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Autore Discussione: Marco REVELLI. Populismo senza popolo al potere.  (Letto 4369 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Giugno 04, 2018, 04:33:28 pm »

2 GIU/18

Populismo senza popolo al potere.

Articolo di Marco Revelli (manifesto 2.6.18)

“Disordine nuovo. È il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Non ci sono più il «popolo di sinistra», né il «popolo padano», né più quello del «vaffa»”

“”«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’ «irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi. Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte. Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi. Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.

SBAGLIANO QUANTI liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani – quasi il 60% – è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini…

È DUNQUE per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» – da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?

UNA MANO, FORSE, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti… È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove… Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.

IL SECONDO FATTORE è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».

PER QUESTO CREDO di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro – di due entità per definizione «prive di forma» – i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.

A QUESTO MODELLO «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).

SE VORREMO combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.””

Da - http://www.iniziativalaica.it/?p=39508#more-39508
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 19, 2021, 05:20:04 pm »

Lev Trotskij, 1940 – 2019. Vita e lotta di un rivoluzionario

 79 anni fa, il 20 agosto 1940, Lev Trotskij veniva assassinato da un sicario di Stalin a Città del Messico.
Per ricordarne la vita e le opere ripubblichiamo ampi stralci di un articolo di Alan Woods intitolato “In memory of Leon Trotsky”, scritto nel 2000.


Il testo completo è consultabile in inglese alla pagina web www.marxist.com.


Lev Davidovic Trotskij fu, insieme a Lenin, uno dei due più grandi marxisti del ventesimo secolo. Dedicò tutta la sua vita alla causa della classe operaia e del socialismo internazionale. E che vita! Dalla sua prima giovinezza, quando lavorava di notte per produrre volantini per gli scioperi illegali che gli guadagnarono le prime reclusioni in carcere e l’esilio in Siberia, fino a che non fu ucciso da un sicario di Stalin nell’agosto del 1940, si impegnò senza sosta per il movimento rivoluzionario. Nella prima rivoluzione russa del 1905, fu il presidente del soviet di Pietroburgo. Condannato ancora una volta all’esilio in Siberia, evase di nuovo e continuò la sua attività rivoluzionaria dall’esilio. Durante la prima guerra mondiale, Trotskij adottò una posizione coerentemente internazionalista. Scrisse il manifesto di Zim-merwald che cercava di unire tutti gli oppositori rivoluzionari alla guerra. Nel 1917, giocò un ruolo dirigente nell’organizzare l’insurrezione di Pietrogrado.
Dopo la rivoluzione d’Ottobre Trotskij divenne il primo commissario degli affari esteri e fu incaricato dei negoziati con i tedeschi a Brest Litovsk. Durante la sanguinosa guerra civile, quando la Russia sovietica era invasa da 21 eserciti stranieri, e quando la sopravvivenza della rivoluzione era appesa a un filo, Trotskij organizzò l’Armata Rossa e guidò personalmente la lotta contro le armate bianche controrivoluzionarie, viaggiando migliaia di chilometri sul famoso treno blindato.
Il ruolo di Trotskij nel consolidare il primo Stato operaio della storia non si limitò all’Armata Rossa. Egli giocò un ruolo dirigente, insieme con Lenin, nella costruzione della Terza internazionale, di cui scrisse i manifesti ai primi quattro congressi e molti dei documenti più importanti; nel periodo di ricostruzione Trotskij riorganizzò il disastrato sistema ferroviario dell’Urss. Inoltre Trotskij, che fu sempre uno scrittore prolifico, trovò il tempo per scrivere studi penetranti, non solo su questioni politiche, ma anche sull’arte e la letteratura (Letteratura e rivoluzione) e anche sui problemi che la gente incontra nella vita di tutti i giorni nel periodo di transizione (Problemi della vita quotidiana).
Dopo la morte di Lenin nel 1924, Trotskij guidò la lotta contro la degenerazione burocratica dello Stato sovietico, una lotta che Lenin aveva cominciato dal letto di morte. Nel corso della lotta, Trotskij fu il primo a proporre l’idea dei piani quinquennali, a cui si opposero Stalin e i suoi seguaci. In seguito, solo Trotskij continuò a difendere le tradizioni rivoluzionarie, democratiche e internazionaliste dell’Ottobre. Con opere come La rivoluzione tradita, In difesa del marxismo e Stalin, fu l’unico a fornire un’analisi scientifica marxista della degenerazione burocratica della rivoluzione russa. I suoi scritti del periodo 1930-1940 contengono un tesoro di teoria marxista, che spazia dai problemi immediati del movimento operaio internazionale (la rivoluzione cinese, l’ascesa di Hitler in Germania, la guerra civile spagnola), a una vasta serie di questioni culturali, artistiche e filosofiche.
Gli inizi
Il 26 agosto 1879, appena qualche mese prima della nascita di Trotskij, un piccolo gruppo di rivoluzionari, membri dell’organizzazione terrorista clandestina Narodnaja Volja, annunciava la condanna a morte per lo zar russo Alessandro II. Iniziò così un periodo di lotte eroiche di un pugno di giovani contro tutto l’apparato dello Stato che sarebbe culminato il 1 marzo 1881 con l’assassinio dello zar. Questi studenti e intellettuali odiavano la tirannia ed erano disposti a dare la propria vita per l’emancipazione della classe operaia, ma ritenevano che bastasse per “provocare” le mobilitazioni di massa la “propaganda attraverso l’azione diretta”, in realtà, cercavano di sostituire il movimento cosciente della classe operaia con le bombe e le pistole.
I terroristi riuscirono effettivamente a uccidere lo zar. Ciò nonostante, tutti i loro sforzi non portarono a nulla. Anziché rafforzare il movimento di massa, le azioni terroriste ebbero l’effetto opposto di rafforzare l’apparato repressivo dello Stato, isolando e demoralizzando i quadri rivoluzionari e, alla fine, portando alla completa distruzione dell’organizzazione Narodnaja Volja.
La maggior parte dei giovani russi, in quel periodo, non era attratta dalle idee del marxismo. Non avevano tempo per la “teoria”: chiedevano azione. Senza comprensione della necessità di conquistare la classe operaia con un lavoro paziente di spiegazione, presero le armi per distruggere lo zarismo con la lotta individuale. Il fratello maggiore di Lenin fu un terrorista; Trotskij iniziò la sua attività politica in un gruppo populista e probabilmente Lenin cominciò nello stesso modo. Tuttavia, il populismo era già in declino. Negli anni ‘90 quella che era stata un’atmosfera di eroismo era permeata di depressione, scontento e pessimismo nei circoli di intellettuali. E nel frattempo il movimento operaio era entrato sulla scena della storia con un’impressionante serie di scioperi. In pochi anni, la superiorità dei “teorici” marxisti rispetto ai “pratici” terroristi individuali fu dimostrata nei fatti con la crescita spettacolare dell’influenza del marxismo sulla classe operaia.
Lev Davidovic Bronstein, cominciò la sua carriera rivoluzionaria nel marzo del 1897 a Nikolaiev, dove organizzò la prima associazione illegale di lavoratori, l’Unione operaia della Russia meridionale. Lev Davidovic fu arrestato per la prima volta a soli 19 anni e restò due anni e mezzo in carcere, dopo di che fu esiliato in Siberia. Ma presto fuggì e, usando un passaporto falso, uscì dalla Russia recandosi da Lenin a Londra.
Trotskij e l’Iskra
Il giovane movimento socialdemocratico era ancora frammentato e quasi senza organizzazione. Il compito di organizzare e di unificare i numerosi gruppi socialdemocratici in Russia venne assunto da Lenin insieme con il gruppo esiliato di Plechanov l”Eman-cipazione del lavoro”. Con l’appoggio di Plechanov, Lenin lanciò un nuovo giornale, l’Iskra, che avrebbe giocato un ruolo chiave nell’organizzare e unire la tendenza autenticamente marxista. Il lavoro di produrre e di distribuire il giornale e di mantenere una cospicua corrispondenza con la Russia fu condotto da Lenin e dalla sua infaticabile compagna Nadezda Krupskaja.
Nonostante tutti gli ostacoli, riuscirono a introdurre illegalmente l’Iskra in Russia, dove ebbe un enorme impatto. Rapidamente i veri marxisti si unirono attorno all’Iskra, divenendo, già nel 1903, la tendenza maggioritaria all’interno della socialdemocrazia russa.
All’insaputa del giovane rivoluzionario, che era appena arrivato dalla Russia, i rapporti nella redazione erano già tesi. C’erano frequenti scontri tra Lenin e Plechanov su una serie di questioni politiche e organizzative. Il vero problema stava nel fatto che i vecchi attivisti del gruppo “Emancipazione del lavoro” erano stati pesantemente condizionati dai lunghi anni di esilio, quando il loro lavoro era stato limitato alla propaganda ai margini del movimento operaio russo. Si trattava di un piccolo gruppo di intellettuali, indubbiamente sinceri nelle loro idee rivoluzionarie, ma contagiati dai vizi dell’esilio e dei piccoli circoli di intellettuali.
Lenin stava disperatamente cercando un giovane compagno capace, proveniente dalla Russia, per cooptarlo nella redazione e rompere lo stallo con il gruppo dei vecchi. L’arrivo di Trotskij, da poco scappato dalla Siberia, fu utilizzato da Lenin per accelerare il ricambio. Nelle prime edizioni delle sue memorie su Lenin, la Krupskaja sottolinea l’ottima opinione che Lenin aveva della “giovane aquila”.
Purtroppo, l’iniziale collaborazione tra Lenin e Trotskij si interruppe bruscamente con la spaccatura prodottasi al secondo congresso del Partito operaio socialdemocratico russo.
Il Secondo congresso
Ogni partito rivoluzionario deve attraversare uno stadio di lavoro relativamente lungo di propaganda e di costruzione di quadri. Questo periodo conduce inevitabilmente a una serie di abitudini e modi di pensare che, nel tempo, diventano un ostacolo nel trasformare il partito in un’organizzazione di massa. Se il partito si dimostra incapace di cambiare questi metodi quando muta la situazione oggettiva, diventa una setta ossificata. Al Secondo congresso la lotta tra le due ali del gruppo Iskra, che colse tutti di sorpresa, compresi quelli strettamente coinvolti, fu dovuta all’incompatibilità della posizione di Lenin, che consisteva nel consolidare un partito rivoluzionario di massa con un certo grado di disciplina ed efficacia e quello dei membri del vecchio gruppo “Emancipazione del lavoro” che si sentivano a proprio agio nella routine, non vedevano l’esigenza di cambiamenti e attribuivano la posizione di Lenin a questioni di personalità, a un desiderio di mettersi in mostra, “tendenze bonapartiste”, “ultracentralismo” e tutto il resto.
La cosiddetta tendenza “morbida” rappresentata da Martov emerse come minoranza e dopo il congresso rifiutò di rinunciare alle proprie decisioni o di prendere parte al comitato centrale o alla redazione. Tutti gli sforzi di Lenin per trovare una soluzione di compromesso dopo il congresso fallirono a causa dell’opposizione della minoranza. Plechanov, che al congresso aveva sostenuto Lenin, si dimostrò incapace di resistere alle pressioni dei vecchi compagni ed amici. Alla fine, verso l’inizio del 1904, Lenin si trovò a dover organizzare “comitati di maggioranza” (bolscevichi) per salvare qualcosa dallo sfacelo del congresso. La spaccatura nel partito era un fatto compiuto.
Inizialmente Trotskij aveva sostenuto la minoranza contro Lenin. Tuttavia, al secondo congresso, bolscevismo e menscevismo non era ancora emersi come tendenze politiche chiaramente delineate. Solo un anno dopo, nel 1904, iniziarono effettivamente ad emergere differenze tra le due tendenze, che riguardavano la questione chiave di fronte alla rivoluzione: collaborazione con la borghesia liberale o indipendenza di classe. Appena emersero divergenze politiche, Trotskij ruppe con i menscevichi e rimase formalmente indipendente da entrambe le frazioni fino al 1917.
Trotskij nel 1905
Alla vigilia della guerra russo-giapponese, tutto il paese era in uno stato di fermento prerivoluzionario. Un’ondata di scioperi fu seguita da manifestazioni di studenti. Il fermento colpì i liberali borghesi che lanciarono una campagna di banchetti, basati sugli “Zemtsvo”, comitati locali nelle campagne che servivano come piattaforma politica per i liberali. I menscevichi erano a favore di un totale appoggio ai liberali. I bolscevichi si opponevano radicalmente a ogni tipo di appoggio ai liberali e produssero una dura critica nelle loro pubblicazioni attaccandoli di fronte alla classe operaia. Trotskij aveva la stessa posizione dei bolscevichi, il che lo portò a rompere con i menscevichi. Da quel momento, fino al 1917, Trotskij rimase organizzativamente separato da entrambe le tendenze, sebbene su tutte le questioni politiche fu sempre molto più vicino ai bolscevichi.
La situazione rivoluzionaria maturava rapidamente. Le sconfitte militari dell’esercito zarista alimentavano il malcontento crescente che eruppe nella manifestazione nella giornata del 9 gennaio 1905 a San Pietroburgo che fu brutalmente repressa. Così cominciò la rivoluzione del 1905, nella quale Trotskij giocò un ruolo preminente.
Lunaciarskij, che al tempo era al fianco di Lenin, scrive nelle sue memorie:
“Devo dire che di tutti i dirigenti socialdemocratici del 1905-6 Trotskij si mostrò senza dubbio, nonostante la sua giovane età, il più preparato. Meno di chiunque altro si portava appresso quel retaggio, quella visione ristretta dell’emigrazione. Trotskij capiva meglio di tutti gli altri che cosa occorreva per condurre una lotta politica su scala nazionale. Emerse dalla rivoluzione con un enorme livello di popolarità, mentre in effetti né Lenin né Martov ne acquistarono alcuna. Plechanov perse molto, per la sua posizione quasi-cadetta [cioè liberale]. Trotskij stava allora in prima fila.” (Lunaciarskij, Profili di rivoluzionari).
Non è questo il luogo per analizzare in dettaglio la rivoluzione del 1905. Uno dei migliori lavori su quegli eventi è 1905 di Trotskij, un classico del marxismo, il cui valore è aumentato dal fatto che fu scritto da uno dei protagonisti della rivoluzione A soli 26 anni, Trotskij divenne il presidente del Soviet dei delegati operai di Pietroburgo, il principale di quei organismi che Lenin definì come “organi embrionali del potere rivoluzionario”. La maggior parte dei manifesti e delle risoluzioni del Soviet sono opera di Trotskij, che dirigeva anche il giornale Izvestia. Nelle occasioni principali parlò sia a nome dei bolscevichi che dei menscevichi e per il Soviet nel suo complesso. I bolscevichi, a Pietroburgo, non riuscirono a capire l’importanza del Soviet e vi erano rappresentati debolmente.
Una situazione analoga si ebbe a ogni snodo fondamentale della storia della rivoluzione russa: la confusione e il tentennare dei dirigenti di partito in Russia, senza la guida di Lenin, di fronte alla necessità di un’iniziativa audace.
Come presidente del soviet, Trotskij fu arrestato, dopo la sconfitta della rivoluzione, con gli altri membri, ed esiliato un’altra volta in Siberia. Dal banco degli imputati, Trotskij pronunciò un discorso tonante che si trasformò in un atto d’accusa contro il regime zarista. Alla fine fu condannato alla “deportazione perpetua” ma in realtà rimase in Siberia solo otto giorni prima di evadere.
Gli anni della reazione che seguirono la sconfitta furono probabilmente il periodo più difficile nella storia del movimento operaio russo. Le masse erano esauste dopo la lotta; gli intellettuali erano demoralizzati. C’era un ambiente generale di scoraggiamento, di pessimismo e anche di disperazione. Ci furono molti casi di suicidio. Per di più, in questa situazione di generale reazione, si diffusero idee mistiche e religiose come una coltre nera nei circoli intellettuali, trovando un’eco nel movimento operaio in una serie di tentativi di rivedere le idee filosofiche del marxismo. In quegli anni difficili, Lenin si dedicò a una lotta implacabile contro il revisionismo, per la difesa della teoria e dei principi marxisti. Ma fu Trotskij che fornì la necessaria base teorica su cui la rivoluzione russa avrebbe potuto risollevarsi dalla sconfitta del 1905 e vincere.
La rivoluzione permanente
L’esperienza della rivoluzione del 1905 fece esplodere le differenze tra menscevismo e bolscevismo, cioè le differenze tra riformismo e rivoluzione, tra collaborazione di classe e marxismo. Il nodo del contendere era l’atteggiamento del movimento rivoluzionario verso la borghesia e i cosiddetti partiti “liberali”. Su questa questione Trotskij aveva rotto con i menscevichi nel 1904. Anche prima del 1905, nelle discussioni sulla questione delle alleanze di classe, Trotskij aveva sviluppato le linee generali della teoria della rivoluzione permanente, uno dei contributi più brillanti alla teoria marxista.
In che cosa consiste questa teoria? I menscevichi spiegavano che la rivoluzione russa avrebbe avuto un carattere borghese democratico per cui la classe operaia non poteva aspirare a prendere il potere, ma avrebbe dovuto sostenere la borghesia liberale. Con questo modo meccanico di ragionare, i menscevichi facevano una parodia delle idee di Marx sullo sviluppo della società. La teoria menscevica degli “stadi” relegava la rivoluzione socialista a un lontano futuro. Nel frattempo la classe operaia doveva agire come appendice della borghesia “liberale”.
Era la stessa teoria riformista che molti anni dopo avrebbe condotto alla sconfitta della classe operaia in Cina nel 1927, in Spagna nel 1936-39, in Indonesia nel 1965 e in Cile nel 1973.
Lenin spiegò che la borghesia russa, lungi dall’allearsi i lavoratori, sarebbe passata inevitabilmente con la controrivoluzione.
“La massa della borghesia – scrisse nel 1905 – si volgerà inevitabilmente alla controrivoluzione, verso l’autocrazia, contro la rivoluzione e contro il popolo, non appena il suo ristretto, egoistico interesse verrà raggiunto, non appena “rifuggirà” dalla autentica democrazia (e ne sta già rifuggendo!).”
Quale classe, nella visione di Lenin, poteva condurre la rivoluzione borghese-democratica?
“Rimane “il popolo”, ovvero il proletariato e i contadini. Solo il proletariato andrà fino in fondo, perché supera di molto la rivoluzione democratica. Ecco perché il proletariato lotta all’avanguardia per la repubblica e respinge sdegnato consigli stupidi e indegni sulla possibilità che la borghesia si tiri indietro.”
Sulla questione dell’atteggiamento verso i partiti borghesi, le idee di Lenin e Trotskij erano in completo accordo contro i menscevichi che usavano l’argomento della natura borghese della rivoluzione come una scusa per difendere la subordinazione del partito operaio alla borghesia. Argomentando contro la collaborazione di classe, sia Lenin che Trotskij spiegavano che solo la classe operaia, in alleanza con le masse contadine, poteva portare a termine i compiti della rivoluzione borghese-democratica.
Ma come potevano conquistare il potere i lavoratori in un paese arretrato e semifeudale come la Russia zarista? Trotskij rispose così:
“È possibile che i lavoratori prendano il potere in un paese arretrato economicamente prima che in un paese avanzato (…) Nella nostra prospettiva, la rivoluzione russa creerà le condizioni in cui il potere potrà passare nelle mani dei lavoratori (…) e con la vittoria della rivoluzione deve farlo (…) prima che la politica dei borghesi liberali abbia la possibilità di sviluppare appieno il proprio talento di governare.” (Bilanci e prospettive, 1906)
Nel 1905, solo Trotskij era disposto a difendere l’idea che la rivoluzione potesse trionfare in Russia prima che in Europa occidentale. Lenin aveva una posizione incerta. Nel suo complesso, la posizione di Trotskij era molto vicina a quella dei bolscevichi, come Lenin stesso ammise più tardi. Tuttavia, nel 1905 solo Trotskij fu disposto a porre la necessità della rivoluzione socialista in Russia in modo chiaro e audace. Dodici anni dopo la storia gli avrebbe dato ragione.
Riunificazione
Nel periodo dell’ascesa rivoluzionaria, le due ali del movimento si erano unite di nuovo. Ma l’unità era stata più formale che reale. Con il riflusso, riemerse un’altra volta la tendenza dei menscevichi all’opportunismo, trovando una chiara espressione nella famosa dichiarazione di Plechanov: “I lavoratori non avrebbero dovuto prendere le armi.” Le differenze tra le due tendenze tornarono alla superficie. E di nuovo Trotskij si trovò in una posizione politica vicina a quella dei bolscevichi.
La vera differenza tra Lenin e Trotskij in questo periodo non riguardava il programma e le prospettive ma riguardava il tentativo “conciliazionista” di Trotskij.
Il progresso della rivoluzione aveva dato un forte impulso al movimento per la riunificazione delle forze del marxismo russo. Lavoratori bolscevichi e menscevichi lottavano fianco a fianco con gli stessi slogan; comitati dei partiti rivali si fusero spontaneamente. La rivoluzione spinse i lavoratori delle due frazioni a unirsi.
Durante la seconda metà del 1905 ci fu un continuo e spontaneo processo di unità dal basso. Senza aspettare gli ordini dall’alto, le organizzazioni di partito bolsceviche e mensceviche si fondevano. Questo esprimeva in parte l’istinto naturale dei lavoratori verso l’unità, ma anche il fatto che i dirigenti menscevichi erano stati spinti a sinistra sotto la pressione della propria base. Alla fine, su suggerimento del CC bolscevico, compreso Lenin, si fecero delle mosse per la riunificazione. Nel dicembre del 1905 le due direzioni si erano effettivamente riunificate, formando un unico Comitato centrale.
Il congresso unitario si svolse nel maggio del 1906 a Stoccolma, ma già a quel tempo l’ondata rivoluzionaria era in riflusso e con essa lo spirito combattivo e i discorsi di “sinistra” dei menscevichi. Era inevitabile un conflitto tra i veri rivoluzionari e quelli che stavano già abbandonando le masse e adattandosi alla reazione. La sconfitta dell’insurrezione di Mosca a dicembre segnò l’inizio della fine per la rivoluzione del 1905. Gli avvenimenti di dicembre segnarono anche un cambiamento decisivo nell’atteggiamento dei cosiddetti “liberali”. La borghesia dall’opposizione passò alla condanna della “pazzia” di dicembre. In realtà, i liberali erano già passati con la reazione a ottobre, dopo che lo zar aveva concesso una nuova costituzione.
L’essenza delle differenze tra Lenin e i menscevichi stava proprio in questo:
“La destra del nostro partito non crede nella vittoria completa della rivoluzione attuale, cioè democratico-borghese in Russia; teme questa vittoria; non propone con forza e convinzione questo slogan al popolo. Viene sviata continuamente dall’idea del tutto erronea che in realtà è un involgarimento del marxismo, che solo la borghesia può “fare” autonomamente la rivoluzione borghese, o che solo la borghesia dovrebbe guidare la rivoluzione borghese. Il ruolo del proletariato come avanguardia nella lotta per la vittoria completa e decisiva della rivoluzione borghese non è chiara ai socialdemocratici di destra.”
Trotskij aveva irritato Lenin rifiutando, sebbene non ci fossero vere differenze politiche fra loro, di unirsi alla tendenza bolscevica. Restava convinto che prima o poi una nuova ondata rivoluzionaria avrebbe unito i migliori elementi delle due tendenze. Mantenendo questa posizione “conciliazionista” Trotskij fece il più grave errore della sua vita, come avrebbe ammesso in seguito. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che le cose non erano così chiare allora. Lo stesso Lenin, in più di un’occasione, cercò un riavvicinamento con alcuni strati dei menscevichi. Nel 1908 raggiunse un accordo con Plechanov e, secondo Lunaciarskij, “sognava un accordo con Martov”. Ma l’esperienza doveva mostrare che questo era impossibile. Le due tendenze, la rivoluzionaria e la riformista, si stavano evolvendo in direzioni opposte. Prima o poi era inevitabile una rottura completa.
Trotskij più tardi ammise il suo errore su questo punto. Lenin trasse le necessarie conclusioni e ruppe definitivamente con i menscevichi nel 1912, il vero atto di nascita del partito bolscevico.
La prima guerra mondiale
La decisione dei dirigenti dei partiti dell’Internazionale socialista di sostenere le “proprie” borghesie nel 1914 fu il più grande tradimento della storia del movimento operaio internazionale. Giunse come un fulmine, sconvolgendo e disorientando i militanti dell’Internazionale. La posizione dei dirigenti della Seconda Internazionale sulla prima guerra mondiale segnalò di fatto il crollo dell’Internazionale. Dopo l’agosto del 1914 la questione della guerra concentrò l’attenzione dei socialisti di tutti i paesi.
Furono in pochi a non perdere la bussola in quegli eventi. Lenin in Russia, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht in Germania, i dirigenti della socialdemocrazia serba, James Connolly in Irlanda e John Maclean in Scozia furono eccezioni. Sin dall’inizio Trotskij adottò una chiara posizione rivoluzionaria contro la guerra, come si vede dal suo libro La guerra e l’Internazionale. Alla conferenza di Zimmerwald del 1915, che raccolse tutti i socialisti che si opponevano alla guerra, Trotskij fu incaricato di scrivere il manifesto, che fu adottato da tutti i delegati, nonostante le loro divergenze.
A Parigi, Trotskij pubblicò un giornale russo che difendeva i principi dell’internazionalismo proletario, il Nashe Slovo. I redattori avevano pochi collaboratori e anche meno soldi, ma con enormi sacrifici riuscivano a pubblicare un giornale quotidiano, un risultato unico, ineguagliato da qualsiasi altra tendenza del movimento russo, inclusi i bolscevichi in quel periodo. Per due anni e mezzo, sotto il vigile sguardo della censura, Nashe Slovo ebbe un’esistenza precaria finché le autorità francesi, sotto la pressione del governo russo, lo chiusero e deportarono Trotskij alla fine del 1916. Dopo un breve soggiorno in Spagna, dove Trotskij conobbe le carceri iberiche, fu di nuovo deportato a New York; qui collaborò con Bucharin e altri rivoluzionari russi nella pubblicazione del giornale Novy Mir. Stava ancora collaborando al giornale quando arrivarono le prime confuse notizie sull’insurrezione di Pietrogrado. La seconda rivoluzione russa era iniziata.
Lenin e Trotskij nel 1917
La politica rivoluzionaria è una scienza. Lo studio delle rivoluzioni passate è un metodo con cui ci si prepara per il futuro. La teoria non è un lusso ma una guida vitale per l’azione. Quando, prima della guerra, Trotskij difendeva l’idea che fosse possibile una rivoluzione proletaria in Russia prima della rivoluzione in occidente, nessuno lo prendeva sul serio. Solo nell’ottobre 1917 si dimostrò la superiorità del metodo marxista di Trotskij. Allo scoppio della rivoluzione di febbraio Lenin era in Svizzera e Trotskij a New York. Sebbene fossero lontani dalla rivoluzione, e l’uno dall’altro, trassero le stesse conclusioni. Gli articoli di Trotskij nella Novy Mir e le Lettere da lontano di Lenin sono praticamente identiche nelle questioni fondamentali concernenti la rivoluzione: l’atteggiamento verso i contadini e la borghesia liberale, il governo provvisorio e la rivoluzione mondiale.
Con la sola eccezione di Lenin, gli altri dirigenti bolscevichi non compresero la situazione e furono travolti dagli eventi. È una legge storica che durante una situazione rivoluzionaria il partito, e soprattutto la sua direzione, subisca le enormi pressioni dei nemici di classe, della “pubblica opinione” borghese e anche dei pregiudizi delle masse lavoratrici. Nessuno dei dirigenti bolscevichi a Pietrogrado fu in grado di resistere a queste pressioni. Nessuno di loro sostenne che il proletariato dovesse prendere il potere come unica via per sviluppare la rivoluzione. Tutti questi avevano abbandonato una prospettiva di classe e avevano adottato una rozza posizione a favore della democratizzazione del paese. Stalin era a favore di un sostegno “critico” al governo provvisorio e alla fusione con i menscevichi. Kamenev, Rijkov, Molotov e gli altri avevano la stessa posizione.
Solo dopo l’arrivo di Lenin il partito bolscevico cambiò posizione, dopo una lotta interna sulle Tesi di aprile che Lenin fece pubblicare sulla Pravda a titolo personale. Nessuno era pronto a identificarsi con quella posizione. La verità è che non avevano capito il metodo di Lenin e avevano trasformato gli slogan del 1905 in un feticcio.
Da questo momento Trotskij e Lenin difesero le stesse posizioni, le vecchie differenze erano scomparse. Quando Trotskij arrivò a Pietrogrado nel maggio del 1917, Lenin e Zinoviev parteciparono alla cerimonia di benvenuto organizzata dai Mezhraijontsij (comitato inter-distrettuale). A quella riunione Trotskij dichiarò di non sostenere più l’unità di bolscevichi e menscevichi. Solo chi aveva rotto con il socialpatriottismo doveva unirsi sotto le bandiere di una nuova internazionale. Di fatto, dal momento del suo arrivo, Trotskij parlò e agì in piena solidarietà con i bolscevichi. Commentando l’argomento il bolscevico Raskolnikov scrisse:
“Lev Davidovic non era formalmente un membro del partito, ma nei fatti lavorò al suo interno dal suo arrivo dall’America; ad ogni modo, immediatamente dopo il suo primo discorso nel soviet, lo considerammo uno dei nostri dirigenti.” (Proletarskaja Revolutsia, 1923)
Sulle controversie del passato, lo stesso autore scrisse:
“Gli echi dei passati dissidi durante il periodo prima della guerra si erano del tutto dissolte. Non c’erano differenze tra la linea tattica di Lenin e di Trotskij. Questa fusione, già osservabile durante la guerra, era completamente e definitivamente acquisita al momento del ritorno di Trotskij in Russia. Dal suo primo discorso pubblico tutti i vecchi leninisti lo considerarono uno di loro.” (Ibidem)
Trotskij e la rivoluzione d’Ottobre
Non è possibile in questo breve scritto rendere giustizia al ruolo di Trotskij nella rivoluzione d’Ottobre. Oggi questo ruolo è universalmente riconosciuto. Tuttavia possiamo dire che l’esperienza della rivoluzione russa dimostra l’imprescindibile importanza del fattore soggettivo (la direzione) e il ruolo dell’individuo nella storia.
Nel breve spazio di nove mesi, tra febbraio e ottobre 1917, emerse chiaramente l’importanza della questione della direzione della classe e del partito. Il partito bolscevico è stato il partito più rivoluzionario della storia. Tuttavia, nonostante la sua grande esperienza e la forza accumulata nella sua direzione, al momento decisivo i dirigenti a Pietrogrado oscillarono ed entrarono in crisi. In ultima analisi, il destino della rivoluzione cadde sulle spalle di due uomini: Lenin e Trotskij. Senza di loro la rivoluzione d’Ottobre non ci sarebbe mai stata.
A prima vista, questa affermazione sembra confutare l’analisi marxista del ruolo dell’individuo nella storia. Ma non è così. Nella situazione che si sviluppava, Lenin e Trotskij senza il partito sarebbero stati impotenti. Ci erano voluti due decenni di lavoro, per costruire e perfezionare questo strumento, e guadagnarsi un’autorità nella classe operaia gettando radici profonde fra le masse, nelle fabbriche, nelle caserme e nei quartieri operai. Un singolo individuo, per quanto grande, non avrebbe mai potuto prendere il posto di questo strumento, che non potrà mai essere improvvisato.
Alla classe operaia occorre un partito per trasformare la società. Senza un partito rivoluzionario, capace di dare all’energia rivoluzionaria della classe una direzione cosciente, questa energia si disperde, proprio come il vapore non produce alcun movimento se non c’è una macchina che ne incanali l’energia. D’altra parte, ogni partito ha il suo lato conservatore. Nei momenti decisivi, quando la situazione richiede un brusco cambiamento dell’orientamento del partito, da un lavoro di routine alla conquista del potere, le vecchie abitudini possono entrare in conflitto con le esigenze della nuova situazione. È proprio in queste situazioni che il ruolo della direzione è decisivo.
Uno dei lavori più celebri sulla rivoluzione russa, Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, ha un’introduzione scritta da Lenin, che descrive il libro come “una delle più veritiere e vivide esposizioni” e raccomanda che sia ripubblicato in “milioni di copie e tradotto in tutte le lingue”. Ma sotto Stalin il libro di John Reed scomparve dalle pubblicazioni sia del partito comunista sovietico che dei partiti comunisti all’estero. La ragione è piuttosto ovvia. Un’occhiata alle pagine mostra che l’autore menziona 63 volte Lenin, 53 volte Trotskij, otto volte Kamenev, sette volte Zinoviev, solo due volte Bucharin e Stalin. Questo riflette con una buona approssimazione il corso degli eventi.
La lotta interna del partito durò fino a ottobre e oltre. L’argomento principale dei conciliatori era che i bolscevichi non potevano prendere il potere da soli, ma dovevano formare una coalizione con gli altri partiti “socialisti”, cioè i menscevichi e i socialrivoluzionari.
Ma questo equivaleva a ridare il potere alla borghesia, come sarebbe successo in Germania dopo il novembre 1918.
La vicinanza tra Lenin e Trotskij e la loro totale identità di vedute agli occhi della gente erano tali che il partito bolscevico era conosciuto come il partito di Lenin e Trotskij. A una riunione del comitato di Pietrogrado del 14 novembre 1917, Lenin parlò del pericolo delle tendenze conciliazioniste nella direzione del partito che costituivano un pericolo anche dopo la rivoluzione d’Ottobre. Proprio il 14 novembre, undici giorni dopo l’insurrezione vittoriosa, tre membri del CC (Kamenev, Zinoviev, Nogin) si dimisero per protesta contro la politica del partito e inviarono un ultimatum chiedendo la formazione di un governo di coalizione che includesse menscevichi e socialrivoluzionari, “altrimenti l’unica strada che rimane è mantenere un governo totalmente bolscevico per mezzo del terrore politico.” Concludevano la loro dichiarazione con un appello ai lavoratori per una “conciliazione immediata” sulla base dello slogan “Viva il governo di tutti i partiti sovietici!”.
Questa crisi fra i militanti sembrò in grado di distruggere tutte le conquiste dell’Ottobre. In risposta a una situazione pericolosa, Lenin propose l’espulsione dei dirigenti eretici. Fu in questa situazione che Lenin fece un discorso che finiva con le parole: “Nessun compromesso! Un governo bolscevico omogeneo.” Nel testo originale del discorso di Lenin seguono queste parole: “Per quanto riguarda la coalizione, non ne posso parlare seriamente. Trotskij disse tanto tempo fa che era impossibile. Trotskij lo ha capito e da allora non c’è bolscevico migliore di lui.”
Trotskij e l’Armata Rossa
Il vecchio esercito zarista era crollato e non c’era nulla da mettere al suo posto. La giovane repubblica sovietica era stata invasa da 21 eserciti imperialisti. In un certo momento, lo Stato sovietico si ridusse al territorio della vecchia Moscovia, l’area attorno a Mosca e Pietrogrado. Eppure la situazione venne ribaltata, e lo Stato operaio sopravvisse. Questo successo fu dovuto in non piccola misura al lavoro indefesso di Trotskij come creatore dell’Armata Rossa.
Nel settembre del 1918, quando il potere sovietico, nelle parole di Trotskij, aveva raggiunto il livello più basso, il governo emanò un decreto speciale che partiva dal fatto che la patria socialista era in pericolo. In frangenti così difficili, Trotskij fu mandato al fronte orientale, quello decisivo, dove la situazione militare era catastrofica. Simbirsk, e successivamente Kazan, erano cadute in mano dei bianchi. Le forze nemiche erano superiori in numero e in organizzazione. Alcuni reparti dei bianchi erano composti solo da ufficiali ed erano ben superiori alle forze sovietiche male addestrate e poco disciplinate. Il panico si diffondeva tra le truppe che si ritiravano disordinatamente davanti alla controrivoluzione trionfante. “Persino il suolo sembrava affetto dal panico”, ricorda Trotskij nella sua autobiografia, “distaccamenti rossi freschi, che arrivavano con un atteggiamento vigoroso, venivano immediatamente presi dall’inerzia della ritirata. Si diffondevano voci, tra i contadini del luogo, che i soviet erano condannati. Preti e commercianti rialzavano la testa. Gli elementi rivoluzionari nei villaggi erano sulla difensiva. Tutto crollava non rimaneva nulla a cui aggrapparsi. La situazione sembrava disperata.”
Questa era la situazione che Trotskij e i suoi agitatori trovarono al loro arrivo. Ma in una settimana, Trotskij tornò vittorioso da Kazan, dopo la prima decisiva vittoria militare della rivoluzione. In un discorso al soviet di Pietrogrado, facendo appello per dei volontari per l’Armata Rossa, descrive la situazione al fronte:
“L’immagine è ancora davanti ai miei occhi. Era una delle notti più tristi e tragiche davanti a Kazan, quando giovani forze immature scappavano in preda al panico. Era agosto, nella prima metà, quando subivamo rovesci su rovesci. Arrivò un reparto di comunisti, erano una cinquantina, cinquantasei, penso. Alcuni di loro non avevano mai tenuto un fucile in mano prima di allora. C’erano quarantenni, ma erano principalmente ragazzi di diciotto, vent’anni. Ricordo come uno di essi, un militante comunista di Pietrogrado, diciottenne sbarbato, arrivò al quartier generale di notte, col fucile, e ci disse che il reggimento aveva disertato e che avevano preso il loro posto, e disse: “Siamo comunardi”. Di quel reggimento di cinquanta, ne tornarono dodici, ma, compagni, crearono un esercito, questi lavoratori di Pietrogrado e di Mosca, che arrivavano alle posizioni abbandonate in distaccamenti di 50-60 e tornavano in dieci. Perivano senza che i loro nomi fossero conosciuti, come succede spesso agli eroi della classe operaia. Molti morirono lì, e non conosciamo più i loro nomi, ma costruirono per noi quell’Armata Rossa che difende la Russia sovietica e difende le conquiste della classe operaia, questa cittadella, questa fortezza della rivoluzione internazionale che la nostra Russia sovietica rappresenta. Da allora compagni, la nostra posizione divenne, come sapete, molto migliore sul fronte orientale, dove il pericolo era maggiore, perché i cecoslovacchi e le guardie bianche, muovendo avanzando da Simbirsk a Kazan, ci minacciavano con un’offensiva su Nizni in un senso e, nell’altro, su Vologda, Yaroslavl e Arcangelo per unirsi alla spedizione anglo-francese. Ecco perché il nostro sforzo principale era diretto verso il fronte orientale, e questi sforzi diedero buoni risultati.” (Discorsi di Leon Trotskij)
Dopo la liberazione di Kazan, Simbirsk, Celiavjnsk e le altre città della regione del Volga, a Trotskij fu assegnato il compito di coordinare e di dirigere la guerra sui molti fronti di quel vasto paese. Riorganizzò energicamente le forze armate della rivoluzione e compose anche la formula del giuramento dell’Armata Rossa, in cui ogni soldato giurava lealtà alla rivoluzione mondiale. Ma il suo successo più straordinario fu quello di ottenere la collaborazione di un gran numero di ufficiali del vecchio esercito zarista. Senza questo, non ci sarebbe stata possibilità di trovare i quadri militari sufficienti per attrezzare più di quindici armate su fronti diversi. Alcuni, ovviamente, risultarono traditori. Altri obbedirono lamentandosi e di malavoglia. Ma un grande numero di essi venne attirato alla causa della rivoluzione che servì lealmente. Alcuni, come Tuchacevskij, un genio militare, divennero dei comunisti convinti. Quasi tutti furono assassinati da Stalin nelle purghe del 1937.
“I risultati di Trotskij furono riconosciuti anche dai nemici dichiarati della rivoluzione, tra cui ufficiali e diplomatici tedeschi. Max Bauer rese omaggio a Trotskij definendolo “un organizzatore militare e un dirigente nato”; e aggiunse: “il modo in cui ha costruito un esercito dal nulla nel mezzo di dure battaglie, in cui ha organizzato e addestrato il nuovo esercito, è assolutamente napoleonico”. E il generale Hoffmann arrivò alla stessa conclusione: “Anche da un punto di vista puramente militare si resta stupefatti che fosse possibile per le forze appena reclutate dei rossi vincere i reparti, allora ancora forti, dei generali bianchi e eliminarli completamente.” (citato in La rivoluzione bolscevica, E. Carr).
La lotta di Trotskij contro la burocrazia
La rivoluzione d’Ottobre è stata l’evento più importante della storia umana. Per la prima volta, se escludiamo il breve episodio della Comune di Parigi, le masse oppresse prendevano il proprio destino in mano e si assumevano il compito di ricostruire la società. La rivoluzione socialista è totalmente differente da tutte le altre rivoluzioni nella storia, perché il fattore soggettivo diviene, per la prima volta, la forza motrice dello sviluppo sociale. La spiegazione di questo si deve cercare nella differenza dei rapporti di produzione. Nel capitalismo le forze di mercato funzionano in maniera incontrollata, senza nessuna pianificazione o azione cosciente. La rivoluzione socialista pone fine all’anarchia produttiva e impone controlli e pianificazione da parte della società. Come risultato, dopo la rivoluzione, il fattore soggettivo, la coscienza di classe, è un fattore decisivo. Nelle parole di Engels, il socialismo “è un salto dal regno della necessità a quello della libertà”.
Ma la coscienza delle masse non è qualcosa di separato dalle condizioni materiali dell’esistenza, dal livello della cultura, dalla giornata lavorativa. Non per nulla Marx ed Engels sottolineavano che i prerequisiti materiali del socialismo dipendevano dallo sviluppo delle forze produttive. Quando i menscevichi si scagliavano contro la rivoluzione d’Ottobre, sostenendo che non c’erano le condizioni materiali per il socialismo in Russia, c’era un elemento di verità in questo. Tuttavia, queste condizioni oggettive esistevano su scala mondiale.
L’internazionalismo per i bolscevichi non era una questione sentimentale. Lenin ripeté centinaia di volte che o la rivoluzione russa si sarebbe propagata in altri paesi o sarebbe stata sconfitta. In effetti, dopo la rivoluzione russa ci fu un’ondata di situazioni rivoluzionarie e prerivoluzionarie in molti paesi (Germania, Ungheria, Italia, Francia, ecc.) ma senza la presenza di un partito rivoluzionario di massa vennero sconfitte o, per essere più precisi, vennero tradite dai dirigenti socialdemocratici. A causa del tradimento dei dirigenti socialdemocratici in Germania e in altri paesi, la rivoluzione russa rimase isolata in un paese arretrato, dove le condizioni di vita delle masse erano atroci. In un anno morirono sei milioni di persone di fame. Alla fine della guerra civile la classe operaia era esausta.
In questa situazione una reazione era inevitabile. I risultati ottenuti non corrispondevano alle speranze delle masse. Un importante strato dei lavoratori più coscienti e combattivi era stato ucciso durante la guerra civile. Altri, assorbiti dai compiti di amministrazione dell’industria e dello Stato, si staccarono gradualmente dal resto della classe. In un’atmosfera di crescente stanchezza, scoraggiamento e disorientamento delle masse, l’apparato statale si sollevò lentamente al di sopra della classe operaia. Ogni passo indietro della classe operaia incoraggiava ulteriormente i burocrati e i carrieristi. In questa situazione, emerse una casta burocratica che era soddisfatta della propria posizione e non era d’accordo con l’idea “utopica” della rivoluzione mondiale. Questi elementi si aggrapparono entusiasticamente all’idea, avanzata per la prima volta nel 1924, del “socialismo in un solo paese”.
Lenin cercò di mettere in guardia dal pericolo della burocrazia. All’undicesimo congresso, pose di fronte al partito una bruciante dichiarazione sulla burocratizzazione dell’apparato statale:
“Se prendiamo Mosca, disse, con i suoi 4.700 comunisti in posizioni di responsabilità, e se prendiamo la vasta macchina burocratica, questo gigantesco marchingegno, ci dobbiamo chiedere: chi guida e chi è guidato? Dubito seriamente che sia corretto dire che i comunisti dirigono questa massa. A dire il vero, non dirigono, sono diretti.”
Per condurre a termine il compito di scacciare burocrati e carrieristi dall’apparato dello Stato e del partito, Lenin cominciò a costruire la Rabkrin (Ispettorato operaio e contadino) con a capo Stalin. Lenin vedeva la necessità di un buon organizzatore perché questo compito fosse portato fino in fondo; il curriculum di Stalin come organizzatore sembrava qualificarlo per il posto. In pochi anni, Stalin occupò svariate posizioni organizzative nel partito: capo della Rabkrin, membro del CC e del Politburo, Orgburo e Segretariato. Ma la sua visione ristretta e organizzativista e le sue ambizioni personali lo portarono a occupare in poco tempo il posto di rappresentante capo della burocrazia nella direzione del partito, non suo oppositore.
Già nel 1920, Trotskij criticò il lavoro della Rabkrin, che da mezzo di lotta contro la burocrazia stava divenendo un suo covo. Inizialmente Lenin difese la Rabkrin contro Trotskij. La sua malattia gli impediva di capire che cosa stava succedendo alle sue spalle nel partito e nello Stato. Stalin usava quella posizione, che gli permetteva di selezionare il personale di posti chiave nello Stato e nel partito per aggregare un blocco di alleati e nullità politiche grati a lui per la loro carriera. Nelle sue mani, la Rabkrin divenne uno strumento per costruire la propria posizione ed eliminare i suoi rivali politici.
Lenin usò tutto il peso della propria autorità nella lotta per la rimozione di Stalin dal posto di segretario generale del partito che aveva occupato nel 1922, dopo la morte di Sverdlov. Tuttavia, la paura principale di Lenin ora più che mai era che una divisione aperta nella direzione, ora che i bolscevichi erano al potere, conducesse a una spaccatura del partito su linee di classe. Cercò quindi di contenere la lotta al vertice e appunti come questi ed altro materiale non furono resi pubblici. Lenin scrisse segretamente ai bolscevichi georgiani epurati da Stalin (mandando copie a Trotskij e a Kamenev) aderendo alla loro causa contro Stalin “con tutto il cuore”. Poiché non riusciva a seguire l’affare di persona, scrisse a Trotskij chiedendogli di occuparsi della difesa dei georgiani nel CC. Durante l’ultimo periodo di malattia, per combattere il processo di burocratizzazione, chiese a Trotskij addirittura di formare un blocco per combattere Stalin al XII congresso di partito. Ma Lenin morì prima di poter attuare questo progetto. Le sue lettere al congresso, in cui descrive Trotskij come il più abile membro del CC e chiede le dimissioni di Stalin da segretario generale del partito, furono nascoste dalla cricca al potere e non vennero pubblicate per decenni.
“Socialismo in un solo paese”
L’emergere di una nuova casta dominante aveva profonde radici sociali. L’isolamento della rivoluzione era il fattore centrale dietro l’ascesa di Stalin e della sua cricca, ma esso a sua volta divenne causa di nuove sconfitte per la rivoluzione internazionale: Bulgaria e Germania (1923); la sconfitta dello sciopero generale in Inghilterra (1926), Cina (1927); e la sconfitta peggiore di tutte, quella della rivoluzione in Germania (1933). Ogni sconfitta della rivoluzione mondiale aumentava la demoralizzazione della classe operaia e incoraggiava ulteriormente i burocrati e i carrieristi. Dopo la tremenda sconfitta in Cina nel 1927, la cui responsabilità diretta fu di Stalin e Bucharin, cominciò l’espulsione dell’Opposizione. Anche prima, i sostenitori dell’Opposizione vennero sistematicamente perseguitati, licenziati, ostracizzati e, in alcuni casi, spinti al suicidio.
Le mostruose azioni degli stalinisti erano in totale contraddizione con le tradizioni democratiche del partito bolscevico. Consistevano nel mandare teppisti a disperdere le riunioni, in una campagna di bugie e calunnie nella stampa ufficiale, nella persecuzione di amici e sostenitori di Trotskij che condusse alla morte di molti eminenti bolscevichi come Glazman (spinto al suicidio con il ricatto) e Joffe, il famoso diplomatico sovietico a cui fu negato il trattamento medico necessario e che si suicidò.
Alle riunioni di partito, gli oratori dell’opposizione erano soggetti a ogni sorta di atti di teppismo da parte di gruppi di sbandati semifascisti organizzati dall’apparato stalinista per intimidire l’Opposizione.
Dato l’isolamento della rivoluzione nelle condizioni di tremenda arretratezza, l’esaurimento della classe operaia e della sua avanguardia, la vittoria della burocrazia stalinista era scontata. Non in base alla bravura o delle intuizioni di Stalin. Al contrario. Stalin non prevedeva e non capiva nulla, ma procedeva empiricamente, come dimostrano i continui zig zag della sua politica. Stalin e il suo alleato Bucharin sterzarono a destra, cercandosi una base nei “contadini ricchi” (i kulak). Trotskij e l’Opposizione di sinistra avvertirono più volte del pericolo di una politica simile. Proposero una politica di industrializzazione, piani quinquennali e collettivizzazione nelle campagne coinvolgendo i contadini col buon esempio delle aziende statali. A una sessione plenaria del CC nell’aprile del 1927, Stalin si fece beffe di queste proposte. Infatti paragonò il piano di elettrificazione dell’Opposizione (la diga sul Dnieprostoi) all’idea di “offrire ad un contadino un grammofono invece di una mucca”.
Gli avvertimenti dell’opposizione si dimostrarono corretti. Il pericolo dei kulak, che si manifestò in modo evidente nello sciopero del grano e nei sabotaggi, minacciava di rovesciare il potere sovietico e di mettere la controrivoluzione capitalista all’ordine del giorno. In una reazione di panico, Stalin fu costretto a rompere con Bucharin e a lanciarsi in un’avventura estremista. Dopo aver respinto sdegnosamente le proposte di Trotskij dei piani quinquennali per sviluppare l’economia sovietica, fece improvvisamente una svolta di 180 gradi e cominciò a proporre la pazzia del “piano quinquennale in quattro anni” e la “liquidazione dei kulak come classe” attraverso la collettivizzazione forzata. All’inizio, questa svolta disorientò molti militanti dell’Opposizione, che pensarono che Stalin avesse adottato le loro politiche. Ma la linea di Stalin era solo una caricatura della politica dell’Opposizione. Era escluso qualsiasi ritorno alla democrazia sovietica di Lenin e venne rafforzato il dominio della burocrazia come casta dominante.
A cominciare da Zinoviev e Kamenev, gli oppositori capitolarono a Stalin uno dopo l’altro, nella speranza di essere riammessi nel partito. Era un’illusione. Questa abiura preparò solo la strada a nuove richieste e nuove capitolazioni, e sfociò nell’umiliazione finale dei processi di Mosca, dove Kamenev, Zinoviev e altri vecchi bolscevichi si dichiararono colpevoli dei crimini più mostruosi contro la rivoluzione. Ma anche questo non li salvò. Trovarono la morte per mano dei boia di Stalin dopo essersi coperti da soli la testa di immondizia.
Trotskij resistete, sebbene non avesse illusioni di poter vincere la lotta, dato il rapporto di forze del tutto sfavorevole. Ma stava combattendo per lasciare una bandiera, un programma e una tradizione per la nuova generazione. Come spiega nella sua biografia:
“Il gruppo dirigente dell’Op-posizione arrivava a questo finale con gli occhi ben aperti. Sapevamo fin troppo bene che avremmo potuto trasmettere le nostre idee alla nuova generazione non con la diplomazia e i sotterfugi ma solo con una lotta aperta che non si arrendesse di fronte a nessuna conseguenza pratica. Sapevamo che andavamo incontro a una sconfitta inevitabile, fiduciosi però di preparare la strada alla vittoria delle nostre idee per un più lontano futuro”. (La mia vita).
L’opposizione di sinistra internazionale
Nel 1929, Trotskij fu esiliato in Turchia. Stalin non aveva ancora consolidato a sufficienza la sua posizione per poterlo semplicemente uccidere. Dall’esilio, tra il 1927 e il 1933, Trotskij dedicò le sue energie a organizzare l’opposizione di sinistra internazionale, allo scopo di rigenerare l’Urss e l’internazionale comunista. La svolta estremista di Stalin in Unione Sovietica trovò un’espressione internazionale nella teoria del cosiddetto Terzo Periodo e del “socialfascismo”. Questo, a sentire i partiti comunisti doveva sfociare nella “crisi finale” del capitalismo su scala mondiale. Il Comintern, dietro istruzioni di Mosca, definì fascisti tutti i partiti che non fossero quelli comunisti. Questo valeva soprattutto per i partiti socialdemocratici che vennero rinominati “socialfascisti”. Questa pazzia ebbe effetti particolarmente devastanti in Germania, dove determinò direttamente la vittoria di Hitler.
La catastrofica recessione mondiale del 1929-33 ebbe gli effetti più disastrosi sulla Germania. La disoccupazione arrivò a otto milioni. Una vasta parte della piccola borghesia era rovinata. Essendo stati delusi dalla socialdemocrazia nel 1918 e dai comunisti nel 1923, perla disperazione si spinsero verso il partito nazista di Hitler alla ricerca di una soluzione. Nelle elezioni del settembre 1930, i nazisti presero quasi sei milioni e mezzo di voti. Dal suo esilio in Turchia, Trotskij avvertì insistentemente del pericolo del fascismo in Germania. Chiese ai comunisti tedeschi di formare un fronte unico con i socialdemocratici per fermare Hitler. Questo messaggio fu sottolineato con forza in una serie di articoli e documenti noti come La svolta dell’internazionale comunista e la situazione tedesca. Si trattava di una proposta di ritornare alla politica leninista del fronte unico. Ma era come parlare ai sordi.
Sebbene il movimento operaio tedesco fosse il più forte dell’occidente, rimase paralizzato al momento della verità dalle politiche dei suoi dirigenti.
Quando nel 1931 Hitler organizzò un referendum con lo scopo di abbattere il governo socialdemocratico in Prussia, il partito comunista, su ordine di Mosca, spinse i suoi sostenitori ad appoggiare i nazisti. Ancora nel 1932, il giornale stalinista inglese The Daily Worker scriveva:
“È significativo che Trotskij stia difendendo il fronte unico tra comunisti e partiti socialdemocratici contro il fascismo. In questo momento non si potrebbe proporre una linea più disfattista e controrivoluzionaria.”
Nel 1933, il partito comunista tedesco aveva circa sei milioni di sostenitori, i socialdemocratici circa otto milioni. I loro gruppi combattenti avevano insieme circa un milione di membri, un numero molto più alto delle guardie rosse a Pietrogrado e Mosca nel 1917. Eppure Hitler poté vantarsi di “aver preso il potere senza rompere un vetro”. Fu un tradimento della classe operaia paragonabile a quello del 1914. Da un giorno ad un altro le possenti organizzazioni del proletariato tedesco vennero ridotte in polvere. I lavoratori di tutto il mondo, e soprattutto dell’Unione Sovietica, pagarono un terribile prezzo per questo tradimento.
Trotskij sperò che questa sconfitta su scala mondiale servisse a scuotere l’Internazionale Comunista alle fondamenta e aprisse una discussione nelle file dei partiti comunisti che li spingesse a rigenerarsi, accogliendo le critiche dell’opposizione. Ma le cose andarono diversamente. Il Comintern e i suoi partiti erano così stalinizzati che non ci fu dibattito, né autocritica, solo una riproposizione delle stesse politiche fallimentari.
Un partito, e un’internazionale, incapace di imparare dai propri errori è condannato. La tremenda sconfitta della classe operaia tedesca come risultato delle politiche degli stalinisti e dei socialdemocratici, seguita da una completa mancanza di qualsiasi autocritica e discussione in materia all’interno dei partiti dell’Internazionale comunista, convinse Trotskij che il Comintern era irrimediabilmente degenerato. Mentre nei primi anni la burocrazia non si era ancora consolidata come casta dominante, adesso era chiaro che non si trattava più di un’aberrazione storica che potesse essere corretta con la critica e le discussioni, ma rappresentava la controrivoluzione trionfante che aveva distrutto tutti gli elementi di democrazia operaia costruiti dalla rivoluzione d’Ottobre. Trotskij propose quindi lo slogan di una nuova Internazionale, la Quarta.
I processi di Mosca
La più chiara espressione della nuova situazione furono gli infami “processi di Mosca” che Trotskij descrisse come “una guerra unilaterale contro il partito bolscevico”. Tra il 1936 e il 1938, tutti i membri del comitato centrale dei tempi di Lenin ancora vivi in Unione Sovietica furono assassinati. “Il processo dei sedici” (Zinoviev, Kamenev, Smirnov, ecc.); “il processo dei diciassette” (Radalev, Pyatakov, Sokolnikov, ecc.); “Il processo segreto agli ufficiali” (Tuchachevksij, ecc.); “il processo dei ventuno” (Bucharin, Rijkov, Rakovskij, ecc.). I vecchi compagni di Lenin vennero accusati di aver commesso i crimini più assurdi contro la rivoluzione. Di solito erano accusati di essere agenti di Hitler (come i giacobini vennero accusati di essere agenti inglesi durante la reazione termidoriana in Francia).
Gli scopi della burocrazia erano semplici: annientare tutti quelli che potevano divenire un punto di riferimento per lo scontento delle masse. Arrivarono ad arrestare e uccidere migliaia di persone, servi fedeli di Stalin, il cui unico crimine era un legame diretto con la rivoluzione d’Ottobre. Era pericoloso persino essere amici, vicini di casa, parenti degli arrestati. Nei campi di concentramento si trovavano intere famiglie, inclusi i bambini.
Negli anni 1930 Trotskij analizzò il fenomeno nuovo della burocrazia stalinista nel suo classico lavoro. La rivoluzione tradita e spiegò la necessità di una nuova rivoluzione, una rivoluzione politica, per rigenerare l’Urss. Allo stesso modo delle altre classi o caste dominanti della storia, la burocrazia russa non sarebbe “scomparsa” di sua spontanea volontà. Già nel 1936, Trotskij spiegò che la burocrazia stalinista rappresentava un pericolo mortale per la sopravvivenza dell’Urss. Formulò la previsione, di un’esattezza sorprendente, che se la burocrazia non fosse stata spodestata dalla classe operaia, avrebbe condotto inesorabilmente alla controrivoluzione. Con un ritardo di cinquant’anni, la previsione di Trotskij si è verificata. Non soddisfatti dei loro voraci privilegi che derivavano dalla rapina ai danni dell’economia pianificata, figli e nipoti dei funzionari stalinisti si trasformano in proprietari dei mezzi di produzione in Russia e nei paesi vicini sprofondando la terra dell’Ottobre in un nuovo medioevo di barbarie e di devastazioni.
Stalin e la casta privilegiata che rappresentava non potevano perdonare Trotskij per averli smascherati come usurpatori e affossatori dell’Ottobre. Il lavoro di Trotskij e dei suoi collaboratori rappresentava un pericolo mortale per la burocrazia che rispose con una campagna massiccia di omicidi, persecuzioni e calunnie. Si cercherebbe invano nella storia moderna un parallelo alle persecuzioni sofferte dai trotskisti per mano di Stalin e della sua mostruosa macchina per uccidere. Sarebbe necessario tornare ai tempi della persecuzione dei primi cristiani o al lavoro infame della Santa Inquisizione per trovare qualcosa di simile. Uno per uno i sostenitori di Trotskij in Unione Sovietica vennero messi a tacere dai boia di Stalin. Compagni, amici e intere famiglie finirono nei Gulag.
Anche in questi inferni, i trotskisti resistettero. Solo loro mantennero un’organizzazione e la disciplina. Riuscendo in qualche modo a seguire i problemi internazionali, organizzarono assemblee e gruppi di discussione marxisti e combatterono per i propri diritti. Organizzarono anche manifestazioni e scioperi della fame, come lo sciopero del campo di Peciora, nel 1936, che durò 136 giorni.
Crebbe il numero delle fucilazioni arbitrarie. Stalin aveva deciso la “soluzione finale”. Verso la fine di marzo del 1938, i trotskisti furono portati in gruppi di circa venti alla volta nelle lande ghiacciate attorno al campo di Vorkuta dove trovarono la morte. I massacri andarono avanti per mesi. I macellai della Gpu fecero il loro lavoro, massacrando uomini, donne e bambini di meno di dodici anni. Nessuno fu risparmiato. Un testimone racconta come la moglie di un militante dell’opposizione marciò sulle stampelle fino al luogo dell’esecuzione.
“Per tutto aprile e parte di maggio, racconta il testimone oculare, proseguirono le esecuzioni. Ogni giorno venivano scelte trenta o quaranta persone, dagli altoparlanti risuonavano i comunicati: “per agitazione controrivoluzionaria, sabotaggio, banditismo, rifiuto di lavorare, tentativi di fuga, i nominativi seguenti verranno fucilati…”, una volta un grosso gruppo di circa cento persone, per lo più trotskisti, vennero presi… allontanandosi cantavano l’internazionale e centinaia di voci nelle baracche si unirono al coro.” (I. Deutscher, Il profeta esiliato)
Un uomo contro il mondo
Per il dirigente dell’Ottobre non c’erano rifugi né posti sicuri sulla terra. Una porta dopo l’altra gli venne chiusa in faccia. Stati “democratici” che si consideravano ben più avanzati dei “dittatori” bolscevichi non mostrarono più tolleranza degli altri. Alla fine, Trotskij e la sua fidata compagna Natalija Sedova trovarono rifugio in Messico sotto il governo del borghese progressista Lazar Cardenas.
Negli anni che precedettero la sua morte, Trotskij vide l’assassinio di uno dei suoi figli e la scomparsa dell’altro; il suicidio di sua figlia, il massacro di amici e collaboratori dentro e fuori l’Urss, la distruzione delle conquiste della rivoluzione d’Ottobre. La figlia di Trotskij Zinaida si suicidò a causa delle persecuzioni di Stalin. Dopo il suicidio di sua figlia, la sua prima moglie, Alexandra Soko-lovskaja, una donna straordinaria che sarebbe morta nei campi staliniani, scrisse una lettera disperata a Trotskij: “I nostri figli sono condannati. Non credo più alla vita; non credo che diventeranno adulti. Aspetto sempre un nuovo disastro.” E conclude: “Ho avuto difficoltà a scrivere e a spedire questa lettera. Scusami per questa crudeltà verso di te, ma devi sapere tutto sulla tua famiglia” (Deutscher, op. cit.).
Leon Sedov, il figlio maggiore di Trotskij, che giocò un ruolo chiave nell’Opposizione di sinistra internazionale, venne ucciso mentre era ricoverato per un’operazione in una clinica di Parigi nel febbraio del 1938. Due dei suoi segretari europei, Rudolf Klement e Erwin Wolff, vennero uccisi. Ignace Reiss, un funzionario della Gpu che ruppe pubblicamente con Stalin e si dichiarò in favore di Trotskij, fu un’altra vittima della macchina sterminatrice di Stalin, ucciso da un agente della Gpu in Svizzera.
Il colpo più duro per Trotskij venne con l’arresto del figlio minore Sergei, che era restato in Russia pensando che, non essendo attivo politicamente, sarebbe stato salvo. Vana speranza! Non potendo colpire il padre, Stalin usò la tortura più raffinata, quella di colpire i padri attraverso i figli. Nessuno può immaginare quale tormento colpì al tempo Trotskij e Natalija Sedova. Solo in anni recenti è emerso che Trotskij pensò persino al suicidio come mezzo per salvare suo figlio. Ma capì che un tale atto non avrebbe salvato Sergei e avrebbe dato a Stalin quello che voleva. Trotskij non aveva torto. Sergei era già morto, fucilato a quanto pare in segreto nel 1938, avendo rifiutato recisamente di accusare suo padre.
Uno per uno i collaboratori di Trotskij caddero vittime del terrore staliniano. Quelli che rifiutarono di abiurare vennero eliminati fisicamente. Ma anche la capitolazione non salvò la vita di quelli che si arresero. L’ultima delle figure dirigenti dell’Opposizione in Urss a resistere fu il grande marxista e veterano della rivoluzione Christian Rakovskij.
Nonostante tutto, fino alla fine, Trotskij rimase fermo nelle sue idee rivoluzionarie. Il suo testamento rivela un enorme ottimismo nel futuro socialista dell’umanità. Ma il suo vero testamento si trova nei suoi libri e negli altri scritti che continuano a essere un tesoro di idee marxiste per le nuove generazioni di rivoluzionari. Il fatto che oggi lo spettro del “trotskismo” continui a spaventare la borghesia, i riformisti e gli stalinisti è una prova sufficiente della forza delle idee del bolscevismo-leninismo, poiché questo è il vero significato di “trotskismo”.
Soprattutto in Russia, la patria dell’Ottobre, le idee del trotskismo rimangono del tutto attuali.
Trotskij spiegò tanto tempo fa che la burocrazia stalinista, questo tumore nel corpo dello stato operaio, avrebbe finito per distruggere le conquiste dell’Ottobre. Nel 1936 egli previde che “la caduta della attuale dittatura burocratica, se non verrà sostituita da un nuovo potere socialista, porterà al ritorno alle relazioni capitalistiche con un declino catastrofico dell’industria e della cultura.” (La rivoluzione tradita) Ora si vede la correttezza di questa previsione. Gli stessi dirigenti del cosiddetto partito comunista dell’Urss che ieri giuravano fedeltà a Lenin e al socialismo ora sono impegnati in una smodata corsa ad arricchirsi con il saccheggio sistematico delle proprietà dell’Unione sovietica. In confronto a questo mostruoso tradimento, il comportamento dei dirigenti socialdemocratici nel 1914 sembra un giochetto.
Lenin amava citare molto il proverbio russo: “la vita insegna”. Tanto più i lavoratori russi capiranno in quale vicolo cieco il capitalismo li sta trascinando (e lo capiscono di più ogni giorno che passa), tanto più capiranno la necessità di tornare alle vecchie tradizioni. Riscopriranno, nell’azione, l’eredità del 1905 e del 1917. Riscopriranno le idee e il programma di Vladimir Ilic Lenin e dell’altro grande dirigente e martire della classe operaia, Lev Trotskij.
Dopo decenni della più terribile repressione, le idee del bolscevismo-leninismo rimangono vive e vibranti, le autentiche idee dell’Ottobre che non possono essere distrutte né con le calunnie né con le pallottole. Nelle parole di Lenin: “il marxismo è onnipotente perché è giusto.”

Londra 24/1/2000

Da - https://www.rivoluzione.red/lev-trotskij-1940-2019-vita-e-lotta-di-un-rivoluzionario/
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