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Autore Discussione: Michele SALVATI -  (Letto 37561 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Giugno 20, 2013, 11:46:34 am »

IL PD E IL CONFLITTO TRA DUE ANIME

Il vero partito mai nato

Viviamo in un regime non di «partito unico», ma di «unico partito». Con tutti i suoi difetti, la sola organizzazione politica che assomiglia ai grandi partiti di un tempo è il Pd, radicato nella società sia a livello nazionale che a livello locale, con legami articolati nello Stato e nelle pubbliche amministrazioni, con diffuse capacità di reclutamento di quadri tecnici in grado di cooperare a funzioni di governo, con una connotazione ideologica sufficientemente chiara. I difetti (... un grande partito, non un vero partito) li vedremo subito, e sono profondi. Ma assai più grandi sono quelli delle altre organizzazioni politiche. Il fallimento della Seconda Repubblica, al di là delle politiche inadeguate che ha adottato, sta nel non essere riuscita a creare un secondo grande partito, un secondo stabilizzatore politico, dotato delle stesse caratteristiche del primo, così risolvendo un problema di fondo della nostra democrazia: l'assenza di un grande partito di destra democratica.

Berlusconi aveva le risorse di consenso necessarie a creare una grande e stabile destra liberal-conservatrice, che nel tempo si rendesse autonoma dal carisma del suo fondatore. Non ha voluto o potuto guidare il delicato passaggio dal carisma all'istituzione; in ogni caso, non ci è riuscito. Ancor oggi, o scende in campo il suo attempato fondatore, o la destra balbetta e perde, anche se una «domanda di destra» è forte nella società. Delle altre organizzazioni politiche non vale la pena di parlare. O sono il frutto di vecchi radicamenti ideologici e di domande circoscritte localmente e settorialmente, o sono partiti e movimenti ancor più personali e carismatici del Popolo delle libertà, funghi che nascono nel terreno irrigato dall'indignazione diffusa, alternative episodiche all'astensionismo e al rifiuto della politica.

Condivido dunque, nell'analisi e nello spirito, l'editoriale del 16 giugno di Luciano Fontana, ma farei un'eccezione: il Pd è ancora (e chissà per quanto) un grande partito, e di un partito svolge le principali funzioni. Ma questo aggrava, non attenua, le critiche che gli possono essere rivolte. Passare dal carisma all'istituzione, dal potere personale ad una solida struttura ideologica e organizzativa - il compito di Berlusconi - era un'operazione difficilissima, e il nostro «Cavaliere» non è un De Gaulle. Il compito che attendeva la leadership della sinistra di governo, dall'Ulivo al Partito democratico, nei vent'anni che sono passati dalla crisi politica del 1992-93, era invece accessibile a un ceto politico capace ed esperto come quello di origine comunista e democristiana.

Questo ceto - i D'Alema, i Veltroni, i Marini, le Bindi - sapeva benissimo che, creato un amalgama in cui si fossero scolorite le vecchie appartenenze, il problema principale era quello di tenere insieme due tendenze che si sarebbero inevitabilmente contrapposte in una sinistra riformista con «vocazione maggioritaria»: una tendenza con orientamento più liberale e un'altra con orientamento più socialdemocratico. L'accento qui cade sull'espressione «tenere insieme».

Un partito è una comunità d'intenti, e si è partito se si riconosce lo stesso spirito di parte, la stessa comunanza profonda, lo stesso soffio vitale, alle principali tendenze che in esso operano, non se si respinge una di esse al di fuori dei confini del partito, gabellando la tendenza più liberale come «destra».
Se questo è vero, e nonostante le capacità e i meriti che prima ho riconosciuto, il Pd è un grande partito, ma non è ancora un vero partito: nel Labour, nel Ps, nella Spd, nel Psoe si combatte, ma nessuno mette in dubbio l'appartenenza al partito delle diverse tendenze che in essi si confrontano.

Il caso Renzi è esemplare. Difficile negare che Renzi sia il migliore acchiappavoti che il Pd ha oggi a disposizione. Se nel prossimo congresso Renzi corresse per la segreteria e vincesse, quanti, nei circoli, tra i militanti, nei quadri intermedi, riconoscerebbero in lui il «loro» segretario e collaborerebbero con lealtà, se non con entusiasmo? Le bizantine polemiche di cui i giornali ci informano - sulle regole statutarie, sulle primarie... - hanno tutte a che fare con questo problema profondo. E se il Pd non lo risolve, il problema non è solo del Pd, ma della democrazia italiana: un vero partito sul lato della sinistra di governo aiuterebbe la formazione di un vero partito sul lato della destra, perché una tendenza politica così diffusa non può rimanere a lungo senza rappresentanza. Che il Pd risolva il suo problema è una speranza, naturalmente. Ma il realismo mi costringe a far mia la frase finale dell'editoriale di Fontana: «La speranza di una "democrazia normale" con due poli... che competono per conquistare il consenso degli elettori è sempre più lontana».

Michele Salvati
18 giugno 2013 | 8:03

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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_18/il-vero-partito-mai-nato_348d0dd0-d7d6-11e2-98e6-97ca5b2e4e27.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 19, 2014, 12:08:53 pm »

Le sole armi in mano al premier
La minaccia e il successo

di MICHELE SALVATI

La sfida che Renzi si è proposto - e che può giustificare l’altrimenti incomprensibile sostituzione del suo governo a quello di Letta - richiede un coraggio che rasenta l’azzardo. E una buona dose di fortuna.

Per vincere la sfida - far tornare a galoppare, o almeno a trottare, lo stanco ronzino italiano - Renzi deve assolvere due compiti e deve assolverli con risorse politiche molto limitate. Il primo compito è di breve periodo - si conclude con le elezioni europee del maggio prossimo - e riguarda la situazione economica e politica interna: Renzi deve dare l’impressione di portare subito a casa risultati (meglio naturalmente se li porta a casa sul serio) che migliorino le condizioni di vita dei cittadini e li invoglino a votare a favore del governo e del partito di chi lo presiede. Altrimenti la sua avventura politica è finita o gravemente compromessa. Il secondo compito riguarda sia l’arena politica nazionale, sia quella europea e internazionale, e si gioca su un periodo più lungo, ma non troppo lungo: porre su solide fondamenta strutturali le prospettive di crescita del nostro Paese.

Dunque riforme radicali, che aumentino l’efficienza e riducano le spese del settore pubblico e la competitività di quello privato, che consentano misure di rilancio e di sostegno dei redditi le quali non aggravino il disavanzo. La fiducia europea e internazionale, la buona disposizione dei mercati verso l’Italia, dipendono da queste. Le risorse politiche di cui Renzi dispone per affrontare questi compiti sono però scarse e in particolare è debole il controllo sul suo gruppo parlamentare: lo si è visto nelle recenti votazioni sulla legge elettorale, dove almeno cinquanta deputati hanno votato contro le indicazioni del partito.

Come giocare al meglio questa debolezza? Credo che Renzi sia il primo a sapere che le sue uniche armi sono il successo e la minaccia. Di qui l’attenzione con cui guarda ai risultati delle elezioni europee e, più in generale, al consenso mediatico di cui per ora dispone. Di qui la costruzione di una strategia a due tempi, dove nel primo si concentrano misure di sicuro successo popolare e si è reticenti su quelle che dovranno essere adottate nel secondo: inutile crearsi nemici in anticipo. Se il passaggio delle europee sarà benedetto dalla dea bendata, il difficile percorso successivo non potrà che essere sostenuto da un uso coraggioso del potere di minaccia. La minaccia che, se il Parlamento non sostiene le riforme strutturali proposte, per quanto difficilmente digeribili da un ceto politico selezionato sulla base dell’«usato sicuro» di Bersani, si va tutti a casa, ci si assume la responsabilità di far tornare il Paese nel caos, con una legge maggioritaria alla Camera (nel frattempo sarà stata approvata) e una proporzionale al Senato, come risulta dalla sentenza della Corte Costituzionale. Renzi è ancora un mistero per molti parlamentari Pd e la minaccia potrebbe risultare credibile.

Dopo di che si comincerà a ballare, perché le riforme di cui si sta discutendo sono di una tale difficoltà e radicalità - un vero mutamento nella costituzione materiale del Paese - da far tremare i polsi anche ad un governo dotato di una investitura popolare plebiscitaria.

19 marzo 2014 | 07:30
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_19/minaccia-successo-e6578570-af2d-11e3-acd2-e7e31f2a922d.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Luglio 18, 2014, 08:55:24 am »

Passione, responsabilità, lungimiranza
La disciplina della verità


Di Michele Salvati

«Bisogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi - il debito ne è la conseguenza - e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle - la verità, appunto - non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni - che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano - ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.

La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon, Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia - condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche - per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.

Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole - perché di questo si tratta - che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia - è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo - l’intuito per il consenso - è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto. A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene.

Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge - nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati - dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire - la faccio breve - freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani - la «verità» - io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni - Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri - è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione.

17 luglio 2014 | 08:40
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_17/disciplina-verita-1115f434-0d72-11e4-9f11-cba0b313a927.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:32:38 pm »

Minori indennità, più certezza di giudizio: sì al Jobs act alla tedesca

Di Michele Salvati e Marco Leonardi

È ricominciato nella commissione Lavoro del Senato l’iter legislativo del Jobs act , la legge delega sulle riforme della legislazione del lavoro proposta dal governo. La materia è molto ampia - va dagli ammortizzatori alle politiche attive, dalle semplificazioni normative al riordino dei contratti - ma è probabile che l’attenzione interna e internazionale si concentrerà soprattutto sulle tutele relative al licenziamento individuale. Insomma, riprenderà il tormentone sull’articolo 18, che non si è sopito neppure durante le ferie. Questa concentrazione politica e mediatica è eccessiva: altre materie sono importanti ed è poi l’insieme quello che conta. Ma siccome avverrà così, avanziamo una «modesta proposta» che potrebbe essere una buona via d’uscita per il governo. Renzi ha detto che il modello di riferimento per il mercato del lavoro è la Germania. Siamo d’accordo. Si pensi a come sarebbe efficace poter dire in sede europea, a chi rinfaccia al governo le sue resistenze in materia, che la disciplina italiana del licenziamento individuale è identica a quella tedesca.

L’articolo 18, inteso come protezione contro il licenziamento individuale senza giusta causa, esiste in tutti Paesi a democrazia avanzata, seppure con varia intensità. È poco credibile che l’Italia possa prendere a modello i Paesi anglosassoni, dove il licenziamento individuale è politicamente e culturalmente più accettato, ma non per questo senza regole. Può però «diventare come la Germania» e ci manca poco a raggiungere l’obiettivo: già la riforma Fornero aveva preso quel Paese come esempio e gran parte del percorso di avvicinamento è stato fatto. Anche in Italia è oggi obbligatorio un tentativo di conciliazione di fronte al giudice prima di andare in tribunale e la reintegrazione del lavoratore non è più necessaria in caso di licenziamento ingiustificato: nella maggioranza dei casi basta una indennità monetaria. La conciliazione obbligatoria funziona e più del 50% dei casi non arriva in tribunale, come in Germania. Nei casi che arrivano in giudizio, per la metà vincono i lavoratori e solo in pochi casi più gravi c’è la reintegrazione. Cosa manca dunque a diventare esattamente come la Germania? Anzitutto, si tratta di un problema rilevante?

I numeri dei licenziamenti ex articolo 18 in Italia sono molto bassi, meno di 10.000 all’anno. Ma questo non dimostra che l’attuale disciplina sia un problema irrilevante per le imprese, come sostengono i suoi difensori: molte imprese non si azzardano a fare licenziamenti individuali, che pure sarebbero per loro convenienti, per il timore di un possibile giudizio di reintegro. Inoltre l’indennità per il licenziamento è tra i 12 e i 24 mesi di salario, un’indennità ragionevole per i lavoratori anziani ma molto alta per chi è in azienda da poco tempo. Per «diventare come la Germania» possiamo allora limitarci a due modifiche dell’attuale disciplina, che non ci sembrano politicamente impossibili nelle attuali condizioni.

Non è necessario impedire al lavoratore di impugnare in giudizio un licenziamento individuale per motivi economici. Anche in Germania lo si può fare e nei casi di ingiustizia più grave si può ottenere anche la reintegrazione nel posto di lavoro. Si deve però ridurre l’incertezza del giudizio, perché in Germania, di fatto, l’incertezza è poca, i sindacati sono collaborativi e i giudici normalmente prendono per buone le motivazioni dell’imprenditore. In Spagna hanno risolto la questione scrivendo nella legge che, se l’azienda è in perdita, ciò costituisce di per sé una giusta causa di licenziamento. Solo se l’azienda è in perdita? Non potrebbe essere un giustificato motivo quello di adattare la forza lavoro al mutamento della situazione economica, così com’è valutata dall’imprenditore? Possibile che non ci sia un modo per ridurre l’arbitraria sostituzione della valutazione del giudice a quella dell’imprenditore?
In secondo luogo, per «fare come la Germania», è necessario ridurre l’indennità di licenziamento per i lavoratori con poca anzianità di servizio: per dare un’idea, se un lavoratore è in azienda da sei mesi l’indennità di licenziamento potrebbe essere di un mese e così via. Se è questo il contratto unico a tutele crescenti, allora ci si avvicina alla Germania, dove c’è la stessa quantità di contratti a termine dell’Italia e non ci si è mai preoccupati di un contratto unico a tutele crescenti: si possono lasciare le regole vigenti per i contratti a termine anche in Italia, con un limite di rinnovo fino a tre o cinque anni. Se è ottimista sul futuro, è probabile che l’azienda decida di stabilizzare il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato: le aziende decidono le stabilizzazioni più in riferimento alle prospettive di crescita che al costo del lavoro. Se poi quelle prospettive non si realizzassero, non si tratterebbe di un rischio intollerabile perché si potrebbe procedere a licenziamenti individuali con ragionevole certezza e a costi accettabili.

Due sole modifiche, dunque. Anzi, a rigore, una sola, perché in astratto un cambio nell’atteggiamento dei giudici e del sindacato potrebbe avvenire anche a legislazione vigente. Ma, siccome è difficile che ciò avvenga dopo una lunga storia di conflitti e sospetti, lo si può stimolare con regole che inducano giudici e sindacato ad un atteggiamento meno ostile nei confronti delle decisioni aziendali. Pietro Ichino è convinto che il suo «contratto di ricollocazione» risolverebbe il problema. Potrebbe essere. L’importante è che imprenditori onesti, che vivono in un ambiente difficile, si convincano che il giudice riconoscerà le buone ragioni economiche che li hanno indotti ad un licenziamento individuale. E solo allora saremo diventati... «come la Germania». Almeno in questo.

7 settembre 2014 | 12:31
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_settembre_07/minori-indennita-piu-certezza-giudizio-si-jobs-act-tedesca-1f497e7a-3678-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 01, 2014, 05:31:12 pm »

Progetti
Un po’ di comprensione per le fatiche di Renzi

Di Michele Salvati

In un recente articolo ho usato la metafora della sesta fatica di Ercole — la meno eroica ma la più difficile — per dare un’idea della situazione in cui si trova chi voglia tornare a far crescere il nostro Paese. Per ripulire le stalle di re Augia, Ercole ricorse a un metodo drastico: deviò due fiumi e ne fece passare le correnti attraverso le stalle. Un metodo rapido e efficace. Un metodo altrettanto rapido ed efficace non esiste per l’Italia: una corrente vorticosa, insieme alla sporcizia, si porterebbe via le stalle. Fuor di metafora, ci porterebbe al disastro. E questo per due motivi principali.

Il primo è per la situazione internazionale in cui viviamo e per i trattati che abbiamo sottoscritto in sede europea. In gran parte degli economisti è ormai prevalente la convinzione che la moneta unica, e le regole che la disciplinano, siano state un errore, e che l’austerità che esse inducono condannino l’intera Europa, ma soprattutto i Paesi meno efficienti e competitivi, a una progressiva asfissia. Ma non potremmo uscire dalla gabbia dei trattati? Certo, questo non risolverebbe il problema della scarsa efficienza del nostro sistema-Paese e le riforme sarebbero ancora necessarie se si ambisce a una crescita non effimera; ma intanto potremmo respirare e distribuire l’impoverimento che consegue a ogni svalutazione su tutti i cittadini, e non solo sui lavoratori, che è quanto ora stiamo facendo. Questo suggerimento non viene solo dall’estrema sinistra, o da incompetenti di economia. Viene anche da un noto rappresentante dell’«ideologia tedesca», direttore del più importante istituto di ricerca economica del suo Paese, Hans-Werner Sinn: ma anche il suo ponderoso e documentato libro (The Euro Trap, Oxford University Press) non risponde all’interrogativo se la catastrofe finanziaria che conseguirebbe al solo sospetto che alcuni importanti Paesi intendono uscire dalla moneta unica non sia assai peggio dell’asfissia in cui ci troviamo: allora sì che il vortice delle fughe di capitali, della speculazione, dei fallimenti bancari, si porterebbe via le nostre fragili stalle. Per fortuna non credo che Renzi, per quanto a volte dia l’idea di volersi staccare dalle gonne della Merkel — e fa bene a darla — abbia l’intenzione di staccarsi dai pantaloni di Draghi.

Ma perché sono così fragili le nostre stalle e così poco adatte a misure di rafforzamento rapide e risolutive, misure che ci consentirebbero di essere competitivi e crescere anche sotto la disciplina della moneta unica? Lo sono perché sono piene di crepe da tutte le parti, perché le inefficienze sono diffuse in quasi tutti i comparti del nostro sistema-Paese. È dal fallimento del centrosinistra, da più di quarant’anni, che l’Italia vive alla giornata, che la lotta politica riguarda non diversi progetti di futuro ma diverse modalità di ottenere — a spese dello Stato e gonfiando la spesa corrente — un consenso elettorale nel presente. E anche quando si ruppe l’infausto equilibrio politico della Prima Repubblica, e i primi otto anni di moneta unica ci regalarono risorse eccezionali a seguito del crollo dei tassi di interesse, queste furono sprecate per ottenere consenso, non per mettere in sicurezza il Paese. E poi, nel 2008, è arrivata la crisi finanziaria americana e la festa è finita.




Dunque crepe da tutte le parti, non un singolo grande ostacolo su cui concentrare le scarse risorse di cui disponiamo, ma numerose inefficienze e ingiustizie (le due vanno spesso insieme) da affrontare con un doloroso bisturi, e non con una semplice sciabolata. Inefficienze e ingiustizie nel settore pubblico e privato: nel regime fiscale, nella scuola, nella giustizia, in quasi tutti i comparti della pubblica amministrazione, nella legislazione sul lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema finanziario, nel Mezzogiorno — e sarebbe impietoso continuare — tutte dovute all’assenza di un progetto di futuro che avrebbe consentito un lavoro continuo di manutenzione, di indirizzo e investimento. Ora la manutenzione ordinaria si è trasformata in straordinaria, di grasso che cola ce n’è poco, e il bisturi ancor più doloroso. E soprattutto i tempi in cui le riforme manifesteranno i loro effetti benefici saranno molto lunghi se l’austerità europea non viene rapidamente rovesciata, il che è improbabile: gli effetti di quarant’anni di vista corta, avrebbe detto Tommaso Padoa-Schioppa, non si cancellano in un breve periodo. La difficoltà nel far passare le riforme, la lentezza dei loro tempi, l’impossibilità di presentare risultati tangibili subito, sono una dannazione per un politico che voglia mantenere un continuo consenso elettorale, inducendolo a strafare con presenzialismo mediatico e annunci. Uno strafare che spesso dà fastidio anche a me.

Questa è la situazione in cui si trova Renzi e, se non mi sorprende la reazione dei rottamati, degli spodestati, degli aggrediti — ex leader, sindacati, mandarini di Stato, giudici, settori dell’imprenditoria — un poco mi meraviglia lo scarso sostegno dei principali organi d’opinione. «Nella pentola che bolle c’è solo acqua», titola Scalfari il suo articolo di domenica scorsa. Ma, appunto, l’acqua bolle ed è predisposta a cuocere le riforme che Renzi ha già lanciato o annunciato, elettorali, costituzionali, del lavoro, della pubblica amministrazione. E non sono acqua fresca — al contrario, bollente — le battaglie che Renzi sta conducendo nel suo partito. Se avranno successo, trasformeranno un raggruppamento conservatore di ex democristiani ed ex comunisti in un moderno partito di sinistra europea, come aveva tentato di fare Veltroni: del tutto condivisibile l’editoriale di Angelo Panebianco domenica scorsa sul Corriere. E infine il disegno strategico è chiaro, ivi incluso l’accordo politico con Berlusconi: sta ora al centrodestra darsi una forma che gli consenta di combattere efficacemente con il Pd nel contesto bipolare e nel modello costituzionale che hanno deciso di costruire insieme.

1 ottobre 2014 | 12:13
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_01/po-comprensione-le-fatiche-renzi-408addfa-4937-11e4-bbc4-e6c42aa8b855.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:48:03 pm »

Progetti
Un po’ di comprensione per le fatiche di Renzi

Di Michele Salvati

In un recente articolo ho usato la metafora della sesta fatica di Ercole — la meno eroica ma la più difficile — per dare un’idea della situazione in cui si trova chi voglia tornare a far crescere il nostro Paese. Per ripulire le stalle di re Augia, Ercole ricorse a un metodo drastico: deviò due fiumi e ne fece passare le correnti attraverso le stalle. Un metodo rapido e efficace. Un metodo altrettanto rapido ed efficace non esiste per l’Italia: una corrente vorticosa, insieme alla sporcizia, si porterebbe via le stalle. Fuor di metafora, ci porterebbe al disastro. E questo per due motivi principali.

Il primo è per la situazione internazionale in cui viviamo e per i trattati che abbiamo sottoscritto in sede europea. In gran parte degli economisti è ormai prevalente la convinzione che la moneta unica, e le regole che la disciplinano, siano state un errore, e che l’austerità che esse inducono condannino l’intera Europa, ma soprattutto i Paesi meno efficienti e competitivi, a una progressiva asfissia. Ma non potremmo uscire dalla gabbia dei trattati? Certo, questo non risolverebbe il problema della scarsa efficienza del nostro sistema-Paese e le riforme sarebbero ancora necessarie se si ambisce a una crescita non effimera; ma intanto potremmo respirare e distribuire l’impoverimento che consegue a ogni svalutazione su tutti i cittadini, e non solo sui lavoratori, che è quanto ora stiamo facendo. Questo suggerimento non viene solo dall’estrema sinistra, o da incompetenti di economia. Viene anche da un noto rappresentante dell’«ideologia tedesca», direttore del più importante istituto di ricerca economica del suo Paese, Hans-Werner Sinn: ma anche il suo ponderoso e documentato libro (The Euro Trap, Oxford University Press) non risponde all’interrogativo se la catastrofe finanziaria che conseguirebbe al solo sospetto che alcuni importanti Paesi intendono uscire dalla moneta unica non sia assai peggio dell’asfissia in cui ci troviamo: allora sì che il vortice delle fughe di capitali, della speculazione, dei fallimenti bancari, si porterebbe via le nostre fragili stalle. Per fortuna non credo che Renzi, per quanto a volte dia l’idea di volersi staccare dalle gonne della Merkel — e fa bene a darla — abbia l’intenzione di staccarsi dai pantaloni di Draghi.

Ma perché sono così fragili le nostre stalle e così poco adatte a misure di rafforzamento rapide e risolutive, misure che ci consentirebbero di essere competitivi e crescere anche sotto la disciplina della moneta unica? Lo sono perché sono piene di crepe da tutte le parti, perché le inefficienze sono diffuse in quasi tutti i comparti del nostro sistema-Paese. È dal fallimento del centrosinistra, da più di quarant’anni, che l’Italia vive alla giornata, che la lotta politica riguarda non diversi progetti di futuro ma diverse modalità di ottenere — a spese dello Stato e gonfiando la spesa corrente — un consenso elettorale nel presente. E anche quando si ruppe l’infausto equilibrio politico della Prima Repubblica, e i primi otto anni di moneta unica ci regalarono risorse eccezionali a seguito del crollo dei tassi di interesse, queste furono sprecate per ottenere consenso, non per mettere in sicurezza il Paese. E poi, nel 2008, è arrivata la crisi finanziaria americana e la festa è finita.

Dunque crepe da tutte le parti, non un singolo grande ostacolo su cui concentrare le scarse risorse di cui disponiamo, ma numerose inefficienze e ingiustizie (le due vanno spesso insieme) da affrontare con un doloroso bisturi, e non con una semplice sciabolata. Inefficienze e ingiustizie nel settore pubblico e privato: nel regime fiscale, nella scuola, nella giustizia, in quasi tutti i comparti della pubblica amministrazione, nella legislazione sul lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema finanziario, nel Mezzogiorno — e sarebbe impietoso continuare — tutte dovute all’assenza di un progetto di futuro che avrebbe consentito un lavoro continuo di manutenzione, di indirizzo e investimento. Ora la manutenzione ordinaria si è trasformata in straordinaria, di grasso che cola ce n’è poco, e il bisturi ancor più doloroso. E soprattutto i tempi in cui le riforme manifesteranno i loro effetti benefici saranno molto lunghi se l’austerità europea non viene rapidamente rovesciata, il che è improbabile: gli effetti di quarant’anni di vista corta, avrebbe detto Tommaso Padoa-Schioppa, non si cancellano in un breve periodo. La difficoltà nel far passare le riforme, la lentezza dei loro tempi, l’impossibilità di presentare risultati tangibili subito, sono una dannazione per un politico che voglia mantenere un continuo consenso elettorale, inducendolo a strafare con presenzialismo mediatico e annunci. Uno strafare che spesso dà fastidio anche a me.

Questa è la situazione in cui si trova Renzi e, se non mi sorprende la reazione dei rottamati, degli spodestati, degli aggrediti — ex leader, sindacati, mandarini di Stato, giudici, settori dell’imprenditoria — un poco mi meraviglia lo scarso sostegno dei principali organi d’opinione. «Nella pentola che bolle c’è solo acqua», titola Scalfari il suo articolo di domenica scorsa. Ma, appunto, l’acqua bolle ed è predisposta a cuocere le riforme che Renzi ha già lanciato o annunciato, elettorali, costituzionali, del lavoro, della pubblica amministrazione. E non sono acqua fresca — al contrario, bollente — le battaglie che Renzi sta conducendo nel suo partito. Se avranno successo, trasformeranno un raggruppamento conservatore di ex democristiani ed ex comunisti in un moderno partito di sinistra europea, come aveva tentato di fare Veltroni: del tutto condivisibile l’editoriale di Angelo Panebianco domenica scorsa sul Corriere. E infine il disegno strategico è chiaro, ivi incluso l’accordo politico con Berlusconi: sta ora al centrodestra darsi una forma che gli consenta di combattere efficacemente con il Pd nel contesto bipolare e nel modello costituzionale che hanno deciso di costruire insieme.

1 ottobre 2014 | 12:13
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_01/po-comprensione-le-fatiche-renzi-408addfa-4937-11e4-bbc4-e6c42aa8b855.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Gennaio 17, 2015, 04:53:02 pm »

La sindrome greca
Se si tratta meglio chi è contro

Di Michele Salvati

Alla luce di quanto è avvenuto dal 2008 in poi, credo siano rimasti pochi economisti a sostenere che l’adesione al trattato di Maastricht sia stata una scelta conveniente per il nostro Paese: a metà degli anni Novanta, durante l’affannosa rincorsa dei mitici «parametri», coloro che sostenevano l’opposto erano la grande maggioranza e l’ammissione al club dell’euro, alla fine del 1997, fu vista come un grande successo, politico ed economico. Ora la maggioranza ha cambiato idea e pensa che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi insopportabili, dovremmo uscire dal Sistema monetario europeo (Sme) com’è oggi definito.

Come mai la moneta unica si sia rivelata una grande delusione, dopo essere apparsa come una grande speranza, è questione cui ora posso dedicare solo un accenno. Poiché i Paesi appartenenti all’eurozona non si trovano d’accordo sulla trasformazione dell’Unione Europea in un vero Stato federale - il grado di fiducia e di solidarietà tra i cittadini dei diversi Paesi è troppo scarso - la gestione della moneta è soggetta a regole attente a evitare che ogni singolo Paese approfitti opportunisticamente dell’unità monetaria, scaricando sugli altri i costi della sua inefficienza. Regole sulla cui interpretazione lo scontro è aperto. Se domina l’interpretazione restrittiva prevalente in Germania, per i Paesi più deboli la conseguenza è il ristagno economico, e in condizioni di ristagno è molto difficile attuare le riforme strutturali cui potrebbe conseguire, nel lungo periodo, una maggiore crescita. A questa situazione di asfissia le possibilità di reagire sono limitate, perché lo Sme è un edificio costruito senza scale di sicurezza: in casi estremi - lo si voglia o no - un Paese in crisi potrebbe arrivare all’uscita dall’euro e al ritorno alla moneta nazionale. Si tratterebbe di una catastrofe, ma con conseguenze serie anche per i Paesi creditori, i cui sistemi finanziari sarebbero minacciati dall’insolvenza del debitore.

La minaccia di estensione della crisi all’intero sistema può dunque essere un’arma nelle mani del debitore, che potrebbe ottenere una rinegoziazione del debito: ciò è già avvenuto e potrebbe avvenire ancora in Grecia, a seguito di una vittoria di Syriza nelle prossime elezioni. Il potere di minaccia di quel Paese è però limitato dalle sue stesse dimensioni: un «Grexit», una uscita della Grecia dall’euro, avrebbe esiti drammatici in Grecia, gravi ma gestibili negli altri Paesi dell’eurozona. È allora probabile che Syriza, se vincerà le elezioni, ammorbidisca la sua posizione e che si arrivi ad una sostanziale conferma delle condizioni ora imposte dalla troika, modificate quanto basta a non far perdere la faccia al governo greco che condurrà la negoziazione.

Ogni gioco di brinkmanship, di negoziazione con minaccia di possibili esiti dannosi per entrambi i giocatori, è diverso dall’altro e i teorici dei giochi si stanno divertendo a modellarne alcuni per i numerosi Paesi che si trovano in difficoltà nell’euro. L’Italia è imparagonabile alla Grecia, sia per il suo peso economico sia perché il suo governo, pur critico dell’attuale funzionamento dell’eurozona, esclude azioni che possano condurre al suo abbandono. A differenza di «Grexit», una minaccia di «Itexit» - anche se formulata da due partiti non marginali, Lega e 5 Stelle - per ora non sta nelle possibilità prese in considerazione dagli osservatori e di conseguenza lo stesso termine non è neppure stato coniato. Ma poiché l’Italia ha lo stesso interesse della Grecia ad allentare il corsetto di rigore in cui è costretta, si può porre la domanda se essa abbia giocato bene le sue carte, facendo leva sulle meno sfavorevoli condizioni in cui si trova.

La domanda è stata risollevata nei giorni scorsi, a conclusione del semestre italiano, con evidente sopravvalutazione del ruolo che questa istituzione gioca nell’attuale architettura dell’Unione: già prima, ma soprattutto dopo il trattato di Lisbona, si tratta più di una vetrina degli orientamenti politici prevalenti nel Paese cui è attribuito il semestre che una sede di reale potere. Una vetrina che Salvini e Grillo hanno utilizzato per contestare grossolanamente il discorso conclusivo che Renzi ha rivolto al Parlamento europeo il 13 scorso.

Una valutazione equilibrata dovrà attendere: al momento è possibile dire che il capitale di influenza guadagnato da Renzi con il risultato nelle elezioni del 25 maggio e la politicizzazione del gioco parlamentare europeo che egli ha assecondato, non hanno dato risultati irrilevanti in campo macroeconomico: investimenti e flessibilità sono diventate parole chiave del lessico europeo e, proprio il giorno dopo la chiusura del semestre italiano, la Commissione europea ha presentato nuove linee guida per l’applicazione del patto di Stabilità e Crescita, linee che offrono flessibilità addizionale a Paesi come l’Italia che si trovano in una situazione ciclica sfavorevole ma rispettano il parametro del 3% fissato nel trattato di Maastricht.
Lo stesso giorno, è stata anche approvata una proposta di regolamento del Fondo europeo per gli investimenti strategici (il piano Juncker) che avrà conseguenze favorevoli per i Paesi fortemente indebitati e con tassi di crescita al di sotto del potenziale. Se questi risultati - insieme ad altri in diversi campi - giustifichino un giudizio di successo italiano è questione che va valutata alla luce di quanto era realistico sperare.

17 gennaio 2015 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_17/euro-sme-se-si-tratta-meglio-contro-editoriale-corriere-salvati-17-gennaio-2015-dafa44e2-9e10-11e4-a48d-993a7d0f9d0e.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Gennaio 30, 2015, 05:35:07 pm »

L’Unione imperfetta
Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa
Tre scommesse, tutte perse, avevano spinto ad aderire alla moneta unica.
Studiandole si potrà cogliere un’occasione storica di cambiamento, quella fornita dal voto di Atene

Di Michele Salvati

Quali saranno le conseguenze delle elezioni greche sui Paesi dell’eurogruppo, e soprattutto sui più deboli, nessuno è oggi in grado di prevedere: dalle prime reazioni dei mercati, delle autorità europee e dei Paesi più forti — della Germania soprattutto —, sembrerebbe esclusa una catastrofe imminente. Ma molte cose possono andare storte se il nuovo governo greco non si rimangerà gran parte delle sue promesse elettorali nelle negoziazioni con la troika. Se così non farà, e se l’atteggiamento europeo sarà poco flessibile, i rischi di guai seri saranno soltanto rimandati. Essendo troppe le variabili in gioco, guardare avanti è impossibile. È possibile invece guardare indietro e trarre qualche lezione, per noi e per i Paesi in condizioni simili alle nostre, dalla (sinora) breve storia dell’Unione monetaria europea.

Alcuni colleghi hanno trovato eccessive le affermazioni di un mio recente articolo (Corriere, 17 gennaio): che è stato un errore aderire al trattato di Maastricht e che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi esorbitanti, dovremmo uscire dalla moneta unica. A quell’errore ho partecipato: negli anni 90, la convenienza ad aderire al Trattato — data la situazione di inflazione latente e gli alti tassi d’interesse che eravamo costretti a pagare — mi sembrava ovvia. Non mi rendevo però conto che, nel lungo periodo, tale convenienza era legata a tre scommesse, tutte perse, dunque a tre illusioni.

La prima era che la favorevole situazione economica internazionale che accompagnò la nascita della moneta europea durasse indefinitamente. Ci eravamo dimenticati delle analisi di Keynes e di Minsky, dell’instabilità congenita del capitalismo, degli squilibri reali e finanziari che stavano montando. Quando esplose, nel 2008, la crisi finanziaria americana rapidamente si trasmise all’Europa, in un mondo ormai strettamente interconnesso i capitali cominciarono ad abbandonare gli investimenti nei Paesi più fragili dell’eurozona. Erano in euro, è vero, ma l’Europa non era uno Stato sovrano e non c’era una Banca centrale costretta a intervenire per difenderli, non c’era un prestatore di ultima istanza. Cominciò allora la divaricazione (spread) tra i rendimenti e iniziarono a crescere gli oneri a carico degli Stati più indebitati e più fragili. Già, ma perché negli anni favorevoli, tra il 1999 e il 2007, questi Stati non si erano dati maggiormente da fare per ridurre il proprio indebitamento e, più in generale, per aumentare la propria competitività?

E qui si rese evidente la seconda illusione: rimediare ai guasti di un passato di cattiva gestione economica e di debolezza strutturale non è per nulla semplice, e sicuramente non è rapido. Nelle migliori élite italiane circolò a lungo l’idea che il «corsetto» dell’euro avrebbe indotto i governanti a una gestione più responsabile delle finanze pubbliche (la famosa metafora di Ulisse che si fa legare all’albero maestro per non cedere alle lusinghe delle sirene). Si vide però assai presto, nella legislatura 2001-2006, che il corsetto non teneva e che il confortevole avanzo primario della precedente legislatura veniva rapidamente dilapidato.

Non voglio farne una questione di parte, perché dubito che un governo di centrosinistra si sarebbe comportato in modo molto diverso: troppo invitante è l’uso della spesa pubblica per assicurarsi consenso politico. Trasformare un Paese «vizioso» in uno virtuoso, quando non ci sono ragioni impellenti per stringere la cinghia, è uno sforzo politico sovrumano e richiede o un consenso sociale straordinario (quello inglese ai tempi della guerra, del «sudore, lacrime e sangue ») o un dittatore benevolo, più che un normale leader democratico. O entrambi. Ma non avrebbe potuto l’Unione — e i Paesi più forti dell’eurogruppo — venire in soccorso del Paese (temporaneamente?) in crisi e sotto attacco speculativo?

Questa è la terza illusione, la terza scommessa irrealistica, quella di scambiare il sogno di un’Europa federale con la realtà, una realtà in cui un demos europeo è molto debole, la politica è ancora largamente un affare nazionale, i sospetti e i pregiudizi dei singoli Paesi dell’Unione nei confronti degli altri sono molto forti. Se persino una parte del popolo italiano — quella rappresentata dalla Lega — protesta contro lo sforzo di mutualità richiesto alle regioni più ricche a sostegno di quelle più povere, e questo dopo 150 anni di unità politica, come illudersi che la Germania avrebbe potuto comportarsi diversamente con l’Italia?

Gli economisti si saranno accorti che mi sono limitato a riformulare diversamente parte degli argomenti secondo i quali l’Europa dell’euro non è un’area valutaria ottimale e dunque un’unione monetaria vincolante è difficilmente sostenibile. Questa è la lezione riassuntiva che i Paesi più fragili dell’eurogruppo dovrebbero trarre dall’esperienza dei quindici anni di moneta unica. La crisi provocata dalle elezioni greche può essere una occasione per ristrutturare l’intero edificio costruito a Maastricht. Una ristrutturazione che non abbisogni, per funzionare, delle tre scommesse illusorie che ho appena descritto.

28 gennaio 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_28/illusioni-evitare-ristrutturare-l-edificio-dell-europa-de467ea6-a6c4-11e4-93fc-9b9679dd4aa0.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:40:41 pm »

I limiti della competizione
Il programma di Renzi che può piacere anche al centrodestra
Il fatto che il Pd si sia collocato in una posizione centrista e fortemente innovatrice riduce gli spazi per un partito dei moderati che voglia mantenere una chiara identità europea

Di Michele Salvati

Renzi ha promesso che metterà il turbo alle riforme. Glielo lasceranno mettere? La vittoria nella battaglia del Quirinale ha provocato risentimenti e illusioni, risentimenti a destra e illusioni a sinistra. Ma la politica non si fa né con gli uni né con le altre e le riforme annunciate dovrebbero passare: forse non con il turbo, e sicuramente non le migliori possibili, ma la marcia di Renzi potrebbe procedere spedita, a meno di una improbabile coalizione di tutti i risentiti e gli illusi. La legge elettorale si trova ora alla Camera, e qui il governo cercherà di evitare modifiche che la rispediscano al Senato. La partita del Jobs act è virtualmente conclusa. La riforma fiscale e quella delle banche popolari hanno una logica di semplificazione e di efficienza difficilmente contestabili nel merito e si tratta solo di smontare sospetti antichi e incrostazioni corporative che ora le intralciano. La battaglia decisiva sarà quella sul Senato e nel Senato, dove la lunghezza dei tempi e l’aggiunta ai risentiti e agli illusi degli interessati a che nulla cambi metteranno duramente alla prova le capacità politiche del presidente del Consiglio.

Ci sarà dunque da divertirsi, per chi si diverte con la politique politicienne. Volevo però spingere lo sguardo oltre il breve periodo, oltre questa legislatura, e ragionare dell’assetto politico futuro del nostro Paese, se le riforme istituzionali in programma passeranno. Ma prima dev’essere ricordato il contesto europeo e internazionale.

Qualora l’euro resista alla crisi greca e ai prossimi scossoni elettorali (in Spagna nel novembre di quest’anno e in Francia nel maggio del 2017), non ci aspetta un contesto radicalmente diverso da quello in cui siamo ora: al massimo possiamo sperare in una lenta riduzione dell’asfissia, se la situazione internazionale continuerà ad essere favorevole (euro e prezzi del petrolio in discesa), se i tedeschi — sotto una minaccia realistica di catastrofe — troveranno conveniente attenuare le politiche di austerità cui costringono l’unione monetaria, e se le riforme strutturali, lentamente, miglioreranno l’efficienza e la competitività del nostro Paese. Sono tre «se» importanti, sui quali il partito filo-europeo scommette. Ormai dovrebbe essere chiaro anche a un bambino che oggi il discrimine politico più rilevante tra i partiti europei è la collocazione di fatto sul fronte pro o anti euro: di fatto, sottolineo, perché non hanno senso dichiarazioni di voler restare nella moneta unica se poi si promettono politiche che ci porterebbero fuori.

Il Pd di Renzi si è collocato credibilmente nel fronte filo-euro e, se pur si batte per un ammorbidimento dell’austerità, procede speditamente sul piano delle riforme strutturali, il terzo «se» di cui dicevo. Dati i problemi che ci portiamo appresso a seguito delle dissennatezze del passato recente e le fragilità strutturali antiche del nostro Paese, dato il cattivo funzionamento della macchina amministrativa e di governo, le politiche da perseguire non consentono molte alternative, ed in particolare due strategie nettamente distinte di «destra» o di «sinistra»: si tratta fondamentalmente di politiche volte ad accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione, la produttività delle imprese, la qualità dei fattori di produzione nazionali. L’essersi collocato il Pd in una posizione centrista e fortemente riformista — l’ostilità della sinistra interna ne fa fede — riduce gli spazi per un partito di centrodestra che voglia mantenere una chiara identità europeista: se non è zuppa è pan bagnato, due minestre con profumi diversi ma fondamentalmente indirizzate allo stesso obiettivo di efficienza, almeno sotto il profilo delle politiche economico-sociali.

La legge elettorale del Nazareno era stata pensata per due partiti di questo tipo, e contro i populisti e antieuropeisti che inevitabilmente emergono in un Paese in difficoltà. Il premio dato alla lista e non alla coalizione dovrebbe essere un forte incentivo affinché l’intera area di centrodestra si ricompatti in un unico partito, che voglia rappresentare il punto di riferimento del vasto popolo che preferisce il profumo di destra a quello di sinistra. Un popolo che però vuole «un progresso senza avventure» e non essere costretto a scegliere tra un partito «moderato» di sinistra e un partito «avventurista» di destra, come la Lega. Le baruffe chiozzotte tra (e dentro) Ncd e Forza Italia, i risentimenti e i personalismi dei vari colonnelli, l’attenzione esclusiva alle sconfitte del presente e non alle possibili vittorie del futuro, per ora non consentono di scommettere su uno sviluppo in questa direzione. E poi ci si lamenta perché Renzi vorrebbe fare del Pd il «partito della nazione»: senza un grande e credibile partito di centrodestra, lo è già.

9 febbraio 2015 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_09/programma-renzi-che-puo-piacere-anche-centrodestra-1754c658-b02f-11e4-8615-d0fd07eabd28.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Settembre 27, 2015, 11:26:40 am »

MATTEO RENZI

Un politico abile o uno statista? Dipende dalla classe dirigente
L’ex sindaco di Firenze è riuscito ad aprire il partito all’esterno. La sfida è trasmettere ai militanti lo spirito delle sue riforme. Il tempo dirà se siamo di fronte a un nuovo Giolitti o De Gasperi

Di Michele Salvati

A giudicare dalle ultime mosse, è probabile che la partita a scacchi sul Senato si concluderà con una sostanziale vittoria del presidente del Consiglio, il quale porterà a casa i risultati cui maggiormente tiene: esclusione del Senato dal circuito fiduciario ed elezioni di secondo grado per i suoi membri.

Nel merito si poteva far meglio, ma il clima esasperato del dibattito — uno scontro all’ultimo sangue pro o contro Renzi, il «Renzi Sì / Renzi No» di cui dicevo in un precedente articolo — ha impedito la discussione pacata che l’argomento avrebbe meritato. In queste condizioni di tensione l’esito era prevedibile: come scacchista, come tattico-politico, Matteo Renzi non ha rivali, e probabilmente riuscirà anche ad evitare (per ora) una scissione seria nel Partito democratico. La domanda vera va però oltre la partita del Senato ed è di natura più generale: oltre a vincere, Renzi riesce anche a convincere?

Nessuno dubita delle sue qualità come politico puro. Ma è anche un uomo di Stato, con una visione al tempo stesso attraente e realistica del Paese che intende guidare nella difficile strada che lo dovrebbe condurre fuori dal declino? Le riforme che ha fatto, impostato o promesso sono passaggi necessari per procedere su questa strada? Non basta infatti sgolarsi a ribadire il proprio ottimismo, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’Italia: questo è parte dell’armamentario populista standard di cui la politica democratica deve oggi avvalersi e somiglia non poco all’«Allegria, allegria!» che Berlusconi aveva preso in prestito da Mike Bongiorno.

Bisogna anche essere consapevoli delle difficoltà che si frappongono al tentativo di riportare il nostro Paese sulla strada di crescita e di modernizzazione che aveva imboccato nel primo dopoguerra, fino a metà degli anni 60, e che poi classi dirigenti inadeguate gli hanno fatto smarrire. Sarà in grado Renzi, come Giolitti alla fine dell’800 e De Gasperi in questo dopoguerra, di assecondare una grande ondata di modernizzazione e con essa la crescita di una «classe dirigente adeguata», come l’avrebbe definita Raffaele Mattioli?

Una risposta negativa a questa domanda non proviene solo da coloro che hanno un ovvio interesse a darla, dai politici degli altri partiti o da quelli che Renzi ha spodestato nel proprio. Proviene anche da osservatori e commentatori «indipendenti» che, immagino, troveranno stravagante il confronto tra i grandi statisti appena ricordati e un baldanzoso giovanotto fiorentino privo dello spessore culturale e della gravitas che essi ritengono connaturati a un vero uomo di Stato.

Ovviamente quel confronto è una provocazione, anche perché in quale misura un politico abbia le qualità di statista lo si può decidere solo dopo molto tempo, alla luce degli effetti che i suoi governi hanno prodotto. Una provocazione che esprime però un serio invito a sospendere il giudizio. Non è escluso, anzi, data la difficoltà del compito, è perfettamente possibile che l’esperimento vada a finir male; ma inviterei a riflettere sulle straordinarie innovazioni che Renzi ha introdotto nella politica italiana, specie in quella di sinistra. Ha trasformato un partito tutto rivolto al proprio interno, agli equilibri tra le due componenti ideologiche che conteneva, ex comunista e democristiana di sinistra, in un partito rivolto all’esterno, alla conquista di tutti gli elettori convinti dal suo messaggio sull’Italia. Non un tradizionale messaggio di sinistra: in esso si coniugano equità ed efficienza, ma con una forte accentuazione di quest’ultima. E ciò è inevitabile in un Paese a modernizzazione incompleta come il nostro, dove buona parte dei problemi più spinosi non sono affrontabili con le categorie di destra e sinistra: è questo che ha colto bene Carlo De Benedetti in una intervista rilasciata a Il Foglio il 18 settembre scorso.

Tutto ciò detto, sono d’accordo anch’io che un po’ più di gravitas e spessore non guasterebbero, se non vanno a discapito della capacità di raccogliere consenso. E soprattutto il programma di riforme andrebbe spiegato al partito, inserendolo in una narrativa che sottolinei le continuità e giustifichi le differenze con la sinistra tradizionale, che spieghi quanto essa deve cambiare affinché ciò che è essenziale non cambi, affinché possa sopravvivere in un Paese con gravi arretratezze strutturali, in una situazione economica difficile, attraversato da flussi migratori inarrestabili e in un contesto di egemonia mondiale neoliberale.

Solo se questa narrazione viene fatta propria da gran parte dei dirigenti e dei militanti si attenueranno le guerre di religione interne che hanno reso così faticosa l’approvazione delle riforme del governo, pur deliberate a grande maggioranza dagli organi di partito.

24 settembre 2015 (modifica il 24 settembre 2015 | 08:47)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_24/politico-abile-o-statista-dipende-classe-dirigente-ef1d8d5a-6285-11e5-95fc-7c4133631b69.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Novembre 02, 2015, 08:37:36 pm »

L’ideologia tedesca e le regole di Bruxelles
La Commissione ci ha concesso più flessibilità
Per una volta non ha prevalso la linea rigida di Berlino La difficoltà, anche per l’Italia, è trovare un equilibrio tra riforme strutturali, crescita e consenso elettorale

Di Michele Salvati

Renzi aveva preso in Europa una posizione dura nelle trattative riguardanti la legge di stabilità, sino a minacciare che, se la Commissione Europea avesse respinto la bozza che le era stata inviata, essa sarebbe stata ripresentata senza alcuna modifica. Brinkmanship al limite dell’incoscienza o ragionevole calcolo? Il nostro governo si proclama ed è effettivamente fedele all’ispirazione europeista del Trattato di Maastricht, circondato all’interno e all’esterno da forze politiche ostili. È un governo che rispetta i parametri fondamentali del Trattato, primo fra tutti quello del deficit, ma richiede maggiore flessibilità su clausole e impegni successivi e dunque un rallentamento dei tempi entro i quali il rapporto Debito/Pil comincerà seriamente a flettere. L’Italia non è la Grecia e la brinkmanship ha avuto successo: è di ieri la notizia che la Commissione ha concesso al nostro governo tutta la flessibilità che chiedeva.

C’era un motivo di fondo che rendeva debole una posizione intransigente da parte delle autorità europee. È vero che i critici dell’«ideologia tedesca» — rubo l’espressione a Karl Marx per indicare il consenso ordoliberista che permea le regole attuali del sistema monetario europeo — non hanno un progetto alternativo, realistico, ben definito e condiviso, da contrapporre alle quelle regole. Ma è altrettanto vero che esse provocano tali difficoltà nei Paesi più deboli dell’Eurozona da renderle difficilmente sostenibili. Di questo stato di crisi, in Europa c’è una diffusa consapevolezza: la testimoniano il rapporto dei presidenti delle più importanti istituzioni europee, rilasciato nel luglio scorso, e, al suo seguito, le proposte della Commissione Europea del 21 ottobre. La finalità di entrambi i documenti è infatti quella di completare l’Unione economica e monetaria mediante un’unione politica e di bilancio, un passaggio necessario per dare credibilità e solidità alla moneta unica. Nella sostanza, tuttavia, essi accettano l’ideologia tedesca: si passerà ad un’unione politica in tempi lunghissimi, dopo che tutti gli Stati che vorranno parteciparvi avranno raggiunto lo stesso livello di competitività.

Più incisive e provocatorie sono le proposte del potente ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Molto in breve: Schäuble vorrebbe formalizzare un Eurogruppo, legittimato da un’Eurocamera formata da parlamentari degli Stati membri e diretto da un presidente dotato di poteri di indirizzo e di veto sui bilanci nazionali. In cambio di questo decisivo trasferimento di sovranità, viene offerto un modesto bilancio comune che dovrebbe sostenere le politiche contro la disoccupazione e uno schema di assicurazione dei depositi bancari. Ma questo non va bene né ai Paesi più deboli — che hanno l’impressione di concedere tanto in cambio di poco — né ai sostenitori più intransigenti dell’ideologia tedesca, che non vogliono assumersi i pur modesti oneri di mutualità previsti da Schäuble.

Questo è lo stato della discussione ed è difficile vedere una via d’uscita: per i sostenitori dell’ideologia tedesca profonde riforme strutturali e un riallineamento delle capacità competitive dei singoli Paesi dovrebbero bastare a rinvigorire la crescita europea ed attenuarne il dualismo; per i paesi più deboli — e per buona parte degli economisti — questa ricetta somma insieme cattiva economia e cattiva politica. Le riforme strutturali sono necessarie per il lungo periodo, è vero, ma danno scarsi impulsi alla domanda, alla crescita e all’occupazione nel breve, un «breve» che può essere intollerabilmente lungo per la politica democratica: in condizioni di scarsa crescita, di asfissia, i populismi possono dilagare e i governi «ragionevoli» cadere.

Insomma, il governo italiano non aveva di fonte un’autorità europea sicura di sé e orgogliosa dei risultati che il sistema monetario europeo aveva conseguito, e dunque intransigente sulle regole che tali risultati avevano consentito di conseguire, ma un’autorità in condizioni di crisi e di ripensamento. Di qui la decisione di tener conto — sia pure in un orizzonte di fedeltà allo spirito dell’Unione Europea — degli interessi nazionali del nostro Paese.

Tenere conto degli interessi nazionali, per un Paese poco competitivo come il nostro ed effettivamente bisognoso di riforme profonde, assomiglia al compito di un giocoliere che deve tenere in aria tre palle: quella delle riforme strutturali, quella del sostegno alla crescita e quella del consenso elettorale. Le due ultime sono ovviamente collegate: senza crescita, il consenso si indebolisce. Ma anche la prima, le riforme strutturali, è collegata al consenso elettorale: se la crescita è debole e il consenso cede, il governo rischia di cadere e allora addio alle riforme. Renzi pensava di aver dato, al Paese e all’Europa, prove convincenti della determinazione con la quale affronta il problema delle riforme e si aspettava dall’Europa una adeguata comprensione della necessità di sostenere la crescita.

Questa aspettativa è stata soddisfatta e, anche se nutriamo riserve sull’attuale bozza della legge di stabilità, non possiamo che rallegrarcene.

29 ottobre 2015 (modifica il 29 ottobre 2015 | 07:40)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_29/ideologia-tedesca-regole-bruxelles-686ccdfa-7e02-11e5-b052-6950f62a050c.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 18, 2016, 08:55:49 am »

Scenario
Che ci sia o no la Brexit la partita dell’Italia è aperta
Roma deve continuare a chiedere più flessibilità e autonomia nazionale

Di Michele Salvati

Fra una settimana si terrà in Gran Bretagna il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea o l’uscita dalla stessa: «Remain» o «Exit». Le istituzioni dell’Unione, i governi dei Paesi membri (e non solo questi), le istituzioni finanziarie pubbliche e private, le grandi imprese sono da tempo in agitazione: circola persino una leggenda metropolitana secondo la quale i numerosi funzionari britannici dell’Unione si appresterebbero a chiedere la nazionalità di Paesi che non sono a rischio di uscita. Al momento in cui scrivo i sondaggi non danno risposte chiare. E le conseguenze dei due possibili esiti sono difficilmente prevedibili. Più rassicuranti quelle del Remain, almeno nel breve periodo perché nel lungo tutto si fa incerto. Più preoccupanti quelle dell’Exit. L’onda d’urto non sarà facile da smorzare in un mondo finanziarizzato e interconnesso, anche se credo poco ai calcoli che presumono di quantificare le perdite in termini di crescita che conseguirebbero alla Brexit: nel breve-medio periodo saranno probabilmente serie per la Gran Bretagna; per l’Europa e nel lungo periodo è difficile dire.

Mi pongo solo una domanda. A seconda dell’esito del referendum, dovrebbe il nostro governo modificare la posizione che ha assunto nei confronti dell’Unione e degli Stati che maggiormente influenzano le decisioni europee, la Germania in primis? (Riassumo questa posizione in tre punti: (a) ottenere la massima flessibilità e autonomia nazionale di politica economica compatibile con i trattati e gli accordi che l’Italia ha sottoscritto. Si tratta di una richiesta accettabile se basata su (b) riforme strutturali che aumentino la competitività dell’economia e l’efficienza delle istituzioni pubbliche in tempi prevedibili: è solo se l’Italia si avvicinerà agli standard dei Paesi più forti che essa potrà reclamare un maggior peso nelle decisioni europee. (c) Insistere su politiche dell’Unione — se necessario attraverso riforme degli stessi trattati — che mantengano la rotta dell’«ever closer Union», di un’Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori). La risposta alla domanda di più sopra è un No convinto: la posizione italiana dev’essere mantenuta, quale che sia il risultato del referendum britannico. Anzi, dev’essere rafforzata: alle parole di riforma interna — il punto (b) — devono accompagnarsi fatti di riforma e conseguenze benefiche in tempi non biblici, che attenuino lo scetticismo dei Paesi della Ue e degli stessi cittadini italiani. Quanto al punto (c) — diverse politiche dell’Unione, senza escludere riforme degli stessi trattati — vedremo subito appresso.

Mantenere ed anzi rafforzare la posizione italiana presenterebbe però prospettive e difficoltà assai diverse a seconda dei due esiti del referendum britannico. Nel caso del «Remain» la situazione non sarebbe molto diversa da quella attuale, solo un po’ peggio. Come ci ha ricordato Paul De Grauwe (Lavoce.info, 26 febbraio), il potere frenante della Gran Bretagna nei confronti di una gestione più comunitaria dell’Unione non si annullerebbe certo per effetto di una risicata maggioranza di «Remain»: di riforma dei Trattati si cesserebbe di parlare e l’Unione resterebbe altrettanto o più intergovernativa di adesso. Diverse sono le prospettive e le difficoltà in caso di Brexit. Ammesso che le turbolenze economiche e politiche si limitino al breve periodo e non generino effetti domino, si potrebbe pensare che l’assenza della grande frenatrice consenta ai Paesi restanti, soprattutto quelli dell’Eurogruppo, decisi passi in avanti sulla strada di un’Unione sempre più stretta, mediante significative cessioni di sovranità ad un Parlamento e ad una Commissione rafforzati in materie sensibili come la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, la politica estera e la difesa, le politiche sociali. Anche tra Paesi che a parole sostengono una maggiore integrazione e si dicono disposti a forti cessioni di sovranità nazionale, anche tra Germania e Francia — necessariamente il cuore di questa Ue rafforzata — le differenze sono molto forti ed emergerebbero chiaramente una volta che il comodo alibi della Gran Bretagna non fosse più utilizzabile. Una partita da giocare, certo, e molto più interessante di quella che conseguirebbe a un risicato «Remain»: ma il sogno di un’Europa unita, che con una voce sola si confronta in nome dei suoi valori e interessi con le grandi potenze mondiali, temo che rimarrà ancora tale per molto tempo.

Concludendo. Dei tre punti in cui più sopra ho riassunto la posizione del nostro governo, nel caso che la Gran Bretagna resti nell’Unione risulterebbe indebolito il terzo, quello della riforma dell’Unione in direzione più comunitaria. Gli altri due (la domanda di maggiore flessibilità e la necessità di riforme strutturali) risultano intatti, anzi rafforzati. Restare nell’Unione, per un Paese con il nostro debito pubblico e le nostre debolezze strutturali, è comunque meglio che esserne fuori, in balia dei mercati finanziari… e delle nostre classi politiche.

15 giugno 2016 (modifica il 15 giugno 2016 | 19:10)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_giugno_16/che-ci-sia-o-no-brexit-7c9dc0c6-331b-11e6-a482-ab4404438124.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Luglio 29, 2018, 12:58:40 pm »

Per combattere i populisti al Pd serve un leader liberale, europeista e di sinistra
E’ stata convenuta la data del congresso, prima delle elezioni europee.
Ma ancora non abbiamo un’idea chiara della linea politica

Di Michele Salvati

La crisi del Pd è parte di una crisi più grave, quella del nostro paese e in particolare del suo sistema politico. La quale, a sua volta, sta all’interno della crisi dell’Unione europea e di (quasi) tutti i partiti di sinistra riformista che all'Unione appartengono. E quest’ultima, in buona misura, è influenzata da una crisi ancor più ampia, quella dell’ordine politico-economico multilaterale e liberale predominante per un breve periodo, dopo il crollo dell’Unione sovietica e fino alla grande recessione del 2007-2008. Ovviamente non si chiede a un partito politico di un paese di modeste dimensioni di dare risposte a una situazione di instabilità che coinvolge l’Europa e il mondo intero, ma di avere un’idea delle sue conseguenze al livello nazionale. E, sulla loro base, offrire agli elettori risposte credibili allo stesso livello, perché solo di queste possono decidere gli elettori in democrazia.

Credibili sono le risposte in cui gli elettori credono, non quelle giuste in astratto, secondo i migliori criteri storici e scientifici di cui disponiamo: credibili in questo senso sono risultate il 4 marzo le risposte dei due partiti populisti italiani, che certamente giuste non sono. La “credibilità” è un composto di due ingredienti: gli obiettivi che un partito propone agli elettori e l’immagine che gli elettori si sono fatta della sua qualità e dei suoi ceti dirigenti: se il partito ha governato, soprattutto l’immagine della sua prova di governo. Il problema principale del Pd è allora duplice. Da una parte quello di capire che cosa ha maggiormente scontentato i suoi potenziali elettori durante il periodo in cui è stato forza di governo, e dunque nel lungo periodo dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, dal 2011 al 2018. Non è facile dare una risposta e le controversie ideologiche si inseriscono già in questa analisi, ma ad una conclusione bisogna arrivare perché questa è necessaria anche al fine di affrontare il secondo problema.

Che è quello di rendere credibili risposte realistiche, accettabili in un contesto internazionale ed europeo, ma capaci di risolvere i problemi avvertiti dai cittadini come più importanti e, più in generale, di invertire la rotta di declino che il nostro Paese ha imboccato da molto tempo. E insieme risposte più eque, in grado di estrarre da questa fase poco benigna del capitalismo globalizzato e dalle difficoltà addizionali dovute alla scarsa efficienza del sistema economico e istituzionale del nostro paese il massimo possibile di uguaglianza di opportunità e di solidarietà nei confronti delle persone più svantaggiate. Al di là della varietà degli obiettivi storici concreti perseguiti dalla sinistra nei duecento anni della sua esistenza in un sistema liberale e poi democratico, questa è una costante identitaria. Ed è il motivo che mi rende scettico rispetto a richieste di mutamento di denominazione del partito.

E’ perfettamente vero che oggi l’obiettivo storico più importante è quello di combattere per una società aperta e contro il sovranismo dei populisti. Ma questo perché, nelle condizioni attuali, la sinistra liberale è convinta che il contrasto al sovranismo populista sia il modo migliore per attuare i valori di libertà ed eguaglianza che stanno nel suo Dna. Insomma, valori di fondo e obiettivo storico prevalente sono due cose diverse. Perché cambiare nome: per raccattare i pochi centristi ancora non allineati? Va benissimo, in Italia e in Europa, perseguire il disegno di un fronte anti-sovranista molto ampio, ma ciò è perfettamente possibile senza rinunciare all’ultimo brandello identitario riconducibile alla sinistra per un partito che voglia tornare al governo e dunque sottostare, a differenza dei populisti, agli obblighi di realismo politico-economico e di onestà verso gli elettori che questo comporta.

E vado veloce, perché ho già tediato i lettori del Foglio con una lunga difesa di una auspicabile mozione liberale di sinistra nel prossimo congresso (….). Nel mese e mezzo trascorso da quell’articolo, nel Pd sono avvenute alcune cose che mi lasciano perplesso sulla reale comprensione degli ostacoli che il partito deve affrontare. E’ stata di massima convenuta la data del congresso, all’inizio dell’anno prossimo, prima delle elezioni Europee. E’ stato nominato un segretario e una segreteria: un segretario che probabilmente non sarà uno dei protagonisti della sfida congressuale e una segreteria che raccoglie, come si dice, tutte o quasi le anime del Partito. Per quella sfida state avanzate due quasi-candidature, Zingaretti e Calenda. Si sono svolte importanti riunioni (vicine, ma al di fuori del perimetro ufficiale del partito) per definire possibili piattaforme congressuali. Più in generale, nel perimetro del partito, il fermento e l’ascolto dei militanti (gruppo però poco rappresentativo dei potenziali elettori) sono molto aumentati. La domanda è: si sono fatti effettivi passi avanti nel definire una sfida congressuale che risponda alle due esigenze di “credibilità” di cui sopra dicevo? Che fornisca un’immagine chiara e comprensibile di chi guida il partito e della linea politica per cui combatte?

A me non sembra. Nel periodo, non breve, che ci separa dal congresso, in una segreteria come quella che è stata da poco nominata i conflitti saranno inevitabili e ampiamente resi pubblici: in una decisione imminente e di grande importanza come quella sull’Ilva di Taranto, il partito abbraccerà la linea di Calenda o quella di Emiliano? O si dividerà, come al solito? Di fronte alle scelte inaccettabili di un governo a doppia trazione populista le occasioni per dividersi non mancheranno di certo. E, al di là delle singole occasioni, c’è un problema cui occorre prepararsi: che cosa avverrebbe se l’alleanza giallo-verde si spaccasse, il governo entrasse in crisi e si presentasse seriamente la possibilità di un governo 5 stelle-Pd al fine di scongiurare nuove elezioni (quella che Claudio Cerasa ha chiamato “la pazza tentazione dell’estate”)? Insomma, niente di nuovo sul fronte del partito, la solita confusione. Ma c’è almeno la speranza che la situazione cambi dopo il congresso e le primarie? Anche di questo è lecito dubitare.

Se la costruzione dell’immagine pubblica di Zingaretti sembra a buon punto –almeno tra i militanti di base più vicini al partito, quelli che sicuramente voteranno nelle primarie – la costruzione dell’immagine di un esponente di una sinistra europeista e liberale sembra ancora lontana, nonostante l’autocandidatura di Calenda: l’ombra del precedente segretario offusca ancora l’orizzonte e non rende facile identificare il campione della parte buona e ancor viva della sua eredità. Ma se questo non avverrà, la speranza che il partito invii un messaggio vincente e comprensibile di sinistra liberale difficilmente potrà realizzarsi. Dunque ancora un partito diviso, che probabilmente farà marcia indietro rispetto alla linea di sinistra liberale che Renzi, al di là dei suoi errori, aveva sostenuto. Una linea che però resterà forte nel partito e darà battaglia. Dunque conflitti, divisioni e incertezze.

Le elezioni europee dell’anno prossimo potrebbero essere un terreno ideale per una riscossa del Pd, specie se il duopolio populista al governo dovesse incappare in seri insuccessi: quale occasione migliore per far capire il disegno di Europa a cui esso aspira? Ma la confusione interna, e di conseguenza l’incapacità degli elettori di comprendere che cosa il partito voglia, o addirittura di collocarlo nello spazio tra destra e sinistra come Paolo Segatti ha mostrato di recente (…), rischiano seriamente di fargli perdere l’occasione.

Da - https://www.ilfoglio.it/politica/2018/07/29/news/per-combattere-i-populisti-al-pd-serve-un-leader-liberale-europeista-e-di-sinistra-207333/
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