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Autore Discussione: La Cultura ha bisogno di menti sane, ben-disposte verso il sociale, deve esser..  (Letto 4152 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Aprile 02, 2018, 02:02:58 pm »

La Cultura ha bisogno di menti sane, ben-disposte verso il sociale, deve esser capace di rafforzarsi unendosi a schiera, senza schierarsi.

Deve essere capace di comunicare nei luoghi e nelle occasioni più diversi.

Deve misurare la pienezza dei propri saperi con la capacità d'essere semplice, quasi umile, come lo furono e lo sono, i veri Grandi uomini di cultura.

Deve essere elitaria tra le elite e allo stesso tempo e modo, contadina tra i contadini e operaia tra gli operai, concittadina tra i Cittadini, per poter imparare da ognuno di loro.

ggiannig
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 27, 2018, 12:20:51 pm »

Commenti su FB

Dalle parole usate e dai contenuti di certi "commenti" si possono intuire i pensieri e la convinzioni politiche di chi li scrive.

Penso si potrebbe costruire una buona comunicazione e un ottimo scambio di pareri, se si rivelasse il partito (o non partito) in cui ci si sente maggiormente coinvolti.

Potremmo godere tutti del confronto nei contenuti evitando "sparate" di epiteti e sentenze improduttive e spesso false o sbagliate.

ciaooo
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 13, 2018, 05:42:19 pm »

La filosofia intesa come amore per la conoscenza ci insegna che la Storia è patrimonio di tutta l’umanità e ci aiuta a capire che la vita individuale e collettiva trascorre attraverso il tempo. Questo significa amare la conoscenza che essa racchiude, conoscere i fenomeni che si sviluppano attraverso il tempo, in sintesi voler sapere cosa è successo all’umanità attraverso il tempo.

Possiamo per questo definire la Storia come memoria dell’umanità e per lo stesso motivo gli antichi romani la definivano Maestra di Vita, una serie di scenari differenti di cui spesso ci sfuggono le finalità, che però capiamo quando le azioni si compiono e danno vita a degli effetti. Il contatto con il tempo e con la storia fanno emergere la coscienza. La storia ci parla di guerre, di amore, odio, infermità, crimini, di nascita, crescita, morte di civiltà di popoli.

L’incontro con la storia ci trasforma perché ci permette di entrare in relazione con il passato per capire da dove veniamo, con il presente per capire chi siamo e qual è il nostro ruolo nella vita, nella società, con il futuro per capire cosa dovremo fare.

La storia ci permette di capire che l’uomo di oggi non è un essere separato dall’uomo di ieri o di domani, perché il presente è il risultato del passato e il futuro del presente. Tutto questo è molto naturale perché si riferisce a una delle tante leggi della Natura, la legge di causa ed effetto o se si preferisce di azione e reazione. Esiste un detto popolare che dice chi semina raccoglie, questo significa che ciò che ognuno di noi semina raccoglie e se abbiamo seminato grano raccoglieremo grano e non mais e da questo verrà fuori un tipo di farina e non un’altra.

La storia quindi è come un filo invisibile ad occhio nudo che unisce l’umanità e aiuta l’uomo ad evolversi ad ampliare la propria coscienza. Chi infatti studia la storia, o l’attento osservatore, sa riconoscere le cause e gli effetti. Non distribuisce colpe o meriti ma ciò che cerca di fare è tirar fuori qualcosa di valido dall’esperienza vissuta anche se non in modo diretto ma raccogliendone gli effetti.

E’ naturale fare degli errori quando si fa storia, cioè quando si agisce, ma ciò che è importante non è recriminare, rinnegare ma correggere, recuperare, rinnovare ogni esperienza storica.

Come dicevamo prima l’uomo tende a rinnegare il passato, a dimenticarlo, ad ignorarlo. Un esempio di ciò è la distruzione di statue, opere artistiche e letterarie, per annullare una parte della storia che ci appartiene, anche se il suo ricordo in alcuni casi causa dolore.

Il saggio orientale Buddha affermava che il dolore è veicolo di coscienza. E' il dolore che ci fa porre domande. Se mi pongo una domanda devo cercare una risposta, capire la causa di questo dolore e superarla.

Con la caduta dei regimi per esempio le statue che rappresentavano i dittatori vennero abbattute come a voler cancellare quel periodo storico. Non è cancellando che si fa storia, né recriminando, ma ricordando, migliorando, affermando ciò che di valido c’è stato, impegnandosi a non ripetere lo stesso errore.

Se il passato è la memoria dell’umanità, il futuro è il risultato dell’esperienza assimilata.  Quando condanniamo le guerre e i crimini del passato e continuiamo con le guerre e i crimini, cadiamo in contraddizione. Manca la coscienza storica, manca l’esperienza assimilata.

Nuova Acropoli si definisce una Scuola di Filosofia alla maniera classica che è differente da una scuola di filosofia classica.

Infatti ciò che Nuova Acropoli promuove e vive sono i valori del mondo classico e non il mondo classico. Per valori del mondo classico intendiamo quei valori che appartengono all’uomo di ogni tempo e luogo, come per esempio la dignità, la generosità, la tolleranza, l’eroicità intesa come capacità di non lasciarsi sopraffare dalle situazioni, ma di saper reagire con intelligenza e non con aggressività né con indifferenza.

Altro valore che incontriamo è l’azione, quella che mette in movimento la storia, attraverso un sano protagonismo.

Nuova Acropoli propone un volontariato operativo e culturale, con la finalità di essere utili dove necessita, ampliando la propria coscienza e non dando spazio alle lamentele e alle critiche. Propone un'azione costruttiva che insegni ad avere chiarezza del proprio essere volitivo e costruttivo, per essere migliore non a parole ma attraverso l’esempio del saper fare e del saper volere.

Questo è ciò che ci racconta la storia come memoria dell’umanità, ricordandoci che abbiamo il dovere morale di trasformarci in agenti della storia per un cammino di evoluzione individuale e sociale.

Un grande oratore romano di nome Cicerone diceva che tutti gli uomini, anche se differenti tra loro, hanno un destino comune: quello di evolversi e migliorarsi. Ecco perché la storia è Maestra di Vita, perché ci educa con il tesoro dell’esperienza. In noi sta la capacità di assimilarla per trasformarla in uno strumento valido.

Quando vengono riportati alla luce dei pezzi archeologici gioiamo, quindi, non solo per il fatto che sono dei pezzi di valore sicuramente molto belli, ma soprattutto perché sono di aiuto ai nostri studiosi per ricostruire la storia. Contribuiscono così a far luce su molti punti oscuri o male interpretati per mancanza di fonti, aggiungendo un tassello in più alla storia della nostra umanità dandole una unità ed una direzione, senza separazioni tra popoli, ma seguendo il suo ciclo che costantemente si rinnova e apporta rinnovamento e chiarezza su ciò che l’uomo deve costruire.

L’uomo che fa storia è un uomo generoso, si mette al servizio dei suoi simili, e ciò che lo differenzia dal vivere in maniera anonima è il fatto che ha la consapevolezza di partecipare alla comunità, e che il suo intervento può contribuire al miglioramento della società, per i giovani e le generazioni future. Infatti l’uomo che consapevolmente fa storia sviluppa una capacità di previsione per il futuro, non restringe la visione del futuro alla sua propria vita, ma considera anche quella di chi lo circonda. Questo per esempio è quanto mi sono sempre chiesta: perché le opere che costruirono 2000 anni fa ci sono ancora e grazie all’archeologia le abbiamo recuperate, e per le nostre si prevede che non dureranno più di 200 o 300 anni. Stiamo agendo con previsione del futuro?

Dobbiamo essere intelligenti, generosi, tolleranti, attivi per fare storia, per tracciare un sentiero di crescita di tutta l’umanità.

Da - http://www.nuovaacropoli-cultura.it/i-grandi-eventi/le-origini-roma-prima-giornata/la-storia-come-magistra-vitae-giulia-cardinale-direttrice-di-nuova-acropoli-roma/
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 13, 2018, 05:48:55 pm »

La Storia è una maestra di vita

Christian Stocchi

Ha recentemente spiegato Umberto Eco che se Bush avesse letto dei buoni storici (e certamente non mancano nelle università americane) avrebbe capito perché, nell’Ottocento, inglesi e russi non erano riusciti a controllare e dominare l’Afghanistan. E non avrebbe commesso fatali errori, decretando operazioni militari senza prospettiva ed evitando inutili morti.

“La storia – ha spiegato Luciano Canfora - fa paura ai conservatori perché dà strumenti per criticare il presente”. Insomma, come diceva Cicerone, la storia può rivelarsi una preziosa maestra di vita. Ma, al netto di tirate retoriche trite e abusate, che qui non interessano, c’è di più, molto di più. Perché la storia può essere persino un’ottima medicina. E la <storioterapia>, come suggeriscono Lia Celi e Andrea Santangelo, in un bel saggio pubblicato da Utet <Mai stati meglio>, permette di guarire tutte le patologie, anche quelle più complesse.

Ma che cos’è, nello specifico, questa speciale cura? Una <terapia realizzata mediante la somministrazione mirata di nozioni ed esempi tratti dalla Storia, a fini preventivi e riabilitativi>. Capace, non di rado, di fare miracoli.

Prendete, tanto per restare in tema, la salute. Dal Trecento all’Ottocento, le malattie epidemiche costituirono il maggiore calmiere demografico: oggi in Occidente è invece il benessere egoistico. E di virale è rimasto solo il marketing. Se si passa dalle epidemie alla traumatologia, pare che un terzo delle fratture e dei traumi oggi dipenda da torture che c’infliggiamo: in particolare, le donne sanno essere piuttosto masochiste e i tacchi dodici (ma anche gli uomini, con il calcetto, non scherzano) garantiscono qualche inconveniente. Ma le “auto torture” di oggi non hanno nulla a che vedere con le torture dell’antichità (basta rileggere gli articoli pubblicati in questa rubrica). Ma <se c’è una prova evidente – spiegano Celi e Santangelo – del fatto che non siamo mai stati meglio, quanto ad abbondanza di cibo, diminuzione della fatica fisica e allungamento della vita media, è che oggi la prima causa di morte è l’infarto, un lusso che prima del 1900 pochissimi potevano permettersi: le patologie cardiovascolari sono in buona sostanza malattie del benessere>. Così come – verrebbe da aggiungere – l’obesità, che certo, pur essendo insidiosa sul piano della salute, è preferibile rispetto alla denutrizione spesso patita dai nostri antenati: in un caso, infatti, si tratta di una opzione più o meno volontaria, nell’altro di un destino ingrato a cui era difficile sfuggire.

Ma, se si cambia ambito, e si pensa che il 54 per cento di pressione fiscale non abbia eguali nella storia dell’universo, occorre ricordare che un tempo c’erano tasse, eccome! Sant’Antonio Abate fuggì nel deserto, donando ai poveri il suo patrimonio e allo stesso tempo volendo sfuggire agli infallibili esattori delle tasse. La Rivoluzione americana scoppiò a partire dalla prepotenza fiscale della madrepatria inglese. Nel III secolo i piccoli proprietari terrieri dovevano spesso vendere i loro campi per pagare le tasse al prepotente fisco della Roma imperiale.

Ma, senza andare troppo lontano nel tempo, Oscar Giannino spiegava, nei giorni scorsi su Radio24, le difficili condizioni di vita che affrontò durante l’infanzia in quartiere operaio di una grande città del nord. <Oggi – osservava – nessuno accetterebbe una simile situazione, che a noi allora pareva normale>. Ecco dunque una nuova pillola per guarire dal pessimismo della grande crisi: soltanto cinquant’anni fa, non nel Medioevo, nessuno si lamentava. Eppure si stava molto peggio di oggi. Insomma, per fare un po’ di filosofia spicciola, chi s’accontenta…

13-08-2015 | 01:58
© Riproduzione riservata

Da - http://www.ifioridelmale.it/articoli/la-storia-%C3%A8-una-maestra-di-vita#_=_
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 14, 2018, 11:51:42 am »

GIUSEPPE PANISSIDI

 Signori, la politica è servita

Il negoziato tra i due gestanti, Matteo e Luigi, sembra proseguire con buoni, o non cattivi, auspici. Finalmente. Il populismo concorde e salvifico ha digrignato i denti, mostrando di aborrire non solo le soluzioni, ma persino il termine “tecnico”, non in generale, evidentemente, ma se associato al lemma del cuore: governo. Un caso intrigante di furia iconoclasta: l’antipolitica si converte alla politica. Una politica ‘altra’, indubbiamente.

Dopo l’esperimento Monti, a torto o a ragione, la categoria “tecnica” non gode di buona stampa. “Politique d’abord”, dunque, l’invocazione di Charles Maurras, ora è poco più di un secolo. La politica “prima di tutto”, secondo il più fresco intercalare di Luigi Di Maio. E tutto, infatti, è politica, segnatamente dopo il ’68. Al pari della fede, la volontà politica sposta le montagne, parola di un altro Matteo, crea risorse, lavoro, stipendi, pensioni, redditi vari. E chissà che non finisca per vanificare anche il reddito di cittadinanza.

Al risveglio, l’amara scoperta. Il mondo dipende dalla tecnica, “destino della necessità”, in metafora speculativa, manifestazione specificamente umana, troppo umana, delle forme plurali della ragione, mai rassegnata a vivere supina di fronte alla fatalità. Vade retro.

In effetti, a seguito di chiare vittorie elettorali, appare illogico rassegnarsi a governi “di servizio” o “neutrali”. Anche perché non esistono governi neutrali. A qualsiasi compagine di un esecutivo, infatti, incombe il potere-dovere di compiere scelte, secondo precise e spesso obbligate scale di priorità e di valori. È la logica della politica.

Ebbene, proviamo a guardarla meglio, questa logica, dall’interno e rispetto alle dinamiche della prassi, vedi caso in relazione al patto di governo in itinere tra i pentastellati e la Lega.  Ovvero, non tra due vincitori, come si azzarda, bensì tra un vincitore e la metà dell’altro, visto che l’uomo di Arcore e la ferrea Meloni significativamente danno forfait, mani libere e… tese.

Un “governo politico” urgeva con una certa urgenza, caro maestro Totò. Non siamo la Spagna, dove, nel 2015, nonostante la crisi di governo durata 10 mesi, il Pil ha visto un rialzo del 3,2%). E neppure il Belgio, con i suoi 544 giorni di crisi, nel 2010, e il Pil in alto del 2%. O l’Olanda, dopo le elezioni del 2017, con uno stallo di 208 giorni, e picco di crescita negli ultimi dieci anni del 3,3%. Oppure, infine, la Germania, quasi 6 mesi di crisi, fra il 2017 e il 2018, e l’economia che continuava a filare come un treno.

Noi siamo il Bel Paese. Dove, se anche in nome dell’emergenza, sarebbe comunque uno scandalo che un esecutivo giurasse nelle mani del capo dello Stato, pur sapendo di non ottenere la fiducia. Anzi, a giudizio di una legione di intellettuali e analisti delle più disparate parrocchie, la “crisi del sistema” si aggraverebbe irreparabilmente, avvitandosi su sé stessa, a causa della sfiducia che indirettamente ricadrebbe anche sull’istituzione repubblicana più alta, sulla stessa persona del capo dello Stato. Un evento unico nella storia della democrazia repubblicana.

Nulla di più falso.  Se è vero, com’è vero, che ciò si è già verificato ben cinque volte: nel 1953, nel 1954, nel 1972, nel 1979, nel 1987. Per brevità, limitiamoci a considerare i due casi più significativi, cioè il primo e l’ultimo.

Nel mese di luglio del 1953, la Camera respingeva l’ordine del giorno Moro sulla fiducia all’ottavo governo di Alcide De Gasperi, nominato da Luigi Einaudi. Immediate le dimissioni di De Gasperi, senza nemmeno l’ombra di un vulnus al presidente Einaudi.

L’ultimo, e più recente, il terzo e ultimo della  IX legislatura, il sesto governo Fanfani, nel mese di aprile del 1987, appare ancora più significativo. Al monocolore DC, integrato con esponenti tecnici, la Camera negò la fiducia, a causa della surreale astensione democristiana, mediante un voto quasi surreale, rispetto al proprio esecutivo medesimo, e nonostante la fiducia votata da socialisti, socialdemocratici e radicali, esclusi da quel governo. Dimissioni di Fanfani e scioglimento anticipato delle Camere da parte di Francesco Cossiga, rimasto incolume.

Se non che, l’esame delle performance logico-storiche non può fermarsi qui.

Il movimento di Luigi Di Maio, dopo il voto in fibrillazione esacerbata, ha intonato il requiem alla vecchia, malandata e sconfitta “Repubblica dei partiti”, inneggiando alla nuova “Repubblica dei cittadini”. Una sommessa domanda sembra d’obbligo. La nuova Repubblica dei cittadini si identifica nello spazio privilegiato anche della lealtà e della coerenza? Se stiamo ancora incrociando nelle pur inospitali acque della logica, è giocoforza rammentare che uno dei punti più alti e qualificanti del programma politico pentastellato, sbandierato con orgoglio, lungamente e a ogni piè sospinto, sembrava riferirsi all’urgente necessità di contrastare la piaga delle crescenti diseguaglianze sociali. La soluzione prospettata prevedeva politiche finalizzate alla “redistribuzione del reddito verso il basso”. Ora, è del tutto evidente che la “flat tax”, propugnata e ribadita dalle destre, ove mai attuata – pur tacendo della neutralizzazione dei benefici per i redditi medio-bassi, in costanza del connesso e previsto aumento di numerosi altri balzelli - non potrebbe che implicare, sì, una forte redistribuzione del reddito, però verso l’alto! Ne discende che, sul piano del più elementare canone logico, etica/politica a parte, emerge l’idea, vagamente schizoide, di una Repubblica dei cittadini ancora più disuguali, irrazionalmente condivisa dal movimento dei cinque astri nascenti, in clima con l’esecrata Europa delle vertiginose disuguaglianze, singolarmente lievitate negli ultimi trent’anni – curiosa coincidenza – dopo la fine del campo socialista.

Una riflessione analoga merita la vexata quaestio del “conflitto d’interessi”. Il leader a cinque stelle si rifiuta di rispondere alla specifica domanda, ma pare che esso esuli dall’accordo di maggioranza, asseritamente ‘politico’. Ora, prescindiamo, per un momento, dalle deplorazioni del Parlamento Europeo, quando, con la risoluzione del 20 novembre 2002, registrava che l’Italia non ha ancora “adottato una normativa sul conflitto d'interessi”, a differenza di tutti gli ordinamenti giuridici democratici, i quali, proprio perché garantisti, dispongono di specifiche normative, in particolare nel caso di incarichi con rilevanza pubblica. Sorvoliamo, perché note, sulle accese intemerate di Beppe Grillo sul conflitto d’interessi, nonché sulla necessità di ridurre i privilegi, a cominciare dai suoi eletti alla Regione Sicilia, a quelli che sarebbero stati eletti al Parlamento nazionale e nei vari parlamenti regionali, oltre che sulla rinuncia ai rimborsi elettorali per milioni di euro, non gestiti dal capo del movimento, ma da soggetti esterni alla segreteria, in maniera trasparente, come usa in tutte le democrazie degne di questo nome.

Per soffermarci, invece, sulla natura e le implicazioni del conflitto di interessi, ritenuto dalla specifica letteratura politico-giuridica come una questione centrale della democrazia, di ogni democrazia, la principale questione etico-politica, concernente una micidiale fonte di corruzione e criminalità e, altresì, di una gestione dissennata delle risorse pubbliche. In aperta violazione dell'art. 97 della Costituzione, che impone alla pubblica amministrazione di agire rispettando i principi del buon andamento e della imparzialità.

In breve, dal patto giallo-verde risulterebbe escluso, ove mai confermato, non già un fenomeno politico-giuridico-sociale secondario e trascurabile, ma bensì una cruciale ipotesi di intervento e regolazione del principale strumento di corruzione diffuso in Italia. “Un cancro, secondo Ferdinando Imposimato, che affligge la politica del Governo e le nostre istituzioni da decenni. E che si aggrava nonostante le denunzie e le accuse che fioccano per gli scandali ricorrenti, e che interessano varie categorie di persone: governanti, amministratori, governatori, banchieri, imprenditori, consulenti, magistrati, soggetti nei quali spesso si uniscono le funzioni di controllori e controllati. Con il permesso o nell'assenza della legge”.

Questo l'anello debole della tangentopoli che ci sovrasta, la sua mancata disciplina come delitto autonomo, dopo la depenalizzazione “dell’interesse privato in atti di ufficio”, avvenuta nel 1990 per volontà della sinistra. Vero è che quanti dovrebbero provvedere, innanzitutto i (sedicenti) governi politici, pur di conservare il potere, non solo rinunciano ad agire, ma, anzi, si mostrano sempre supini ad intese snaturanti, esattamente come farebbe un accomodante Luigi Di Maio, in versione Gigetto La Qualunque. Esattamente. Se, poi, questo fosse il prezzo per la captatio della “benevolenza” berlusconiana, niente male.

Non si può, tuttavia, negare che Gigetto si dimostrerebbe un uomo pieno di sorprese, in concorrenza con le mattonelle dei marciapiedi, qualora e d’improvviso ci svelasse la propria “armoniosa” – Bonafede: chi era costui? - sintonia con Salvini anche sul tema dell’immigrazione, altro tema nevralgico della trattativa, o sulla passione per il potente e influente Ras-Putin, e su tante altre mefitiche ricette e specialità delle destre.

Come cambiano le cose, dopo i…bottini elettorali. L’Italia “ha altre urgenze”. In fondo, la democrazia può aspettare. Al pari, tra l’altro, di una più organica e incisiva normativa anti-corruttela? Chi vivrà, vedrà, come si suol dire.

Certo è che questo frenetico volgere di insanabili e grottesche contraddizioni, più che il post-ideologico, fa venire in mente il post-logico!

Sia consentita, conclusivamente, un’auto-obiezione. Quale alternativa restava a Luigi Di Maio, dopo lo sdegnoso diniego del PD? Lasciamo la risposta a lui medesimo: “I nostri analisti ci assicurano che, in caso di nuove elezioni, otterremmo l’8% in più!”. Ma, allora, qual è il problema? Anziché incrinare, se non seppellire, le ragioni storiche della propria esistenza, non sarebbe più coerente, ragionevole e onesto accettare, nell’immediato, il governo di servizio proposto da Mattarella, per andare, il più presto possibile, al voto anticipato e realizzare, grazie a quell’8% in più, il lungo sogno della completa autonomia? Resta, naturalmente, salva la possibilità che gli “analisti” in parola versino in delirio, specie se si considera la Caporetto friulana, ancorché regionale. In tal caso, è patente, l’esternazione di Gigetto voleva semplicemente fungere da (non troppo) velata minaccia ad hominem, allo scopo di estorcere l’assenso a un malconcio ex Cavaliere. Una delle consuete minacce – “delinquenti… traditori… la pagherete…” - sulla via e nella prospettiva della trasmutazione catartica. Purché, pietà di noi, essa non somigli alla “palingenesi” di Roger Griffin, il principale teorico del fascismo delle nuove generazioni.

Giunti, però, a tal punto di chiarezza, sarà forse il caso di emendare e tradurre, in salsa italica, la vecchia e ottimistica formula di Maurras. Diremmo meglio: le pouvoir d’abord. Il potere, prima di tutto. Certamente, entro un’ottica siffatta, la premiership varrebbe bene anche l’ipotizzata ma improbabile staffetta tra i due soci, Matteo e Gigetto, verso i quali, in ogni caso, bisogna manifestare sentimenti di sincera gratitudine, poiché ci aiutano a fissare, con sufficiente precisione, qualche data storica, un vero e proprio spartiacque ideale.

La seconda Repubblica è finita. Quando finirà anche la prima? Dimmi quando… quando… quando. Ecco, le “masse di capovolgimento” di Elias Canetti, pentastellate e non, la cui animosità – nietzschiano “ressentiment”, risentimento, profondamente altro dalla gramsciana egemonia - ormai appare ben catalizzata, incanalata e cristallizzata, provino a comprendere che la prima Repubblica finirà il giorno in cui partiti, clan, lobby e individui faranno molti passi indietro, o in avanti, rispetto alla ricerca, all’esercizio e alla spartizione del potere fine a sé stesso, alla vanità del comando, all’occupazione delle istituzioni. Onde risolversi, infine, al più rigenerante dei passaggi, appunto, ‘politici’. Stupirci con prove inaudite di dignità e coerenza morale, in forme consequenziali e anti-trasformistiche, ossia realmente fuori dalla prima Repubblica, indefettibile presupposto per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Senza costruire, in modo subdolo e surrettizio, nuovi e, magari, più efficienti meccanismi di potere cieco e autopoietico, aderendo, con rigore e passione civile, ancor prima che ‘politica’, al dettato della Costituzione, che il (mitico) popolo sovrano, Matteo e Gigetto compresi, ha strenuamente difeso in occasione dell’ultima e decisiva battaglia referendaria.

Non è stata una burla, vero?

Giuseppe Panissidi

(11 maggio 2018)
Da - http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=24978
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 14, 2018, 11:53:23 am »

11 MAG/18

L’Ira antisistema ostile alla Libertà.

Intervista con Yascha Mounk – autore del volume «Popolo vs Democrazia» – di Benedetto Vecchi (manifesto 11.5.18) “Salone internazionale del Libro di Torino. Una radiografia della crisi dei sistemi politici liberali e della crescente disaffezione alla politica. Lo studioso di origine tedesca presenterà oggi il suo saggio alla kermesse editoriale di Torino

“” Tagliente nei giudizi, chiaro nell’esporre il suo punto di vista e capace di offrire una visione semplice di un mondo tuttavia complesso. Yascha Mounk ha dalla sua anche la giovine età che lo porta a disattendere convenzioni e modi d’essere dell’Accademia universitaria. Nel suo primo libro (Stranger in My Own Country. A Jewish Family in Modern Germany, Farrar Straus and Giroux) rende, ad esempio, pubblico il malessere di un giovane di origine ebraica che si sente straniero nel paese, la Germania, dove è nato. Un memoir dove il tema dell’identità è affrontato con disincanto, rifiutando tuttavia la facile strada della rivendicazione di una appartenenza senza tempo consapevole del fatto che nel paese di nascita non c’è stata mai una rielaborazione sul nazismo, ma solo una consolatoria e autoassolutoria condanna del Terzo Reich. Oppure hanno destato sospetto e discussione le tesi contenute nel suo libro The Age of Responsibility. Luck, Choice and the Welfare State (Harvard University Press) dove sostiene che la responsabilità, termine frequentemente usato da esponenti politici conservatori, deve diventare un concetto chiave nel lessico politico della sinistra dato che la responsabilità verso gli altri è stata la leva fondamentale nella costruzione del welfare state.
Mounk, che insegna negli Stati Uniti, si è schierato contro la candidatura di Donald Trump, sottolineando però che il suo populismo è tutto meno che un fenomeno politico e sociale folkloristico. Il populismo, per Mounk, va preso sul serio perché costituisce il pericolo maggiore per la democrazia. È questo il tema del suo libro Popolo vs Democrazia (Feltrinelli, pp. 333, euro 18), che sarà presentato oggi al Salone internazionale del libro di Torino (ore 15.30, sala Blu). E questo il tema dal quale ha preso avvio l’intervista avvenuta tra uno un appuntamento di lavoro tra Milano e la città piemontese.
Nel suo libro scrive della fine della grande illusione che ha tenuto banco dopo il crollo del Muro di Berlino. Il mondo, questa la retorica dominante, stava entrando in un periodo di benessere, mentre la democrazia sarebbe stato il destino politico per tutti i paesi. Lei sostiene che a quella illusione è subentrata un’era di tensioni, conflitti e dove la democrazia non è il destino manifesto dei sistemi politici….
Allora veniva affermato che la globalizzazione economica avrebbe consentito la crescita del benessere su tutto il pianeta. Superata una soglia di benessere, la democrazia sarebbe stata alla portata di tutti i paesi. La situazione è cambiata con la crisi economica e quando in paesi di recente democratizzazione ci sono state elezioni all’interno di un quadro di forte limitazione di libertà di stampa, di associazione. Mi riferisco a paesi come l’Ungheria, la Polonia. Ci troviamo di fronte a situazioni che potremmo definire di democrazia senza diritti. Qui la parola chiave è il popolo, che deve essere rappresentato nella sua organicità. Il populismo tuttavia non riguarda solo l’Europa. È infatti un fenomeno politico globale.
Molti commentatori dipingono il populismo come una cultura politica antisistema. Potrebbe, all’opposto, essere visto come una ciambella di salvataggio per sistemi politici in deficit di legittimazione e in crisi di rappresentanza….
Il populismo non è certo un fenomeno unitario, eguale sempre a se stesso. Podemos è cosa diversa dalle formazioni populiste dell’Europa del Nord. Ma tutti i populisti sono antiestablishment. O come dice lei antisistema. Non penso vada cercata una coerenza da parte dei partiti populisti. Spesso esponenti politici populisti esprimono posizioni antitetiche l’una con l’altro nell’arco della stessa giornata. Quel che rimane costante è la critica all’operato del governo perché corrotto; perché trama contro gli interessi del popolo. La critica riguarda anche i media, colpevoli di falsificare la rappresentazione della realtà. Il governo, i media e gli altri partiti politici sono cioè responsabili di soprusi, ingiustizie sistematiche. Non penso dunque che il populismo funzioni come ciambella di salvataggio.
Ho seguito con attenzione la diffusione di parole d’ordine populiste in Germania: la dominante era il terrore che il primato economico tedesco potesse essere messo in discussione. Il populismo era cioè declinato dentro una cornice nazionalista. In Italia, invece il declassamento del ceto medio, la crisi economica, l’impoverimento della popolazione è stato l’ordine del discorso che ha trovato un forte collante nella denuncia della corruzione, dei privilegi della casta. Qui i sentimenti dominanti sono stati l’ira cieca contro le ingiustizie, il risentimento.
Inizialmente, Beppe Grillo proponeva una idea di comunità tollerante, aperta, giovane: cosa diversa dall’establishment vecchio, egoista, corrotto e avido rappresentato dai vecchi partiti. Ma il movimento dei 5 Stelle ha poi veicolato una visione chiusa della comunità, alimentando una logica complottista in base alla quale tutti gli altri politici erano in combutta per annientare la voglia di libertà, di pulizia, di tutela dei beni comuni espressi dal popolo.
Nel suo libro, lei si sofferma sul fatto che la democrazia corre il rischio di rimanere ostaggio delle élite. Cita il caso del denaro necessario per essere eletti al Congresso e al Senato degli Usa….
Per essere eletti al Congresso o al Senato statunitense servono milioni di dollari. Per questo le èlite sono avvantaggiate. Spesso i candidati fanno già parte di circoli economici e finanziari che possono favorire il finanziamento della campagna elettorale . Fanno parte dell’élite anche i lobbisti È costume negli Usa che grandi imprese o grandi azionisti finanziano candidati in maniera tale da condizionare il loro operato una volta eletti. Anche qui i rischi della democrazia sono alti. Se invece guardiamo a paesi non democratici, scopriamo che le leadership funzionano come caste separata dal resto della società e che riproducono se stessi secondo logiche familiste.
La depoliticizzazione è un altro dei temi che lei affronta. La democrazia più che far crescere l’attenzione verso la gestione della cosa pubblica sembra favorire la depoliticizzazione. È così?
In tutto i paesi democratici c’è una caduta nella partecipazione alle elezioni. Spesso il numero dei votanti costituisce una minoranza della popolazione. I partiti perdono iscritti. Tutti i tentativi di rivitalizzare i partiti non funzionano come dovrebbero. La cosiddetta società civile privilegia gli affari privati, la logica amicale del piccolo gruppo che si incontra per condividere ansie e speranze che rimangono private. Il populismo non ferma la depoliticizzazione. Semmai l’accelera quando sostiene che i politici fanno parte di una casta che tutela solo i loro interessi.
Lei sostiene che i social media sono il vettore di propagazione del populismo che proponeva un futuro roseo. Eppure i social media prospettano più che un futuro un eterno presente….
I social media sono stati presentati dai tecno-ottimisti come il mezzo, lo strumento per una democratizzazione radicale dei media. Questo fino al 2010, 2011. Ci sono state anche dei tumulti, rivolte qualificate come twitter revolution. Poi è subentrato un pessimismo radicale sulle capacità liberatoria dei social media. Sono stati considerati una sorta di potente strumento di manipolazione dell’opinione pubblica che per di più istupidiva le persone. Certo i social media mettono in discussione il potere dei media tradizionali, ma rispondono comunque alla stesso logica economica. Per quanto riguarda il populismo, i social media sono stati un vettore per la sua diffusione. Da questo punto di vista il Movimento 5 stelle è stato un case study interessante per comprendere il potere di un nuovo media che fa della critica ai vecchi media il proprio marchio di origine.””

Da - http://www.iniziativalaica.it/?p=39298#more-39298
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