Admin
Utente non iscritto
|
|
« inserito:: Dicembre 16, 2007, 04:45:35 pm » |
|
Un accordo in extremis ma non da poco
Pietro Greco
Non sappiamo che forma avrà. Ma sappiamo che un «Kyoto 2» ci sarà. Che coinvolgerà tutti i Paesi del mondo: sviluppati, emergenti e in via di sviluppo. E che nascerà in tempi stretti e ben definiti: a Copenaghen, nel 2009. Si poteva certo ottenere di più dai rappresentanti dei 190 Paesi riuniti da due settimane a Bali, in Indonesia, per discutere come minimizzare i cambiamenti del clima causati dall’uomo. Si poteva sperare che il mondo intero facesse propria la proposta europea di concordare tagli immediati e profondi delle emissioni di gas serra, secondo un’agenda diversificata, ma precisa.
Allo stato dei rapporti di forza politici, però, il compromesso raggiunto all’ultimo minuto, con l’adesione anche degli Stati Uniti, è - in questo momento - il massimo possibile.
E non è un massimo da poco. Perché con l’«accordo di Bali» tutti le nazioni del mondo riconoscono, finalmente, cinque punti cruciali e, fino a ieri, niente affatto scontati.
Primo: il cambiamento del clima globale causato dall’uomo è un processo in atto. Nei prossimi decenni tenderà ad aggravarsi, con effetti sociali, economici ed ecologici molto gravi. Il mondo prende, dunque atto delle conoscenze conseguite dalla comunità scientifica e rese pubbliche dall’Ipcc, il gruppo di studiosi delle Nazioni Unite recente vincitore, con Al Gore, del Premio Nobel per la Pace.
Secondo: ogni e ciascun Paese deve agire per cercare di contrastare i cambiamenti climatici mediante due appropriate politiche di prevenzione: la riduzione delle fonti di gas serra (tagli alle emissioni provocate dall’uso dei combustibili fossili) e l’ampliamento dei pozzi (riforestazione).
Terzo: tra i vari Paesi esistono responsabilità differenziate e queste disparità devono essere riconosciute. I Paesi di antica industrializzazione hanno contribuito più di altri ai cambiamenti del clima. Ma i paesi emergenti - Cina e India, i più importanti - sono diventati fonti importanti di gas serra e ancor più rischiano di esserlo in futuro. Attraverso modalità tutte da inventare il «Kyoto 2» dovrà tener conto in maniera verificabile di entrambi questi fattori.
Quattro: la lotta ai cambiamenti climatici non dovrà essere frutto di iniziative unilaterali, ma sarà il frutto di un accordo multilaterale - anzi, di un accordo globale. Fondato sui principi di giustizia e di solidarietà. I Paesi poveri verranno compensati attraverso il trasferimento di risorse, finanziarie e tecnologiche (gli «aiuti allo sviluppo»). I paesi dotati di pozzi estesi (le foreste) verranno compensati anche attraverso i «carbon credits», ovvero la possibilità da parte dei Paesi ricchi di ridurre la propria impronta climatica investendo in progetti da realizzare nei paesi poveri (qui, bisogna fare attenzione, perché il mercato dei crediti non diventi una forma di nuovo colonialismo).
Quinto: tutto ciò non è scritto sulla sabbia dei tempi indefiniti. Ma registrato in un’agenda che sarà chiusa a Copenaghen. Lì, nel 2009, nascerà il «Kyoto 2» che entrerà in vigore a partire dal 2012, data di scadenza del «Kyoto 1». È questa, forse, la novità più forte.
Manca, in questa analisi, il sesto punto. I contenuti di dettaglio del «Kyoto 2». Quanto sarà tagliato? E come?
Dettagli non da poco. Anzi, dettagli decisivi. Tanto da indurre a una notevole cautela. Tuttavia tra due anni a Copenaghen lo scenario politico potrebbe essere di nuovo mutato. Fino a cinque o sei anni fa gli Usa erano, essenzialmente, compatti e si ponevano come leader del «non intervento». Supportati dall’India e dalla Cina, che non volevano saperne di porre limiti di qualsiasi forma alla loro impetuosa crescita economica. Oggi, i Paesi emergenti stanno capendo che c’è differenza tra crescita e sviluppo.Che la crescita economica si traduce in benessere per la popolazione solo se è ecologicamente e socialmente sostenibile. Quanto agli Stati Uniti sono più che mai divisi, tra l’Amministrazione ormai uscente di George Bush e la maggioranza del Paese. Tutti i candidati alla presidenza, repubblicani e democratici, sono più disponibili di George W. Bush a contrastare i cambiamenti climatici, insieme al resto del mondo. Tra due anni a Copenaghen il sesto punto - l’agenda tagli delineata dall’Europa e richiesta dagli scienziati: 25-40% entro il 2020, 50% entro il 2050 per i paesi di antica industrializzazione, 20% entro il 2050 anche per tutti gli altri - potrebbe diventare realtà.
Pubblicato il: 16.12.07 Modificato il: 16.12.07 alle ore 7.40 © l'Unità.
|