La rivolta dei braccianti Sikh, i nuovi schiavi dell’Agro Pontino
La storia di Marco Omizzolo, il sociologo che guida la protesta dei lavoratori sfruttati
Nelle campagne del Lazio negli ultimi due anni si sono suicidati dieci braccianti
Pubblicato il 17/04/2018 - Ultima modifica il 17/04/2018 alle ore 09:12
NICCOLÒ ZANCAN
INVIATO A LATINA
Ripiegata in quattro dentro la sua carta d’identità, tiene una vecchia busta paga. È l’ultima busta paga di Zulqfar Ahmed, bracciante agricolo nato in Pakistan il 10 giugno 1961, codice fiscale HMDZFQ61... «Lavorava tutti i giorni della settimana, compresa la domenica mattina. Ma il padrone lo pagava solo 20 ore al mese. Totale: 164 euro. Zulqfar era disperato. Ma non si lamentava. Pensava che qui fosse la regola. Solo che non riusciva letteralmente a vivere. Un giorno, durante il passaggio da un campo di lavoro all’altro, si è staccato dal gruppo e si è impiccato alla trave di una serra».
Negli ultimi due anni nelle campagne dell’Agro Pontino, fra cocomeri, meloni, stelle di Natale e mozzarelle di bufala, si sono suicidati dieci braccianti. Ma nello stesso tempo, altri 150 lavoratori sono riusciti a denunciare le condizioni di sfruttamento nei campi e le violenze subite all’interno delle aziende agricole. Hanno chiesto aiuto. Firmato verbali. Trovato più di 450 testimoni. Se questo tentativo di alzare la testa è stato possibile, è grazie al lavoro di un sociologo italiano di 43 anni. Il suo nome è Marco Omizzolo, origine venete, casa a Sabaudia. È lui ad aver organizzato il primo sciopero della storia dei braccianti sikh. Quattro mila persone radunate in Piazza della Libertà, davanti alla prefettura di Latina. Era il 18 aprile 2016. Una giornata mai vista.
Da quel momento, le condizioni dei braccianti dell’Agro Pontino forse sono un po’ migliorate. La vita di Marco Omizzolo, in compenso, è peggiorata. E molto. Il 3 marzo 2018, per la quarta volta, ha ricevuto un avvertimento. La sua auto è stata presa a mazzate. «La cosa che mi ha inquietato di più, è che non avevo detto a nessuno del mio ritorno a casa», racconta adesso. «Ero stato a Venezia per una lezione all’Università, sono rientrato di sera. Ho cenato dai miei genitori. Quando sono uscito, ho trovato la macchina con le quattro ruote squarciate, la carrozzeria completamente rigata e il parabrezza in frantumi». C’erano già stati altri avvertimenti. Insulti per strada. Uno striscione allo stadio. Un volantino anonimo in cui lo accusavano di fare soldi sulla pelle degli indiani, perché violenza e delegittimazione colpiscono sempre insieme.
«Non posso dire che la situazione mi lasci indifferente», dice Omizzolo. «Vivo un’ansia continua. Non so da chi devo guardarmi le spalle. Ma non saprei fare altro che questo lavoro. E voglio continuare a farlo». A ben guardare, l’inizio di tutta questa storia era stata una semplice domanda. Cosa sta succedendo, qui, davanti a casa mia? «Fra Terracina, Sabaudia e Latina, vedevo questi ragazzi in bicicletta al mattino presto, ricomparivano a sera inoltrata. Erano tutti di religione sikh. Un comunità di cui non sapevamo nulla. Mi sono detto che l’unico modo per conoscerli era stare un po’ con loro, vivere la loro vita». Così il figlio di emigrati si cala nei panni dei migranti indiani. Si fa assumere da un caporale, inforca la bici. E quello che trova nei campi, non è soltanto sfruttamento. Tutti devono chiamare il datore di lavoro «padrone». Stanno in ginocchio nella terra anche per quattordici ore al giorno. Chi protesta, viene preso a bastonate e scaricato davanti al pronto soccorso con l’avvertimento di stare zitto. Il ricatto è sempre perdere il lavoro. Ci sono referti. Ossa spezzate. Silenzi.
La paga oscilla da un massimo di 4,50 euro l’ora a un minimo di 50 centesimi. Per sostenersi, soprattutto i braccianti più vecchi, fanno uso di sostanze dopanti: metanfetamina, scarti dell’oppio, farmaci antispastici. E da poco, nei campi del Basso Lazio, è arrivata anche l’eroina. Omizzolo scopre un’organizzazione internazionale che parte dal Punjab e finisce a 70 chilometri da Roma: «I braccianti vengono fatti arrivare da un intermediario che si occupa di tutto. Devono pagare 8 mila euro prima del viaggio, altri 4 mila euro al caporale. Vengono arruolati sulla base di un racconto totalmente falsato della realtà. Pensano di venire a lavorare nel Paese del Bengodi. Il datore di lavoro li chiama attraverso il sistema delle quote, quindi hanno anche un permesso di soggiorno. Sono in regola, apparentemente. Ma appena atterrano, precipitano all’inferno».
Aver denunciato tutto questo non porta amici. «Restano in pochi», dice Omizzolo. Il Gruppo Abele di Don Ciotti si è schierato dalla sua parte. Come l’ex procuratore Giancarlo Caselli, che gli ha scritto una lettera in qualità di presidente dell’Osservatorio sulle agromafie: «Conosciamo molto bene, e da sempre apprezziamo, il coraggio e la serietà assoluta con cui Ella si dedica ad un problema rischioso, complesso e difficile come quello del caporalato. Ora, nel modo peggiore ma al tempo stesso perversamente significativo, ne abbiamo avuto conferma attraverso la prepotenza e protervia di chi vorrebbe continuare a vivere nell’illegalità sfruttando i più deboli».
Tremila braccianti abitano al «Residence Bella Farnia Mare». Costruito negli Anni Ottanta, doveva essere un gioiello turistico ma è fallito. Un posto letto costa 150 euro al mese. È una piccola città indiana nel Lazio. Sono loro che domani mattina andranno ancora ad inginocchiarsi nei campi. «Il problema è l’indifferenza delle istituzioni e della politica», dice Marco Omizzolo. «Su 21 comuni della zona, solo tre hanno preso posizione contro il caporalato. Il fatto è che qui lavorano 10 mila aziende. È un sistema che fa comodo a molti. Parliamo di guadagni enormi. Ecco perché tengo nel portafoglio l’ultima busta paga di Zulfqar. Come poteva sopravvivere, lui, da solo, con 164 euro al mese?».
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