LA-U dell'OLIVO
Novembre 01, 2024, 08:32:49 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 [3] 4
  Stampa  
Autore Discussione: Michele SALVATI -  (Letto 37618 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #30 inserito:: Marzo 06, 2010, 09:19:29 am »

LE NUOVE MISURE ANTICORRUZIONE

La trasparenza che non c’è


Grande era l’attesa per il disegno di legge (ddl) governativo in materia di corruzione. Altrettanto grande la delusione, oggi che il ddl è noto nelle sue linee generali, anche se non ancora presentato formalmente. Le norme che intendono contrastare la corruzione in modo diretto sono poche e di dubbia efficacia. Il grosso del provvedimento riguarda obblighi di controllo, trasparenza e rendicontazione interni alle pubbliche amministrazioni. Se funzionassero, migliorerebbe senz’altro la qualità dei servizi pubblici ed è probabile che nelle maglie dei controlli incapperebbero molti casi di corruzione. Ma funzioneranno? Partiamo dal contrasto diretto alla corruzione.

Al di là dell’architettura istituzionale costruita dal primo articolo, il ddl prevede una raffica di inasprimenti delle pene per molti reati, connessi alla corruzione o di altra natura, nonché maggiori restrizioni alla candidatura a organi rappresentativi delle persone che tali reati hanno commesso. Quanto alle pene, è ben noto che il loro effetto dissuasivo non dipende tanto dalla loro severità quanto dalla probabilità che il reato venga scoperto e sanzionato in tempi brevi: in realtà si aggravano le pene per venire incontro all’indignazione popolare. Quanto alle condizioni di incandidabilità, la bozza di ddl le estende solo per i politici degli enti locali: vedremo se saranno estese anche per i parlamentari dopo le critiche di Fini e Calderoli. Naturalmente, sempre di reati passati in giudicato si tratta. Tre gradi di giudizio, con i tempi biblici della nostra giustizia, lasciano tranquilli sui loro scranni i pochi (?) politici che hanno problemi seri con la giustizia. Gran parte del ddl riguarda però la corruzione solo in modo indiretto, nell’ipotesi che controlli più frequenti, più ampi e rigorosi, oltre a migliorare la trasparenza e la qualità del settore pubblico — che è un bene in sé—consentano di scoprire e denunciare le mele marce che in esso si trovano.

La fonte maggiore di delusione, ma prima ancora di sorpresa, sta proprio qui: in larga misura questi controlli interni già esistono e sinora non hanno affatto impedito né la corruzione, né l’inefficienza. Agli obblighi di rendicontazione, di verifica, di comunicazione, di coordinamento, di redazione di prospetti e bilanci— già oggi onerosissimi — il ddl ne aggiunge altri dello stesso tipo, sempre compiti interni alla pubblica amministrazione e sempre a risorse invariate: come farà un povero dirigente amministrativo a mandare avanti il suo ufficio, ad assolvere i compiti esterni cui è tenuto? Farà come ha sempre fatto, non assolverà i nuovi obblighi che gli vengono imposti o li assolverà solo formalmente, fidando che il suo controllore (sempre interno) sia anch’esso oberato di compiti impossibili, e non li assolva o li assolva male.

Ho sottolineato più volte la natura «interna» dei controlli perché è ben noto, e Brunetta lo sa benissimo, che, oltre ai controlli interni, devono esserci controlli esterni, sempre pubblici, ma svolti da agenzie e istituzioni che hanno una natura terza rispetto all’amministrazione controllata: insomma, dei watchdogs, dei cani da guardia indipendenti, come ad esempio il New York City Comptroller (www.comptrol-ler.nyc.gov/comptroller/duties.shtm). Ma questo cane da guardia ha uno staff di 700 contabili, giuristi, ingegneri, informatici, analisti finanziari, esperti di organizzazione, oltre al personale ausiliario. Mi si chiederà: come la mettiamo con le spese aggiuntive che ciò comporterebbe? Ricorre per tutto il ddl il mantra che la riforma deve avvenire a spese costanti e, per chi non avesse capito, esso viene ripetuto nell’articolo finale, dal titolo evocativo di «clausola di invarianza». Rispondo: se non c’erano i soldi, invece di trascurare l’aureo principio che le nozze non si fanno coi fichi secchi, invece di soffocare l’amministrazione sotto il peso di norme che non saranno rispettate, ci si poteva limitare ai casi in cui si sa benissimo come aumentare senza spesa la qualità dei servizi pubblici e come ridurre la commistione impropria tra politica e amministrazione. Ad esempio restringendo fortemente lo spoils system.

Facendo nominare dalle minoranze gli organi di controllo negli enti e nelle società partecipate. Utilizzando concorsi rigorosi e pubblici per i manager delle Asl. E potrebbero essere elencate tante altre riforme senza spesa e complicazioni, ma ovviamente difficili da attuare, perché comportano duri contrasti politici e conflitti di interesse. Confesso di essermi illuso nello sperare in una riforma innovativa. Qualche ragione però l’avevo, perché la fanfara era stata assordante. Un esempio? Il ministro Sacconi, in un’intervista al Corriere del 28 febbraio, aveva affermato che nel ddl sarebbe stato previsto un vero e proprio «fallimento politico», in cui i libri contabili di un ente con bilanci dissestati o anormalmente inefficiente sarebbero stati portati non in tribunale, come avviene per le imprese, ma ad un immediato giudizio elettorale: nel qual caso «gli amministratori falliti sono ineleggibili a quella e altre cariche. E tutto ciò anche quando non c’è rilevanza penale». Ho cercato a lungo questa norma nella bozza del ddl, ma non l’ho trovata: si tratta forse dell’art. 8, che vale solo per i presidenti delle Regioni, si limita ad una fattispecie estrema ed eccezionale (art. 126 della Costituzione) e non specifica cosa debba intendersi per «gravi violazioni di legge »? In questo caso la montagna del «fallimento politico» avrebbe partorito un topolino.

Michele Salvati

06 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #31 inserito:: Aprile 24, 2010, 10:33:04 am »

PDL, PD E IL CENTRALISMO DEMOCRATICO

Un ritorno all’antico


C’era una volta «la linea». Così si chiamava nei partiti di sinistra— socialdemocratici, socialisti, laburisti, comunisti — l’insieme di indicazioni che il centro diramava alla periferia su tutti i temi politici del momento. Nel Pci la linea era diffusa mediante fascicoletti facilmente comprensibili anche dal più sprovveduto segretario di sezione, ma soprattutto attraverso il giornale di partito. Chi ha una certa età ricorda ancora le vignette di Giovanni Guareschi intitolate «obbedienza cieca, pronta, assoluta», quelle che mostravano un militante trafelato che accorre sventolando l’Unità e gridando: «Contrordine compagni. La frase pubblicata ieri sull’Unità contiene un errore di stampa e pertanto va letta…».

I compagni, i famosi trinariciuti, stavano intanto eseguendo l’ordine (la linea) del giorno prima, illustrato dalla vignetta in modo sempre spassoso, anche se talora un po’ volgare. Il mondo di Peppone e don Camillo, dei partiti ideologici di massa, dei veri giornali di partito è morto da tempo. Che cosa potrebbe dire oggi il militante che accorre trafelato in un circolo semideserto del Pd? «Cari democratici e democratiche, le affermazioni fatte ieri nei talk-show televisivi da Bersani, Franceschini, D’Alema, Fassino, Veltroni, Rosy Bindi, Fioroni, e la lista potrebbe continuare, sono state rettificate nei talk-show successivi e pertanto… cavatevela come meglio potete». La questione non riguarda solo l’organizzazione del partito, gli attivisti, il rapporto centro-periferia. Nella politica di oggi, in cui la relazione con iscritti e attivisti conta assai meno dell’immagine trasmessa dai media, la questione riguarda soprattutto la coerenza , l a comprensibilità, la semplicità, il gradimento elettorale dei messaggi lanciati dal partito. È dunque inevitabile che democrazia interna ed efficacia dell’immagine mediatica entrino in tensione: se la democrazia interna produce una pluralità di leader e una molteplicità di linee che divergono per aspetti significativi, e se difettano strumenti efficaci per comporre il conflitto tra i leader e per presentare all’esterno una linea sola, ne soffre l’immagine del partito, si appanna la sua identità. Il Pdl ha sostituito la linea con il capo, il centralismo democratico con il centralismo carismatico, come lo definisce Alessandro Campi. Il centralismo carismatico non tollera l’insorgenza di dissenso interno, la formazione di correnti: da buon venditore Berlusconi si rende conto di quanto il successo del Pdl, la tenuta interna del partito e la sua immagine esterna siano affidati all’attrattiva del marchio e alla forza del capo, di un indiscusso Chief Executive Officer.

Pdl e Pd affrontano dunque due problemi simmetrici. Il Pdl quello di tollerare l’emersione di un dibattito democratico interno. Il Pd quello di porre un freno ad un conflitto di posizioni che ha superato la soglia oltre la quale l’immagine del partito diventa sbiadita o confusa agli occhi degli elettori. Il futuro della nostra democrazia dipende in misura non piccola dall’esito che avranno le sfide opposte affrontate dai due grandi partiti del centrodestra e del centrosinistra. Sfide non facili. Per il Pdl la difficoltà deriva— direbbero i sociologi — dal passaggio dal carisma all’istituzione, dall’eccezionalità alla normalità. Un passaggio sempre difficile, in cui la saggezza del capo carismatico, la sua ambizione di lasciare in eredità al Paese un partito che stia in piedi anche dopo che si sarà ritirato dalla politica sono essenziali. Oggi è il momento della verifica. Per quanto irritanti Berlusconi abbia trovato le critiche di Fini, egli deve rendersi conto che si tratta della prima vera prova di democrazia interna cui il Pdl è chiamato, e che deve inventare—ora che ha la forza per farlo — un accomodamento che salvi insieme democrazia e «linea». Altrimenti il suo partito si sfascerà quando non ci sarà più lui a dirigerlo, quando sarà affidato a dirigenti «normali».

Nelle sue concitate risposte a Fini non ha usato l’espressione «centralismo democratico», ma il succo del suo argomento puntava in quella direzione: discussione anche accesa, ma poi esecuzione leale della linea risultata maggioritaria. Perché no? Non è anche quello che ha promesso Fini? Ancor più difficile—non foss’altro perché riguarda un’intera dirigenza e non un uomo solo—il compito che attende il Partito democratico. «Con questi dirigenti non vinceremo mai», sbottò Nanni Moretti dopo la sconfitta del centrosinistra nel 2001. Ma non si tratta solo di una questione di persone, risolvibile passando la mano alla generazione successiva: questa è altrettanto divisa della precedente. Si tratta della crisi del progetto politico che ha attraversato l’intera Seconda Repubblica, il progetto dell’Ulivo, il tentativo di fondere le tradizioni riformistiche della Prima Repubblica nel crogiuolo di un nuovo partito di centrosinistra. La temperatura del crogiuolo non è arrivata al punto di fusione ed è molto difficile che ci arrivi adesso. Lo spirito di sopravvivenza potrebbe però produrre gli effetti che l’entusiasmo e il sogno non hanno prodotto, un modello di partito in cui i dissensi ci sono, ma non minacciano l’autorevolezza del segretario e la formazione di una linea coerente ed efficace. È un po’ buffo che il modello di organizzazione di un partito che non credeva nella democrazia— il centralismo democratico —sia proposto a due partiti che invece alla democrazia credono. Ma la storia talora produce questi scatti ironici.

Michele Salvati

24 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #32 inserito:: Settembre 07, 2010, 12:34:07 pm »

L'analisi

Ma un patto tra i tre leader conviene ancora

Perderebbe la faccia, Berlusconi, se accettasse questo patto di legislatura? A me non sembra

   
Il giorno di Ferragosto questo giornale pubblicò un mio articolo in cui auguravo, come economista e come cittadino di questo Paese, che la lunga notte delle vacanze portasse consiglio ai due grandi contendenti del centrodestra, Fini e Berlusconi: che entrambi si accordassero su una soluzione in cui nessuno perdesse la faccia, in modo da procedere — con un governo rinsaldato —verso la fine naturale di questa legislatura. Una qualsiasi soluzione diversa— e in particolare elezioni anticipate in autunno o nella prossima primavera — sarebbe dannosa per il Paese: basta un’occhiata al mercato dei Cds, gli strumenti che assicurano gli investitori contro il rischio connesso al debito italiano, per rendersi conto di quanto l’Italia sia oggetto dell’interessata attenzione degli speculatori. Con diversi accenti questa preoccupazione è comune a tutti gli economisti: Monti, Padoa Schioppa, Giavazzi, per limitarci a quelli che hanno scritto di recente su questo giornale. Ho ascoltato con grande interesse il lungo discorso di Fini a Mirabello e mi sembra che, nella sostanza, ci siano le condizioni per un patto che consenta di portare a termine la legislatura. Ovviamente Fini non perde la faccia: sta nel centrodestra, dove deve stare e dove il suo partito d’origine, Alleanza nazionale, ha fatto confluire i suoi voti fondendosi con Forza Italia nel Popolo della Libertà. Insoddisfatto dei risultati di questa fusione, Fini chiede di disfarla: anzi, constata che l’ha già disfatta Berlusconi, che il Pdl non esiste più. Non è la prima volta che ciò accade nelle fusioni tra partiti, e non è impossibile che succeda in futuro anche a sinistra.

In ogni caso Fini promette il rispetto del programma che il centrodestra ha presentato agli elettori, purché sia interpretato alla luce delle esigenze politiche delle tre grandi forze confluite nella coalizione: Lega, Forza Italia e Alleanza nazionale, della cui storia, e nonostante le vistose defezioni, Fini si sente depositario. In particolare non si oppone al Federalismo, purché non intacchi l’unità nazionale. E non si oppone all’esigenza di Berlusconi di essere lasciato in pace dalla magistratura finché è presidente del Consiglio, purché la soluzione del problema non provochi una lesione intollerabile dello stato di diritto. Chiede in cambio che non si pongano ostacoli allo sviluppo di Futuro e Libertà, che per ora è solo un gruppo parlamentare, ma alle prossime elezioni si presenterà come partito. Ed è anche (o soprattutto) per questo che chiede una nuova legge elettorale, facendo autocritica delle sue posizioni passate a sostegno della legge Calderoli: quale sia la soluzione preferita Fini non l’ha detto e quanto ha detto non esclude né un sistema proporzionale né uno maggioritario, purché questo venga emendato dalla scandalosa esclusione degli elettori dalla scelta dei propri rappresentanti. Perderebbe la faccia, Berlusconi, se accettasse questo patto di legislatura? A me non sembra: è un politico troppo smaliziato per risentirsi dei toni sferzanti che Fini, nel discorso fondativo di un nuovo partito, ha usato per galvanizzare i militanti. Di fatto Fini indica una prospettiva per il centrodestra che è l’unica che possa tenere insieme questo pezzo dello schieramento politico in un futuro in cui Berlusconi non potrà più tenerlo insieme con il suo potere carismatico. In un futuro in cui anche Forza Italia dovrà presentarsi come un partito «normale». In un futuro in cui, se la legge elettorale prescelta fosse di natura proporzionale, anche Casini e l’Udc potrebbero tornare a essere parte di questo schieramento. In quel futuro forse saremo tutti morti. Nel presente Berlusconi si comporterebbe da statista, da politico che ha a cuore i problemi veri del Paese, se accettasse il patto che gli propone Fini e non ricorresse ad atti di forza e a elezioni anticipate.

Michele Salvati

07 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_07/salvati-conviene-patto-tre-leader_02e5fcc0-ba41-11df-a688-00144f02aabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #33 inserito:: Maggio 30, 2011, 11:30:20 pm »

IL COSTO DELL'INSTABILITÀ POLITICA

CIÒ CHE DRAGHI DOVREBBE DIRE


Domani, nel corso dell'assemblea dei partecipanti, il Governatore della Banca d'Italia leggerà le sue «Considerazioni finali».
Fra pochi mesi egli assumerà l'incarico di Governatore della Banca centrale europea e questa è l'ultima occasione per parlare come capo di una autorevole istituzione del nostro Paese. Soprattutto, per parlare come italiano.

Alla luce delle «Considerazioni finali» degli anni scorsi, credo che anche quest'anno il problema cui Mario Draghi dedicherà la maggiore attenzione sarà quello della crescita insufficiente della nostra economia, ciò che rende difficile affrontare tutti gli altri problemi che affliggono il Paese. L'analisi delle ragioni per cui l'economia non cresce, e in particolare non cresce la produttività, si nutrirà certamente di nuovi apporti di ricerca, ma non presenterà variazioni rilevanti rispetto al passato. Né sarà diverso l'avvertimento che già Draghi ha lanciato molte volte: le riforme necessarie sono difficili e a rendimento differito. Non annunci miracolistici, ma applicazione costante e tenace, da parte di tutti i governi in carica, di programmi condivisi nelle loro linee portanti.

Come italiano che lancia un ultimo messaggio al suo Paese, come capo di una istituzione così autorevole, in una situazione in cui si rafforzano venti di cambiamento che potrebbero condurre in qualsiasi direzione, forse Mario Draghi potrebbe aggiungere una nota più personale e preoccupata. Le «Considerazioni finali» sono un documento calibrato con grande cura. Ma il distacco e l'equilibrio che lo caratterizzano non hanno mai impedito in passato che il messaggio centrale che conteneva - in senso lato politico - venisse colto da chi lo doveva cogliere. Al di là della circostanza che potrebbe indurre il Governatore a un tocco più personale - il suo distacco dalla Banca e dall'Italia - credo esista oggi una ragione seria per lanciare un avvertimento ancor più forte di quelli lanciati in passato.

Accennavo prima a venti di cambiamento e alludevo al sistema politico. È probabile che il nostro sistema politico entri nei prossimi anni in una nuova fase di turbolenza. Una transizione costituzionale mai completata, il potere carismatico di Berlusconi in declino - e il passaggio dal carisma all'istituzione, dall'eccezionalità alla normalità, è sempre difficile -, la presenza di progetti molto diversi su come affrontare la transizione, possono creare una situazione economico-sociale instabile. Una situazione nella quale non soltanto l'obiettivo di riforme miranti a favorire la crescita della produttività viene abbandonato; ma è a rischio lo stesso obiettivo di condurre in porto gli impegnativi aggiustamenti di bilancio pubblico cui ci siamo di recente vincolati.

Non è compito di un Governatore entrare nel merito delle scelte politiche. Ma è pienamente nei suoi poteri quello di segnalare come l'instabilità della politica possa minacciare la stabilità e la crescita dell'economia.

Michele Salvati

30 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_30/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #34 inserito:: Luglio 20, 2011, 10:19:35 am »

ECONOMIA E POLITICA, IL VICOLO CIECO

Le verità nascoste


Forse il guasto maggiore prodotto da chi ha governato l’Italia in questi ultimi dieci anni è stato quello di non aver fatto capire agli italiani quanto compromessa fosse la situazione che la Seconda Repubblica aveva ricevuto in eredità dalla Prima, quanto difficili fossero le riforme necessarie ad allinearci con i nostri grandi partner europei e soprattutto quanto lungo fosse il tempo necessario affinché queste riforme sbloccassero il ristagno economico in cui eravamo caduti. Reagendo all’emergenza della crisi del 1992, era iniziato un percorso riformatore coraggioso. Una volta entrati nella moneta unica, al timore del collasso subentrò tuttavia un atteggiamento di «passata la festa, gabbato lo santo», la sensazione che il difficile era fatto, che la strada era in discesa. No, il difficile veniva allora.

Alla conservazione degli equilibri fiscali raggiunti doveva sommarsi un doloroso lavoro di bisturi e ricostruzione plastica in molti settori pubblici e privati allo scopo di elevarne l’efficienza e la produttività. Lavoro difficile, impopolare e lungo, come lento sarebbe stato il suo esito sulla crescita economica. Si fece assai poco e persino gli elevati attivi primari raggiunti alla fine del secolo scorso — necessari per ridurre il debito pubblico — vennero azzerati in questo da una sconsiderata crescita della spesa corrente. Ma forse ancor più irresponsabile dell’inazione dei governi, della loro incapacità di affrontare riforme difficili e impopolari, fu l’atteggiamento che i loro leader principali contribuirono a diffondere nell’opinione pubblica: «tout va bien, madame la marquise», la nostra industria reagisce gagliardamente alle sfide della globalizzazione, i settori protetti dalla concorrenza estera non hanno bisogno di interventi che ne sconvolgano gli equilibri, la previdenza non richiede ulteriori riforme e, se qualcosa va fatto, ci si deve limitare alla legislazione del lavoro e al complesso del settore pubblico. Se poi qualcuno faceva notare che la produzione non cresceva, che la produttività era ferma, che le esportazioni non andavano bene, si replicava elencando numerosi casi singoli di successo — ci sono sempre, anche quando le cose van male— e criticando le statistiche generali.

Capisco che i governi apprezzino l’ottimismo, ma c’è un limite oltre il quale esso sconfina nell’irresponsabilità. Il Tremonti della XIV legislatura e dell’inizio di questa era assai più ottimista di quello che oggi parla di un ballo nei saloni del Titanic, ma la rotta dell’Italia era la stessa e doveva essergli noto che presto o tardi il nostro Paese sarebbe andato a sbattere contro un iceberg. Che si fa, adesso? Chi va a dire la verità agli italiani, che li aspetta un lungo periodo di vacche magre, che i sacrifici — e poi, come saranno distribuiti?—si fanno adesso e la crescita sarà lenta a venire? Le opposizioni hanno dato prova di responsabilità a inghiottire una manovra i cui saldi cambiavano in continuazione, il cui peso si è spostato dalla riduzione delle spese all’aumento delle entrate e, soprattutto, si è spostato in modo regressivo, tagliando indiscriminatamente del 20% le agevolazioni fiscali a vantaggio delle famiglie. Ma questo atto di responsabilità non basta a fare delle attuali opposizioni, divise al loro interno e confuse nei loro indirizzi sino ad un recente passato—se si fossero mosse diversamente, la manovra poteva forse essere migliore —, il soggetto di cui tutti gli italiani si possano fidare.

Michele Salvati

20 luglio 2011 07:46© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_20/salvati_verita_nascoste_a4df6c44-b290-11e0-97dd-09b07ad852d4.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #35 inserito:: Novembre 19, 2011, 12:08:34 pm »

SCOMODE VERITÀ

Comunque vada, dobbiamo gratitudine a Giorgio Napolitano e a Mario Monti. Al primo per aver organizzato un passaggio, rapido come esigevano le circostanze ma nel pieno rispetto della Costituzione, all’unico governo che ci dà qualche speranza di superare la crisi economica e politica in corso. Al secondo per aver accettato un incarico arduo, nello spirito di un moderno Cincinnato. Come il dictator romano, anche Monti, esaurito il suo compito, si ritirerà a vita privata. Ma a differenza di Cincinnato, non avrà i pieni poteri: la democrazia non è sospesa e la Camera e il Senato dovranno approvare ogni sua iniziativa. E questo rende il compito di Mario Monti assai più difficile. Sono poco più di titoli quelli enunciati da Monti nel discorso programmatico letto alle Camere, ma già chiarissimi: essi prospettano quella soluzione del trilemma tra rigore, crescita ed equità che la migliore riflessione economico-sociale sul caso italiano addita da tempo. Il diavolo sta però nei dettagli e le varianti di ogni riforma sono numerose. Come si comporteranno i politici, che siedono in Parlamento ma non al governo? Come collaboratori leali e in buona fede, pronti a rinunciare a soluzioni che ritengono più favorevoli ai loro interessi di partito? Dediti al compito di disegnare il contesto — elettorale e costituzionale — nel quale la politica competitiva dovrà tornare a svolgersi una volta che questo scorcio di legislatura si sarà esaurito? Difficile farsi illusioni: il governo sarà probabilmente esposto a trappole e ricatti, a tentativi di mercanteggiamento, a minacce di defezione. Come reagirà? Il desiderio di Monti di avere i grandi capipartito nel suo governo, o il suggerimento di Napolitano di includervi Amato e Letta rispondevano in diverso modo a questa evidente debolezza politica. Monti dispone di una sola arma, poderosa, troppo poderosa, ed efficace solo se è rimasto un poco di razionalità e responsabilità nazionale nei partiti: la minaccia di dimissioni se il suo programma viene sfigurato, ciò che precipiterebbe il Paese nel caos. Ma l’uso di questa arma comprometterebbe la stessa immagine del premier e sarebbe poco credibile per partiti usi a mercanteggiare su tutto. Quanto poi alla razionalità e al senso di responsabilità nazionale i partiti ne dispongono come lo scorpione del famoso apologo sull’attraversamento del fiume in groppa alla rana: è vero, se ti pungo affoghiamo entrambi, ma pungere è nella mia natura. La difficoltà maggiore è però di natura economica. Monti ha sottolineato con forza la gravità della crisi e affermato con altrettanta forza che l’unica soluzione è tornare a crescere. È però il primo a sapere che le misure mirate ad elevare la produttività e l’efficienza nei settori privati e pubblici che il suo programma identifica avranno rendimenti molto differiti nel tempo. Da dove proverrà, nei prossimi tre o quattro anni, la domanda che deve sostenere la crescita? Da un radicale mutamento di aspettative di famiglie e imprese, che le indurrà a consumare e investire di più? È una speranza piuttosto tenue.
Dallo Stato, ingabbiato in politiche di rigore, ovviamente non ci si può aspettare molto ed è anche irrealistico affidarsi a una rapida crescita delle esportazioni date le attuali condizioni di competitività delle nostre imprese e un contesto così fiacco di domanda mondiale e specialmente europea: la situazione è radicalmente diversa da quella della crisi del 1992-95, quando la lira venne pesantemente svalutata e le esportazioni conobbero un poderoso rimbalzo. Ciò che realisticamente ci attende, se le cose vanno bene, è il rigore e—speriamo—una buona dose di equità, ma per la crescita occorrerà attendere: questo è il discorso di verità che andrebbe fatto agli italiani, per evitare continue recriminazioni che la crescita non arriva. Ma soprattutto è un discorso che andrebbe fatto in Europa. Se la crescita stenta ad arrivare e se ad essa sono legate le aspettative degli acquirenti del nostro debito pubblico, siamo spacciati: possiamo permetterci qualche emissione al 7 per cento, ma non un onere medio del debito a quei livelli. Non ce la faremmo mai a ripagarlo e la crisi di liquidità si trasformerebbe in una crisi di solvibilità che travolgerebbe l’intero sistemamonetario: una grande riforma europea che elimini la stupida politica del too little, too late che ha già rovinato la Grecia è ancor più urgente delle riforme interne che il governo sta disegnando. Mario Monti è idealmente adatto per fare questo doppio discorso di verità. In Italia, per l’evidente assenza di interessi personali e partitici: da un tecnico, da un Cincinnato, ci si aspetta che parli chiaramente. In Europa per la stima da cui è circondato: se richiede un maggiore impegno della Bce o un serio Fondo salva Stati o una qualche forma di eurobond o altri strumenti che modifichino le aspettative dei mercati, i governi e le istituzioni europee sarebbero sicuri che non lo fa per evitare o allentare le riforme interne sulle quali giustamente l’Europa insiste. La fiducia, nei rapporti internazionali, è molto, se non tutto.

Michele Salvati

19 novembre 2011 | 8:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_19/salvati_scomode_verita_0bf18ece-1279-11e1-b297-12e8887ffed4.shtml
« Ultima modifica: Marzo 07, 2012, 05:17:17 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #36 inserito:: Febbraio 07, 2012, 11:13:24 pm »

L'Europa e la crisi del debito

Angela da Giussano

Se i Paesi della zona euro fossero regioni di uno Stato sovrano, le difficoltà in cui alcuni di essi incorrono nel finanziare i loro debiti pubblici non avrebbero ragion d'essere: nel suo insieme, l'Eurozona sarebbe perfettamente in grado di finanziarli senza conseguenze negative sui mercati. Il nostro ipotetico Stato sovrano avrebbe infatti partite correnti in equilibrio e non necessiterebbe di continui afflussi di capitale, come invece avviene per altre aree valutarie; il suo disavanzo pubblico sarebbe modesto, e del tutto sostenibile sarebbe anche il rapporto tra debito e Pil; soddisfacenti sarebbero infine i suoi equilibri monetari: l'inflazione dell'Eurozona è minore che in altri grandi Stati e non ci sono segnali di tensioni nel prossimo futuro. Rifinanziare il debito in scadenza e anche crearne di nuovo, entro certi limiti, non porrebbe dunque alcun problema. I problemi sorgono perché i Paesi dell'Eurozona non sono regioni di un unico Stato sovrano, perché la Grecia o l'Italia non sono il Nebraska o la California.

Che sarebbero insorti problemi dopo aver creato un'area valutaria comune tra economie assai diverse lo si doveva sapere: l'Eurozona è lontana dai caratteri che contraddistinguono un'area valutaria «ottimale», come la definiscono gli economisti. Seppure imperfetta, c'è una libera circolazione di merci e capitali, ma definire imperfetta la circolazione del lavoro è un eufemismo, frenata com'è da elevate barriere linguistiche e culturali. Gli Stati che la compongono sono soggetti a choc e a tendenze economiche molto differenti e avrebbero bisogno di politiche monetarie diverse, che la comune appartenenza all'euro non consente. E soprattutto mancano forti meccanismi di redistribuzione fiscale. Mancano perché il bilancio della Ue è irrisorio, e vincolato a poche politiche comuni, se confrontato con i bilanci di grandi Stati e alla flessibilità con la quale possono essere usati per politiche ridistributive. Insomma, mancano perché la Ue non è uno Stato sovrano e ci sono forti resistenze a trasformarla in una vera federazione, con un Parlamento eletto dai cittadini europei, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un bilancio federale di dimensioni sufficienti ad attuare politiche ridistributive e strutturali in grado di contrastare gli squilibri economici e sociali esistenti tra gli Stati che la compongono.

A sua volta, all'origine della mancanza di un vero Stato federale sta il fatto che non c'è abbastanza «nazione» per sostenerlo, anche se per nazione ci limitiamo ora a intendere quei sentimenti di solidarietà e fiducia che inducono le regioni più ricche e meglio governate ad aiutare le regioni in difficoltà. La speranza che i problemi insorti con la moneta unica provocassero passi avanti significativi nella costruzione di una federazione, è stata sinora delusa. È vero che una considerazione lungimirante degli stessi interessi del suo Paese dovrebbe indurre la signora Merkel a più miti consigli, a garantire concessioni che evitino il tracollo degli Stati più deboli e forse della stessa moneta comune. Ma è altrettanto vero che fare accettare queste concessioni all'opinione pubblica tedesca e sopravvivere politicamente non è facile. In un altro momento storico, un grande statista, Helmut Kohl, riuscì nell'impresa: ma allora si trattava di riunificare la Germania facendo leva su un fortissimo senso di nazione e, ciò nondimeno, ci furono resistenze di fronte alla generosità del suo disegno.

Le difficoltà politiche si sono sinora rivelate insuperabili nei confronti dell'aiuto ai Paesi più deboli dell'Eurozona: le ragioni del raziocinio e di un self-interest illuminato non riescono a contrastare la mancanza di solidarietà e di fiducia dei cittadini tedeschi nei confronti di questi Paesi.

Gli italiani dovrebbero essere i primi a capirlo, e non solo per la consapevolezza del malgoverno passato. Noi siamo una nazione racchiusa in uno Stato sovrano e quindi non si pongono i problemi che ho prima descritto per l'Eurozona, un'area complessivamente forte ma che non vuole rispondere, e può non farlo, per le difficoltà delle sue regioni più deboli, un'area che non vuole trasformarsi in Stato. L'Italia è minacciata dalla speculazione internazionale, ma risponde a queste minacce nel suo insieme, finché ci riesce: essere Stato sovrano significa anche questo. Tuttavia il senso di unità, di cittadinanza comune, di solidarietà nazionale che dovrebbe sostenere uno Stato ben funzionante è incrinato da tempo, e nel Nord del Paese sono diffusi e alimentati ad arte, nei confronti dei meridionali, gli stessi sentimenti che nutrono i tedeschi nei confronti degli italiani: essendo parte dello stesso Stato, i cittadini del Nord leghista non possono rifiutarsi di onorare il debito comune, certamente non solo «colpa» del Sud, ma sarebbero ben lieti di trattare i meridionali come i tedeschi trattano gli italiani, di recedere dal patto che ha fondato il nostro Stato. Come pretendere solidarietà dai tedeschi se ce n'è così poca anche tra italiani?

Le ragioni di consenso politico immediato che motivano la signora Merkel e, nel suo piccolo, la Lega, si capiscono benissimo. Ma la cancelliera è il capo di un grande Stato, della maggiore potenza europea, e dovrebbe farsi guidare da obiettivi da grande statista, gli stessi che guidarono Helmut Kohl. Così sinora non è stato. Della situazione in cui si trova oggi la Grecia, non è certo responsabile. Ma del suo aggravamento le politiche da lei sostenute - too little, too late , troppo poco, troppo tardi - portano una responsabilità non piccola.

Michele Salvati

7 febbraio 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_07/angela-da-giussano-michele-salvati_cbdee656-5152-11e1-bb26-b734ef1e73a5.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #37 inserito:: Marzo 05, 2012, 12:27:03 pm »

I PARTITI E IL DOPO MONTI

Una seconda ricostruzione

Ricordo che nella primavera del 1997, incontrandoci al ristorante della Camera dopo una riunione della Commissione bicamerale, Carlo Giovanardi mi apostrofò press'a poco così: «Caro Salvati, voi bipolaristi vi sbagliate di grosso. Questo è un Paese che a malapena riesce a mettere in piedi un ceto di governo decente. Cercare di costruirne due, e in concorrenza fra loro, può produrre solo guai». Quest'episodio m'è tornato in mente adesso, riflettendo sull'esperienza del governo Monti e soprattutto su che cosa avverrà alla sua fine, nella primavera dell'anno prossimo.

Giovanardi parlava da vecchio democristiano e rimpiangeva i governi della Prima Repubblica, spazzati via da Mani Pulite e da una legge elettorale che spingeva i partiti a raggrupparsi in due schieramenti contrapposti. Giovanardi aveva ragione sul futuro, ma si sbagliava sul passato. Della Prima Repubblica, e specialmente della sua ultima fase, c'è poco da rimpiangere: la sua incapacità di governare è testimoniata dal suo collasso e dall'enorme debito pubblico che ha lasciato in eredità alla Seconda. Ma anche questa non è riuscita a produrre un buon governo: lo schieramento che aveva stravinto le elezioni del 2008 ha dovuto gettare la spugna e passare il testimone a un governo «tecnico», che ha iniziato alacremente ad affrontare l'emergenza economica e in tre mesi ha preso decisioni che i governi «politici» si trascinavano appresso da dodici anni.


Che cosa volete che ne pensino i cittadini, se non che i partiti italiani si sono rivelati incapaci, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica, sia con una legge elettorale proporzionale che con una maggioritaria, di governare l'economia? Che la ricerca di un consenso elettorale a breve termine, la paura di scontentare frazioni più o meno vaste del loro elettorato, residui ideologici o interessi personali, impediscono loro di prendere le decisioni necessarie ad affrontare i problemi di lungo termine che affliggono il nostro Paese? Che non riescono ad adottare quella «vista lunga» di cui tanto parlava Tommaso Padoa-Schioppa? Anche in altri Paesi, nel giudizio dei loro cittadini, i partiti non se la cavano bene, ma non sono caduti nei sondaggi ai livelli infimi in cui si trovano i partiti italiani. E neppure prendono in considerazione, quando insorgono difficoltà, di passare la mano a governi tecnici, come da noi è avvenuto sia nel 1993 che nel 2011: o producono un governo politico alternativo, o, al più, una grande coalizione, ma tutta politica. Questo però avviene perché il governo «politico» non ha lasciato marcire la situazione sino al punto in cui questa diviene ingestibile per una politica normale.

Col tempo i problemi italiani si sono aggravati, sino a richiedere un'opera di ricostruzione economica e istituzionale, e un impegno di risanamento morale, di dimensioni simili a quelle della fase postbellica. Un'opera e un impegno che dovranno protrarsi molto oltre la primavera del 2013. E soprattutto che richiedono, per aver successo, un disegno coerente e perseguito per lungo tempo senza inversioni di rotta: ciò non riguarda solo l'economia, ma le istituzioni, la pubblica amministrazione e soprattutto la questione morale, l'illegalità e la corruzione che ammorbano il Paese. Un disegno che, nelle sue linee essenziali, non è né di destra, né di sinistra, che non riguarda la democrazia, ma le precondizioni della democrazia, quegli orientamenti comunemente condivisi che sono necessari affinché la dialettica tra i partiti possa svolgersi senza esasperazioni dannose.

E qui si arriva alla ragione che rende così difficile pensare a un «dopo Monti». I partiti propongono programmi alternativi e insistono più sulle differenze che sulle somiglianze: è la logica della competizione elettorale che li costringe a far questo, anche se poi non si differenzieranno molto nell'attività di governo. E anche ammesso che ognuno di loro affermasse: «Io sono il continuatore della linea Monti ed ho lo stesso suo disegno sulle riforme necessarie al Paese», chi ci crederebbe? Come partiti, cioè come parti, non potrebbero che promettere differenze e discontinuità, mentre la continuità è un aspetto essenziale della strategia di ricostruzione. Ho fiducia nella democrazia e sono convinto che in essa i partiti politici abbiano un ruolo indispensabile; ma sono anche convinto che la nostra democrazia abbia bisogno di riforme radicali per produrre buon governo. Di conseguenza, credo che il nostro Paese richieda per un lungo periodo, almeno per l'intera prossima legislatura, un governo «tipo Monti». Un governo che però affronti, insieme ai problemi economici, anche le questioni istituzionali dalle quali, dati i limiti del suo incarico, Monti si è sinora dovuto astenere. Vedano i partiti come assicurare, nelle prossime elezioni, una solida maggioranza a questo tipo di governo. Mi sembra sia per loro l'unico modo per uscire dal discredito in cui sono caduti e tornare in futuro ad una dialettica democratica meno costretta dall'emergenza, dalle necessità di una «seconda Ricostruzione».

Michele Salvati

5 marzo 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_05/seconda-ricostruzione-salvati_77c54568-668a-11e1-a7b0-749eb32f5577.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #38 inserito:: Marzo 07, 2012, 05:14:44 pm »

I PARTITI E IL DOPO MONTI

Una seconda ricostruzione

Ricordo che nella primavera del 1997, incontrandoci al ristorante della Camera dopo una riunione della Commissione bicamerale, Carlo Giovanardi mi apostrofò press'a poco così: «Caro Salvati, voi bipolaristi vi sbagliate di grosso. Questo è un Paese che a malapena riesce a mettere in piedi un ceto di governo decente. Cercare di costruirne due, e in concorrenza fra loro, può produrre solo guai». Quest'episodio m'è tornato in mente adesso, riflettendo sull'esperienza del governo Monti e soprattutto su che cosa avverrà alla sua fine, nella primavera dell'anno prossimo.

Giovanardi parlava da vecchio democristiano e rimpiangeva i governi della Prima Repubblica, spazzati via da Mani Pulite e da una legge elettorale che spingeva i partiti a raggrupparsi in due schieramenti contrapposti. Giovanardi aveva ragione sul futuro, ma si sbagliava sul passato. Della Prima Repubblica, e specialmente della sua ultima fase, c'è poco da rimpiangere: la sua incapacità di governare è testimoniata dal suo collasso e dall'enorme debito pubblico che ha lasciato in eredità alla Seconda. Ma anche questa non è riuscita a produrre un buon governo: lo schieramento che aveva stravinto le elezioni del 2008 ha dovuto gettare la spugna e passare il testimone a un governo «tecnico», che ha iniziato alacremente ad affrontare l'emergenza economica e in tre mesi ha preso decisioni che i governi «politici» si trascinavano appresso da dodici anni.

Che cosa volete che ne pensino i cittadini, se non che i partiti italiani si sono rivelati incapaci, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica, sia con una legge elettorale proporzionale che con una maggioritaria, di governare l'economia? Che la ricerca di un consenso elettorale a breve termine, la paura di scontentare frazioni più o meno vaste del loro elettorato, residui ideologici o interessi personali, impediscono loro di prendere le decisioni necessarie ad affrontare i problemi di lungo termine che affliggono il nostro Paese? Che non riescono ad adottare quella «vista lunga» di cui tanto parlava Tommaso Padoa-Schioppa? Anche in altri Paesi, nel giudizio dei loro cittadini, i partiti non se la cavano bene, ma non sono caduti nei sondaggi ai livelli infimi in cui si trovano i partiti italiani. E neppure prendono in considerazione, quando insorgono difficoltà, di passare la mano a governi tecnici, come da noi è avvenuto sia nel 1993 che nel 2011: o producono un governo politico alternativo, o, al più, una grande coalizione, ma tutta politica. Questo però avviene perché il governo «politico» non ha lasciato marcire la situazione sino al punto in cui questa diviene ingestibile per una politica normale.

Col tempo i problemi italiani si sono aggravati, sino a richiedere un'opera di ricostruzione economica e istituzionale, e un impegno di risanamento morale, di dimensioni simili a quelle della fase postbellica. Un'opera e un impegno che dovranno protrarsi molto oltre la primavera del 2013. E soprattutto che richiedono, per aver successo, un disegno coerente e perseguito per lungo tempo senza inversioni di rotta: ciò non riguarda solo l'economia, ma le istituzioni, la pubblica amministrazione e soprattutto la questione morale, l'illegalità e la corruzione che ammorbano il Paese. Un disegno che, nelle sue linee essenziali, non è né di destra, né di sinistra, che non riguarda la democrazia, ma le precondizioni della democrazia, quegli orientamenti comunemente condivisi che sono necessari affinché la dialettica tra i partiti possa svolgersi senza esasperazioni dannose.

E qui si arriva alla ragione che rende così difficile pensare a un «dopo Monti». I partiti propongono programmi alternativi e insistono più sulle differenze che sulle somiglianze: è la logica della competizione elettorale che li costringe a far questo, anche se poi non si differenzieranno molto nell'attività di governo. E anche ammesso che ognuno di loro affermasse: «Io sono il continuatore della linea Monti ed ho lo stesso suo disegno sulle riforme necessarie al Paese», chi ci crederebbe? Come partiti, cioè come parti, non potrebbero che promettere differenze e discontinuità, mentre la continuità è un aspetto essenziale della strategia di ricostruzione. Ho fiducia nella democrazia e sono convinto che in essa i partiti politici abbiano un ruolo indispensabile; ma sono anche convinto che la nostra democrazia abbia bisogno di riforme radicali per produrre buon governo. Di conseguenza, credo che il nostro Paese richieda per un lungo periodo, almeno per l'intera prossima legislatura, un governo «tipo Monti». Un governo che però affronti, insieme ai problemi economici, anche le questioni istituzionali dalle quali, dati i limiti del suo incarico, Monti si è sinora dovuto astenere. Vedano i partiti come assicurare, nelle prossime elezioni, una solida maggioranza a questo tipo di governo. Mi sembra sia per loro l'unico modo per uscire dal discredito in cui sono caduti e tornare in futuro ad una dialettica democratica meno costretta dall'emergenza, dalle necessità di una «seconda Ricostruzione».

Michele Salvati

5 marzo 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_05/seconda-ricostruzione-salvati_77c54568-668a-11e1-a7b0-749eb32f5577.shtml

Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #39 inserito:: Marzo 15, 2012, 12:21:08 pm »

LA LEGGE CONTRO LA CORRUZIONE

Legalità e crescita le scelte urgenti

Non ci sono stati accordi espliciti, al momento della formazione del governo Monti, sui problemi che dovevano essere esclusi dal suo raggio d’azione. I partiti che lo sostengono avevano riconosciuto che il compito prioritario del governo era ed è quello di rimediare alla disastrosa situazione in cui eravamo precipitati, sia di natura economica, sia di credito internazionale. Ma da ciò consegue che, sulle misure più idonee a raggiungere quell’obiettivo, la discrezionalità del governo dev’essere molto ampia. Una buona occasione per esercitare questa discrezionalità e segnalare il proprio orientamento è il ddl sulla corruzione, in discussione alla Camera dopo essere già stato approvato al Senato sotto il precedente governo: avendo alcuni partiti presentato emendamenti che configurano nuove fattispecie di reato, allungano i termini di prescrizione o introducono misure accessorie, il Pdl non soltanto annuncia la sua opposizione, com’è perfettamente legittimo, ma implicitamente consiglia il governo di tenersi fuori da questa materia. Due osservazioni soltanto. La prima è che corruzione e illegalità sono problemi gravissimi per il nostro Paese, dai quali dipendono la sua insoddisfacente crescita economica e il suo scarso credito internazionale. La seconda è che, proprio per questo, il governo Monti non deve manifestare alcuna incertezza in proposito: la lotta sarà lunga, ma bisogna partire con misure incisive e con una road map ben definita.

Nella classifica di Transparency International l’Italia occupa un posto incredibilmente basso. L’indice da 10 (corruzione minima) a 0 (corruzione massima) vede in testa per il 2011 Danimarca e Finlandia con 9,4; vede nella parte alta (tra il 7 e l’8) i grandi Paesi europei; vede in coda la Somalia, con 1. L’Italia, con 3,9 è di poco superiore ai Paesi europei più corrotti, Romania e Grecia, a pari livello del Ghana e inferiore a molti Paesi in via di sviluppo. Sull’affidabilità di questo indice e su molte altre questioni rinvio a Donatella della Porta e Alberto Vannucci, Mani Impunite (Laterza, 2007), il migliore studio d’insieme sulla corruzione in Italia per un lettore non specialista. Tre conclusioni. Si tratta di un fenomeno di antica data, ma che da Mani Pulite in poi, con qualche oscillazione, è sempre stato al centro dell’opinione pubblica. La corruzione, e più in generale l’illegalità, la criminalità e l’inefficienza amministrativa — tutti fenomeni strettamente collegati — sono ostacoli formidabili alla crescita economica e al benessere della popolazione, oltre che una grave lesione della qualità della democrazia e della convivenza civile. Le iniziative di contrasto adottate sono state numerose, ma tutte caratterizzate da scarso successo. Insomma, la corruzione in Italia è massiccia, molto dannosa, di essa sappiamo molto ma non riusciamo a estirparla.

Non è per nulla vero che la corruzione sia un destino inevitabile, inflittoci dalla nostra storia. La lotta alla corruzione conosce successi straordinari: esemplare è quello di Singapore, passato in quarant’anni da uno dei Paesi più corrotti al mondo alla testa dell’indice di Transparency International, a pari merito con le piccole democrazie nordiche europee (e passato, sia detto per inciso, dalla miseria ad un reddito pro capite superiore a 43.000 dollari)

Il confronto con Singapore è per molte ragioni improponibile, prima tra tutte il fatto che Singapore è una democrazia, diciamo così,…fortemente autoritaria. Ma valgono anche per l’Italia alcune considerazioni che da quel confronto si possono trarre. La prima è che il successo arride ai Paesi che hanno fatto della lotta alla corruzione un obiettivo prioritario, condiviso dall’intera élite politica e istituzionale. Tale obiettivo dev’essere sostenuto per un periodo molto lungo: quarant’anni sono pochi da un punto di vista storico, ma moltissimi da un punto di vista politico, in democrazia, dove ogni cinque anni o meno possono cambiare i governi. La lotta alla corruzione deve articolarsi a 360 gradi, sull’intero spazio dei possibili interventi dell’autorità politica e delle istituzioni. I controlli di natura non giudiziaria devono essere coordinati centralmente da un’autorità dotata di ampi mezzi e grandi poteri, responsabile di fronte alle supreme autorità politiche per i risultati che consegue. E poi, quando la magistratura interviene, il governo non deve opporsi alla sua attività di indagine: governo e magistratura devono operare nella stessa direzione, quella di una lotta inflessibile contro la corruzione e l’illegalità.

Il ddl oggi in discussione alla Camera è limitato nei suoi scopi e assai lontano dalla consapevolezza di che cosa sia necessario per impostare un serio contrasto a questa intollerabile «peculiarità» italiana. Per questo è auspicabile non soltanto che il governo respinga come inaccettabili i richiami all’inopportunità o incompetenza a intervenire in materia — ciò che Monti ha già fatto — ma che tragga spunto dalla discussione in Parlamento per indicare i cardini essenziali della road map di lungo periodo che dovrà essere adottata. Il voto quasi unanime di ratifica della Convenzione di Strasburgo sulla corruzione, ieri sera al Senato, pone fine ad un grave ritardo (la Convenzione è del 1999) e fa sperare che ci siano minori resistenze ad un intervento del governo sul ddl in discussione alla Camera.

Michele Salvati

15 marzo 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_15/salvati-legalita-crescita-scelte-urgenti_37912bbc-6e67-11e1-850b-8beb09a51954.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #40 inserito:: Marzo 22, 2012, 03:59:15 pm »


LABURISTI E LIBERALI NEL CENTROSINISTRA

L'agitazione delle anime

Si raccoglie quello che si è seminato.

Per ragioni evidenti - il legame con la Cgil, ma anche convinzioni antiche di una parte della sua dirigenza - sul tema della riforma della legislazione del lavoro il Pd ha lasciato convivere al suo interno posizioni molto diverse, l'anima di Damiano e l'anima di Ichino, per ricordarne gli esponenti più noti. Come l'asino di Buridano, tra queste anime non ha mai deciso e le ha lasciate polemizzare al suo interno. Quando è stato al governo ha sempre evitato di porre il tema sul tappeto nei suoi aspetti più ostici. Quando al governo era Berlusconi, questi si è ben guardato dall'affrontare il problema: in altre faccende affaccendato, egli ha seguito la sua ben nota strategia di galleggiamento e quieto vivere.

Ad affrontare il toro per le corna c'è voluto Monti, e ora il Pd è nei guai.

Questo è un brutto momento per fare «la» riforma della legislazione del lavoro. Ciò che veramente incide sulle condizioni di benessere dei lavoratori - quelli che già sono occupati e quelli che vogliono entrare nel mercato - sono i livelli e la dinamica dell'occupazione, della domanda di lavoro: quando questi sono sostenuti, ci saranno assunzioni massicce, licenziamenti scarsi, e i licenziati in un'azienda troveranno facilmente lavoro in un'altra: l'articolo 18 interessa allora a ben pochi. Le cose stanno in modo diverso quando l'occupazione è scarsa e la domanda di lavoro è fiacca, se non addirittura in regresso. È la situazione attuale e temo che sarà destinata a durare per molto tempo, perché una ripresa economica non è in vista. In questa situazione ciò che influisce sul benessere dei lavoratori sono le garanzie di sostegno del reddito nel caso non si trovasse o si perdesse il lavoro: è questo che interessa, assai più dell'articolo 18.
Qui però ci si scontra con il secondo motivo che rende il momento poco adatto alla riforma: la scarsità di risorse finanziarie disponibili per un ridisegno robusto degli ammortizzatori sociali.

Ma i momenti per riformare spesso non si scelgono, si verificano, e bisogna coglierli al volo. Di una riforma che aggiornasse la nostra obsoleta disciplina avevamo un grande bisogno: non solo perché ce la chiedono l'Europa e i mercati, ma per le iniquità e gli ostacoli allo sviluppo che essa contiene. Il centrodestra e il centrosinistra che abbiamo conosciuto non l'avrebbero mai fatta e, se rimanessero gli stessi, mai la farebbero in futuro: bene hanno dunque fatto Monti e Fornero a proporla. La riforma è solo abbozzata. Alcune misure mi convincono, altre meno. Oltretutto non si tratta di un testo definitivo ed è probabile (anzi, sperabile) che il Parlamento lo discuta a fondo e dunque alcune misure vengano riformulate.

E qui, forse, il Pd può recuperare in extremis quella credibilità che le sue incertezze hanno sinora appannato. Può farlo, però, solo se l'asino di Buridano decide a quale mucchio di fieno rivolgersi, se a quello riformista o a quello della conservazione sindacale: concentrarsi sull'articolo 18 e definire la sua riforma come «pericolosa e confusa», come ha fatto D'Alema, non è un buon segno. Così come non lo è avanzare l'argomento della sacralità della concertazione.

La concertazione all'italiana è stata una fase della nostra storia recente, motivata da circostanze eccezionali e ci voleva un governo frutto anch'esso di circostanze eccezionali per ribadire un principio costituzionale ovvio: che il governo ascolta e discute con i rappresentanti degli interessi - e questo governo ha ascoltato e discusso -, ma poi propone al Parlamento un testo legislativo. E il Parlamento decide.

Michele Salvati

22 marzo 2012 | 8:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_22/agitazione-delle-anime-salvati_132a58a0-73e6-11e1-970a-fabda8494773.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #41 inserito:: Aprile 24, 2012, 05:26:24 pm »

Il voto per le presidenziali francesi e l'italia

Le estreme in Francia si tagliano. Da noi no


Quando un presidente uscente si ripresenta all’appuntamento elettorale successivo, come ieri è capitato a Sarkozy, la sfortuna e le circostanze avverse valgono come il demerito e l’incapacità: in una situazione di crisi economica e disagio sociale gli elettori se la prendono con chi ha avuto in mano le leve del potere. Non stanno a chiedersi se abbia fatto tutto il possibile per contrastare una situazione internazionale difficile e se gli sfidanti avrebbero fatto meglio di lui, ciò che dovrebbe essere il metro di giudizio di un elettore razionale. Non voglio con questo sostenere che Sarkozy sia stato un buon presidente e mi limito solo a notare che, agli occhi di un italiano, i risultati economici francesi durante la sua presidenza —attraversata dalla più profonda crisi del dopoguerra—sono stati migliori dei nostri. Tutto questo per dire che la prima sconfitta di Sarkozy non mi sorprende: quando la situazione economico-sociale è penosa per i cittadini al tempo delle elezioni, vale l’inverso della legge di Andreotti: «Il potere logora... chi ce l’ha avuto». Così come non mi sorprende il successo di partiti estremisti e populisti di destra e di sinistra, soprattutto di quelli di destra.

Come primo commento a queste importanti elezioni vorrei limitarmi a due osservazioni: una riguarda il sistema elettorale francese in un confronto con quello italiano, la seconda le ripercussioni di una eventuale vittoria finale di Hollande o Sarkozy per il nostro Paese. In Francia, sia per le elezioni presidenziali, sia per i candidati nelle elezioni legislative — che avranno luogo subito dopo la proclamazione del Presidente —vale un sistema a doppio turno: se non si raggiunge la maggioranza assoluta, i due candidati più votati vanno al ballottaggio due settimane dopo, come i nostri sindaci.

Con risultati non ancora completi per il primo, inutile speculare sul secondo turno e quindi su chi sarà il vincitore di questa sfida all’ultimo voto: tutto dipenderà da come si comporteranno coloro che hanno votato per i candidati sconfitti, soprattutto i sostenitori di Marine Le Pen, e dalle dimensioni e dalla distribuzione dell’astensionismo. L’osservazione e il confronto con l’Italia riguardano sia il sistema elettorale sia la diversa natura dei partiti francesi e italiani. In Francia, i grandi partiti di destra o sinistra non sono estremisti o populisti: concessioni in questa direzione vengono fatte, ma l’estremismo e il populismo sono caratteri di partiti che al ballottaggio delle presidenziali non possono vincere, e solo una volta uno di loro ci è arrivato; lo stesso avviene nella maggioranza dei collegi elettorali e il Presidente dunque è in grado di costruire un governo omogeneo. Da noi, con entrambi i sistemi elettorali che abbiamo sperimentato nella Seconda Repubblica, la necessità di costruire le alleanze più grandi possibili ha condotto a inserire estremisti e populisti nelle coalizioni che sostengono il governo, e lo stesso partito leader del centrodestra aveva tratti populistici assai più forti di quelli francesi, con le conseguenze di ingovernabilità che abbiamo di recente sperimentato.

La seconda osservazione è più importante: quali le conseguenze sul nostro Paese della vittoria dell’uno o dell’altro candidato? Per chi è soprattutto preoccupato delle condizioni soffocanti cui è costretta la nostra economia, del fatto che il rigore si pone oggi in contrasto con la crescita invece di aiutarla, una vittoria di Hollande sarebbe una buona notizia. È vero, potrebbero esserci turbamenti sui mercati, ma la cancelliera tedesca si renderebbe conto, di fronte a un deciso mutamento di politica del suo principale alleato, che concessioni fiscali e monetarie assai più forti sono indispensabili per stimolare la crescita dell’Europa e salvare il suo sistema monetario.

Michele Salvati

23 aprile 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_23/salvati-le-estreme-li-si-tagliano-da-noi_bd061cb2-8d02-11e1-a0b5-72b55d759241.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #42 inserito:: Maggio 03, 2013, 05:56:00 pm »

DUE CONDIZIONI PER LE LARGHE INTESE

Il linguaggio della verità


Affinché l'esperimento Napolitano-Letta abbia successo, da subito devono essere raggiunte, e mantenute in seguito, due condizioni. Un atteggiamento realistico e responsabile verso la crisi economica, condiviso dai partiti che all'esperimento partecipano e continuamente ribadito nei confronti dei cittadini. Una attenuazione marcata dello scontro tra le due principali forze politiche della nostra Repubblica, una «messa tra parentesi» delle ragioni anomale che l'hanno alimentato fino ad oggi. Condizioni entrambe difficili da raggiungere e mantenere.

La prima discende da un'analisi corretta della crisi in cui versiamo. Non entro nel dettaglio delle misure che dovranno essere prese per reagire, sulle quali già si comincia a litigare, e mi limito alle loro premesse: non si uscirà dalla crisi, non si riprenderà a crescere, se non ci si convince che la causa di fondo sta in un grande ritardo di innovazione, efficienza, produttività in gran parte dei segmenti pubblici e privati del nostro sistema produttivo. Ritardi accumulati in un lungo periodo di riforme mancate e non avvertiti a seguito dell'effetto anestetizzante dell'indebitamento e, prima ancora, della svalutazione del cambio. Indebitarsi e svalutare non è più possibile, e oggi possiamo distribuire per consumi e investimenti solo quanto riusciamo a produrre e vendere. È per questo che diventare più efficienti e competitivi è un imperativo categorico se vogliamo mantenere i livelli di benessere cui ci siamo assuefatti. Già li abbiamo intaccati e «il linguaggio sovversivo della verità» - quello che Napolitano ha raccomandato a Letta - impone che si dica ai cittadini che questi livelli potranno ridursi ancora, che ci aspettano anni di vacche magre durante i quali solo due obiettivi andranno perseguiti con ossessione: 1) il miglioramento della produttività e dell'efficienza in tutti i principali comparti del sistema; 2) in nome dell'equità, una ricalibratura del welfare indirizzata a lenire le aree di povertà che già si sono aperte e si allargheranno.

Letta non ha seguito fino in fondo la raccomandazione «sovversiva» di Napolitano, come neppure l'aveva seguita il precedente governo tecnico, quando suggeriva che rigore, crescita ed equità potessero essere tenuti insieme, e in tempi brevi. Non è così, non si rimedia facilmente a lunghi decenni di mancate riforme, e va tolta l'illusione che l'Europa possa svolgere un compito che è solo nostro: se va bene, può attenuare un poco l'austerità - e sarebbe già una forte manifestazione di fiducia verso i Paesi più deboli e verso il futuro dell'Unione se lo facesse - ma il compito di diventare più efficienti e competitivi dobbiamo addossarcelo noi. Il linguaggio «sovversivo» della verità non è facile per un politico, cui vengono più spontanee promesse miracolistiche al fine di acquistare consenso. Fare accettare «sudore, lacrime e sangue» riuscì a Churchill di fronte alla minaccia nazista: sembra impossibile possa riuscire a politici screditati e rissosi. Ma se la rissa si attenua, se c'è una comune assunzione di responsabilità nazionale, se la Grande Coalizione è intesa non come intollerabile rinuncia delle proprie identità di parte, ma come occasione eccezionale di servizio al Paese, se è accompagnata da una forte riduzione dei costi della politica e da una spietata lotta alla corruzione, forse anche i cittadini possono convincersi che i loro sacrifici non saranno sprecati.

Il secondo obiettivo di un governo politico di grande coalizione - attenuare l'esasperazione del conflitto tra il centrodestra «berlusconiano» e il centrosinistra «comunista» è importante di per se stesso ma è soprattutto essenziale al raggiungimento del primo, di un'analisi seria della crisi e di un progetto di riforme ad essa conseguente. Centrosinistra e centrodestra possono benissimo, quando è necessario, fare accordi comuni di governo: avviene ovunque. Ma quando all'inevitabile tensione tra questi due diversi indirizzi politici si aggiunge il conflitto non negoziabile tra berlusconiani e antiberlusconiani - conflitto solo italiano - ogni mediazione diventa impossibile, e questo il nostro Paese non può permetterselo oggi. Non si chiede a nessuna delle due parti di rinunciare alle proprie idee e ai propri giudizi, ma di ridurne le conseguenze politiche per un periodo limitato. Non un impossibile pacto de olvido - un accordo di dimenticanza e reciproca smobilitazione - ma una provvisoria e parziale messa tra parentesi del conflitto alla luce di un interesse superiore: ci sono riusciti grandi Paesi per conflitti normativi ben più drammatici - implicitamente ho menzionato la Spagna - e sarebbe incomprensibile se non ci riuscisse l'Italia.

Se e quando il M5S o Sel presenteranno in Parlamento una dura legge sul conflitto di interessi o se e quando Berlusconi sarà raggiunto da una condanna in uno dei tanti giudizi che ha in corso - entrambi eventi possibili, forse imminenti - vedremo come si comporteranno Pd e Pdl e se il mio auspicio in merito alla saggezza di questi partiti verrà confermato dai fatti.

Michele Salvati

3 maggio 2013 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_03/linguaggio-verita_08730384-b3ab-11e2-a510-97735eec3d7c.shtml
« Ultima modifica: Maggio 18, 2013, 04:40:10 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #43 inserito:: Maggio 08, 2013, 05:28:53 pm »

DUE CONDIZIONI PER LE LARGHE INTESE

Il linguaggio della verità

Affinché l'esperimento Napolitano-Letta abbia successo, da subito devono essere raggiunte, e mantenute in seguito, due condizioni. Un atteggiamento realistico e responsabile verso la crisi economica, condiviso dai partiti che all'esperimento partecipano e continuamente ribadito nei confronti dei cittadini. Una attenuazione marcata dello scontro tra le due principali forze politiche della nostra Repubblica, una «messa tra parentesi» delle ragioni anomale che l'hanno alimentato fino ad oggi. Condizioni entrambe difficili da raggiungere e mantenere.

La prima discende da un'analisi corretta della crisi in cui versiamo. Non entro nel dettaglio delle misure che dovranno essere prese per reagire, sulle quali già si comincia a litigare, e mi limito alle loro premesse: non si uscirà dalla crisi, non si riprenderà a crescere, se non ci si convince che la causa di fondo sta in un grande ritardo di innovazione, efficienza, produttività in gran parte dei segmenti pubblici e privati del nostro sistema produttivo. Ritardi accumulati in un lungo periodo di riforme mancate e non avvertiti a seguito dell'effetto anestetizzante dell'indebitamento e, prima ancora, della svalutazione del cambio. Indebitarsi e svalutare non è più possibile, e oggi possiamo distribuire per consumi e investimenti solo quanto riusciamo a produrre e vendere. È per questo che diventare più efficienti e competitivi è un imperativo categorico se vogliamo mantenere i livelli di benessere cui ci siamo assuefatti. Già li abbiamo intaccati e «il linguaggio sovversivo della verità» - quello che Napolitano ha raccomandato a Letta - impone che si dica ai cittadini che questi livelli potranno ridursi ancora, che ci aspettano anni di vacche magre durante i quali solo due obiettivi andranno perseguiti con ossessione: 1) il miglioramento della produttività e dell'efficienza in tutti i principali comparti del sistema; 2) in nome dell'equità, una ricalibratura del welfare indirizzata a lenire le aree di povertà che già si sono aperte e si allargheranno.

Letta non ha seguito fino in fondo la raccomandazione «sovversiva» di Napolitano, come neppure l'aveva seguita il precedente governo tecnico, quando suggeriva che rigore, crescita ed equità potessero essere tenuti insieme, e in tempi brevi. Non è così, non si rimedia facilmente a lunghi decenni di mancate riforme, e va tolta l'illusione che l'Europa possa svolgere un compito che è solo nostro: se va bene, può attenuare un poco l'austerità - e sarebbe già una forte manifestazione di fiducia verso i Paesi più deboli e verso il futuro dell'Unione se lo facesse - ma il compito di diventare più efficienti e competitivi dobbiamo addossarcelo noi. Il linguaggio «sovversivo» della verità non è facile per un politico, cui vengono più spontanee promesse miracolistiche al fine di acquistare consenso. Fare accettare «sudore, lacrime e sangue» riuscì a Churchill di fronte alla minaccia nazista: sembra impossibile possa riuscire a politici screditati e rissosi. Ma se la rissa si attenua, se c'è una comune assunzione di responsabilità nazionale, se la Grande Coalizione è intesa non come intollerabile rinuncia delle proprie identità di parte, ma come occasione eccezionale di servizio al Paese, se è accompagnata da una forte riduzione dei costi della politica e da una spietata lotta alla corruzione, forse anche i cittadini possono convincersi che i loro sacrifici non saranno sprecati.

Il secondo obiettivo di un governo politico di grande coalizione - attenuare l'esasperazione del conflitto tra il centrodestra «berlusconiano» e il centrosinistra «comunista» è importante di per se stesso ma è soprattutto essenziale al raggiungimento del primo, di un'analisi seria della crisi e di un progetto di riforme ad essa conseguente. Centrosinistra e centrodestra possono benissimo, quando è necessario, fare accordi comuni di governo: avviene ovunque. Ma quando all'inevitabile tensione tra questi due diversi indirizzi politici si aggiunge il conflitto non negoziabile tra berlusconiani e antiberlusconiani - conflitto solo italiano - ogni mediazione diventa impossibile, e questo il nostro Paese non può permetterselo oggi. Non si chiede a nessuna delle due parti di rinunciare alle proprie idee e ai propri giudizi, ma di ridurne le conseguenze politiche per un periodo limitato. Non un impossibile pacto de olvido - un accordo di dimenticanza e reciproca smobilitazione - ma una provvisoria e parziale messa tra parentesi del conflitto alla luce di un interesse superiore: ci sono riusciti grandi Paesi per conflitti normativi ben più drammatici - implicitamente ho menzionato la Spagna - e sarebbe incomprensibile se non ci riuscisse l'Italia.

Se e quando il M5S o Sel presenteranno in Parlamento una dura legge sul conflitto di interessi o se e quando Berlusconi sarà raggiunto da una condanna in uno dei tanti giudizi che ha in corso - entrambi eventi possibili, forse imminenti - vedremo come si comporteranno Pd e Pdl e se il mio auspicio in merito alla saggezza di questi partiti verrà confermato dai fatti.

Michele Salvati

3 maggio 2013 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_03/linguaggio-verita_08730384-b3ab-11e2-a510-97735eec3d7c.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #44 inserito:: Maggio 18, 2013, 04:40:41 pm »

LA CRISI ODIERNA E QUELLA DI VENTI ANNI FA

L'emergenza dimenticata


Vent'anni dopo: così Alexandre Dumas intitolò la continuazione del suo romanzo più famoso, I tre moschettieri . Vent'anni sono passati dalla crisi che distrusse la Prima Repubblica e ora ne stiamo attraversando un'altra che minaccia (o promette?) di distruggere la Seconda. Le somiglianze sono notevoli - almeno altrettanto forti che tra i due romanzi di Dumas - (e Claudio Petruccioli le passa rapidamente in rassegna sull'ultimo numero di QdR Magazine). Anche nella prima crisi si era in presenza di un ingorgo istituzionale, la fine simultanea della legislatura e del settennato presidenziale. Anche allora i due leader che puntavano alla presidenza del Consiglio dovettero lasciare il posto ai loro vice: Craxi ad Amato ieri, Bersani a Letta oggi.

Anche nei primi anni Novanta le ragioni della crisi si presentarono come una insubordinazione sociale che travolse gli equilibri elettorali esistenti, allora Tangentopoli, oggi un discredito dei partiti che ha causato la perdita di 10 milioni di voti ai due poli del bipolarismo. E soprattutto, allora come oggi, la gestione della crisi è passata nelle mani del presidente della Repubblica, di Scalfaro negli anni Novanta e di Napolitano oggi.
Potrebbe però manifestarsi presto una differenza. Nel giro di pochi mesi i due grandi partiti di governo della Prima Repubblica capirono di essere spacciati: condizionare il governo secondo i vecchi metodi era un lusso che non si potevano più permettere. Insieme all'emergenza economica, da tutti percepita, fu questa circostanza che concesse ad Amato e più tardi a Ciampi la libertà di manovra di cui godettero. Oggi non sembra proprio che i due principali partiti della Grande Coalizione vogliano abbandonare un minuzioso controllo sul governo.

E la percezione dell'emergenza non è diffusa: le grandezze fiscali e finanziarie sembrano essere sotto controllo dopo la cura Monti e un attacco violento da parte dei mercati non è in vista. Di qui la scarsa volontà di arrivare a mediazioni rapide e severe sui tanti temi di riforma che il governo ha in agenda, il continuo sventolare di bandierine identitarie ed elettoralistiche da parte dei due (ex) poli. A questo si aggiunga che l'eventuale sfidante, il Movimento 5 Stelle, non sembra per ora in grado di presentare una piattaforma di governo minimamente credibile - anche questa una evidente differenza con gli anni Novanta - e, seppure ampiamente rappresentato in Parlamento, sembra tuttora legato ad una logica di movimento di protesta, autoescludendosi da alleanze e coalizioni.

Fino a quanto durerà questa situazione? I due grandi azionisti del governo si rifiutano di capire - Scelta civica l'ha capito - che la situazione economica e sociale è ancor più grave di quella dei primi anni Novanta, perché le riforme sono state differite per troppo tempo, il Paese è più povero e i condizionamenti internazionali più forti. Dubito che lo capiranno solo per lo stimolo nobile dell'interesse nazionale e Letta dovrebbe sempre ricordare loro la sua intenzione di non farsi logorare, dichiarata con chiarezza nel discorso di accettazione dell'incarico. Deve trasformare questa intenzione dichiarata in una minaccia credibile. Dunque definire scadenze per le principali riforme in agenda, sia quelle economiche sia quelle istituzionali: prendere decisioni e imporre che siano trasformate rapidamente in atti di governo. Se non è in grado di farlo, se il Consiglio dei ministri e i partiti non lo seguono, recarsi al Quirinale e rassegnare l'incarico.

Il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica, agendo in tandem e con decisione, dispongono di un'arma potente per costringere i due ex poli riottosi a comportarsi come richiede l'interesse nazionale: una minaccia credibile di dimissioni. Per il presidente del Consiglio ho appena detto. Ma ancor più potente è la minaccia di dimissioni del presidente della Repubblica, anch'essa adombrata nel discorso di fronte alle Camere riunite.

Le dimissioni del presidente della Repubblica riaprirebbero i giochi e Berlusconi - cui molte cose possono essere rimproverate, ma non la mancanza di intelligenza politica - capirebbe subito che le cose possono andare assai diversamente da come sono andate la volta scorsa.

MICHELE SALVATI

16 maggio 2013 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_16/emergenza-dimenticata-salvati_e7c130fe-bde9-11e2-9b45-0f0bf9d2f77b.shtml
Registrato
Pagine: 1 2 [3] 4
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!