Tommaso PADOA-SCHIOPPA. -
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2011, CHE COSA VA CELEBRATO
Si parli di Stato, non di nazione
Ricordo le celebrazioni di Italia 1961: in un Paese giovane e laborioso crescevano il benessere e la democrazia. Lo studio del farsi dell'unità d'Italia, ripetuto alle elementari, alle medie e al liceo aveva costituito in me, come in molti, la struttura stessa del pensarmi come cittadino. Fui inorridito, trent'anni dopo, quando constatai che in un illustre liceo di Roma il capitolo sul Risorgimento, uno solo dell'immenso manuale adottato, era tra quelli che non si chiedeva agli allievi di studiare.
Il terzo cinquantenario si celebra in un momento assai più buio non solo del secondo, ma anche del primo, segnato dalle riforme giolittiane. Oggi ministri che hanno giurato sulla Costituzione annunciano la secessione senza che alcuno strale li colpisca in modo immediato e diretto. Chi tace acconsente. Per il 2011 sono previste, oltre che opere pubbliche, iniziative storico-culturali. E poiché se ne cerca tuttora il filo conduttore, oso una proposta.
Bisogna chiarire bene l'anniversario che sarà celebrato; finora il dibattito pubblico ha del tutto mancato di farlo. Nel 2011 si celebrerà non la nascita della nazione italiana (un fatto di cultura), bensì la fondazione dello Stato italiano (un fatto politico e istituzionale). La nazione esiste dal Medioevo, precede addirittura il formarsi della tedesca, francese, spagnola, britannica. La lingua parlata oggi in Italia assomiglia a quella di Dante come nessuna lingua europea assomiglia al suo progenitore del XIII o XIV secolo. E ha secoli di storia non solo la nazione, ma anche la coscienza di essa da parte degli spiriti illuminati: basta rileggere Dante, Petrarca, poi Machiavelli.
Soltanto dopo secoli di divisione, asservimento, decadenza materiale e civile, crebbe e si realizzò l'idea di dare all'Italia uno Stato, istituzioni, leggi, poteri. La peculiarità della storia italiana non è la nascita recente della nazione, è la combinazione di una nazione precoce e di uno Stato tardivo. Finalmente, nell'Ottocento, lo Stato italiano nasce e nel 2011 è dunque di questo che si deve parlare. Tanto più che molta, molta materia ci impone di riflettere, di compiere un esame di coscienza, di correggere comportamenti e istituzioni. Nell'Italia di oggi ce n'è per ogni regione e per ogni ceto, per la parte pubblica e per la privata.
Tutte le celebrazioni del 150˚dovrebbero ruotare, a mio giudizio, intorno a un solo grande tema: lo stato dello Stato italiano . È questo — oggi, ma in realtà da tempo — l'organo malato dell'Italia, quello la cui patologia sta facendo deperire l'intero corpo sociale, l'economia, la terra e le acque, la cultura, la scienza, il rapporto con la sfera religiosa. Non è un'esagerazione affermare che dei 150 anni trascorsi dal 1861 forse la metà sono stati consacrati alla costruzione dello Stato italiano; altrettanti a una vera opera di distruzione che si è fatta più intensa negli ultimi decenni e ancor più negli anni recenti. È una dura affermazione che può (e dovrebbe) essere documentata in modo specifico proprio all'avvicinarsi dell'anniversario al fine di preparare un riscatto. Sono ormai gravemente minacciati la democrazia, principi fondamentali dello Stato di diritto, la preservazione del patrimonio artistico, l'ambiente naturale, il fatto stesso di essere uno Stato unitario. Lo Stato, non la nazione, è e deve essere il tema di Italia 2011.
Tommaso Padoa-Schioppa
20 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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LA FINE DELL’INTERVENTO PUBBLICO NELLA CRISI
Come scegliere il momento giusto
Exit strategy è il nome anglo- latino della questione oggi più discussa e più ardua nel dibattito cosmopolita sulla crisi. Si tratta di scegliere il momento giusto per qualcosa che deve avvenire. Ma da che cosa si deve uscire, e perché la questione è tanto ardua?
Da oltre un anno governi e banche centrali pompano la spesa pubblica e privata per arrestare la caduta della produzione: dilatazioni smisurate dei deficit di bilancio e della moneta e azzeramento dei tassi d'interesse. Poiché la caduta sembra cessata, ora ci si interroga se sia il momento di «uscire» da quelle misure per riportare sotto controllo bilanci pubblici e moneta. Nell’acme della crisi, infatti, l’economia è stata curata con gli stessi veleni che l'avevano intossicata, mentre è chiaro che può guarire solo liberandosene.
Ogni errore nella scelta dei tempi può essere fatale, come per i trapezisti che devono afferrarsi al volo nel circo. Un’uscita prematura può precipitarci in una nuova caduta, come fu per l'errore che negli anni Trenta trasformò la recessione in depressione. Ma continuare nell'espansione monetaria provoca (anzi, forse ha già provocato) nuove euforie speculative e pericoli d'inflazione; mentre appesantire ancor più il debito inquieta il mercato e può accelerare la caduta del dollaro.
Cogliere l'attimo fuggente dell' exit significa, se non evitare anni difficili, almeno sottrarsi al dilemma se prolungare questa crisi o generare la prossima.
La scelta del momento è ancor più ardua per il fatto che diversi trapezisti devono coordinare (coordinare, non sincronizzare) le loro uscite dalla scena. Devono farlo i Paesi : Europa, Asia, Stati Uniti possono sospendere contemporaneamente gli stimoli alla crescita o devono farlo in tempi diversi? L'azione di uno ha effetti sugli altri e ognuno vorrebbe che gli altri continuassero a espandere mentre lui inizia a frenare. E devono coordinarsi le politiche : la moneta e il bilancio vanno normalizzati contemporaneamente o disgiuntamente e, in tal caso, secondo quale ordine?
Non solo: coordinare le mosse sarebbe già difficile per un onnipotente regista che desse i comandi da dietro le quinte. Lo è ancor di più perché il regista non c'è e i trapezisti (i Paesi e le banche centrali) hanno un tale concetto della propria indipendenza da ritenersi minacciati dal concordare alcunché con alcuno: ognuno crede di sapere che cosa dovrebbe fare l'altro e dall'altro non vuole sentire consigli.
Infine: è difficile coordinare le mosse perché a dettare il momento giusto dell'azione non è più il metronomo di una crisi in atto (il panico, la caduta produttiva) ma solo l'idea chiara di un approdo sicuro e l'accettazione del costo per arrivarci.
Purtroppo oggi esponiamo soprattutto dubbi e pericoli, mentre al lettore vorremmo comunicare qualche certezza e qualche rimedio. Ma possiamo almeno enunciare un criterio.
Il criterio è questo: nessun approdo è sicuro se riguarda solo le economie singolarmente prese ignorando le interdipendenze tra esse, se trascura il fatto che di fronte alle sfide di oggi il mondo è uno. Nulla ce lo ricorda con tanta forza quanto il tema del clima che occupa la riunione in corso a Copenaghen. Ma lo stesso vale per la moneta, per il commercio, per le migrazioni, per la stabilità finanziaria, per la sicurezza.
Tommaso Padoa Schioppa
08 dicembre 2009(ultima modifica: 09 dicembre 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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Le banche e la crisi
Chi non paga per gli errori
Mentre le fabbriche chiudono e i lavoratori perdono il posto, le banche, vere responsabili della crisi, fanno profitti; li fanno dopo essere state salvate dai contribuenti e li devolvono in gran parte a se stesse sotto forma di lauti guadagni per dirigenti e amministratori; nello stesso tempo rifiutano il credito alle imprese e, obbligandole a chiudere e a licenziare, affossano l'economia. Sono accuse note; le ripete anche il presidente Obama.
Come non farsi travolgere da simili accuse indirizzate a unmestiere già impopolare prima della crisi? Invece bisogna ragionare e non farsi travolgere. E se il ragionare comincia col distinguere, occorre esaminare le accuse una per una.
Oggi guardiamo ai salvataggi bancari, questione bruciante perché il denaro usato era del contribuente. Si noti che i salvataggi — cerniera tra il prima e il dopo crisi— sono avvenuti soprattutto in Paesi orgogliosamente predicanti le virtù magiche della proprietà privata e del mercato libero: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda; non in Italia, dove le banche si sono rafforzate con capitali privati. Si noti anche che il tema va tenuto distinto da altre questioni riguardanti il modo in cui le banche si conducono oggi coi loro debitori, nel mercato finanziario, nel compensare dirigenti e amministratori: questioni su cui occorrerà tornare e che riguardano tutte le banche, non soltanto quelle in cui lo Stato ha immesso capitale.
È, era, giusto salvare le banche? In condizioni normali la risposta è no. Se è cronicamente incapace di fare utili, qualunque impresa, anche se banca, deve uscire dal mercato perché, invece di creare, distrugge ricchezza. Il fallimento è un modo di uscire, non l'unico né sempre il migliore; altri sono il passaggio di proprietà o la rilevazione da parte di un concorrente.
Le condizioni del 2008, però, non erano normali; stava crollando non una banca, ma la funzione bancaria stessa; e le perdite erano spesso un fatto momentaneo dovuto a cattiva gestione o a panico, non un indebolimento irrimediabile. Se la moneta cessa di circolare e nessuno fa più credito ad alcuno, ogni economia basata sullo scambio (dunque, nel mondo di oggi, tutte le economie) crolla e ricostruirla è arduo. Il perdurare del panico avrebbe moltiplicato a dismisura le vittime innocenti: risparmi e posti di lavoro perduti.
In quelle circostanze l'interesse a salvare le banche era generale, prima che dei banchieri.
Non solo: per il contribuente che lo paga, il salvataggio è per lo più un buon affare, non una perdita. Ciò che egli compera vale assai più del bassissimo prezzo pagato ed è destinato a rivalutarsi. I giganteschi utili che la banca centrale americana ha appena annunciato ne sono la riprova: e le banche centrali devono sapere (ma qualche volta lo dimenticano!) che i loro utili sono destinati non a se stesse ma alle casse dello Stato.
Salvare sì, dunque; ma chi? Chi tra azionisti, amministratori, dirigenti, impiegati, depositanti, debitori? Mentre in un fallimento puro la risposta sarebbe «nessuno», in un salvataggio non può essere «tutti». Almeno i primi tre dei sei soggetti elencati dovrebbero perdere soldi e funzioni.
È da deplorare che ciò non sempre sia avvenuto. Ma nei casi in cui non è avvenuto, la critica va rivolta al salvante più che al salvato. Spettava al potere pubblico distinguere tra continuità della banca e discontinuità della sua proprietà e del comando.
Tommaso Padoa-Schioppa
17 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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LA CRISI DI ATENE RIDISEGNA L’UNIONE
La sovranita’ in movimento
La crisi greca durerà a lungo, e a lungo la studieremo. Il suo esito trasformerà l'Unione europea. Sue poste sono, più che la finanza e la stabilità, la sovranità e la democrazia: non in Grecia solamente, ma in ogni Paese e nell'Ue in quanto tale.
La dichiarazione emessa l'11 febbraio dai Capi di Stato o di governo è un lapidario concentrato di antinomie: responsabilità comune, ma doveri degli Stati; misure già decise da Atene, ma altre che la Commissione proporrà; azione «determinata e coordinata » dei Paesi dell'euro, ma nessuna richiesta greca di sostegno finanziario; riferimento al Fondo monetario internazionale, ma per far capire che non sarà esso a intervenire. Il Financial Times parla con malumore di «ibrido maldestro», ma le antinomie sono coerenti, anche se dirompenti: la Grecia non è più unica sovrana in casa sua, il sovrano europeo è entrato nei suoi confini e con essa governerà. La Grecia va sostenuta, ma non riceverà regali.
A malincuore l'Unione ha accettato di essere il sovrano capace, ma è ben conscia che il sovrano legittimo risiede per convenzione ad Atene. Questo ha riconosciuto la propria impotenza, ma deve rendere legittime le misure che la situazione impone e assumersene la paternità. La democrazia obbliga Papandreu a fare accettare l'austerità a quello stesso popolo sovrano che solo pochi mesi fa aveva blandito con promesse impossibili.
Ma nello sfondo vi sono un altro sovrano e altri «elettori »: un mercato, che ha la forza di travolgere una nazione quando sente l'odore del sangue e quella di esaltarla quando è inebriato dall'euforia. E’ un sovrano senza legittimità politica e spesso senza saggezza economica; bestia che però solo un sovrano economicamente più saggio e politicamente forte può domare. Il governo greco non è stato all'altezza; ora ci prova l'Unione.
Negli anni '80 e '90 economisti illustri sconsigliavano l'euro perché «senza unione politica non può esserci moneta unica»; i governi volevano l'euro come passo verso l'unione politica. Conclusioni opposte tratte da una stessa verità.
Anni fa parlai di «euro, una moneta senza Stato» per segnalare l'anomala condizione in cui operava la Banca centrale europea e il pericolo di compiacersene. La storia si muove zoppicando nelle contraddizioni, ma alla lunga deve ricongiungere moneta e Stato: non come Leviatano centralizzato dentro e arcigno fuori, secondo il nazionalismo giacobino; ma come «organizzazione potestativa sovrana dotata di poteri coercitivi», secondo Sartori.
Per vent'anni lo spazio tra moneta e Stato europeo è rimasto aperto, anzi si è allargato. Ma quando la crisi, invece di un'impresa o una banca, ha colpito un Paese e minacciato l'euro si è cominciato a capire che non si poteva più fare a meno dello «Stato dell'euro». La Germania ha capito che non aveva alcun senso intervenire per una Landesbank o un impianto della Opel e considerare cosa altrui il debito greco.
Per secoli i confini del potere sovrano furono tracciati da guerre e matrimoni dinastici. Ora intervengono il mercato e la politica.
Tommaso Padoa-Schioppa
15 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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DOPO LA CRISI UNA FASE NUOVA
Prova d'orchestra o governo europeo
Quando Angela Merkel e Nicola Sarkozy hanno insieme invocato, dal podio di Bruxelles, un «governo economico europeo » gli spasmi dell’Europa, vittima potenziale di una crisi causata da altri, sono divenuti evidenti. Che fosse minacciata l’Unione stessa si poteva fingere di ignorarlo finché erano colpiti una banca, un settore industriale, o uno Stato vicino; non più ora che vacilla un Paese dell’euro. Lo si capisce particolarmente in Germania, il Paese che, rinunciando al marco, ha posto la propria sicurezza monetaria nelle mani dell’Europa (un passo che la Francia non ha ancora saputo fare con l’arma nucleare); il Paese che, bocciando la candidatura di Blair, ha assunto la leadership europea dopo un decennio di egemonia britannica.
Ora, se vogliamo che, tra i molti possibili, prevalga l’esito migliore dobbiamo interpretare il corso storico che produce lo spasmo e definire correttamente i compiti del «governo economico europeo». Per farlo occorre capire che finisce la fase, iniziata un quarto di secolo fa, in cui il progetto europeo, in contraddizione coi Trattati fondatori, si esauriva nel mercato unico. Un mercato unico nel quale l’intervento pubblico veniva bandito dalle competenze europee anche in campi previsti dai Trattati dove l’Unione poteva far risparmiare soldi e guadagnare efficacia (energia, ricerca, trasporti e altri). Il mercato doveva essere europeo, ma l’intervento pubblico ridiventava monopolio nazionale. Onde l’asfissia del bilancio dell’Unione, il no al piano Delors del 1992, il no agli eurobonds.
L’Unione regrediva a coordinatore di politiche nazionali, non era attore in proprio. Non strumenti europei di politica economica, ma concerto degli strumenti nazionali: un concerto senza spartito e senza direttore che emetteva cacofonie peggiori di quelle immortalate da Fellini in Prova d’orchestra. Si diffondeva l’assurda pratica in nome della quale Bruxelles compensava l’assenza di competenze proprie ficcando il naso in quelle altrui, ben più di come faccia un vero governo federale; pratica senza costrutto perché, al dunque, i coordinandi decidevano di non darsi reciprocamente fastidio e producevano solo impotenza e discredito per l’Unione stessa. Ironia della sorte, la strategia del «mercato soltanto » ha infine minato il mercato stesso. Un numero crescente di direttive europee definisce l’armonizzazione necessaria come la libertà per ognuno di fare quello che vuole, legittimando regole nazionali che discriminano lo straniero. Quale ministro, ho dovuto recepire nell’ordinamento italiano norme europee autorizzanti pratiche protezionistiche che le leggi italiane vietavano: l’Europa m’imponeva non l’apertura ma la chiusura delle frontiere!
Oggi la crisi minaccia di morte proprio il mercato e siamo al bivio tra coordinamento e vero governo economico dell’Unione. Questo avrà un senso e sarà efficace solo se doterà l’Ue di competenze e strumenti propri, come i Trattati prevedono. Non solo una effettiva applicazione del patto di Stabilità che ponga fine all’indulgenza reciproca, ma anche iniziative quali un programma europeo di investimenti finanziati con obbligazioni dell’Unione, una riforma del bilancio che riduca la spesa nazionale e aumenti (meno che proporzionalmente) quella europea, una tassa europea sulle emissioni di carbonio, una vigilanza finanziaria realmente europea, una vera politica dell’energia.
Tommaso Padoa-Schioppa
14 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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