storici e sono giunta alla conclusione che il territorio è uno strumento e non un obiettivo. L’obiettivo era, ed è anche oggi, quello di assicurare l’esistenza e la crescita di uno Stato ebraico in Terra d’Israele. Oggi questa è la piattaforma che unisce la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana e che permette di poter sperare in una soluzione pacifica in cui i due popoli - israeliani e palestinesi - vivano uno accanto all’altro in pace. Oltre che giusto, ciò è anche indispensabile per preservare Israele come Stato ebraico e democratico. Solo chi non vuole veramente giungere ad una soluzione può sostenere l’idea di uno Stato bi-nazionale. L’unico vero modo per realizzare le aspirazioni dei due popoli è che ciò avvenga nei loro rispettivi Stati, laddove la premessa indispensabile è il mutuo rispetto e accettazione reciproca. Partendo da questa premessa, unita alla volontà di trovare un compromesso, a qualsiasi problema si può trovare la soluzione dialogando e trattando»

Ma questo non è nuovo. Anche a Oslo ci si era mossi su principi simili e sulla creazione di un partner per il dialogo eppure siamo qui a discutere.
«Si, ma l’errore di Oslo è stato di creare l’aspettativa che nella regione potessero avvenire cambiamenti veloci e improvvisi, e ciò si è rivelato come assolutamente irrealistico. Noi possiamo lavorare sulla nostra opinione pubblica, ma solo la leadership palestinese può lavorare sul proprio popolo. La soluzione potrà avvenire solo quando le due parti avranno raggiunto la volontà di trovarla e accettarla. A chi ci chiede di vedere Hamas come partner, rispondo che organizzazioni come Hamas non possono essere un partner. Hamas è un’organizzazione terroristica che vuole, fra l’altro, la distruzione d’Israele. Come ministro degli Esteri ho lavorato duramente perché la comunità internazionale riconoscesse e accettasse questo fatto e alla fine abbiamo formulato le condizioni minime per essere parte della trattativa: riconoscere l’esistenza d’Israele, abbandonare la strada della violenza e del terrorismo e riconoscere la validità degli accordi già firmati fra Israele e l’Autonomia nazionale palestinese».

E per la minaccia nucleare iraniana, come si deve comportare Israele? Anche qui si deve privilegiare la strada del dialogo?
«La minaccia nucleare iraniana è senz’altro il pericolo maggiore all’esistenza di Israele. Ma qui la questione è ancora più complessa, perché questa minaccia non riguarda solo il nostro Paese ma l’intera regione e anche più di questo. Nel caso dell’Iran, Israele è solo una parte di uno sforzo internazionale più ampio che ha come obiettivo di impedire che l’Iran si armi di ordigni atomici. Ciò non significa che Israele non si riservi di esercitare il suo diritto all’autodifesa in modo autonomo, qualora si sollevasse la necessità».

Lei ha avuto parole molto dure nei confronti del suo più agguerrito rivale, il leader del Likud, Benjamin Netanyahu.
«Ho solo rilevato che Netanyahu ha già ricoperto l’incarico di primo ministro con un bilancio fallimentare».

In questi ultimi giorni di campagna elettorale, Lei ha più volte invitato Netanyahu ad un dibattito pubblico. Con quali risultati?
«Silenzio. Imbarazzato e imbarazzante. Ma io non demordo. Perché resto convinta che un dibattito sulle questioni reali sia necessario perché i dibattiti mostrano che tipo di persona sei. Non apparire perché non hai voglia di esporre la tua vera faccia è inaccettabile quando si ha la pretesa di diventare primo ministro».

Fra pochi giorni, Israele deciderà col voto il proprio futuro. Qual è la posta in gioco più impegnativa?
«La scelta che Israele si troverà davanti tra pochi giorni riguarda la pace. La colomba della pace sta sulla finestra, e possiamo decidere se aprire i vetri e farla entrare, con tutta l’apprensione, o chiudere la finestra con la forza. Il voto deciderà se Israele potrà diventare un Paese di paura o un Paese di speranza».
E la speranza d’Israele ha oggi il volto di una donna coraggiosa: Tzipi Livni.

udegiovannangeli@unita.it

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« Risposta #124 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:11:48 pm »

«Voterò per Livni. Ma Israele ha bisogno dell’unità nazionale»

di Umberto De Giovannangeli


Un Paese in trincea oggi si reca alle urne. Israele vota.

Paure, speranze, incertezze, scenari futuri nelle riflessioni di uno dei più affermati scrittori israeliani: Meir Shalev.


Israele ha “sfiorato” il voto in uno stato di guerra. Queste elezioni sono diverse dal passato?
«Qualche particolarità c'è stata. Innanzi tutto i tempi della campagna elettorale sono stati brevissimi e questo a me, personalmente, non dispiace, visto che tutto sommato quello che i partiti hanno da offrire è già chiaro a tutti. Ciò che invece è diverso è lo schieramento delle forze politiche: eravamo stati abituati ad un confronto fra due partiti maggiori e dietro di loro uno-due medi e una serie di piccoli. Da queste elezioni, se non ci saranno sorprese, avremo quattro-cinque partiti medi che possono fare da ago della bilancia e un gruppetto di piccoli partiti più settoriali. Il fenomeno è, in ogni caso, rappresentato da Lieberman (il leader del partito di estrema destra Israel Beitenu, ndr.), un personaggio che riesce negli ultimi anni a cavalcare gli umori o meglio i malumori dell'ampia fascia dell'opinione pubblica insoddisfatta della classe politica e disposta a discostarsi dal proprio voto tradizionale. Questa volta Lieberman ha assunto il ruolo di vendicatore nei confronti degli Arabi israeliani - colpevoli di tramare contro lo Stato di cui sono cittadini -perfino in periodi di guerra come è avvenuto nell'ultimo confronto. E attenzione, non lo fa stupidamente! Usa argomenti che possono convincere tanto i “razionali” quanto gli “emozionali”: "Siamo usciti da Gaza come gli Arabi volevano e abbiamo ricevuto in cambio missili e bombe. I nostri governi incapaci e inerti non hanno reagito per otto anni a questo stillicidio. Guardate i deputati arabi alla Knesset: invece di curarsi del pubblico che li ha mandati al parlamento – vale a dire i cittadini arabi di Israele – si occupano solo della questione palestinese, comportandosi come una quinta colonna all'interno del sistema politico d'Israele". Lieberman non prospetta un'ideologia, non avanza possibili soluzioni al conflitto; con il suo slogan "non c'è cittadinanza senza fedeltà al Paese", offre al pubblico ebraico-israeliano la vendetta politica nei confronti di quella parte della popolazione che viene percepita da molti come traditrice».

Che cosa c'è da sperare e da temere dalle agende dei tre candidati per il futuro di Israele come Lei lo vede?
«Tranne per il fatto che una di loro è donna, i tre candidati non lasciano molto spazio a sorprese nelle questioni più scottanti della politica israeliana. Rappresentano partiti che in un'ottica di formazione di governo possono convivere perché non hanno fra loro forti differenze. La cosa è perfino auspicabile alla luce delle future sfide che Israele dovrà affrontare. Rimane – di nuovo – l'incognita Lieberman, ma anche di Shas, il partito ultraortodosso che rappresenta gli ebrei sefarditi. Se i tre partiti maggiori non sapranno superare i loro problemi dettati principalmente da ambizioni personali, potrebbero essere questi partiti minori a imporre il futuro di Israele in molti campi. La domanda è quindi se il vincitore fra i tre candidati saprà “cucire” un valido governo di unità nazionale mobilitando gli altri due contendenti».

«Il Likud per la pace e i laburisti per la guerra» si diceva una volta in Israele. Ma ora ci si trova fra un confronto pieno di incognite con l'Iran e la probabilità di dover giungere a duri compromessi imposti forse da Barack Obama, per porre fine al conflitto con i Palestinesi. Chi è bene che sia alla guida del Paese?
«Già molti anni fa, spiegavo in alcuni miei articoli cosa significa per me un "presidente americano amico di Israele". E lo descrivevo come colui che convincerà/costringerà Israele a smantellare gli insediamenti e a trovare un punto di incontro con i Palestinesi. Se Obama si muoverà in questa direzione, anche con "l'aggressività" che ha promesso di usare, non potrò che appoggiarlo – e tutto questo nella totale convinzione che questo sia un interesse dello Stato d'Israele. Spero solo che non si sia aspettato troppo e che la cosa sia ancora possibile. Per quanto riguarda la mia preferenza, questa va alla Livni (Kadima), ma non perché conosca appieno le sue qualità o capacità, ma perché gli altri due - Benjamin Netanyahu (Likud) ed Ehud Barak (Labour) - hanno dato già una prova negativa delle loro. Spero che le sia data questa possibilità e che come prima dimostrazione delle sue capacità come premier, sappia formare un governo Kadima, Likud e Labour che superi gli egoismi partitici e individuali e che si prepari al meglio per le future sfide che Israele si appresta ad affrontare».

La sinistra israeliana soffre di una lunga crisi. Perché non riesce ad uscirne?
«Non c'è dubbio che c'è da tempo un vuoto di leadership. Da Rabin a oggi la sinistra non riesce a trovare una figura carismatica intorno a cui unirsi. Ma insieme a questo, la sinistra non riesce a offrire nuove bandiere, dopo che buona parte delle sue del passato sono diventate proprietà comune di tutti i partiti che coprono l'area politica che va fino alla destra moderata. E questo vale in buona misura tanto per i temi politici quanto per quelli sociali. Ma da questa difficoltà e incapacità di distinguersi deriva forse una incomprensione che va approfondita. Quando mi capita di essere in Europa e anche in Italia, mi rendo conto che molti pensano, o vorrebbero pensare, che in Israele opera una destra nazionalista e militarista e contrapposta a questa una sinistra israeliana paladina della pace e dell'amore fra i due popoli. Due innamorati che stanno sempre a letto a sbaciucchiarsi. Spiacente, ma non è così: la maggioranza della sinistra vuole vivere  in pace con i Palestinesi, ma in due stanze separate. Io mi considero parte della sinistra e posso confermare la mia profonda volontà di essere un giorno amico dei Palestinesi, ma nello stesso tempo il mio realismo mi dice che oggi il mondo deve aiutarci innanzi tutto a diventare buoni vicini, a salutarci educatamente quando ci incontriamo senza bruciarci le macchine nel parcheggio se non siamo d'accordo uno con l'altro. Magari sarà meno idilliaco e si presta meno a slogan pacifisti, ma dobbiamo fare la pace e non l’amore».
udegiovannangeli@unita.it


10 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #125 inserito:: Febbraio 12, 2009, 07:05:30 pm »

«Il risultato delle urne allontana la pace con i palestinesi»

di Umberto De Giovannangeli


Il volto d’Israele uscito dalle urne. Vincitori e vinti. E un futuro nel segno dell’incertezza politica. L’Unità ne ha discusso con il più autorevole tra gli storici israeliani: Zeev Sternhell, docente di Scienze Politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, autore di numerosi saggi tra i quali «Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni» (Baldini Castoldi Dalai). Sternhell - che pochi mesi fa ha subito un attentato da parte di un gruppo dell’estrema destra israeliana - non nasconde il suo pessimismo: «Per quanto riguarda la pace con i palestinesi - afferma - quale che sia il governo che si formerà, non potranno esserci seri progressi». E sul crollo del Labour, annota: «I laburisti continuano a pagare il prezzo di una perdita di identità e del venir meno di quella rendita di posizione elettorale che gli derivava dall’essere percepito come il partito "anti-Likud"».
Professor Sternhell, come è possibile che Israele si trovi di nuovo, il giorno dopo le elezioni, senza una direzione politica sicura?
«Purtroppo questo è un problema strutturale nella democrazia israeliana, aggravato oltretutto dalla poca chiarezza del sistema che – in una situazione come quella scaturita dalle elezioni di ieri (martedì, ndr.) - lascia la possibilità di formare il governo sia a Netanyahu che alla Livni. E né l’uno né l’altro potranno presentare un governo in grado di confrontarsi veramente con le sfide di fronte alle quali si trova Israele. Buona parte di questo risultato è frutto di un sistema problematico e che esiste oggi solo in Olanda. Per quel Paese – dove sono vissuto per un anno e dove ho constatato che in tempo di elezioni i cittadini erano a malapena coscienti del fatto che si doveva andare a votare – va bene. Ma per Israele, no. È un sistema che ha il pregio di voler dare voce a tutti i settori della società ma che crea una frammentazione politica quasi ingestibile. Il sistema della elezione diretta del primo ministro è stato provato e si è visto che non è adatto per Israele, ma ci sono fra questo e il sistema presente, molte possibilità intermedie che vanno seriamente studiate. Il problema è che una riforma elettorale seria e che restringa il numero dei partiti, dovrebbe essere studiata, preparata e approvata da quegli stessi parlamentari che potrebbero poi esserne colpiti. Coloro che sono disposti a mettere in forse una loro futura rielezione alla Knesset, non sono poi molti».

In ogni caso, che significato ha il voto del 10 febbraio per il domani di Israele?
«Per quanto riguarda la pace con i palestinesi, quale che sia il governo che si formerà, non potranno esserci seri progressi: ci saranno sempre quelli che vorranno, quelli che non vorranno e quelli che non potranno. È triste, ma d’altra parte ciò rispecchia la società israeliana odierna: sa di avere grandi problemi, ma non sa decidersi chi dovrà risolverli e come; vuole in grande maggioranza la pace, ma non è disposta a dare carta bianca per far pagare il prezzo necessario per conseguirla. Saremo quindi costretti a continuare a stare nella stessa piccola palude dove lo spazio è molto ristretto. Non che questo sia così diverso da tanti altri Paesi, Italia compresa; ma nessun Paese al mondo si trova di fronte a problemi esistenziali come quelli di Israele».

Si temeva un calo della sinistra, ma è avvenuto un vero e proprio crollo. Come lo spiega?
«Per quanto riguarda il Meretz (la sinistra sionista, ndr.), ha commesso un fatidico errore: quello di volersi presentare come "Nuovo Movimento" laddove non c’era niente di nuovo e sicuramente non si trattava di un movimento. Gli elettori non hanno trovato alcun motivo valido per votare un partito che nella migliore delle ipotesi era la coda del partito laburista. Da parte sua, il Labour continua a pagare il prezzo di una perdita di identità e del venir meno di quella rendita di posizione elettorale che gli derivava dall’essere percepito come il partito "anti-Likud". Al di là della indubbia crisi di leadership, lo spostamento di voti degli ultimi giorni è stato in funzione della volontà di molti di bloccare la crescita della destra, soprattutto di Lieberman. Non è più il Labour ad essere percepito come baluardo contro la destra, bensì il Kadima di Tzipi Livni. Ma al di là del rammarico per il crollo dei partiti di sinistra, devo dire che il ragionamento dell’elettorato è stato del tutto logico: rafforzare Kadima, nella attuale congiuntura politica, è stato l’unico modo per mettere Netanyahu in difficoltà, rendendogli quasi impossibile qualsiasi alternativa di governo che preveda solo la destra. È stato in fondo un calcolo intelligente e maturo di un elettorato di sinistra che ha preferito spostare e concentrare le forze più al centro per arginare la destra rappresentata da Netanyahu. E il Partito laburista è stato quello che ha pagato il prezzo maggiore per questa operazione».

udegiovannangeli@unita.it


12 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #126 inserito:: Febbraio 15, 2009, 12:18:52 am »

«Tutti mi corteggiano. Così cambierò Israele»

di Umberto De Giovannangeli


È l’uomo politico più «corteggiato» d’Israele (e dalla stampa internazionale). L’ago della bilancia nella formazione del nuovo governo israeliano. Il suo «sì» o il suo «no» possono far crollare le ambizioni di Tzipi Livni (Kadima) e Benjamin Netanyahu (Likud) di essere alla guida dal futuro esecutivo. Parliamo di Avigdor Lieberman, 51 anni, leader di Yisrael Beiteinu (destra radicale laica), terza forza politica dello Stato ebraico con i suoi 15 seggi parlamentari. Amato o odiato, «Avigdor il moldavo» (è nato a Kishinev, nella Moldavia sovietica) non conosce mezze misure. E questa intervista ne è la riprova.
Il suo partito ha ottenuto 15 mandati ma alla vigilia gliene davano quasi 20. Felice o deluso?
«Noi non abbiamo mai reso pubblico alcun sondaggio. Chi ha tirato fuori quei numeri l’ha fatto solo per colpirci e cercare di frenare la nostra crescita. E chiaramente la stampa si è ancora una volta mobilitata per amplificare questa opposizione. Continuiamo la nostra progressiva salita che ci ha portato dai 5 seggi del 1999 ai 15 di oggi e siamo diventati il terzo partito nonostante la forte campagna denigratoria condotta contro di noi da tutte le direzioni. Sembra che per delegittimare il mio partito si possa far uso di qualsiasi strumento e degli istinti più bassi».

Ma forse siete voi ad attirare il fuoco delle critiche. Il vostro slogan «senza fedeltà allo Stato non c’è cittadinanza» è un chiaro tentativo di cavalcare la paura e viene da molti interpretato come una forma di razzismo verso gli arabi israeliani.
«Vorrei capire una volta per tutte il perché di questa grave accusa che mi si lancia contro. La mia posizione è sostenuta da norme che in molti Paesi occidentali ed europei, sono considerate del tutto legittime. In molti Paesi la fedeltà allo Stato e la distinzione fra chi sostiene il terrorismo e chi lo rifiuta, sono parametri per la concessione o la negazione della cittadinanza e dei diritti che ne derivano. In Spagna, per esempio, pochi anni fa sono stati messi fuori legge quattro partiti non perché - si noti bene - sostenevano il terrorismo, ma perché hanno rifiutato di condannarlo. Se perfino l'Europa riconosce Hamas come organizzazione terroristica, cosa c’è di anormale e scandaloso nel fatto che io affermi che chi sostiene Hamas deve essere messo in prigione e gli si debbono negare i diritti come cittadino israeliano, visto che Hamas ha come scopo dichiarato di cancellare lo Stato d'Israele? Perché quello che è ritenuto legittimo in Spagna, nel momento che viene proposto in Israele non è più legittimo?».

Il governo in carica sta cercando di raggiungere un accordo, attraverso un negoziato indiretto con Hamas, per una tregua di lunga durata nella Striscia di Gaza. Fonti egiziane affermano che l’intesa potrebbe essere raggiunta nelle prossime 48 ore.
«Tregua con chi predica e pratica il terrorismo? La tregua è servita e servirà ancora ad Hamas per riarmarsi e tornare a colpire. Nessuna tregua è concepibile con chi vuol fare di Gaza un avamposto iraniano a ridosso delle nostre città».

Insisto su questo punto. Nell’intesa possibile c’è anche la liberazione del soldato Shalit (prigioniero di Hamas dal 25 giugno 2006).
«Shalit deve essere liberato senza condizioni. Se lui è in pericolo lo devono essere anche i capi di Hamas. Il loro restare in vita in cambio della liberazione del nostro soldato: è questo l’unico scambio possibile».

Vorrei tornare al voto. Israele esce da queste elezioni quasi ingovernabile e perfino Lei non si esprime in modo chiaro su chi raccomanderà al capo dello Stato, Shimon Peres, come futuro premier.
«Non sono assolutamente d'accordo. L’elettorato israeliano ha dato un suo verdetto: ha punito la sinistra riducendola al suo minimo storico e il governo che sorgerà dovrà innanzi tutto tenere conto del fatto che c’è una chiara maggioranza della destra: da ora in poi gli interessi di Israele dovranno venire prima di quelli di altri. Per quanto riguarda la mia raccomandazione al presidente, non voglio ancora rendere pubblica la nostra preferenza solo per un fatto di forma e di correttezza verso il processo democratico in cui deve essere Peres il primo a sentire quello che abbiamo da dire. Quello che invece è più importante – e questo lo faremo già nei prossimi giorni – è fissare la piattaforma del futuro governo e delinearne la politica nei vari campi. Ciò dovrà riflettere, come ho già detto, la volontà scaturita fuori dal voto».

Una volontà che comprende la neutralizzazione di qualsiasi sforzo teso a progredire nel processo di pace? In altri termini, signor Lieberman, per Lei dialogo è una parola impronunciabile?
«A quale processo di pace si riferisce? Quello che ha permesso a Hamas di costruire una base terroristica a Gaza e lanciare sul territorio israeliano oltre 10mila razzi in otto anni? Quello che dopo il nostro fallimento della Seconda Guerra del Libano ha permesso il riarmo di Hezbollah nel sud del Libano? Oppure quello che consente all’Iran di dichiarare pubblicamente di voler cancellare Israele dalla faccia della terra mentre continua ad avvicinarsi ad una capacità nucleare? O magari quello per il quale si chiede a Israele di dare territori in cambio di pace e poi, una volta liberi, questi territori vengono usati esclusivamente per attaccare Israele?».

Quindi, stando a Lei, non c'è alcuna speranza di dialogo con i Palestinesi e con il mondo arabo.
«E chi l’ha detto? La pace è un obiettivo importante per tutti, anche per noi, ma non può essere anteposta all'esistenza dello Stato d'Israele. Tanto i palestinesi, quanto il mondo arabo riceveranno la nostra mano tesa in segno di pace nel momento in cui abbandoneranno la strada della violenza e del terrorismo; ma fin quando continueranno su questa strada, Israele ha il diritto e il dovere di difendersi con ogni mezzo a sua disposizione. Purtroppo, la strada delle concessioni si è dimostrata impraticabile e pericolosa, poiché ogni compromesso viene colto dagli Arabi come un segno di debolezza. Futuri accordi dovranno abbandonare l’idea di "pace in cambio di territori" e basarsi sul principio di “pace in cambio di pace”. Non è questa, chiaramente la sede di entrare nei particolari, ma i principi di massima sono che si dovrà tendere alla massima divisione fra le due popolazioni; si dovrà trovare una soluzione regionale in cui siano coinvolte Egitto e Giordania e in ogni caso, qualsiasi trattativa potrà avvenire solo dopo che si saranno verificate come precondizioni la sconfitta del terrorismo, la presenza di un partner che dimostri volontà di giungere ad una soluzione pacifica e capacità di metterla in atto e infine l’abbandono dell’incitamento a distruggere Israele nel sistema educativo palestinese e la sua sostituzione con l’insegnamento della pace. Per fare la pace servono due popoli che la vogliono e che offrono le condizioni minime per raggiungerla».

Signor Lieberman, il rabbino Ovaia Youssef, guida spirituale di Shas (il partito ortodosso sefardita), ha detto: «Votare per Lieberman è votare Satana». Come ci si sente in queste vesti?
«Satana, razzista, il “mostro-Lieberman”… Eppure con questo “Satana” tutti vorrebbero allearsi… Mi dica: chi è in difetto?».

udegiovannangeli@unita.it
ha collaborato Cesare Pavoncello

14 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #127 inserito:: Febbraio 18, 2009, 11:11:24 am »

«Barghuti libero. Una speranza per noi palestinesi»

di Umberto De Giovannangeli


«I detenuti politici palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane sono persone che lottano per la pace, la giustizia e la libertà del loro popolo. Marwan Barghuti, mio marito, è uno di loro. La sua liberazione sarebbe una vittoria di tutto il popolo palestinese e non di una sua fazione». A sostenerlo è Fadwa Barghuti, avvocata, moglie di Marwan, segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania, l’uomo simbolo della seconda Intifada, dal 2002 detenuto in un carcere di massima sicurezza dello Stato ebraico, condannato all’ergastolo per reati di terrorismo.

«Dal carcere - dice a l’Unità Fadwa Barghuti - Marwan ha continuato a battersi per la causa palestinese, rivendicando dignità, rispetto, e libertà per il suo popolo». Nell’ambito delle trattative per la liberazione del soldato Gilad Shalit - prigioniero di Hamas dal giugno 2006 - i media israeliani hanno accreditato le voci di una liberazione di Marwan Barghuti. «So di queste voci - dice Fadwa - ma quello che mi preme sottolineare in questo momento è che la sorte di Marwan non può essere scissa da quella dei quasi undicimila palestinesi oggi prigionieri nelle carceri israeliani. Questa ferita va sanata se si vuole davvero rilanciare un processo di pace».

Marwan Barghuti libero in cambio della liberazione del soldato Shalit. I media israeliani accreditano questa possibilità. Rinasce la speranza?
«In questi sette anni, io e la mia famiglia non abbiamo mai smesso di batterci per il ritorno alla libertà di Marwan. Mio marito è stato rapito illegalmente da uno Stato che ha occupato con la forza le regioni che secondo gli accordi di Oslo sono sotto la piena sovranità palestinese. Marwan è membro del Parlamento palestinese e come lui lo sono altri 40 parlamentari che Israele ha arrestato illegalmente. La loro liberazione risponde ad un principio di legalità che Marwan ha sempre rivendicato».

C’è chi sostiene che la sua liberazione sarebbe un «favore» che Israele farebbe al presidente palestinese Abu Mazen.
«E cosa dovrebbe ricevere, Israele, in cambio di questo “favore”? Un silenzio sui crimini che l’esercito israeliano ha compiuto a Gaza? Un atteggiamento più accomodante rispetto alla colonizzazione dei Territori? Chi lo pensa, o lo spera, non conosce Marwan Barghuti».

Tra le voci che circolano , c’è quella secondo cui Israele libererebbe detenuti di «grosso calibro» solo se accetteranno di vivere in esilio.
«Non parlo per gli altri. Ma su mio marito posso esserne certa: mai Marwan accetterebbe di barattare la sua libertà con l’esilio».

C’è chi vede in Marwan Barghuti l’unico leader palestinese in grado di riunificare le fazioni in lotta.
«Marwan ha sempre sostenuto che un popolo diviso è un popolo indebolito, e che le ragioni dell’unità dovrebbero avere il sopravvento sulle logiche di potere. Anche dal carcere non è venuto meno a questo principio».

La destra israeliana si oppone alla liberazione del «terrorista Barghouti».
«Marwan ha rivendicato il diritto alla resistenza, anche armata, contro le forze di occupazione, ma ha sempre condannato azioni terroristiche che miravano a colpire civili. Dal carcere continua a sostenere che non ci sarà mai pace finché ci sarà occupazione. E l’unica soluzione per porre fine alla sofferenza di entrambi i popoli è avere due Stati. Marwan si è battuto per questo e continuerà a farlo. Senza scendere a compromessi».
udegiovannangeli@unita.it

17 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #128 inserito:: Febbraio 21, 2009, 11:50:05 pm »

«Processo che indigna. Giustizia e diritti non abitano a Mosca»

di Umberto De Giovannangeli


Indignato ma non sorpreso. «Questa è la “giustizia” putiniana. La “giustizia” di quella che ebbi modo di definire una democratica”, vale adire di un regime che si proclama democrazia ma che continua, nei fatti, ad agire come la vecchia dittatura. Una democratica” che Anna Politkovskaia ha denunciato con coraggio. Per questo è stata assassinata». A parlare è Predrag Matvejevic, scrittore, saggista. Il suo percorso culturale e umano (nato a Mostar, da madre croata e padre russo) è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell’«inferno balcanico» di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte. Un intellettuale che ha avuto il coraggio di denunciare i crimini di regimi sanguinari. Come ha fatto Anna Politkovskaia raccontando il genocidio del popolo ceceno.

Professor Matvejevic, il tribunale di Mosca ha assolto gli imputati alla sbarra per l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaia. Come vive questa notizia?
«Con dolore. Con rabbia. ma non con sorpresa. Purtroppo c’era da aspettarselo. Perché questa sentenza, come l’inchiesta che l’ha preceduta sono espressione della giustizia putiniana. Il parto di quella che ebbi modo di definire una “democratura”: democrazia di facciata, dittatura nella sostanza. Per noi che sappiamo cose era la Russia del XIX secolo e gli sforzi dei grandi scrittori, come Tolstoj, per dar corpo all’ideale di uno Stato di diritto, questa situazione presente ci affligge enormemente. Mi viene alla mente la lettera che Tolstoj scrisse allo zar per dirgli che il suo regno non conosceva il diritto e la giustizia. Due secoli dopo, nella “democratura” dello “zar Putin” quelle parole sono attuali come non mai. Povera Russia! Nell’era di Vladimir Putin può accadere di tutto. Una falsa democrazia può giustificare il peggior atto di dittatura. Diritti e giustizia non albergano
a Mosca».

Quale ricordo ha di Anna Politkovskaia?
«Un ricordo personale. Ho conosciuto Anna in Italia, a Mantova, due anni prima della sua uccisione.
Mi onoro di aver conosciuto una persona di grande cultura, di un coraggio e di uno spirito critico
eccezionali. Per l’intera giornata mi ha parlato di una quindicina di giornalisti - tutti critici verso il regime di Putin - che sono stati vittime di “incidenti”. Non sapeva, Anna, che sarebbe stata lei la sedicesima. La notizia della sua morte fu per me uno shock molto grande, che crebbe dopo aver ascoltato, qualche giorno dopo, le dichiarazioni di Putin...Senza vergogna....».

Perché, professor Matvejevic?
«Perché ebbe l’improntitudine di sostenere che quella morte brutale non serviva al suo regime e anzi era un tentativo di screditarlo... Un’arroganza senza limiti. Per molto tempo, la “democratura” di Putin ha provato a comperare le coscienze dei russi garantendo un minimo di benessere sociale. Ma questo basta per giustificare un regime che si macchia di crimini così atroci? Ora però che la crisi economica e finanziaria mondiale attacca anche la “democratura” russa le vergogne del regime affiorano. Il baratto non regge più».

A dichiararsi amico di Putin è il premier italiano, Silvio Berlusconi.
«Non mi meraviglia affatto. Berlusconi è riuscito a dirsi amico di George W.Bush e di Vladimir Putin. Cosa ci può essere di peggio all’inizio del Terzo millennio?

20 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #129 inserito:: Marzo 01, 2009, 10:48:18 am »

«Palestinesi uniti contro il pericolo di un esecutivo di falchi»

di Umberto De Giovannangeli


La parola ad Ahmed Qorei (Abu Ala), ex primo ministro palestinese, capo negoziatore per Al Fatah, il partito del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), ai colloqui del Cairo che hanno portato ad un accordo tra 13 fazioni palestinesi per dar vita ad un governo di «riconciliazione nazionale. «Siamo all’inizio di un processo - avverte Abu Ala - ma non vi è dubbio che da parte di tutti i movimenti coinvolti c’è la consapevolezza che le divisioni interne al campo palestinese indeboliscono la nostra credibilità internazionale, disorientano la nostra gente e fanno il gioco di quanti in Israele intendono sabotare ogni sforzo volto al raggiungimento di una pace stabile, giusta, fondata sul principio di due Stati per due popoli».
C’è chi sostiene che l’intesa del Cairo sia motivata dai miliardi di dollari che la Conferenza internazionale di Sham el Sheikh dovrebbe destinare alla ricostruzione di Gaza.
«La ricostruzione di Gaza è una priorità assoluta per la dirigenza palestinese. Una sfida politica alla quale nessuno può sottrarsi...».

Restano i finanziamenti. Una «torta da spartirsi» tra le 13 fazioni?
«Assolutamente no. Nel suo intervento alla Conferenza dei Donatori, il presidente Abbas illustrerà nei dettagli come, dove e chi gestirà quei fondi finalizzati alla ricostruzione di quanto distrutto dalle forze armate israeliane e al miglioramento delle condizioni di vita di una popolazione segnata dall’assedio d’Israele. Gli occhi del mondo saranno su di noi. Non sarà consentito un fallimento».

Uniti per non cadere?
«Uniti perché le nostre divisioni interne hanno indebolito fortemente la causa palestinese e rafforzato i “falchi” israeliani...».

Falchi che si apprestano a formare il nuovo governo in Israele.
«È una prospettiva che dovrebbe allarmare l’intera comunità internazionale e non solo noi palestinesi. In Israele si apprestano a governare forze che hanno osteggiato apertamente qualsiasi negoziato con l’Autorità palestinese e che hanno accusato di tradimento e di capitolazione quei leader israeliani che hanno praticato il dialogo. Mi lasci aggiungere che di fronte a questo scenario, occorre che dalla Conferenza di Sharm el Sheikh emerga un messaggio politico forte, unitario...».

Quale dovrebbe essere questo messaggio?
«Quello che la comunità internazionale, Stati Uniti ed Europa in testa, non intende venir meno alla ricerca di una pace che riconosca il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente sui territori occupati da Israele nel 1967...».

Da capo negoziatore palestinese, Lei è pronto a incontrarsi con il probabile nuovo primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu?
«Non c’è in noi alcuna pregiudiziale politica o ideologica. Ma una cosa deve essere chiara: si negozia con chi accetta il principio dei due Stati e agisce di conseguenza. Temo che il nuovo governo israeliano nasca su basi diverse».

E il governo di riconciliazione nazionale palestinese su che basi nascerà?
«Abbiamo costituito commissioni di lavoro che dovranno affrontare tutte le questioni sul tappeto. Non nascondo le difficoltà. Ma in questo percorso condiviso ognuno dovrà assumersi le sue responsabilità. L’obiettivo a cui dobbiamo tendere è quello di uno Stato palestinese indipendente, pienamente sovrano sul suo territorio nazionale, con Gerusalemme Est come capitale. Chiunque entrerà a far parte del governo di riconciliazione dovrà condividere questo obiettivo».
udegiovannangeli@unita.it

28 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #130 inserito:: Marzo 05, 2009, 03:22:06 pm »

«Giustizia è fatta. Una lezione per tutti i dittatori»

di Umberto De Giovannangeli


«In questo momento mi tornano alla mente i volti dei bambini, delle donne, degli uomini che ho incontrato nei campi di raccolta dei profughi del Darfur. Ricordo i loro sguardi impauriti, i racconti di violenze indicibili subite. Ma ricordo anche la richiesta che li accomunava: vogliamo giustizia. Giustizia, non vendetta. E ieri il Tribunale dell’Aja ha dato una prima risposta a questa richiesta, scrivendo una pagina importante nella storia del diritto internazionale».

A parlare è Jody Williams, premio Nobel per la Pace 1997 per il suo lavoro come fondatrice e coordinatrice della Campagna Internazionale per la proibizione delle Mine Antiuomo. Jody Willams, presidente del Nobel Women's Initiative, negli ultimi anni ha dedicato il suo impegno alla tragedia in atto in Darfur, dove ha condotto una missione delle Nazioni Unite, e alla quale è seguito un rapporto pubblicato il 7 marzo 2007.

La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja ha emesso oggi (ieri per chi legge, ndr.) un ordine di arrestato internazionale contro il presidente sudanese Omar al Bashir per crimini contro l’umanità e per crimini di guerra nel Darfur. Qual è il messaggio che c’è dietro questa decisione?
«È un messaggio di speranza. La giustizia è ancora una parola pronunciabile anche in quelle aree del mondo martoriate come il Darfur. Ed è anche un messaggio a tutti i dittatori del mondo: di fronte alle pulizie etniche, alle fosse comuni, ai villaggi bruciati, alle deportazioni, agli stupri di massa; di fronte a questo scempio dei più elementari diritti della persona, a cominciare da quello alla vita, nessuno può sentirsi “impunibile”».

Lei è stata responsabile del gruppo speciale dell’Onu chiamato a investigare le condizioni dei diritti umani in Darfur. Il rapporto licenziato dal gruppo Onu è stato durissimo nei confronti delle autorità sudanesi. E molte delle accuse documentate sono state fatte proprie dalla Corte dell’Aja.
«Quel rapporto documentava una realtà terribile. Una realtà che io e i miei quattro colleghi abbiamo ricostruito parlando con numerosi sopravvissuti all’epurazione etniche portata avanti dal governo sudanese che si è reso complice di questi crimini per aver armato e addestrato le milizie jianhjaweed (i jianhjaweed sono i miliziani del regime arabo del nord che dal 2003 hanno lanciato campagne di terrore contro la popolazione civile di origine africana, ndr.). Siamo entrati nei campi dei rifugiati in Ciad e abbiamo parlato con chi ci vive, raccogliendo racconti raccapriccianti che parlano di gigantesche e sistematiche violazioni dei diritti umani e gravi strappi alla legge internazionale. Il governo sudanese è stato complice in questi crimini per aver armato e addestrato le milizie janjaweed. (I janjaweed sono gli scherani del regime arabo del nord che dal 2003 hanno lanciato campagne di terrore contro la popolazione civile di origine africana: bruciano i loro villaggi, uccidono gli uomini, violentano le donne e le bambine e rapiscono i ragazzini che vengono arruolati a forza, ndr.) Il Tribunale dell’Aja ha confermato la validità di quel rapporto. Ora però la Comunità internazionale deve agire sul campo per proteggere i civili del Darfur e porre fine ai massacri indiscriminati».

Khartoum sostiene che questa sentenza della Corte dell’Aja sia una indebita ingerenza negli affari interni del Sudan.
«Affari interni il massacro di centinaia di migliaia di civili? La distruzione di quasi 2mila villaggi? Di fronte a questi crimini contro l’umanità l’ingerenza internazionale non è un diritto, è un dovere. Un dovere che va rivendicato e praticato. E non solo In Darfur».
udegiovannangeli@unita.it


05 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #131 inserito:: Marzo 13, 2009, 11:20:53 pm »

I tribunali scomodi

di Umberto De Giovannangeli


Da qualunque lato si consideri il tema della guerra e del diritto, si arriva necessariamente a misurarsi con la questione dei tribunali internazionali. Qual è la loro giurisdizione? Che autonomia hanno effettivamente? Che possibilità hanno di rendere esecutive le sentenze che emettono? E ancora: quella pratica è vera Giustizia o è la «vendetta» dei Vincitori sui Vinti? Una cosa è certa: i tribunali internazionali sono oggi l’espressione di un Diritto internazionali che in troppi vorrebbero coartato nel nome della «indebita ingerenza» negli «affari interni» di uno Stato-nazionale.

Da Slobodan Milosevic a Omar Al Bashir. Dall’inferno dei Balcani a quello del Darfur. Passando per il Rwanda, il Libano, la Sierra Leone. Nessun dittatore deve potersi considerare «impunibile» per crimini di guerra e contro l’umanità. È questa la sfida di una Giustizia internazionale che s’incardina nei Tribunali sovranazionali. Sono le Corti «scomode» perché nell’indagare su crimini efferati finiscono, spesso, per svelare la faccia impresentabile» di una real politik che molte volte, in nome di interessi economici o geopolitici, chiude gli occhi e concede impunità a regime che fanno spregio dei più elementari diritti della persone, a cominciare da quello più sacro: il diritto alla vita.

Le prime esperienze di tribunali penali internazionali sono i tribunali militari di Norimberga e Tokyo del 1945, nei quali gli Alleati hanno processato i criminali di guerra nazisti e giapponesi. In seguito, già nel 1949 la Commissione di diritto internazionale dell’Onu cominciò a lavorare su una «bozza di codice sui crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità» e nominò un Comitato per codificare tali crimini; ma si dovette giungere al 1989 perché finalmente l’Assemblea generale ONU chiedesse alla Commissione di diritto internazionale di riprendere i lavori sulla Corte penale internazionale. Nel 1993 e nel 1994 scoppiarono i conflitti nella ex Jugoslavia e poi in Rwanda, e i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio - nella forma di «pulizia etnica» - resero nuovamente urgente il tema del diritto penale internazionale. Il Consiglio di Sicurezza decise di battere la strada dei Tribunali «ad hoc»- all’Aia (1993) e ad Arusha (1994) - per giudicare i responsabili di quelle atrocità e scoraggiare il ripetersi di simili crimini. Nel loro agire, le Corti internazionali aprono dossier su pagine scioccanti della storia dell’oggi: pulizia etnica, deportazioni di massa.

E stupri. Lo statuto del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia menziona esplicitamente lo stupro fra i crimini contro l’umanità, e quello del Tribunale di Arusha sul Rwanda elenca fra gli atti che il tribunale ha competenza di giudicare «stupro, prostituzione forzata e ogni forma di aggressione sessuale». I processi celebrati da questi due tribunali hanno già riconosciuto lo stupro come atto di tortura, grave violazione delle convenzioni di Ginevra e crimine di guerra, nonché come strumento di genocidio, ed entrambi i tribunali si sono dotati di una consulente sulle questioni di genere, ed hanno adottato un punto di vista di genere anche nel modo di affrontare questioni come l’ammissibilità delle prove e il trattamento dei/delle testimoni.

Dal Darfur al Tibet, dal Congo ai Balcani. Spesso, quando si denuncia il mancato rispetto dei più elementari diritti della persona, a cominciare dal diritto alla vita, i governi nazionali investiti dalle critiche parlano di «indebita ingerenza» negli affari interni. Riflette Fausto Pocar, già presidente del Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex-Jugoslavia, e membro della Camera di Appello del Tribunale Internazionale per i Crimini nel Rwanda dal 2000: «A partire dalla Carta delle Nazioni Unite la nozione di affari interni dello Stato è venuta progressivamente a restringersi in conseguenza della disposizione della Carta che considera la protezione dei diritti fondamentali senza alcuna discriminazione come oggetto di obblighi di carattere internazionale anche quando si tratti del comportamento dello Stato nei confronti delle persone che si trovano sul suo territorio o alle quali si estende la sua giurisdizione. Non si tratta quindi di indebita ingerenza negli affari interni perché quegli affari, o questioni, non sono interni ma oggetto di valutazione e di obblighi di carattere internazionale».

Si pone così il l grande tema del diritto all’ingerenza umanitaria. Spiega ancora il professor Pocar: «Nel diritto internazionale si è venuta affermando negli ultimi anni la nozione di una "responsabilità di proteggere" le popolazioni dalle violazioni più gravi dei diritti fondamentali della persona: dal genocidio, la pulizia etnica, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Quando lo Stato in cui i crimini sono commessi non ha la volontà o la capacità di proteggere la sua popolazione, la comunità internazionale è autorizzata ad agire, o meglio ha l’obbligo di farlo. Tale obbligo è stato riconosciuto in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 2006, e dalla Corte internazionale di giustizia in una sua recente sentenza».
Il mondo scopre la giustizia. I tribunali internazionali provano a praticarla.

udegiovannangeli@unita.it

13 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #132 inserito:: Marzo 18, 2009, 10:53:18 am »

«Sono ostili alla pace. Tutto più difficile»

di Umberto De Giovannangeli


«Se non fossimo davanti a una tragedia, ci sarebbe da sorridere: a ministro degli Esteri un falco che pensa di poter risolvere la questione palestinese sganciando bombe atomiche su Gaza e realizzando una deportazione di massa degli abitanti della Cisgiordania».

A parlare è Yasser Abed Rabbo, segretario del Comitato esecutivo dell’Olp, tra i più autorevoli dirigenti palestinesi.
«Non solo noi palestinesi ma l’intera comunità internazionale - afferma Rabbo - dovrà fare i conti con un governo israeliano di estrema destra che nel suo orizzonte strategico non ha certo un accordo di pace fondato sul principio di due Stati per due popoli».


Sarà dunque Avigdor Lieberman il prossimo ministro degli Esteri d’Israele. Qual è il suo primo commento?
«Lieberman è il teorizzatore della deportazione forzata dei palestinesi dalla Cisgiordania. Cos’altro aggiungere: Israele sta andando verso la formazione di un governo decisamente ostile al rilancio del processo di pace».

Ma Lieberman ha fama di «pragmatico», come il premier incaricato Benjamin Netanyahu...
«L’estrema destra israeliana ha considerato un traditore Yitzhak Rabin e ha accusato di avventurismo “filo palestinese” persino il primo ministro uscente (Ehud Olmert). La verità è che con un governo Netanyahu-Lieberman verrà meno un partner con cui negoziare la pace...».

Siamo dunque entrati in un vicolo cieco?
«Purtroppo sembra di sì, a meno che...».

A meno che?
«Usa ed Europa non agiscano all’unisono per evitare il peggio. Un governo israeliano che si dica apertamente contrario al principio dei due Stati è un governo che può destabilizzare l’intero Medio Oriente. Sta innanzitutto al presidente statunitense Barack Obama evitare questa pericolosa deriva. Con un governo di falchi la pace è una prospettiva irrealizzabile».
udegiovannangeli@unita.it

17 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #133 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:26:52 am »

«Accordo saltato. Olmert ha ingannato la famiglia Shalit»

di Umberto De Giovannangeli


La «verità» di Hamas sul fallimento delle trattative per la liberazione del caporale Gilad Shalit. La risposta di Hamas alle affermazioni del premier israeliano Ehud Olmert. «Olmert è il responsabile del mancato accordo. Ha avuto paura. E così facendo ha preso in giro l’opinione pubblica israeliana e la famiglia Shalit». Verità di parte. A sostenerla è Ismail Radwan, uno dei leader politici del movimento islamico a Gaza.
«L’accordo - rivela Radwan - prevedeva la liberazione in due fasi di mille prigionieri palestinesi. Nella prima fase ne dovevano essere scarcerati 450, due mesi dopo i restanti 550. Poi la marcia indietro».
«Non subiremo i ricatti» di Hamas. Così il premier israeliano Ehud Olmert ha motivato il fallimento dei negoziati indiretti per la liberazione del caporale Shalit.
«Olmert mente sapendo di mentire. E mente innanzitutto alla famiglia Shalit. Da parte nostra non c’è stato alcun irrigidimento finale nella trattativa. Avevamo concordato la liberazione di mille prigionieri palestinesi, tra i quali 450 combattenti di Hamas. La lista era pronta...».

Questa è la versione di Hamas...
«No, è una versione che può essere confermata dai mediatori egiziani...».

E cosa avrebbe fatto fallire un accordo che sembrava ormai in dirittura d’arrivo?
«La paura di Olmert. All’ultimo momento, gli inviati israeliani hanno posto come condizione non negoziabile che tutti i prigionieri liberati accettassero di andare in esilio. A quel punto era chiaro che volevano far fallire le trattative. I palestinesi preferiscono morire nella loro terra piuttosto che vivere altrove».

Olmert aveva posto la liberazione di Shalit come precondizione per una tregua duratura a Gaza.
«Da subito abbiamo affermato che le due cose erano separate. L’”hudna” (tregua, ndr.) è legata alla fine del blocco imposto da Israele a Gaza. La liberazione di Shalit è legata a quella dei palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Così è sempre stato e così sarà per il futuro...».

Un futuro che prevede una eventuale ripresa di trattative con un nuovo primo ministro israeliano: Benjamin Netanyahu.
«Per noi non c’è alcuna differenza fra Olmert e Netanyahu. Non ci attendiamo dal nemico alcuna concessione. Se e quando avverrà lo scambio, sarà perché Israele avrà compreso che non c’è altro modo per ridare libertà al soldato Shalit. Libertà per libertà. E l’obiettivo di Hamas è liberare tutti i prigionieri palestinesi».

Anche con nuovi rapimenti?
«Con ogni mezzo».

Israele minaccia di inasprire le misure contro gli esponenti di Hamas detenuti.
«Chiami le cose con il loro nome. Israele minaccia di torturare i nostri fratelli prigionieri. Se ciò avverrà, sapremo come rispondere».

Da un negoziato all’altro. Quello tra Fatah e Hamas per la formazione di un governo di unione nazionale. Esponenti di Fatah sostengono che Hamas sta alzando il prezzo...
«Non siamo al suk. Un nuovo governo deve tener conto della volontà espressa dal popolo palestinese nelle elezioni del gennaio 2006 (che sancirono la vittoria di Hamas, ndr.)».

La ricostruzione di Gaza. Sarà gestita dall’Anp?
«Sarà gestita dalle forze che a Gaza sono radicate. Nessuna esclusa. Hamas è tra queste».

udegiovannangeli@unita.it


19 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #134 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:52:55 pm »

«Barack ridisegna il profilo degli Usa. Addio Bush»

di Umberto De Giovannangeli


Obama e le cluster bomb. Ne parliamo con Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica Limes.

Come leggere la disponibilità del presidente Usa a firmare in sede Onu il bando delle bombe a grappolo?
«Si può valutare in vari modi. Una ipotesi, è che siano obsolete, e che quindi non servano più. Un’altra ipotesi, è che invece le cluster bomb servano ma che non siano politicamente corrette. E se è valida questa seconda ipotesi, Obama vorrebbe in qualche modo, attraverso questo atto che può essere letto in sequenza con altri, contribuire a ridisegnare l’immagine internazionale degli Stati Uniti, abbastanza compromessa negli otto anni di George W.Bush, in particolare in Medio Oriente e non solo. E per far questo, Obama è pronto, come in parte ha già fatto, a sacrificare alcuni dei dogmi, e quindi anche degli armamenti, tipici degli Stati Uniti».

Questa disponibilità viene accolta con favore dalle più importanti organizzazioni umanitarie statunitensi e internazionali. E un segno di riavvicinamento tra la Casa Bianca e questo mondo «pacifista»?
«Se vale la seconda delle due ipotesi che facevo, la risposta è sì. Perché già in linea con alcuni gesti compiuti prima da Obama, come la promessa della chiusura di Guantanamo, che poi vedremo fino a che punto sarà realizzata, o la famosa intervista ad Al Arabiya. Insomma, alcune aperture di Obama, retoriche o anche fattuali, segnalano la volontà del presidente democratico di restituire all’America un suo posto in un ambiente internazionale di cui sia effettivamente membro, di cui partecipi a scrivere le regole ma anche a rispettarle».

La rivalutazione delle istituzioni sovranazionali è un tratto caratterizzante di quell’approccio multilaterale evocato alla gestione delle crisi da parte di Barack Obama?
«Questo è un po' presto per dirlo. Certamente nella tradizione democratica e anche nella visione di Obama, c’è un approccio alle Nazioni Unite che è molto diverso da quello dell’amministrazione Bush, particolarmente di alcuni suoi esponenti, come l’ambasciatore all’Onu, Richard Bolton, i quali consideravano e considerano le Nazioni Unite poco meno che satanica come organizzazione. Dal punto di vista di Obama, può essere utile avervi un ruolo più attivo, con un effetto di legittimazione dell’iniziativa internazionale degli Stati Uniti che in questa fase mi pare abbastanza importante per il nuovo capo della Casa Bianca».

Il multilateralismo di Obama non comporta anche a maggior impegni degli europei?
«Non solo degli europei ma di tutti gli attori internazionali. A questo punto non si può più ragionare con la logica “bushiana” del con me o contro di me, ma si entra in una logica di compromesso, di negoziato, in cui serve stabilire dei punti fermi e trattare con gli americani. Questo è indubbiamente molto più complesso, più faticoso e forse anche più costoso».

udegiovannangeli@unita.it


20 marzo 2009
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