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Autore Discussione: LIETTA TORNABUONI  (Letto 59610 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:47:20 pm »

24/1/2010


Jean Simmons, il suo fascino inglese stregò Hollywood
   
LIETTA TORNABUONI

Bella e morta tra i fiori, scivolava sull’acqua che le gonfiava le vesti: la parte di Ofelia nell’Amleto di Laurence Olivier del 1948 è la ragione per cui Jean Simmons ottantenne restava memorabile. Il suo personaggio migliore, in più di cinquanta film durante una carriera durata oltre mezzo secolo, dal 1943 di Dacci la luna al ‘95 di Margherite a dicembre.

Moglie per un decennio di Stewart Granger e di Richard Brooks dal 1961 al ‘77, graziosa, bellissimo naso, pacatamente elegante, quasi brava, interprete di commedie di G.B. Shaw ridotte a film (Cesare e Cleopatra, Androclo e il leone) o di musical con Marlon Brando (Bulli e pupe), indossatrice di pepli in ciknemascope (La tunica), era perfetta.

Davvero inglese, anche quando viveva a Hollywood: riservata, signorile, cortese, spregiatrice dei modi volgarucci delle americane o del cinema in genere, bevitrice, non esibizionista, laconica, nevrotica, pronta a ritirarsi al momento dovuto. Ha condotto la sua vita senza scandali privati e senza picchi professionali: tranne Ofelia folle e indimenticata, naturalmente.

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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:44:30 pm »

28/1/2010 - PERSONE

Le false ragioni anti burqa
   
LIETTA TORNABUONI

Sono quasi tutte false le ragioni per cui, in Francia e adesso in Italia, si condanna e si vuol proibire alle donne musulmane il burqa, il velo spesso che nasconde viso e collo lasciando liberi soltanto gli occhi. Il presidente Sarkozy dice che il burqa offende i valori e le tradizioni laiche della Repubblica francese, e speriamo che una risata lo seppellisca: se così fosse, bisognerebbe proibire alle suore la testa coperta? si dovrebbe impedire ai preti di portare il collarino in pubblico? Più pragmatico, il ministro italiano dice che la nostra legge vieta di andare in pubblico col viso coperto, quindi senza essere riconoscibili: e i motociclisti italiani col casco obbligatorio, allora? e i mafiosi o altri con i grossi occhiali da sole che in ogni stagione coprono metà del viso? A parte il fatto che, se per identificare una persona straniera bastasse davvero guardarla in faccia, le indagini di polizia andrebbero un po’ meglio.

Altra ragione ipocrita: proibire il burqa per facilitare l’integrazione agli usi italiani da parte delle donne straniere. Ora, l’integrazione non è qualcosa che si realizzi in un batter d’occhio, con l’emissione di un comunicato o la votazione di un decreto legge: ci vuole tempo per sradicare le proprie radici e abitudini nazionali, servono generazioni. Chiunque sia stato almeno una volta a Little Italy di New York o ne abbia viste fotografie, lo sa benissimo. Oltre un secolo e mezzo dopo le grandi migrazioni italiane negli Stati Uniti, il quartiere di Little Italy sembra il meno integrato al mondo: vi sfilano processioni religiose, i caffè offrono espresso, i negozi di alimentari ostentano pasta, mozzarella, olio d’oliva. E nessuno si offende o proibisce o impone, nessuno pretende integrazione a tappe forzate: lo stesso succede a Chinatown o a Little Odessa.

A parte la passione per i falsi problemi e la chiacchiera inutile, è evidente che in Europa tante fisime o pretese sono atti ostili, che rappresentano forme di rivalsa o ritorsione verso immigrati poco graditi, sopraffazioni limitate ma odiose di cui si potrebbe anche vergognarsi.

da lastampa.it
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 04, 2010, 10:15:33 am »

4/2/2010 - PERSONE

Voglia di fuggire
   
LIETTA TORNABUONI


Ma come si fa a capire, a seguire, a reagire? Neppure se si ascoltassero telegiornali a tutte le ore del giorno e della notte (esercizio inumano, impossibile) si riuscirebbe a star dietro a vicende riguardanti la Giustizia tanto intrecciate, complesse. Alla Camera si è votato sì a un provvedimento secondo cui tutti i componenti del governo, se convocati per qualche ragione in tribunale, possono dire di no (manca il tempo, hanno da fare, sono fuori stanza) e non presentarsi. E perché? La giustizia non dovrebbe essere uguale per tutti? Lo chiamano «legittimo impedimento», ma cosa sarà che assorbe i governanti in modo così irrimediabile? E se fosse meglio vederli in tribunale, anziché lasciarli all’opera? E se fa tutto il presidente del Consiglio, se decide lui, elegge nuovi ministri, esprime le linee della politica estera, assume e licenzia, boccia e censuragli altri da cosa sarebbero così totalmente occupati?

Mentre si discute di questo (e si sostiene trattarsi d’un provvedimento necessario per consentire agli eletti dal popolo di fare il proprio lavoro: si vede che fino ad oggi oziavano passeggiando lungo i corridoi di palazzi di Giustizia), un deputato avanza proposte personali e in un tribunale aspettano diversi processi che vedono protagonista anche il presidente del Consiglio. Insomma un caos che ai cittadini dà l’impressione di un’aria confusa, pasticciata, tale da farli sentire perennemente fregati oppure abitanti d’un brutto Paese. Non è una sensazione piacevole: fa pensare a quanto sarebbe meglio se i governanti non avessero commesso, non commettessero, non progettassero di commettere tante illegalità.

Certe volte, quando a simili notizie si uniscono fatti di cronaca feroci che manco nel Medioevo (un ragazzo ucciso per una sigaretta a forza di coltellate alla gola, un assassinato decapitato la cui testa viene nascosta nel forno d’una pizzeria, un bambino ammazzato e sciolto in una vasca piena d’acido), oppure informazioni su truffe alimentari capaci di intossicare migliaia di persone, l’avvilimento, la vergogna diventano davvero pesanti. Sembra di non potersi salvare più dal disgusto. Viene voglia di fuggire altrove.

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« Risposta #78 inserito:: Febbraio 11, 2010, 10:35:10 am »

11/2/2010 - PERSONE

La politica senza politica
   
LIETTA TORNABUONI


La campagna elettorale, persino quella per le Regionali, non sarebbe il periodo in cui più si discute di politica e di gestione amministrativa, in cui si confrontano le idee, si compiono le scelte? In altri Paesi del mondo, forse. Da noi, no. Da noi piuttosto il presidente del Consiglio va in visita dalle suore, parla d’amore universale, sostiene (nessuno finora lo aveva sospettato) di aver cercato «di salvare la vita di Eluana». Da noi, soprattutto, vengono bloccati per un mese di esercizi spirituali prima delle elezioni i settimanali televisivi in cui si parla di politica, «Ballarò», «Porta a porta», «Annozero».

Paradosso? Certo, ed è anche difficile capirne il movente. Le regole imposte dalla Rai stabiliscono minuziosamente l’equilibrio delle forze parlanti (tanti minuti a te, altrettanti a me; tante presenze a me, altrettante a te), quindi non c’è il rischio che l’uno sopraffaccia l’altro. Allora? Niente, i rischi sono imprevedibili e indefinibili, magari l’avversario può apparire più bravo o più bello o migliore oratore, magari il conduttore può giocare uno dei suoi brutti tiri, magari qualcuno Tira fuori qualche vecchio o recente peccato. Inutile correre pericoli. Meglio bloccare, chiudere, e invece parlare di pettegolezzi. Lo stile, si capisce, è anche quello della Rai, i cui funzionari le pensano tutte pur di evitare errori o eventualità minacciose per la loro carriera. Meglio niente: in campagna elettorale, di politica non si teleparla.

È come se si abolissero i settimanali di carta: non si può o quasi, perché sono di proprietà privata e i mezzi di seduzione, quando esistono e operano, sono diversi dal silenzio, ma quando si tratta di media dello Stato...

I manifesti elettorali che già invadono i muri delle città dicono nulla: nomi, fotografie del candidato, al massimo uno schioccante slogan da pubblicità («se hai cura di te, vota per me»). La parola, considerata sempre ambigua, è messa al bando. La lingua, sempre biforcuta, viene espulsa dalla politica sordomuta.

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« Risposta #79 inserito:: Febbraio 25, 2010, 09:34:23 am »

25/2/2010 - PERSONE

Il paradosso dell'anti corruzione
   
LIETTA TORNABUONI

Lasciamo per una volta da parte la vecchia raccomandazione che suggeriva di non parlare di corda in casa dell’impiccato, e vediamo quante possibilità di successo potrebbe avere quel decreto anti-corruzione che il governo annuncia.

Troppi violano la legge, e come rimedio si fa un’altra legge? Contro l’illegalità, si fa ricorso alla legalità? Se le violazioni di legge sono così numerose da rappresentare una caratteristica o una piaga italiana, se le azioni giudiziarie relative sono enormemente aumentate in un anno come ha indicato la Corte dei Conti, vuol dire che non si tratta di «casi personali isolati», secondo l’assicurazione d’una autorità politica che se ne intende quale Berlusconi, ma di una questione sociale: e si pensa di ovviare a un problema simile con un decreto legge? Oppure l’eventuale decreto legge è una toppa messa lì tanto per mostrare che si ha una qualche reazione, che si fa qualcosa?

Se non si riesce a frenare l’illegalità, sarà per diversi motivi. Perché non ci sono mezzi, uomini, motivazioni e slancio sufficienti a esercitare i controlli necessari. Perché si tratta d’una battaglia che molti considerano inutile, perduta in partenza, e che nessuno vuole quindi combattere. Perché cane non mangia cane. Perché mancano al vertice esempi positivi. Perché non si può, sempre al vertice, insolentire e accusare per anni la magistratura, anche auspicandone la reclusione in manicomi inesistenti, senza delegittimarla insieme con il rispetto della legge che è chiamata a tutelare. Perché non ci sono soldi, e la gente li piglia dove riesce a trovarli. Perché a tutti piacciono le belle cose, la bella vita: e se nel Paese l’atmosfera è lassista e la cultura quattrinaia, difficile evitare il malaffare. Il decreto legge anti-illegalità serve a poco: se i ladri fossero così morali e intelligenti da pensare che rubare non paga, da temere le conseguenze delle proprie malefatte, non ci sarebbe bisogno di nulla. Altri rimedi non se ne conoscono, almeno nella situazione presente: ma noi non siamo il governo, per fortuna.

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« Risposta #80 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:21:43 am »

3/3/2010

Panahi duro, ma non ama l'enfasi

   
LIETTA TORNABUONI

I suoi film non vengono proiettati in Iran. Gli hanno sequestrato il passaporto, gli è vietato lasciare il Paese. Gli espedienti comuni a tanti registi iraniani incluso Kiarostami, ad esempio fingere di stare realizzando un film per bambini lavorando per il relativo Istituto del cinema per l’infanzia, non funzionano più. Cercar di girare film all’estero è ormai impossibile, e da poco tempo nessun film la cui sceneggiatura non sia stata controllata e approvata dalla commissione di censura può venir realizzato. Mancava soltanto l’arresto (ma era previsto, temuto). Jafar Panahi è stato infatti arrestato a Teheran insieme con la moglie, la figlia, gli ospiti che erano nella sua casa.

Panahi è un regista di quarantanove anni, alto, bruno, grande. «Il palloncino bianco», primo film suo del 1995 visto in Europa, protagonista una bambinetta, era delicato, poetico e nello stesso tempo spietato, con uno sguardo sul Paese acuto, ricco di vergogna e insieme di amore. Seguì «Il miracolo», 1997. E nel 2000 vinse il Leone d’oro alla mostra di Venezia con «Il cerchio», otto brevi storie di donne in condizione di sottomissione mortificata in una nazione dominata dal potere maschile nella società, nella politica, nella religione, a Teheran perennemente presidiata dalla polizia. Il titolo indica la struttura narrativa e la circolarità del tema; il film coprodotto con le società italiane Mikado e Lumière in Iran non s’è mai visto.

A conoscerlo, Panahi è un uomo molto calmo. La sua ostilità politica verso il governo iraniano non si esprime con scoppi d’ira né con denunce appassionate: come tanti registi iraniani incluso Makhmalbaf è cauto, pacato, ragionevole, tenace. I suoi comportamenti somigliano ai suoi film, privi di ogni sfumatura di enfasi, laconici, profondi. Non gli è servito a molto, pare.

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« Risposta #81 inserito:: Marzo 04, 2010, 11:11:21 am »

4/3/2010 - PERSONE

Chi è causa del suo male
   
LIETTA TORNABUONI

Nessuno ama la burocrazia, si capisce: ma si può riflettere, semplificando le scemenze che hanno per ora escluso dalle elezioni regionali le liste della maggioranza a Milano e a Roma, prendendo per buone le giustificazioni impossibili che sono state offerte per i ritardi nel presentare le liste stesse, per le loro cialtronerie e mancanze. Che non si possa impedire a una lista di venir votata a causa di piccoli errori commessi in buona fede, è vero: le votazioni, anche se da noi sono continue e variate, rappresentano un momento essenziale della democrazia, e se qualcuno ha commesso sbagli di poco conto è sostanzialmente giusto accoglierne le scuse e il ricorso (non le bugie e i tentativi di attribuire la colpa ad altri).

L’atteggiamento che ad ogni costo vuole punire l’episodio, facendo pagare la pena della leggerezza e irresponsabilità, è intollerante ma anch’esso giusto. Non c’è di peggio, democraticamente parlando, che contare sul proprio potere di maggioranza governativa per ignorare le regole e violarle, per comportarsi con lassismo e menefreghismo, per immaginare che tutto sia consentito e rimediabile.

Un simile atteggiamento non riguarda certo soltanto l’impiegato incaricato di presentare le liste. È uno stato d’animo comune a ogni livello nel partito di maggioranza, i cui dirigenti sono spesso politici dilettanti e padroncini professionisti. Risultano, a cominciare dal vertice, persone abituate a dare ordini ai dipendenti e a venire prontamente obbedite, persone use a fare i comodi propri scavalcando con insofferenza regole e leggi: ma la democrazia non funziona così.

Poi, può darsi che la faccenda delle liste ritardatarie e imperfette nasconda chissà quali altri segreti: ostilità interne, ritorsioni & vendette, lotte intestine, truffe & trabocchetti. Allora tutto sarebbe più facile, proverbiale: chi è causa del suo male, pianga se stesso.

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« Risposta #82 inserito:: Marzo 09, 2010, 11:00:42 pm »

9/3/2010

Schiaffo al kolossal


LIETTA TORNABUONI

Che sorpresa: per la prima volta nella sua storia l’Oscar per il miglior film va a una donna: Kathryn Bigelow.
Per la prima volta non lo ha vinto il previsto kolossal politicamente corretto già ricco di incassi inimmaginabili, ma un piccolo film di guerra perlopiù ignorato, di un’ambiguità discussa e sconcertante, presentato alla Mostra di Venezia nel 2008.

Forte, spietato, The Hurt Locker racconta i giorni in Iraq di una pattuglia di artificieri dell’esercito americano. Il compito dei militari consiste nello scoprire e disinnescare quegli ordigni esplosivi devastanti che hanno tanta parte nelle attuali guerre di guerriglia. Un corpo-bomba, il cadavere di un bambino nelle cui viscere è stato nascosto esplosivo, uno straccio sul selciato, un’automobile parcheggiata male possono nascondere bombe; ogni azione comporta rischi letali. Quando sono a riposo, i militari bevono, dormono, si picchiano, quasi impazziscono, piangono: «Se sei qui vuol dire che sei morto». Protagonista del film corale, tratto da articoli di Mark Boat sulla guerra in Iraq, è un sergente maggiore (Jeremy Renner) capo della pattuglia, molto bravo e coraggioso, indisciplinato. Però, dopo esser tornato a casa, si arruola di nuovo: ormai non può immaginare di fare qualcosa di diverso dalla guerra.

The Hurt Locker ha un doppio spessore: formalmente potrebbe anche sembrare un film patriottico, ma l’orrore che la guerra suscita nello spettatore è insopportabile. Forse in questa ambiguità sta il segreto della sua vittoria: molto interessante, è certo meno bello di Bastardi senza gloria di Tarantino, di Tra le nuvole di Reitman, di Avatar e di altri candidati; così come i premi a Jeff Bridges e a Sandra Bullock sembrano soprattutto stanchi riconoscimenti a carriere stanche.

Sulla sconfitta di Avatar le ipotesi sono molte: forse è una vendetta della gente di cinema votante contro il regista James Cameron che per gli infiniti effetti speciali del film ha usato la società neozelandese Weta di Peter Jackson; forse è una ritorsione per gli incassi vertiginosi ottenuti. Forse è un moto di rivolta contro chi «parla male» degli americani, un segno di sfiducia nella tecnologia e nel futuro.

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« Risposta #83 inserito:: Marzo 11, 2010, 09:34:41 am »

11/3/2010 - PERSONE

La memoria dei votanti
   
LIETTA TORNABUONI

Tanto per tirarci su dalla tristezza del bruttissimo inverno, sono in atto un Festival della Bugia, una Olimpiade delle Balle, una Sagra della Mistificazione davvero imponenti. Non che sia una novità, ma la quantità altera la qualità.

Riassumiamo.
L’incaricato di depositare le liste per le regionali del partito al governo a Roma e Milano commette un errore, arriva in ritardo oltre tempo massimo e le liste vengono escluse dalla competizione elettorale. Si capisce che le votazioni non possono svolgersi senza uno dei principali partecipanti, così tutti si danno da fare per rimediare: ricorsi all’autorità giudiziaria, discorsi, proteste, tutte cose che non servono a modificare uno sbaglio tecnico secco, indiscutibile. Si cerca una soluzione politica, e il partito al governo tira fuori la proposta di un «decreto interpretativo» della legge elettorale. E’ grottesco, di una simile «interpretazione» non s’era mai sentita alcuna necessità, ma pazienza: per risolvere, per evitare il peggio, per agire con il buon senso che gli è proprio, il Presidente della Repubblica firma il decreto.

Non è sufficiente.
Allora la Gara di Fandonie si sfrena, nella speranza di esercitare pressioni o comunque di salvare il risultato delle elezioni in luoghi diversi da Lazio e Lombardia. Se all’inizio i portaparola del partito al governo erano interdetti per il proprio errore, ben presto hanno assunto la parte prediletta, quella delle vittime. Sui muri di Roma sono comparsi manifesti «Non vogliono lasciarti votare» (chi, «non vogliono»?); sul tema sono stati indetti comizi e manifestazioni; l’argomento e il «vulnus alla democrazia» sono stati mille volte trattati in sedi parlamentari, giornalistiche, televisive; il proprio errore d’origine è scomparso; il presidente Napolitano, che poco prima Berlusconi aveva accusato di non essere al di sopra degli schieramenti, è diventato un eroe.

Si è rinnovata la solita tecnica pubblicitaria della ripetizione martellante; si è rinnovato il solito sbaglio di considerare gli elettori tutti scemi o smemorati; in più, si è lasciata crescere in molti la nausea verso una politica inetta e menzognera.

Bel risultato.

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« Risposta #84 inserito:: Marzo 18, 2010, 08:39:53 am »

18/3/2010 - PERSONE

Pronto, chi parla
   
LIETTA TORNABUONI

Adesso pure Olindo e Rosa, la coppia impressionante processata in Appello a Milano per la strage di Erba, dicono d’essere innocenti perseguitati da un complotto.

Complotto ordito da chi e per quale ragione, non si sa: ma è fatale l’imitazione d’un presidente del Consiglio che, imputato nelle zone geograficamente più varie del Paese, per i più differenti reati, dai più diversi tribunali, sèguita a proclamarsi vittima di oscuri complotti, di trame ben pensate. Speriamo che l’imitazione sia meno pronta rispetto alle dichiarazioni che affermano essere prerogativa di ruolo l’iniziativa di studiare al telefono metodi per mettere a tacere gli avversari politico-mediatici: staremmo freschi.

Le intercettazioni telefoniche vengono considerate da alcuni violazioni della riservatezza personale, da altri strumenti d’indagine indispensabili, da altri ancora un niente. Tutto vero. Intrusioni nella vita privata, le intercettazioni sono senz’altro: però quando i telefoni posti sotto controllo sono quelli di governanti, di personalità burocratico-istituzionali, quando i temi di cui gli interlocutori discutono non costituiscono reato, non è vero che siano inutili. Anzi.

La familiarità sbrigativa dei discorsi, la citazione di costumi scorretti, il turpiloquio fitto come punteggiatura, l’irrisione delle sventure altrui, sono invece altrettante rivelazioni di caratteri, nature, culture. Fanno capire, aldilà dell’etichetta o dell’ipocrisia, come sono davvero le persone nelle cui mani il Paese dovrebbe andare avanti, perché invece il Paese si sottosviluppi continuamente. L’elemento in più è che queste persone, pur sapendo benissimo quanti telefoni siano intercettati, non pensano affatto a essere più discrete, a dire poco o niente al telefono: salvo reagire inviperite se il testo delle intercettazioni diventa pubblico. Si vede che sono ancora abituate alla impunità; oppure che, nonostante le proteste, gliene importa nulla, non credono di poterne essere davvero danneggiate.

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« Risposta #85 inserito:: Marzo 25, 2010, 11:04:11 am »

25/3/2010 - PERSONE

Nessuna promessa
   
LIETTA TORNABUONI

Queste votazioni regionali segnano, sembra, il definitivo cambiamento di stile della propaganda elettorale cartacea. Manifesti o volantini si rarefanno: basta essere fuori dal centro delle città, dal cuore dei maggiori quartieri, e non se ne vedono più. Sarà per risparmiare? Sui manifesti che si vedono, colpisce la presenza delle persone e l’assenza delle cose.

Nessuna frase impegnativa o promettente, nessuna esortazione, nessun incitamento. Soltanto il nome del candidato per il quale si invita a votare. Necessario, ma in qualche modo anche inutile: Ponzo o Mancini, chi saranno? E De Cesari, Zaratti, Donato, li conosciamo? Che mestiere fanno, dov’erano sinora?

A volte il nome è accompagnato da fotografia. Invano. Le facce ignote paiono tutte uguali, tutte ugualmente artificiose nel tentativo di suscitare simpatia. A volte c’è sul manifesto anche qualche parola, ma così vaga e generica da risultare superflua oppure irritante: «Fìdati» (e perché?), «Per vincere» (cosa?) «Mi fido», «Io voto» e il nome del candidato (e tu, chi sei? Dovrei imitarti?), «La forza di cambiare» (in che senso?). Nessuna promessa, nulla di concreto, nessun problema reale citato. Chissà se si spiega con la necessità di non azzardare più, come è accaduto in passato, promesse che non possono venire mantenute.

Naturalmente, durante i propri eccitati comizi Berlusconi promesse ne fa: ma a se stesso. Chi altri se non lui potrebbe desiderare con ansia il presidenzialismo, leggi per rendere inerme la magistratura, leggi per ostacolare nelle indagini le intercettazioni? Sono problemi del tutto personali che possono interessare i suoi avvocati, la gente certo no.

A pochi giorni dalle elezioni, e come se l’amministrazione del Paese c’entrasse qualcosa, è già riscappato fuori l’aborto. Ancora un giorno o un’ora, e si ricomincerà a parlare di brogli, pur sapendo benissimo che, salvo i democristiani nell’immediato dopoguerra, in Italia nessuno ha mai fatto brogli. Poi ci saranno le elezioni, e speriamo che sia finita.

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« Risposta #86 inserito:: Aprile 08, 2010, 03:25:09 pm »

8/4/2010 - PERSONE

La lezione di Katyn

LIETTA TORNABUONI

Fa impressione sentire alla tv della grande cerimonia, con partecipazione di autorità civili e militari della Polonia e anche del presidente russo Putin, svoltasi ieri in memoria dei morti di Katyn. Quello e altri luoghi vicini, tra i boschi, sono stati per oltre sessant’anni sede di una delle contese internazionali più atroci intorno a centinaia e centinaia di ufficiali e soldati polacchi ammazzati e poi sepolti sotto gli alberi in vaste fosse collettive. Avveniva nel 1940. In quel momento e più tardi, la colpa del massacro venne attribuita dai sovietici ai nazisti; i polacchi ne accusavano i sovietici, anzi Stalin in persona.

Pare che all’epoca gli ufficiali dell’esercito costituissero in Polonia una élite insostituibile: erano docenti universitari, architetti, matematici, avvocati, astronomi, almeno laureati o professionisti in genere.

Eliminarli voleva dire decapitare la Polonia, cancellare ogni possibile classe dirigente presente e futura, privare i polacchi di ogni guida. Anche per questo dopo il massacro le loro famiglie vennero disperse, espulse dalla società polacca, ridotte al silenzio: nel suo film «Katyn», Andrzej Wajda ha raccontato la morte fisica e civile a cui quelle vittime, tra le quali l’ufficiale suo padre, furono condannate. Naturalmente, la massa degli uccisi era troppo grande perché la verità restasse nascosta: i polacchi sapevano benissimo chi fosse responsabile del massacro; i sovietici seguitarono ufficialmente e ostinatamente, nonostante ogni prova e testimonianza, a incolparne i nazisti.

E adesso polacchi e russi celebrano insieme il ricordo di quel massacro. Sembra incredibile, nonostante il lungo tempo passato. Sembra incredibile, se si pensa all’atteggiamento tanto diverso dei turchi nel negare le proprie responsabilità internazionali, e la testardaggine con cui tanti europei osteggiano gli stranieri. Sembra incredibile, ma è vero e il progresso dei popoli è anche questo.

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« Risposta #87 inserito:: Aprile 23, 2010, 11:59:35 am »

22/4/2010 - PERSONE

Le fabbriche dell'infelicità
   
LIETTA TORNABUONI

Mettono paura le immagini di questi giorni: le folle sgomente e affannate, gli accampamenti negli aeroporti, quelle lunghissime file pazienti che un tempo venivano presentate come esempi dell’arretratezza sovietica, le trattative esose con tassisti e autisti di autobus, le ire e le disperazioni, i guai di ciascuno per il blocco dei voli. Immagini da esodo, da terremoto, da apocalisse. Paurose non tanto e non soltanto quale simbolo della fragilità e vulnerabilità delle società sviluppate, come ovviamente tutti hanno detto, ma anche di qualcosa di diverso.

Quello che è successo con il fermo imprevisto e improvviso del traffico aereo lascia pensare a un fenomeno certo non isolato: la discrasia tra realtà e socialità, tra realtà e cultura. Le società di massa sono andate avanti, equiparando i costumi e i consumi di classe, estendendo alla gente comune le abitudini delle élite, accrescendo e moltiplicando il numero di chi viaggia, va in vacanza, guida l’automobile, visita le mostre d’arte, mangia il salmone, passa il week-end fuori città eccetera. Le strutture sociali invece (strade, traffico aereo, ambienti d’esposizione, importazione del salmone, spiagge turistiche) non si sono adeguate: il che trasforma le nostre vite in un incubo di ore in coda sull’autostrada, spiagge sovraffollate senza venti centimetri di libertà, ristoranti e mostre impraticabili senza prenotazioni molto anticipate. E gli intoppi aerei, si capisce. Le élite risolvono facilmente e penosamente: non fanno alcunché, restano segregate in casa, oppure viaggiano sino a luoghi remoti ed esotici dove peraltro trovano situazioni non troppo diverse. Ma per la gente comune la società di massa inadeguata e incompleta non offre salvezza.

Questo fenomeno si estende purtroppo alla cultura. Lasciando perdere scuola, libri e università, ancora oggi la cultura propone/impone un’etica di riuscita, successo, comando, ricchezza: assolutamente inarrivabile per tutti, a volte anche per alcuni. Così la frustrazione ci domina in ogni campo: bel sistema abbiamo ideato per una sicura infelicità.

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« Risposta #88 inserito:: Aprile 26, 2010, 11:37:45 am »

26/4/2010

Un bandito per tutte le stagioni

LIETTA TORNABUONI

Rieccoli. Non soltanto Robin Hood, anche Marion, l’usurpatore Re Giovanni, i compagni della foresta, il malvagio sceriffo di Nottingham, il bosco di Sherwood, il prete ribaldo, il moro Azim, Riccardo Cuor di Leone. Il primo film con Robin Hood risale al cinema muto, al 1909, mentre è del ‘22 la prima opera internazionale con Wallace Beery come Re Riccardo, protagonista Douglas Fairbanks atletico e romantico. Negli innumerevoli film seguenti, sono stati Robin Hood Erroll Flynn, Conrad Wilde, Richard Todd, Richard Greene, Sean Connery, Kevin Costner. In un Disney d’animazione Robin e Marian erano due volpi astute, nel film da ridere di Mel Brooks, Robin era L’uomo in calzamaglia.

Perché mai tanta persistenza? Perché non si è mai sazi di Robin Hood, che si ripresenta con la faccia da uovo sodo di Russell Crowe in concorso al prossimo Festival di Cannes? Innanzitutto, è un classico: le prime ballate su Robin e la sua gente sono del XV secolo. Poi l’eroe è un sassone contro un normanno, un fuorilegge contro l’establishment. La storia è un accorto mix di azione avventurosa, sentimento, umorismo e polemica sociale. Infine, in Inghilterra e in America (quasi tutti i film di Robin Hood sono anglosassoni), Paesi dove si sono sempre spremuti i poveri a favore dei ricchi, come si potrebbe per contrasto non amare un personaggio leggendario che ruba ai ricchi per dare ai poveri?

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« Risposta #89 inserito:: Aprile 29, 2010, 10:45:58 am »

29/4/2010 - PERSONE

Il segreto della misura

LIETTA TORNABUONI

Altro che privacy. Una rivela che il suo famoso marito è un tirchio matricolato, capace di controllare anche il consumo di acqua minerale. Un altro confessa che la sua famosa figlia è allergica alla pulizia, se non deve uscire di casa neppure si lava e per mandarla dal parrucchiere bisogna prenderla a spintoni. Un’altra ancora ammette di essere sempre stata lasciata dagli uomini amati; un altro assicura ridendo che sua moglie è afflitta da aggressività compulsiva e prova spessissimo a picchiarlo.

Come si moltiplicano i delitti di famiglia italiani raccapriccianti, così le trasmissioni televisive diurne vanno diventando una palestra di confidenze autolesioniste. Anche se sospetti o sai che in tanti di quelli che vengono presentati come autentici casi umani i protagonisti sono attori che fanno il loro lavoro (di donne private dei propri bambini, uomini che non ce la fanno, ragazze traumatizzate da abusi infantili, padri innamorati o seviziatori, capi ufficio persecutori, madri che danno la caccia ai figli adolescenti scomparsi, coniugi sotto processo), l’impressione rimane.

Impressione pessima, per almeno tre ragioni. Prima ragione, si crea un’atmosfera luttuosa, accentuata dalle innumerevoli inserzioni con richieste di soldi per bambini malati, infermi immobilizzati, piccoli affamati, persone affette da tumori o leucemie. Seconda ragione, se il gossip sulle star sociali può essere divertente, questi Vip non sono inesauribili, vengono spesso sostituiti con i loro parenti, con semiVip o pseudoVip e infine con persone qualunque i cui segreti non interessano.

Terza ragione, si incoraggiano forme di indiscrezione e ostentazione anche troppo presenti: è un fenomeno psicologico ben noto, ci sono persone che pur di apparire e di mostrarsi sono disposte a dire qualunque cosa, tanto l’importante è parlare perdutamente di sé. Sarebbe invece molto meglio non dirle a nessuno, le cose riservate o poco lusinghiere, non per insincerità ma per senso di misura, per pudore, per discrezione, per non esibire eventi intimi e insensati. Non è stabilito che tutto si debba dire, che non si possa mantenere un minimo di riservatezza, un poco di silenzio su usi o episodi peggiori. Per amor proprio, e per rispetto degli altri.

da lastampa.it
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