Tommaso PADOA-SCHIOPPA. -

<< < (3/3)

Admin:
L'europa e la crisi greca

La linea d’ombra tedesca


A giorni il governo tedesco proporrà al Parlamento il prestito alla Grecia. Lo farà nonostante che i mercati continuino a scommettere sul mancato rimborso; che le agenzie di rating la declassino proprio quando Atene approva misure severissime; che illustri economisti esortino la Grecia a non ripagare i suoi debiti (la «ristrutturazione ordinata») o addirittura a uscire dall'euro. È stupefacente che mercati, agenzie, cosiddetti tecnici ancora godano di tanto credito dopo che la crisi ne ha crudamente svelato miopie, errori e conformismi. Smentendo le profezie, Angela Merkel proporrà il prestito e il Bundestag l’approverà. Eppure entrambi sanno che l’80 per cento dei tedeschi (blanditi dai quotidiani popolari, ma anche da autorevoli commentatori) non lo condivide.

In questo clima, sono ben pochi coloro che rinunciano a impartire lezioni alla Germania, a incolparla, se non proprio dei guai greci, almeno dell’aggravarsi della crisi. È vero, questa minaccia direttamente la Germania, la sua moneta e le sue banche: se la Grecia fosse abbandonata al suo destino le conseguenze più catastrofiche sarebbe forse proprio lei a subirle. È vero, le incertezze di Berlino hanno incattivito i mercati e reso forse più costoso il salvataggio. È vero dunque che — in termini economici — sostenere la Grecia è non generosità,ma bene inteso interesse. E tuttavia proporre e approvare il prestito è un atto di grande coraggio politico e non può stupire che sia stato arduo arrivarci. È venuto dunque il momento di aiutare il lettore italiano a capire le buone ragioni della Germania.

Nessun paese dell’Unione ha mai compiuto una rinuncia alla propria sovranità altrettanto grande di quella che ha accettato la Germania con l’euro. Rinuncia dolorosissima, se si pensa che i tedeschi hanno un ricordo drammatico della grande inflazione e che proprio il marco forte ha ridato loro morale nel dopoguerra. Ed è falso il luogo comune secondo cui quella rinuncia fu il prezzo della riunificazione: quando Kohl lanciò il progetto della moneta unica nessuno immaginava la caduta del Muro. Nessun paese dell’Unione ha preso l’imperativo dell’eccellenza e della competitività (la cosiddetta Strategia di Lisbona) tanto sul serio quanto la Germania: possiamo incolparla di raccoglierne i frutti? Nessun movimento sindacale in Europa ha scelto con altrettanta lucidità di privilegiare la piena occupazione rispetto agli incrementi salariali: magari sapessimo fare lo stesso in Italia.

Nessun grande paese industriale ha accettato, come la Germania, i vincoli di una crescita economica mondiale che sia sostenibile sotto il triplice profilo economico, sociale e ambientale: sobrietà nei consumi opulenti, risparmio di risorse naturali, energia pulita, contenimento della spesa pubblica, pace sociale. E infine, c’è la lezione che la Germania ha impartito a se stessa dopo la tragedia del nazismo e della guerra: fai il tuo dovere in casa tua e non aspirare mai più a guidare il mondo. Il mondo no, ma l’Europa ormai sì. Senza leadership l’Europa non avanza, rischia anzi di distruggersi. La guida tedesca dell’Europa è nei fatti: ignorarlo sarebbe per Berlino solo un modo errato di esercitarla. Nella crisi greca di queste settimane forse la Germania ha superato, come il giovane capitano del romanzo di Conrad, la sua linea d’ombra.

Tommaso Padoa-Schioppa

01 maggio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it

Admin:
LA VIA D’USCITA DALL’INSTABILITA'

La politica curi la politica

Un governo tecnico rappresenterebbe il contrario della soluzione politica di cui c’è bisogno



Gli italiani torneranno al lavoro tra pochi giorni senza sapere se il governo ritroverà una maggioranza per continuare, se ne nascerà uno nuovo con diversa maggioranza, o se saranno presto richiamati a votare. Sentono parlare di governo tecnico, o istituzionale, o di larga alleanza, senza che sia chiarito il significato di queste assai diverse formule. Ignorano le formazioni politiche, le coalizioni, i candidati, i programmi tra i quali dovrebbero eventualmente scegliere.

Instabilità e incertezza non nascono da disaccordi in campi, pur importantissimi, di politica ordinaria: scuola, disoccupazione, servizi pubblici, sicurezza dei cittadini. Ancor meno, però, nascono da un semplice scontro di personalità e di potere. Le questioni da cui nascono sono più, non meno, fondamentali della politica ordinaria: contrappongono diverse concezioni dello Stato, della politica, della legalità. Che dividano uno schieramento (il centrodestra vittorioso nel 2008, ma potrebbe essere accaduto al centrosinistra) non deve sorprendere perché trattasi di questioni diverse da quelle segnate dallo spartiacque destra-sinistra: hanno, nella sostanza, natura costituzionale.

È possibile che le differenze si ricompongano, come è avvenuto in passato tra quelle stesse forze e quelle stesse persone. Ma non è facile che ciò avvenga senza imponenti sforzi e rinunce, perché si tratta di differenze che vivono, per così dire, di vita propria e vanno molto al di là delle lotte personali e di potere con cui le si rappresentano. Al contrario delle deboli scosse di assestamento che dopo il 1948 hanno accorciato la vita dei governi della Prima Repubblica lasciando intatte struttura del potere e direttrici di fondo, qui si muovono faglie profonde: la legalità, lo Stato di diritto, l’architettura dello Stato, il funzionamento delle istituzioni e della democrazia.

Che cosa auspicare se la ricomposizione non avvenisse?

Due esiti sarebbero, a mio giudizio, davvero infausti per il Paese: le elezioni immediate e il cosiddetto governo tecnico. Infausti perché sarebbero due fughe dell’intera classe politica dalla sua vera responsabilità, perché porrebbero il problema in mani sbagliate e inadatte a risolverlo, siano esse quelle di un tecnico o dell’elettorato.

Elezioni subito sarebbero un pericoloso abbandono del Paese a se stesso da parte delle istituzioni e della classe politica in uno di quei momenti in cui massimo è il bisogno di guida: sarebbe quasi un 8 settembre. Che lo si voglia o no, questioni di natura costituzionale trascurate per decenni si sono affacciate sul proscenio e sono divenute le più urgenti: non solo la legalità e lo stato di diritto; anche il federalismo, la libertà e l’indipendenza dell’informazione, i poteri rispettivi dell’Esecutivo, del Legislativo e del Giudiziario. Sono questioni trascurate da chi governa oggi e da chi ha governato ieri e l’altro ieri. I cittadini se ne rendono conto, la classe politica le deve affrontare. Non dimentichiamo i casi storici in cui il tentativo di risolvere uno stallo politico con elezioni a ripetizione, tenute in un Paese disorientato e privo di un’informazione indipendente, è stato fatale alla democrazia.

Un governo tecnico — cioè un governo incaricato di non affrontare i nodi che ora si stringono— sarebbe una fuga altrettanto infausta, il contrario della soluzione politica di cui c’è bisogno. Certo che la fragilità della nostra situazione economica e finanziaria non va persa di vista nemmeno per un minuto. Ma proprio per questo occorre sapere che il rischio di perdere improvvisamente la fiducia dei mercati l’Italia lo corre a causa della sua debolezza e ambiguità politico-istituzionale, non della sua condizione economico- finanziaria.

La chiarificazione costituzionale di cui il Paese ha urgente bisogno deve e può essere compiuta in questa legislatura e da questo parlamento. Compierla spetta all’intera classe politica. L’Italia è una repubblica parlamentare. Ciò significa che il parlamento ha il dovere di fare ogni sforzo per esprimere una maggioranza in grado di riconoscere e affrontare i problemi dell’ora. Questo dice la nostra Costituzione; e nei momenti più difficili e incerti è la Costituzione che si deve leggere, non il modo in cui la si è raccontata.

Gli italiani tutti hanno eletto un parlamento, prima e più che una maggioranza. I parlamentari non sono soggetti a vincolo di mandato (articolo 67 della Costituzione). Dichiarare illegittima una situazione nella quale una maggioranza parlamentare si proponga di affrontare le questioni più gravi e più urgenti del Paese e di sostenere un governo che opera sotto il controllo delle Camere, contraddice in pieno la Costituzione. Le questioni più urgenti—tanto urgenti da aver causato una forse temporanea rottura della stessa maggioranza — devono essere affrontate ora, e con l’unità sostanziale di intenti necessaria alla loro soluzione.

Il momento in cui i cittadini vanno a votare è il più alto di una democrazia; tanto che ne hanno bisogno, per mascherarsi, perfino i peggiori regimi autoritari. Questo passo non va né svilito, né abusato; alla classe politica non deve essere consentito di scaricare sul popolo le proprie inadempienze, magari solleticandone i pregiudizi antipolitici.

Il ritorno al voto verrà e dovrà avere la funzione solenne che gli compete. Ma al popolo il ceto politico ha il dovere di riportare un’urna di cui abbia ricomposto i cocci che esso stesso ha rotto.

Nelle pagine che un tempo dedicavano alla politica, i giornali ora parlano di interessi privati nell’esercizio di pubbliche funzioni, di legami di politici con mafia e camorra, di affari lucrati sulle disgrazie naturali, di campagne giornalistiche montate per colpire l’avversario del momento, di minacce di sempre nuove rivelazioni e di altro ancora. Il serio confronto politico che è in atto su questioni della massima importanza ne risulta svilito e opacizzato.

Si vede uno spettacolo orrendo al quale bisogna avere la forza di contrapporre una chiara e semplice consapevolezza: solo la politica potrà guarirci dai mali della politica, solo la buona politica potrà scacciare la cattiva.

Tommaso Padoa-Schioppa

14 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_14/padoa-schioppa-politica-curi-politica_503d1318-a764-11df-9159-00144f02aabe.shtml

Admin:
LE NUOVE REGOLE EUROPEE DI STABILITÀ

Tre parole per un patto


MILANO - Nel marzo scorso il presidente Sarkozy e il cancelliere Merkel, da podi affiancati, invocarono un «governo economico» per l'Europa. L'invocazione fu accolta dall'intero Consiglio europeo dopo solo tre mesi; ma chi leggeva il comunicato ufficiale scopriva che nelle principali lingue dell'Unione il concetto era espresso con tre parole diverse, di forza decrescente (Gouvernement, Governance, Steuerung). Ora la Commissione propone come tradurre quel concetto in regole, procedure, poteri, sanzioni.

L'impianto è questo: le regole di bilancio restano quelle del Patto di stabilità, ma il debito pubblico (sotto il 60 per cento) - finora trascurato - assurge alla stessa importanza del deficit (sotto il 3); si rafforzano i meccanismi di controllo e le sanzioni; alla disciplina di bilancio si aggiunge una politica di prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici; si fa più autonomo il potere della Commissione e più difficile il boicottaggio del Consiglio.

Le proposte sono complesse e occorre guardarsi dai giudizi affrettati; tanto più che non sappiamo con quali modifiche diverranno norme, né come le norme saranno poi applicate. Suggerisco questa linea di giudizio e di condotta negoziale: si lavori sull'impianto proposto cercando di trarne il massimo, ma nello stesso tempo si pongano in essere, anche se in forma embrionale, gli strumenti di un vero governo economico europeo, indirizzandoli al sostegno della crescita: bilancio dell'Unione, una tassa europea, eurobonds, uso attivo del nuovo Fondo di Stabilità Finanziaria.

I limiti dell'impianto sono evidenti. Ho altre volte sostenuto che una politica economica europea fondata sul mero coordinamento è nello stesso tempo troppo debole e troppo ambiziosa. Debole, perché minata dal fatto che sono i giudicati ad essere giudici, soprattutto quando la Commissione si lasci da essi intimidire. Ambiziosa, perché neppure là dove una vera federazione esiste, il governo federale ha un potere di coordinamento sulle politiche dei federati (si chiamino Stati, Länder, Province o Regioni). Quello che si propone ora è, forse, sì un governo europeo, ma - a differenza della moneta - un governo privo di strumenti europei, affannato a indirizzare strumenti e variabili nazionali, quali il bilancio, il debito, la produttività, i salari. Insomma, una felliniana prova d'orchestra.

Una condanna immediata sarebbe però un errore. Non dimentichiamo che nel 1957 sia Altiero Spinelli sia Jean Monnet dettero del Trattato di Roma un giudizio assai più negativo di quello che la storia ed essi stessi decretarono in seguito. Bocciare la proposta non spianerebbe la strada verso l'impianto giusto, verso il vero governo europeo; aumenterebbe solo la cacofonia attuale. Se accolte e applicate al meglio, le regole e le procedure proposte potranno rafforzare - pur nei limiti del modello del coordinamento - la disciplina degli orchestrali e l'autorità del direttore.

Il dibattito è incominciato, e chi pronunciava parole forti sembra ora preferire una sostanza debole. Il ministro francese si affretta a dichiarare eccessive le nuove regole; quello tedesco le accetta e le giudica insufficienti. Inizia un negoziato che durerà mesi. Era accaduta una cosa simile 22 anni fa quando venne avviato il progetto dell'unione monetaria. Per la Germania doveva significare una moneta e una banca centrale; per la Francia un fondo di riserva comune, che lasciasse in vita molte monete e politiche monetarie nazionali. Prevalse il fondamentalismo tedesco e l'euro si fece.

Tommaso Padoa-Schioppa

03 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_03/tre-parole-per-un-patto-editoriale-pasoa-schioppa_965e7278-ceb1-11df-92c2-00144f02aabe.shtml

Admin:
QUATTRO TEMI PER IL PAESE

La necessità di ricostruire


Come nello scorso agosto, così oggi la politica e le istituzioni si sono date un mese di tempo per decidere del loro futuro e di quello dell'Italia. Ogni cittadino consapevole vive questo tempo con animo sospeso e medita sulle alternative. Propongo al lettore qualche riflessione di carattere esclusivamente personale. Se il governo in carica otterrà la fiducia, esso continuerà il suo lavoro. Se la perderà in una delle due Camere, la crisi si aprirà inevitabilmente e inizieranno consultazioni per accertare se un nuovo esecutivo possa nascere dal Parlamento. Secondo la Costituzione questo è sovrano lungo tutto l'arco della legislatura; il suo compito non è di essere fedele a un «mandato degli elettori» perché i parlamentari sono stati eletti senza vincolo di mandato (articolo 67). Esso ha ricevuto una delega, non un mandato. Esso è il popolo, e può (anzi, in quel caso, «deve») essere sciolto solo se si dimostra incapace di formare un governo sorretto dalla propria fiducia. Non c'è né legge elettorale, né cosiddetta costituzione materiale che possano modificare le regole chiarissimamente scritte nella Costituzione.

Se un gruppo di forze politiche si proporrà con un accordo di programma e un sostegno parlamentare credibili, esso riceverà dunque l'incarico di costituire un governo. Se l'accordo si conferma, il governo si forma, giura, entra in carica e va alle Camere per ottenerne la fiducia. L'esecutivo precedente cesserà di esistere da quando il nuovo avrà giurato; a nulla servirebbe che avesse ottenuto la fiducia di un ramo del Parlamento poco prima di essere sfiduciato dall'altro. Ottenuta la fiducia, il nuovo esecutivo sarebbe legittimo a tutti gli effetti e per tutte le materie che la Costituzione assegna alla sua competenza. Eventuali accordi che limitino la durata o il programma di un governo sono, dal punto di vista costituzionale, irrilevanti; hanno la natura di pronunciamenti politici. Fino al giorno in cui venga colpito da un voto di sfiducia o dal terminare della legislatura, ogni governo è legittimo e ha pienezza di poteri.

Nel passaggio da uno ad altro governo, la funzione del capo dello Stato di tutore e garante della correttezza costituzionale è particolarmente rilevante proprio perché in quel passaggio manca un esecutivo dotato della pienezza dei poteri. Sostenere che il capo dello Stato abbia il dovere o il potere di condizionare il programma, o la durata, o la composizione, o l'omogeneità politica del nuovo governo significa sollecitarlo a distorcere il proprio ruolo e minarne l'autorevolezza istituzionale. Quegli aspetti, infatti, sono competenza del Parlamento e delle forze politiche.
Il governo, dunque, potrebbe cadere soltanto per effetto di un voto di sfiducia e il presidente del Consiglio fa bene a ricordarcelo. Ma quel voto di sfiducia, se ci fosse, avrebbe a sua volta un senso soltanto se il suo fondamento fosse chiaro: non un disaccordo su temi di ordinaria politica, ma il riconoscimento (nato, per impulso di Fini, nella stessa maggioranza) di una profonda triplice crisi della democrazia, dello Stato di diritto e dell'unità nazionale.

Il voto di sfiducia dovrebbe allora essere espressione di una unione nazionale volta a uno scopo. E l'unico scopo che si può vedere è di porre fine alla stagione politica iniziata nel 1992-94 e mai risoltasi in un duraturo rimedio ai mali della Repubblica. Sarebbe indispensabile, in altre parole, che la maggioranza sfiduciante fosse del tutto consapevole che il suo vero compito non consisteva tanto nel far cadere il governo, ma nel compiere una intensa, anche se breve, «ricostruzione della normalità istituzionale». È su questa che sarebbe giudicata dalla storia. Il nesso tra pars destruens e pars construens è strettissimo. Lo è innanzi tutto nei tempi. Il destino del Paese per i prossimi dieci o quindici anni sarà infatti determinato dalla transizione che è iniziata ormai da qualche mese e che continuerà per uno o due anni: così fu nel 1943-46, così nel 1992-94. Ma lo è anche negli effetti. Se avverrà, la «distruzione» potrà essere efficace e duratura a una sola condizione: che essa costituisca il primo passo per dare alla Repubblica la correttezza di funzionamento da tempo scomparsa.

Ricostruire non significa dunque cambiare il primo ministro né mutare la composizione della maggioranza. Significa, a mio giudizio, intervenire sulle quattro più gravi patologie dell'Italia di oggi: rapporto tra gli elettori e la politica (legge elettorale in primo luogo), rapporto tra questa e l'informazione (televisioni in primo luogo), funzionamento della giustizia (indipendenza e tempi dei giudizi), rapporto tra Nord e Sud (federalismo). Sono patologie divenute talmente gravi da mettere a rischio la democrazia, lo Stato di diritto e la stessa unità nazionale. Ne sono largamente responsabili anche le forze che hanno governato prima di Berlusconi, il quale deve parte della sua fortuna politica proprio alla promessa (ahimè mancata) di curarne alcune. I rimedi devono perciò agire molto in profondità e non sono né di destra né di sinistra.

Se le figure politiche che avessero determinato la caduta del governo mancassero della capacità e della determinazione richieste dalla pars construens, sarebbero esse, non Berlusconi, a scomparire dalla scena politica. In passato ciò è già avvenuto con le esperienze delle legislature iniziate nel 1996 e nel 2006: hanno entrambe restituito il potere a un avversario rafforzato dalla sconfitta.
Se invece l'iniziativa apparisse come il primo e credibile passo di una cura profonda, non «di parte», è assai probabile che essa verrebbe assecondata da forze assai più numerose di quelle che se ne facessero promotrici. Proprio perché si tratta di compiere una ricostruzione istituzionale, il nuovo governo potrebbe, anzi dovrebbe, essere sostenuto da un arco di forze politiche ampio, tanto da includere componenti rilevanti sia della destra sia della sinistra. Esso non sarebbe né tecnico, né a tempo, né del presidente, né di «ribaltone»; sarebbe, semmai, un governo del Parlamento. La ricostruzione dovrà infatti essere patrimonio comune della Repubblica, tanto di chi vincerà quanto di chi perderà al successivo voto.
La ricostruzione istituzionale dovrebbe essere completata in questa legislatura, prima di andare al voto. Se si votasse senza averla compiuta, essa non verrebbe intrapresa affatto, o sarebbe opera dal vincitore disconosciuta dallo sconfitto.

Tommaso Padoa-Schioppa

21 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_21/necessita-di-ricostruire-padoa-schioppa_20720afa-f546-11df-91c8-00144f02aabc.shtml

Admin:
Riposi in pace.

admin

Navigazione

[0] Indice dei messaggi

[*] Pagina precedente