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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288208 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Settembre 24, 2010, 04:49:28 pm »

24/9/2010 - TACCUINO

Con il riferimento ai servizi, rotto il filo Fini-Letta
   
MARCELLO SORGI


La durissima nota con cui ieri Palazzo Chigi ha smentito la più pesante delle accuse pronunciate mercoledì da parte del Presidente della Camera contro il premier, che a suo giudizio si sarebbe avvalso della collaborazione dei servizi segreti per ottenere il documento, ovviamente giudicato falso dai finiani, che proverebbe che la società off-shore che ha acquistato il famoso appartamento di Montecarlo finito in locazione al cognato di Fini sarebbe sotto il diretto controllo dello stesso, non segna solo un ulteriore inasprimento dei rapporti tra i due ex-cofondatori del Pdl.

Piuttosto, conferma che ogni tentativo di mediazione tra i duellanti è esaurito. Basta infatti riflettere su un dettaglio: nell'attuale governo i servizi sono sotto il controllo del sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta. La reazione sdegnata di Palazzo Chigi alla presa di posizione di Fini non sarebbe stata espressa in termini tanto ultimativi se Letta stesso - in passato, anche recente, fautore di un riavvicinamento tra i due tronconi separati della maggioranza -, non avesse considerato ciò che è uscito da Futuro e libertà al pari delle "dissennatezze" che Berlusconi ormai tutti i giorni attribuisce al Presidente della Camera.

La rottura Letta-Fini, emersa già ad agosto quando davanti al feretro di Cossiga il leader del neonato Fli disse al sottosegretario "o Berlusconi mi distruggerà o io distruggerò lui", s'era in parte ricomposta con l'avvicinarsi della scadenza del dibattito sulla fiducia di martedì prossimo e con la ripresa delle trattative sulla giustizia e sulla legge salva processi per il premier. Nel risentimento espresso aspramente, ma sempre sul piano istituzionale (e non a caso seguito da analoghe prese di posizione del Dis, l'organismo di coordinamento dei servizi, della Guardia di finanza, e perfino di Massimo D'Alema, nella sua qualità di presidente del Copasir, il comitato di sorveglianza parlamentare sull'intelligence), è facile riconoscere la mano di Letta, da sempre contrario e preoccupato che la lotta politica possa allungare le sue ombre sulle istituzioni.

L'aggiustamento di tiro dei finiani, dai servizi ad esponenti deviati degli stessi apparati, segnala che all'interno del Fli, diviso tra falchi e colombe, qualche effetto la sortita di Palazzo Chigi l'ha avuto. Ma i toni restano insopportabili (bastava sentire Bocchino ieri sera da Santoro). E l'escalation della guerriglia tra i due fronti avversari, che la prossima settimana dovrebbero inverosimilmente ritrovarsi alleati a sostegno del governo, sembra ormai inarrestabile.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7871&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #196 inserito:: Settembre 25, 2010, 08:33:44 am »

25/9/2010

Le elezioni sono ora più vicine

MARCELLO SORGI

Ci sono dei momenti, nella furia di una tempesta, in cui una nave che pur avanza, sballottolata dalle onde, si piega su un fianco e sembra ormai destinata al naufragio: una sensazione del genere s’è avuta ieri, quando dopo due giorni di dibattito sulla «patacca», che Berlusconi avrebbe fatto costruire ad arte, per dimostrare che Giancarlo Tulliani, oltre che affittuario, è praticamente proprietario del famoso appartamento di Montecarlo venduto da An per decisione di suo cognato Gianfranco Fini, si è scoperto che «patacca» non era. Il ministro Rudolph Francis di Santa Lucia, l’isoletta caraibica paradiso di inaccessibili società off-shore, non poteva immaginare, con la conferenza stampa che ha autenticato il documento che accusa Tulliani, di aver probabilmente posto fine alla legislatura italiana cominciata poco più di due anni fa. Ma l’impressione, anche prima che oggi Fini cerchi di chiarire in un videomessaggio destinato a Internet, è che sia diventata impossibile una ricomposizione della maggioranza di centrodestra che martedì in Parlamento dovrebbe rilanciare il governo dopo la paralisi di quest’estate: destinata, invece, di conseguenza, a protrarsi chissà per quanto.

Pur in difficoltà rispetto alla vicenda di Montecarlo, sulla quale finora non è riuscito a dare spiegazioni convincenti, Fini infatti avrebbe potuto tentare più agilmente di uscire dall’angolo, se non avesse scelto due giorni fa la linea della patacca e delle accuse al presidente del Consiglio di essersi servito dei servizi segreti per incastrarlo. Solo per fare qualche esempio di punti che andrebbero approfonditi, avrebbe potuto contestare la carta che incastra il cognato nel merito e non nell’autenticità, sottolineare alcune evidenti contraddizioni e ambiguità del testo, chiedere per quale ragione e su sollecitazione di chi, in un Paese in cui l’off-shore è pane quotidiano, il governo di Santa Lucia decida di occuparsi di una, e solo di una, delle migliaia di società che ne approfittano, e infine contestare l’affermazione che la stessa società è sotto il controllo di Tulliani quando poi nell’ultima riga il documento ammette che sono ancora in corso accertamenti.

Non è escluso che questa sarà oggi la linea di difesa del Presidente della Camera: ma è evidente che il passaggio precedente, lo slogan della patacca, le accuse al premier e ai servizi di dossieraggio, rendano adesso meno convincenti giustificazioni come queste. Prima di fare certe affermazioni, ribadite peraltro in tv dal capogruppo del suo nuovo partito Bocchino, la terza carica dello Stato avrebbe dovuto prendere le sue precauzioni, valutando le conseguenze di parole così pesanti, che provenivano non dal palco del comizio di un leader, ma dallo scranno più alto della Camera dei Deputati.

Se Fini dunque è in forte difficoltà - la natura istituzionale delle sue responsabilità lo mette automaticamente sotto la lente d’osservazione delle altre autorità dello Stato -, Berlusconi non sta molto meglio. Nell’immediato, certo, ha potuto godere dell’autogol messo a segno dal suo avversario, che tra l'altro, ieri pomeriggio, a un convegno, ribadiva che a nessun costo lo aiuterà ad ottenere l’impunità dai processi che lo affliggono. Ma tutt’attorno ha un panorama di macerie. Il governo nato sull’onda della grande vittoria elettorale del 2008, che godeva di oltre cento deputati di maggioranza alla Camera, annaspa alla ricerca della famosa «quota 316» che dovrebbe consentirgli di andare avanti anche senza l’appoggio dei finiani. Per quanti sforzi abbia fatto, a quattro giorni dalla seduta parlamentare in cui dovrebbe presentare il programma dei prossimi tre anni, Berlusconi quella quota non l’ha raggiunta, così che la conclusione più probabile del dibattito alla Camera è che il governo sarà costretto ad andare avanti, malgrado l’evidenza della crisi politica, da un appoggio datogli a dispetto dagli avversari interni che fanno capo al presidente della Camera, che lo voteranno per pura ipocrisia e per potere continuare a trafiggerlo dal giorno dopo.

Né le cose cambierebbero se alla fine, sfruttando la paura delle elezioni di molti deputati peones, il Cavaliere dovesse raggiungere la fatidica quota: l’esigua maggioranza che lo sosterrebbe, in nome del salvataggio della pensione parlamentare prima che della legislatura, di fronte a nuove insostenibili difficoltà sarebbe pronta a raccogliersi, un domani, per sorreggere un altro governo, anche d'emergenza, che nascerebbe tuttavia, anche questo, sotto i peggiori auspici opportunistici. Da qualsiasi punto di vista e comunque la si guardi, la legislatura sembra insomma arrivata alla fine: e se davvero si andrà al voto, si potrà dire che mai il Paese c’è andato in condizioni peggiori, senza un chiaro sbocco, né alternative che abbiano un minimo di credibilità.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7872&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #197 inserito:: Settembre 28, 2010, 12:01:26 pm »

28/9/2010 - TACCUINO

L'occasione del chiarimento è diventata un impaccio
   
MARCELLO SORGI

La richiesta (da parte dei finiani) e la mancata concessione (da parte del Pdl) di un vertice di maggioranza, per arrivare a una conclusione concordata del dibattito parlamentare di domani alla Camera, sono solo mosse tattiche, che rivelano la confusione con cui i due tronconi della ex-maggioranza si avviano alla scadenza che dovrebbe decidere le sorti della legislatura.

Berlusconi e Fini in realtà si osservano a distanza ma non hanno fatto un centimetro di spostamento dalle rispettive posizioni, che rendono impossibile una ripresa della collaborazione di governo. Al presidente del consiglio (e non solo a lui) il messaggio Internet del Presidente della Camera ha dato l'impressione di un ripiegamento destinato a produrre ulteriori divisioni all'interno del gruppo Futuro e libertà. A Fini il silenzio che Berlusconi ha fatto seguire al suo intervento, rotto solo da un generico intervento a distanza al convegno della Comunità di don Gelmini, ha dato la sensazione che il premier non abbia abbandonato i suoi propositi bellicosi nei confronti della minoranza e sia disposto a un accordo solo a prezzo di una resa incondizionata dei dissidenti del Fli.

Nell'impossibilità di realizzare un vero riavvicinamento o una vera rottura, un accordo che consenta al governo e alla legislatura di continuare o in alternativa un sicuro sbocco elettorale, i due rivali vivono come un impaccio l'appuntamento parlamentare pensato a suo tempo come l'occasione del chiarimento. Se l'unica rotta è di collisione, d'altra parte, i due ex cofondatori che domani, ironia della sorte, siederanno uno sopra l'altro nell'aula di Montecitorio senza probabilmente rivolgersi la parola, al momento non possono fare altro che schivarsi.

Berlusconi - che ieri ha confermato che il governo chiederà un voto, sgomberando il campo dall'ipotesi di un dibattito annacquato senza votazioni finali - inseguirà fino all'ultimo il miraggio della sua maggioranza autosufficiente, per la quale, va detto, a tutt'oggi mancano ancora i numeri. Fini, in un appuntamento così delicato, non ha più a disposizione l'arma dell'astensione. Magari farà votare a favore i suoi anche senza aver avuto alcuna possibilità di concordare preventivamente nulla con governo e maggioranza. E chiederà al suo capogruppo Bocchino di pronunciare un intervento durissimo in aula sui problemi della giustizia. Un penultimatum: l'ennesimo, in attesa di capire quali nuove arrivano da Santa Lucia e Montecarlo, e se a marzo si vota o no.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7887&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #198 inserito:: Settembre 29, 2010, 11:45:56 am »

29/9/2010 - TACCUINO

La tregua, poi si ricomincia
   
MARCELLO SORGI

No, non deve stupire il progressivo slittamento che ha portato Berlusconi dall’idea di un dibattito senza voto alla Camera, a quella di un dibattito con un voto in cui avrebbe dovuto presentarsi spontaneamente la nuova maggioranza di centrodestra, in grado di fare apparire superflui i finiani, alla richiesta, infine, di una classica fiducia votata palesemente per appello nominale, che realizzerà il paradosso di un governo molto debole con una maggioranza molto larga. Una vecchia regola della politica dice che quando i leader si trasformano in giocatori di poker è bene guardare se sul tavolo i soldi corrono per davvero.

In questo caso, era evidente, nessuno dei due contendenti era disposto a giocarsi veramente la posta. Benché separati in casa da quasi sei mesi (la famosa direzione del Pdl in cui si presero a pesci in faccia si tenne nel lontano 22 aprile), Berlusconi e Fini sono ormai talmente dipendenti da eventi esterni da non poter prendere nessuna decisione importante.

Il Cavaliere vede il suo destino sempre più legato ai processi di cui ha cercato invano di liberarsi e alla decisione della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, la leggina votata in fretta e furia per dargli un po’ di respiro, in attesa di trovare una soluzione più duratura (vedi lodo Alfano costituzionale) per i suoi guai giudiziari. Le probabilità che questa via di fuga sia tracciata sono diminuite man mano che aumentava il contenzioso con il gruppo finiano. A un certo punto, non si sa come mai, Berlusconi ha deciso di giocare la carta delle dimissioni di Fini, impossibili da ottenere, finora. A dimettersi, nel frattempo, sono stati tre dei suoi, i ministri Scajola e Brancher e il sottosegretario Cosentino.

Ma anche Fini, dacché è esploso il caso Montecarlo, ha dovuto ridimensionare di molto i suoi disegni. Il discorso di Montebello è stato in qualche modo il suo canto del cigno. E il programma di fondare un nuovo partito fuori dal Pdl s’è rivelato via via più difficile del previsto: ieri, per dire, il presidente della Camera ha passato un pezzo della sua giornata a rimettere insieme le due ali, falchi e colombe, dei neonati gruppi parlamentari di Futuro e Libertà, fondati da due mesi e già organizzati in correnti. Così, in attesa di sapere quali altre sorprese gli riserva l’implacabile ministro di Santa Lucia che indaga sulla società proprietaria del famoso appartamentino di Montecarlo in cui vive suo cognato, l’ex leader di An ha optato per un’accostata. Il governo stasera avrà la fiducia. Poi tutto ricomincia come prima.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7892&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #199 inserito:: Ottobre 01, 2010, 03:50:39 pm »

1/10/2010 - TACCUINO

Al Carroccio questo stallo non conviene
   
MARCELLO SORGI

Finisce che ci tirano i cachi…»: era di questi tempi, la stagione dei frutti che insieme ai pomodori maturi meglio si prestano alle contestazioni pubbliche, e Umberto Bossi, già qualche anno fa, di fronte alla devolution che non arrivava, si preoccupava delle reazioni dei suoi lumbard, dipinti spesso a torto come una falange disposta a tutto per il proprio leader, e invece sensibili, proprio come il Senatùr, ai vuoti e ai ritardi di un governo inconcludente, di cui comunque la Lega fa parte.

Quello dell’aperta insoddisfazione di Bossi per la precarietà con cui è uscito il centrodestra dal passaggio parlamentare, che al contrario doveva rappresentare l’occasione del chiarimento, è un problema che Berlusconi sa di non dover trascurare nella situazione in cui si trova. A maggior ragione adesso che la Lega potrebbe essere corteggiata dalla minoranza finiana o dall’opposizione. Il ritiro, da parte del Pd, della mozione di sfiducia nata dalle infelici battute sui romani, delle quali peraltro il Senatùr ha dovuto scusarsi, si può leggere anche in questa chiave: il tentativo, simmetrico, di Fini e Bersani, di schivare un’altra occasione di voto parlamentare a rischio e possibile crisi, e di evitare di andare alle elezioni con questa legge elettorale, lavorando per cercare di arrivare a un governo d’emergenza che si dia l’obiettivo di cambiarla e coinvolgendo in questo processo anche la Lega.

Al momento, infatti, Bossi non ha nulla da guadagnare a stare fermo: se il governo va avanti così, le probabilità di veder completato l’iter del federalismo sono ridotte, a meno di aprire una trattativa parallela con Fini, che chiederà in cambio un rafforzamento dell’unità nazionale indigesto per la Lega e i suoi elettori.

E se la prospettiva diventa quella delle elezioni anticipate, il ritardo con cui ci si arriverebbe rispetto ai piani originari di Bossi, che le avrebbe volute subito, alle prime avvisaglie della divaricazione tra i due ex-cofondatori del Pdl, e comunque entro l’anno, cominciano a rendere più conveniente, per la Lega, presentarsi da sola.

Più avanti si va, infatti, e più il vantaggio dell’accordo a tavolino con il Cavaliere sul numero e sui nomi degli eletti al Nord, grazie alla legge attuale che consente di «nominare» i parlamentari, rischia di essere riequilibrato dall’handicap di correre con un Berlusconi appesantito dalla piega che hanno preso le cose e non in grado di uscire con certezza dal voto con una maggioranza al Senato oltre che alla Camera.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7902&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #200 inserito:: Ottobre 05, 2010, 12:34:35 pm »

5/10/2010 - TACCUINO

Nessun governo tecnico senza accordo sulla legge elettorale
   
MARCELLO SORGI


Di fronte al ministro dell’interno leghista Maroni, che ripete che se la maggioranza non terrà, in uno dei numerosi appuntamenti parlamentari delle prossime settimane, le elezioni diventeranno inevitabili, il leader del Pd Bersani e il capogruppo finiano Bocchino hanno sostenuto il contrario. In Parlamento, a loro giudizio, esistono i numeri per dar vita a un nuovo governo incaricato di riformare la legge elettorale «Porcellum» attualmente in vigore, e solo dopo, eventualmente, andare al voto. Dopo di loro, anche il leader del Mpa e governatore della Sicilia Lombardo, i cui deputati alla Camera sono stati decisivi a favore del governo nella votazione della settimana scorsa, s'è schierato in questo senso.

L’ipotesi poggia anche sulla ragionevole previsione che, in caso di dimissioni di Berlusconi concordate con la Lega per ottenere lo scioglimento delle Camere, il Capo dello Stato, basandosi sul precedente di due anni fa, non potrebbe evitare di fare un accertamento sull’esistenza o meno di altre maggioranze in Parlamento, e in quel caso dar vita al tentativo di formare un governo di fine legislatura.

Di per sè, l’obiettivo di riformare il «Porcellum» è legittimo. Ma diventa realistico solo se i partiti che se lo propongono sono in grado di raggiungere un’intesa di massima su come modificare la legge. Ma su questo, il consenso che pare maggioritario, al momento, sull’ipotetico governo d’emergenza, rischia di incrinarsi. Già solo nel Pd, che guarda a Fini come possibile alleato, ci sono almeno due posizioni in materia: quella, di matrice dalemiana, a favore di una riforma alla tedesca che consentirebbe di agganciare alla coalizione i centristi di Casini, e quella bipolare, recentemente ribadita da Veltroni, e a cui Fini è più vicino, che si oppone a questa prospettiva. Inoltre, una volta riaperto il discorso, Di Pietro e la sinistra radicale premerebbero per un abbassamento della quota di sbarramento, attualmente prevista al 4 per cento per la Camera e all’8 per cento su scala regionale per il Senato. Quanto alla Lega, è difficile prevedere cosa farebbe, partendo Bossi da una posizione proporzionalista. L’idea che Napolitano, senza avere tra le mani un’ipotesi di riforma condivisa dai partiti avversari del «Porcellum», apra la strada a un nuovo governo, destinato a uno scontro frontale con Berlusconi in nome delle scelte fatte dagli elettori nel 2008, è fuori discussione. I fautori del governo elettorale farebbero bene a prendere atto di questo dettaglio, che non è affatto indifferente.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7918&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #201 inserito:: Ottobre 06, 2010, 05:34:15 pm »

6/10/2010 - TACCUINO

Le ragioni della proliferazione
   
MARCELLO SORGI

Ci sono almeno tre ragioni per cui in Italia proliferano i partiti e ne nascono sempre di nuovi. La prima, ci si passi il termine, è storica: la Seconda Repubblica nacque, sì, bipolare e maggioritaria, come volevano gli elettori del referendum del 1993, ma, quando si trattò di mettere a punto la legge elettorale, fu subito reintrodotto un canale proporzionale per cui i cittadini votavano nei collegi scegliendo insieme il candidato e il partito, oltre che la coalizione e il governo. Questo consentì in breve, già nel corso della prima legislatura 1994-’96, di arrivare a una quarantina e passa di sigle presenti in Parlamento. La seconda ragione è politica e culturale: anche ora che eravamo arrivati a tentare di sostituire il bipolarismo rissoso delle coalizioni con un tendenziale bipartitismo di partiti a vocazione maggioritaria, a dettare la linea sono sempre i piccoli, la Lega e adesso Fini nel centrodestra, Di Pietro nel centrosinistra. Il potere di veto è l’unico vero potere che funziona in Italia.

Inoltre, essendo venuto meno qualsiasi cemento ideologico - ammesso che di cemento si trattasse - le fusioni sono diventate più facili, ma altrettanto le scissioni. Post-democristiani e post-comunisti si mettono insieme, poi scoprono che su un sacco di cose importanti non vanno d’accordo e si dividono o si scindono. E lo stesso accade tra riformisti e conservatori e ovviamente tra post-fascisti e berlusconiani. Con un’aggravante, in quest’ultimo caso: la Seconda Repubblica essendo stata fondata da Berlusconi, tutto quel che accade al suo interno si svolge in campo berlusconiano o antiberlusconiano. Chi non trova più spazio o non si sente più a suo agio nel primo, passa automaticamente nel secondo, avendo cura, prima di traghettare, di fondare un partito o almeno di minacciarne la fondazione. Vale anche il contrario, naturalmente. Vedi quel che è accaduto nei giorni scorsi alla Camera.

Terza e ultima ragione: fondare un partito è conveniente. Non esiste un Paese, come il nostro, in cui sotto la copertura del rimborso delle spese elettorali i partiti vengano foraggiati dallo Stato con fondi pubblici più generosi. E dire che quasi vent’anni fa s’era votato in un referendum per abrogare il finanziamento pubblico dei partiti. Abolito nelle urne, il sistema è rinato con una legge che ha fatto sì che negli ultimi dieci anni lo stesso finanziamento sia praticamente decuplicato, allargandosi alle spese per qualsiasi tipo di elezioni, comunali, provinciali, regionali ed europee, oltre che politiche. Tra poco, se la moda delle primarie prenderà piede in modo meno intermittente, si farà una nuova legge per rimborsare anche quelle. E i gazebi della Lega, per par condicio.

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« Risposta #202 inserito:: Ottobre 08, 2010, 01:01:48 pm »

8/10/2010 - TACCUINO

Il duello non è finito ma solo sospeso
   
MARCELLO SORGI

Inaugurata due giorni fa con la conferenza stampa in cui il premier ha escluso ancora una volta le elezioni anticipate, la tregua Berlusconi - Fini ha ricevuto ieri una conferma da parte del Presidente della Camera.

Nell'intervista al programma di Santoro "Annozero", infatti, Fini ha spiegato di non credere all'ipotesi di scioglimento anticipato delle Camere, di essere disposto a collaborare all'approvazione del Lodo Alfano costituzionale e di immaginare d'ora in poi un rapporto di consultazione del Pdl con Futuro e libertà, dal momento che la maggioranza di centrodestra poggia adesso su tre gambe, e non più su due.

Di più l'ex-cofondatore non voleva e forse non poteva dire, la tregua essendo per ora appesa a uno stallo inevitabile e a un chiarimento neppure cominciato sulla possibilità che il governo arrivi a fine legislatura e sul percorso che dovrebbe assegnarsi. L'approvazione ieri in consiglio dei ministri di un'altra parte importante dell'attuazione del federalismo gratifica ovviamente la Lega, ma in nessun modo affronta le richieste venute da Fli in materia di rafforzamento dell'unità nazionale, che restano dunque sospese, e in mancanza dei quali il varo definitivo dello stesso federalismo resta appeso ai finiani. Il via libera alla ripresa della trattativa sul Lodo Alfano, dopo lo stop and go di fine estate, lascia aperto il problema dello scudo temporaneo, che Berlusconi rivendica fino alla conclusione del complesso iter parlamentare della legge costituzionale, ma che Fini e i suoi hanno bollato fin qui come l'ennesima inaccettabile legge ad personam. Anche il richiamo alla riforma della legge elettorale, che Berlusconi e Bossi hanno detto chiaramente di non volere (a meno di non introdurre ulteriori facilitazioni sul premio di maggioranza, come dice la proposta del Pdl presentata al Senato), fa capire che Fini non vuol chiudere del tutto il filo di comunicazione con l'opposizione, a partire dal Pd che spinge ancora per la cancellazione del Porcellum e per il varo di un governo d'emergenza, mirato proprio alla riforma elettorale, in caso di nuova rottura della maggioranza di centrodestra.

Siamo dunque ancora ben lontani da un'effettiva ripresa della collaborazione tra i due pezzi ormai separati del partito del premier. E più che di vero riavvicinamento, dopo aver ascoltato un giorno dopo l'altro Berlusconi e Fini, forse si può parlare di un assai diffidente scrutarsi a distanza. Il duello non è finito, non è neppure archiviato, forse è solo sospeso. E i due leader, nell'attesa, sono fermi, assolutamente fermi.

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« Risposta #203 inserito:: Ottobre 09, 2010, 03:55:31 pm »

9/10/2010

I democratici e il tormentone anti-Berlusconi
   
MARCELLO SORGI

Anche se non va giudicata prima della conclusione, la sfida nordista del Pd lanciata ieri da Malpensa fiere, in pieno territorio leghista, s'è aperta con un evidente strabismo. Invece di spiegare le ragioni della propria competizione con la Lega, che qui è nata vent'anni fa ed è oggi primo partito, il Pd, con la sua presidente Rosi Bindi che ha introdotto la discussione, è tornato ad attaccare Berlusconi, sorvolando tra l'altro elegantemente sulle ultime cadute di stile del premier nei suoi confronti.

Nei due giorni di dibattito interno, la lacuna potrà essere esaurientemente colmata. Eppure, da un'iniziativa del genere, presentata con enfasi, era lecito attendersi una specificità che non s'è vista, sia nell'analisi del perché il Carroccio ha potuto costruire il suo primato nell'area economicamente più forte del Paese, sia nella denuncia della sua omologazione alla più vecchia tradizione politica e partitica italiana, a cominciare dalle promesse mancate nei sedici anni da cui, a diverse riprese, la Lega è al governo con il centrodestra.

Basterebbe guardarsi attorno, o chiedere alla gente del luogo (ci sarà pure una sezione del Pd, tra Busto Arsizio e Varese), per sapere che i leghisti cominciarono a mettere radici in questo territorio con la storica battaglia contro i pedaggi alti della Milano-Varese e a favore dell'abolizione del casello autostradale. Bene: a vent'anni, quasi, da quella battaglia, il pedaggio continua a crescere (tra l'altro per pagare una parte dei progetti preparatori del ponte sullo Stretto di Messina) e il casello è stato ristrutturato e ingrandito. Per il Carroccio che partecipa al governo nazionale e a quello regionale e provinciale, e per un partito che ha fatto della rappresentanza del territorio la sua ragion d'essere, non è proprio un gran successo. E il Pd, al posto di parlare ancora una volta di Berlusconi, del Papa interno o straniero che deve eleggere e di primarie, se davvero vuol tentare di intercettare la gente del Nord, potrebbe candidarsi a rialzare la bandiera del pedaggio e dell'autostrada.

Era a questo genere di pragmatismo, a un'indispensabile prova di umiltà, alla necessità di ripartire dal basso, dai problemi veri dei cittadini, che il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, non più tardi di un mese fa, aveva cercato di richiamare il suo partito con un appassionato libro nordista e di sinistra, che perfino nel vecchio Pci avrebbe aperto subito una discussione. Ma il Pd, naturalmente, lo ha archiviato prima di leggerlo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7936&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #204 inserito:: Ottobre 10, 2010, 09:35:42 am »

10/10/2010 (7:20)  - RITRATTO


Le vicende personali hanno consumato l'esecutivo

I problemi nati da aspetti della personalità del premier e da alcuni suoi guai giudiziari

MARCELLO SORGI
ROMA

Un paradosso evidente accompagna il midterm italiano - la metà della legislatura, segnata dall’ipoteca delle elezioni anticipate -, una scadenza che Berlusconi si accinge a celebrare con un opuscolo pubblicitario inviato nelle case dei cittadini.
Il paradosso, in sostanza, è questo: Berlusconi non è che non sappia governare, ma non sa far politica.

Se la valutazione si fermasse ai risultati dell’azione di governo, infatti, il paragone tra i due anni e mezzo di Berlusconi e i due anni scarsi di Prodi si risolverebbe chiaramente a favore del primo. Non solo per l’avvio brillante sulle montagne di rifiuti di Napoli lasciate in eredità dall’ultimo esecutivo di centrosinistra, o per la capacità di far fronte all’emergenza del terremoto dell’Aquila. Niente Dico, tanto per fare un esempio, e per ricordare il primo grande pasticcio che sulle coppie di fatto si aprì nella coalizione del Professore. E soprattutto, niente svolta rigorista, come quella, pur necessaria, della famosa manovra del 2006 del ministro Padoa-Schioppa, che agli italiani diede la sensazione di uno scuoiamento, più che di una tosatura. Piuttosto, in materia di economia, la prudenza di Tremonti, il taglio alle spese inutili e l’adesione disciplinata ai parametri europei. E più in generale, come regola, il pragmatismo, ancorato a un numero essenziale di missioni e di riforme.

Purtroppo i problemi sono nati da certi intuibili, ma al contempo imprevedibili, aspetti della personalità del premier, e dal tentativo di adattare all’inasprimento dei suoi problemi giudiziari la riforma della giustizia. Qui appunto, in frangenti così delicati, avrebbe dovuto venire in soccorso la politica. E se la politica forse sarebbe servita a poco, per un presidente del Consiglio che una sera a sorpresa del 2009 decide di partecipare alla festa di compleanno di una diciottenne a Casoria, nell’hinterland napoletano più degradato, o che si ritrova a letto con una escort che maneggia di nascosto un registratore, al contrario avrebbe potuto aiutarlo nella circostanza dei processi per corruzione che lo riguardano, svincolati dalla sentenza della Corte costituzionale un anno fa e ormai venuti a maturazione.

Si sa: Berlusconi è convinto che la politica sia solo «teatrino» e che la gente, la sua gente, non sopporti le contorte liturgie del potere. E tuttavia ce ne corre, da questo, a impostare la battaglia sulla giustizia come sua crociata personale, il giudizio di Dio tra se stesso e la magistratura politicizzata, l’undicesimo comandamento da scrivere sulle Tavole, per impedire che le toghe tocchino ciò che il popolo ha unto con il suo voto. Né vale scaricare tutto sull’alleato infedele, divenuto oggi quasi solo un rivale: perché Fini e i suoi avevano approvato ad inizio di legislatura il lodo Alfano, il salvacondotto che doveva proteggere Berlusconi dai processi per tutta la legislatura, e avevano riapprovato dopo la sentenza della Consulta il legittimo impedimento, una nuova e provvisoria forma di protezione, in attesa di arrivare appunto a quella definitiva, e costituzionale, che avrebbe dato al premier una definitiva tranquillità.

Invece un altr’anno è trascorso tra polemiche e scontri con lo stesso Fini che in quest’ambito doveva essere considerato (e trattato come) alleato privilegiato. È vero che Fini - con le sue posizioni in materia di immigrazione, sicurezza e sul tema della vita, con continui distinguo e polemiche, e con la rottura cominciata nella fatidica direzione Pdl del 22 aprile e conclusa a fine luglio dalla separazione dal partito e dalla nascita dei gruppi di Futuro e Libertà -, non ha fatto nulla per venire incontro al Cavaliere. Ma è anche vero che Berlusconi, approfittando della campagna sulla casa di Montecarlo venduta da An e occupata dal cognato del Presidente della Camera, ha giocato questa partita come un altro duello mortale, in cui alla fine uno dei due contendenti non doveva più rialzarsi da terra. Così che, malgrado i risultati non disprezzabili dell’azione di governo, sarebbe temerario oggi scommettere sulla durata del Berlusconi IV per l’intera legislatura. La tregua inaugurata in questi giorni dagli ex-cofondatori non deve ingannare: i due leader sono fermi ciascuno sulle sue posizioni, animati da un reciproco insaziabile desiderio di vendetta. E il terzo socio della coalizione, Bossi, non vede l’ora di andare alle elezioni per trarne i vantaggi che tutti pronosticano per la Lega.

La riduzione della politica a questione personale, fino alla sua pratica cancellazione, non ha solo consumato il governo, ma anche tutta l’idea della governance unica e personale di Berlusconi, il suo tentativo di applicare alla guida del Paese le regole aziendali, l’impazienza, i sotterfugi, le scorciatoie, i cui limiti emergono ogni giorno dall’estrema querelle sulla giustizia. Basta solo guardare quel che succede: come faceva ai tempi degli affari, e come se tutto gli fosse consentito, pur di arrivare al risultato, a trattare sul problema che per lui è ormai di vita o di morte, Berlusconi ha messo Alfano, Letta e Ghedini. Il ministro di giustizia talvolta indicato come suo delfino, il sottosegretario braccio destro che lo ha sempre salvato nei momenti più rischiosi, l’avvocato-deputato che ne sa una più del diavolo. Tre diversi emissari, con tre differenti stili e metodi, tre percorsi paralleli e la stessa limitata autonomia. Non gli passa neppure per la testa che stavolta, se davvero ha a cuore il governo e le sorti del centrodestra, dovrà cedere qualcosa di personale. E per questo, ancora una volta le sorti del Paese si identificano con quelle, incerte, di Berlusconi.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201010articoli/59270girata.asp

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« Risposta #205 inserito:: Ottobre 12, 2010, 10:29:29 am »

12/10/2010 - TACCUINO

Prove di tregua, ma le urne restano lì
   
MARCELLO SORGI

Preceduta da un’inattesa stretta di mano con Fini, la settimana di riposo forzato che i chirurghi hanno imposto a Berlusconi, dopo il piccolo intervento, per altro perfettamente riuscito, a cui si è sottoposto ieri, avrà certamente l'effetto di un raffreddamento del clima politico. Le ultime polemiche, a ridosso della morte dei quattro alpini in Afghanistan, riguardano la possibilità di rinforzare l’armamento degli aerei della missione italiana: una decisione che deve ovviamente essere presa in Parlamento, ma che ha riaperto il dibattito sulla durata dell’intervento e riproposto (da parte di Di Pietro e della sinistra radicale) le richieste di ritiro dei nostri soldati.

Ieri mattina l’ovvio scambio di saluti tra premier e Presidente della Camera ha moltiplicato le voci su un riavvicinamento dei due ex-cofondatori, dopo mesi e mesi di guerriglia a distanza. I collaboratori di entrambi si affannano a ripetere che ormai la prospettiva di elezioni anticipate s’è allontanata e presto o tardi si riuscirà anche a trovare una quadra sul salvacondotto giudiziario per Berlusconi: si tratti di una modifica del legittimo impedimento in vista del possibile intervento anche su questa legge della Corte costituzionale, o di altro. In realtà malgrado le speranze delle colombe dei due schieramenti, le ultime mosse dei duellanti non hanno del tutto cancellato l’ipotesi di uno scioglimento delle Camere. Fini lavora alacremente alla realizzazione del partito di Futuro e libertà, e all'interno del suo gruppo si continua a non escludere la possibilità che più avanti, se la scadenza del voto sarà a marzo, il Presidente della Camera possa dimettersi per tenersi le mani più libere e guidare in prima persona la campagna elettorale.

Anche lo scrollone domenicale di Berlusconi al Pdl va in questa direzione. La pezza pietosa messa da Bonaiuti alle estemporanee affermazioni del premier non ha dissolto minimamente la convinzione diffusa che il Cavaliere sia prossimo a rimettere le mani sulla sua creatura, perché considera l’attuale stato di degrado del partito alla base del calo dei sondaggi. Si torna a parlare di un nuovo «predellino», nel ricordo della fondazione a sorpresa in Piazza San Babila del Popolo della Libertà. Tutto accadde all’improvviso, una domenica di novembre del 2007. Cinque mesi dopo, con la caduta di Prodi, la legislatura s’interruppe, la parola passò agli elettori e Berlusconi si prese la rivincita.

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« Risposta #206 inserito:: Ottobre 13, 2010, 05:14:38 pm »

13/10/2010 (7:48)  -

DOSSIER LEGISLATURA AL GIRO DI BOA / MISSIONE 3: PIU' SICUREZZA, PIU' GIUSTIZIA

La doppia sfida di Alfano il Guardasigilli a responsabilità limitata

Alla ricerca di un difficile armistizio con la magistratura e di un salvacondotto per i processi del premier

MARCELLO SORGI

Il fisico ce l'avrebbe. Scuola ed esperienza non gli mancano. Eppure ad Angelino Alfano, giovanissimo ministro Guardasigilli della Giustizia (compie quarant'anni a fine mese), nel cuore di Berlusconi che lo ha voluto al governo come simbolo del ricambio generazionale, e s'è spinto a parlarne come di un suo possibile successore, per ora tocca pedalare in salita.

La doppia sfida su cui si misurerà il suo destino - entrare nella ristretta cerchia dei candidati leader del centrodestra del futuro, o finire notabilizzato come molti degli stretti collaboratori del Cavaliere per nulla rassegnato a mollare - è legata al suo attuale e complicatissimo incarico. Alfano dovrà cercare prima di tutto di sfuggire alla maledizione che nella Seconda Repubblica ha accompagnato tutti i ministri della giustizia, impegnati a cercare un armistizio tra magistratura e politica, dopo il terremoto di Tangentopoli che mise a terra un'intera classe dirigente e aprì la strada - una strada strettissima - a quella attuale, senza mai riconoscerle il diritto di ristabilire il cosiddetto primato della politica.

Si tratti di anziani e collaudati professionisti della Prima Repubblica come Biondi, di emeriti studiosi come Conso, di altissimi, quanto eccentrici, magistrati come Mancuso, di avvocati di chiara fama come Flick, o di paracadutati come il leghista Castelli, che da quell'esperienza, com'è facile vedere quando si presenta in tv, è uscito quanto meno turbato, se la sono vista brutta tutti, dicasi tutti, i Guardasigilli succedutisi dal fatale 1992 ad oggi. Nella maggior parte dei casi la loro carriera politica ha subito una brusca interruzione, altre volte hanno dovuto sopportare emarginazioni, degradazioni e ingiuste punizioni, solo per aver cercato di svolgere un compito politico che, non solo i presidenti del consiglio, ma le intere coalizioni di cui facevano parte avevano loro affidato, inserendolo con grande evidenza nei programmi elettorali.

Si dice: riforma della giustizia. Ed è evidente che c'è riforma e riforma, quella del centrodestra essendo più radicale e di conseguenza più avversata dalla magistratura, e quella del centrosinistra leggermente più morbida, ma non per questo destinata a percorrere più tranquillamente i tortuosi corridoi parlamentari. Al dunque, con contorni più o meno forti, c'è la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistratura giudicante, che i giudici non vogliono mandar giù. C'è la duplicazione e la modifica del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. C'è la limitazione delle intercettazioni, già tentata e fallita dal centrosinistra e poi riproposta ed abbandonata dal centrodestra. C'era, finché erano in campo i reduci della Prima Repubblica, la materia ingestibile del cosiddetto "colpo di spugna", l'impossibile riabilitazione, a qualsiasi titolo, del personale politico colpito dai processi di Mani pulite, che in molti casi tuttavia è riuscito a rimettersi in gioco lo stesso. E c'è ovviamente il problema dei problemi: il salvacondotto dai processi per corruzione che riguardano Berlusconi, su cui l'attuale maggioranza è divisa e rischia nuovamente di rompersi e arrivare a elezioni anticipate.

Qui s'innerva la seconda sfida del giovane Angelino. Va detto subito che la vittoria o la sconfitta in questo campo non dipendono dalle sue capacità. Diversamente da suoi anche recenti predecessori, Alfano deve infatti fare i conti con un ruolo - senza offesa - di ministro a responsabilità limitata. Formalmente, infatti, sono sue la titolarità dell'amministrazione della giustizia, dei rapporti con il potente sindacato Anm dei magistrati, con le personalità e le lobbies che agiscono in questo settore, con il Presidente della Repubblica che, come capo supremo della magistratura, ha un ruolo molto importante e può esercitare in quest'ambito una più forte moral suasion, con l'insieme del governo e con i partiti da cui è composta la maggioranza.

Ma di fatto, con l'attuale sistema di governance berlusconiana, il ministro deve condividere le sue competenze con Palazzo Chigi, e in particolare con Gianni Letta, incaricato della difficile ricucitura con i finiani, e con Niccolò Ghedini, il dottor Stranamore che il Cavaliere ha messo alle calcagna di Giulia Bongiorno, l'altra avvocata-deputata di cui Fini si fida ciecamente, quando non con il coordinatore Verdini e il sottosegretario Caliendo, che si danno appuntamento per strane cene con massoni e per condizionare la Consulta e finiscono inquisiti per la P3. Angelino insomma ha il suo bel da fare a darsi appuntamento con Italo Bocchino, il capogruppo di Futuro e libertà, nel bar vicino alla scuola frequentata dai loro bambini. Ammesso e non concesso che quell'incontro, come molti altri, possa servire, il risultato dovrà passare al setaccio degli altri due triumviri Letta e Ghedini e al vaglio dell'umorale volontà di Berlusconi.

Ce la farà il giovane ministro là dove tanti prima di lui hanno fallito? Difficile dirlo. La bocciatura da parte della Corte costituzionale del lodo che porta il suo nome e la necessità, per il premier, di sostituirlo con una leggina provvisoria (il "legittimo impedimento" che già richiede di essere prolungato), in attesa di una soluzione definitiva, hanno reso il suo compito più arduo. Resta il fatto che Angelino le carte in regola ce l'avrebbe: il curriculum democristiano (e siciliano, con le inevitabili, faticosamente e mai completamente chiarite, ombre paramafiose che subito si sono allungate sulla sua carriera, dopo la sua partecipazione al matrimonio della figlia di un boss), la tradizione di famiglia che gli viene dal padre sindaco e piccolo capo corrente Dc, il cursus honorum cominciato a soli 25 anni all'Assemblea regionale siciliana e approdato a 38 al governo nazionale. E ancora, il buon portamento, il look elegante e i vestiti di buona sartoria indispensabili per piacere a Berlusconi, una bella moglie, Tiziana, conosciuta ai tempi del liceo ad Agrigento, una famiglia tradizionale con due figli, Cristiano, otto anni, e Federico, quattro, che ormai vivono stabilmente a Roma con lui. La biografia c'è tutta, si direbbe. Ma vuoi mettere le incognite del berlusconismo calante?

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« Risposta #207 inserito:: Ottobre 13, 2010, 05:15:17 pm »

13/10/2010

C'è nell'aria un'ipotesi di scambio

MARCELLO SORGI

Contrariamente alla sensazione, - meglio sarebbe dire: al riflesso condizionato - che si diffonde nei corridoi parlamentari ogni qual volta Fini prende la parola, non è detto, come invece tutti sono disposti a scommettere, che il presidente della Camera lavori attivamente per arrivare alle elezioni anticipate. Si tratti della riforma della giustizia, di cui due giorni fa, con un gruppo di corrispondenti di giornali stranieri, ha parlato come di possibile causa di crisi di governo, o di quella elettorale, di cui ha chiesto ieri al presidente del Senato lo spostamento del dibattito alla Camera, Fini sta semplicemente facendo ciò che aveva annunciato un mese fa a Mirabello, quando presentò il programma del suo nuovo partito.

Si può discutere sul fatto che, giorno dopo giorno, il suo ritrovato ruolo di leader politico collida con i compiti di imparzialità propri di un presidente di assemblea: ed infatti Fini avrebbe fatto meglio a dimettersi nel momento in cui decideva di fondare un partito e assumerne la guida.

Ma sugli sviluppi dell’attuale legislatura, gravata da una rottura nella maggioranza che non si riesce a sanare, il nuovo capo di Futuro e libertà ha idee piuttosto chiare. Fini ritiene, infatti, che se Berlusconi e Bossi, anche per ragioni diverse, dovessero puntare allo scioglimento anticipato delle Camere, in Parlamento, grazie anche alla volontà di deputati e senatori di non andare a casa, potrebbe manifestarsi una maggioranza diversa dall’attuale, contraria al voto e favorevole al compimento di alcune indispensabili riforme.

Queste riforme - e qui sta la novità - andrebbero approvate con il concorso degli stessi Berlusconi e Bossi, in presenza dell’attuale governo, e in un libero confronto parlamentare tra forze di maggioranza e di opposizione. Quindi Fini non pensa di sottomettere Berlusconi e ridurlo in minoranza: al contrario è convinto che proprio la necessità del premier di definire rapidamente per se stesso un nuovo salvacondotto giudiziario, e nel contempo la difficoltà di mettere in cantiere una nuova «legge ad personam», possano creare un circuito virtuoso per uscire dall’attuale stato di paralisi. In altre parole uno scambio, in cui il Cavaliere accetterebbe di confrontarsi, e non di imporre una nuova diavoleria del suo solito Ghedini, ricevendo l’assicurazione che una soluzione verrebbe trovata, ma aprendo pure la strada alla riforma elettorale e abbandonando il veto posto finora sul «Porcellum».

Al momento, questa è l’unica possibilità di uscire dall’impasse, che offra alla legislatura una prospettiva, magari non fino al 2013, e crei i presupposti per una nuova competizione, aperta e non più fondata su una legge che assegna la maggioranza a chi prende i voti di poco più di un quarto degli elettori. Le probabilità che Berlusconi possa accostarsi a un’ipotesi del genere - va detto - sono pochissime. Ma motivare il rifiuto di una proposta così ragionevole, è altrettanto sicuro, non sarà facile, per il premier che anche i suoi medici, ormai, riconoscono sfiancato dal lungo conflitto degli ultimi mesi.

Del resto Fini, sulla base di questa impostazione, è determinato a rifiutare le offerte, ripetute da Bersani e dal Pd, di mettere su una sorta di Comitato di liberazione nazionale da Berlusconi. Il leader di Futuro e libertà riconosce al premier pieno diritto di governare, e in nessun modo intende contraddire la scelta degli elettori di due anni fa. Vuole però che la conclusione della legislatura - naturale o anticipata, ma non troppo, che sia, per effetto dell’approvazione della legge elettorale - coincida con un voto che non si traduca in un ennesimo referendum su Berlusconi e consenta di aprire una nuova fase.

Non è indifferente, poi, che allo stesso modo, più o meno, la pensino, sia il leader dell’Udc Casini, che non a caso ha precisato che un eventuale governo di «responsabilità nazionale» per fare le riforme dovrebbe essere guidato da Berlusconi. Sia il Capo dello Stato, determinato a spronare le forze politiche a por mano seriamente alle riforme più urgenti, a cominciare dalla giustizia, e risoluto a sgomberare il campo da soluzioni pasticciate di governi d’emergenza, da formare solo per evitare le elezioni anticipate.

Una maggioranza numerica, ma non politica, per il cambiamento della legge elettorale esiste d’altra parte alla Camera, ma non al Senato: e all’interno di questa ipotetica maggioranza le posizioni dei diversi partiti sono distanti e il tentativo di avvicinarle a forza, più in negativo (per esempio contro il premio di maggioranza), che in positivo (per tornare ai collegi uninominali), si presenta quanto mai avventuroso. Esiste invece, sia pure in linea teorica, l’eventualità che lo scontro che ha minato fin qui la legislatura si risolva. Occorre solo che Berlusconi, appena uscito dalla convalescenza, si renda conto che se torna a fare politica, uscendo dalla gabbia dei risentimenti personali, può ancora avere un ruolo di guida in una stagione che diventerebbe subito, nuovamente, importante.

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« Risposta #208 inserito:: Ottobre 14, 2010, 12:05:10 pm »

14/10/2010 - TACCUINO

La riconferma della Bongiorno segnale politico del premier
   
MARCELLO SORGI

Merita un di più di attenzione la rielezione plebiscitaria (40 voti su 48) di Giulia Bongiorno alla presidenza della commissione giustizia della Camera, in una giornata che non ha visto sorprese anche nei rinnovi delle altre commissioni, ed è stata definita dal capogruppo del Pdl Cicchitto come la sconfitta degli “sfasciacarrozze”.

Pur essendo in Parlamento da due legislature, Bongiorno ha sempre mantenuto un profilo tecnico. Nota anche prima di entrare in Parlamento come l’avvocatessa del processo Andreotti, che accolse la sentenza favorevole al senatore con un “e vai!” da stadio, è diventata più di recente la consigliera in materia legale di Fini. E’ stata lei a trattare sul lodo Alfano, sulle intercettazioni e più in generale sulla riforma della giustizia con Nicolò Ghedini, l’avvocato di fiducia del Cavaliere. In quest’ambito, d’intesa con il Presidente della Camera, s’è mossa per trovare delle soluzioni, più che per far saltare il banco. E quando, alla fine di una di queste trattative, Berlusconi decise di far cadere il compromesso raggiunto sulle intercettazioni, Giulia Bongiorno fu la prima a restarne sorpresa.

Perché allora Giulia, che non s’è mossa mai fuori del suo campo, e ha gestito con grande cautela anche la spinosa questione estiva della casa di Montecarlo, s’è trovata a ricevere un consenso bipartisan al momento della rielezione alla presidenza della commissione giustizia, da quegli stessi deputati di opposizione che in aula avrebbero magari votato contro le soluzioni da lei concordate con Ghedini?

Innanzitutto perché, per alcuni giorni, non è un mistero, la Bongiorno è entrata nel mirino di Berlusconi, che avrebbe voluto trovare un candidato diverso per la guida della commissione. Questo ha spinto i gruppi di opposizione di Pd e Udc, che con i voti di Futuro e libertà avrebbero potuto raggiungere egualmente la maggioranza ed eleggerla, a farne una candidata a dispetto del premier. E di conseguenza ha portato anche il Pdl a rinunciare al suo ostracismo, evitando così che nel voto per le commissioni prendesse forma l’accordo trasversale tra Pd, Udc e Fli, che rappresenta ormai un incubo per il premier perchè potrebbe ripetersi, domani, a favore di un eventuale governo d’emergenza.

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« Risposta #209 inserito:: Ottobre 16, 2010, 09:02:13 am »

16/10/2010

Un altro passo verso il baratro

MARCELLO SORGI

È in qualche modo segno dei tempi, la convocazione a sorpresa di Berlusconi da parte della magistratura romana, per lo stralcio dell’inchiesta milanese sui fondi neri Mediaset. Uno stralcio, va detto subito, di assai modesta entità, grazie anche agli effetti della legge Cirielli, una delle tante norme «ad personam» volute dal premier, per accorciare i termini di prescrizione. L’accusa originaria per
l’azienda di famiglia del Cavaliere s’è negli anni ridimensionata, dai mille miliardi di lire ad alcune decine di milioni di euro di evasione, in una serie di transazioni sul mercato off-shore dei diritti di film destinati alle tv berlusconiane. A dispetto di tanti giudici onesti che vestono la toga con onore, infatti, la Procura di Roma da decenni si porta dietro l’ingiuria del «Porto delle nebbie». Governi e ministri di tutti i tempi, colpiti da inchieste, hanno sempre cercato di spostare i loro guai giudiziari nella Capitale.

Non perché speranzosi di un esame più benevolo delle accuse che li riguardavano, ma perché a Roma i tempi, già lunghissimi, dei processi, subiscono un ulteriore rallentamento. E nei meandri del «Palazzaccio», com’è chiamato l’edificio in riva al Tevere, che oggi ospita solo la Cassazione, i processi spesso si dissolvono senza una vera ragione, e soprattutto senza arrivare a sentenza. Ma se anche l’indolente liturgia delle toghe romane - già perseguita, anni fa, in una lotta fratricida, dai colleghi milanesi - ha avuto un soprassalto, significa che qualcosa sta cambiando. E senza andare tanto lontano, vuol dire che la magistratura della Capitale, la più contigua, non fosse che per ragioni geografiche e toponomastiche, ai Palazzi del potere politico, ha percepito i sintomi della dissoluzione del centrodestra sullo specifico e insidioso terreno della riforma della giustizia. Una riforma tante volte annunciata, a pezzi e nel suo insieme, e finora mai realizzata per mancanza di accordo. Ma sulla quale adesso il Cavaliere ha deciso di giocare in un sol colpo la posta dell’intera legislatura.

Saranno pure coincidenze, chi può dirlo. Eppure, se si mettono in fila le cronache giudiziarie degli ultimi mesi, la sensazione si rafforza. In passato quando mai si sarebbe vista un’inchiesta come quella che - stringendosi attorno alla «cricca» del costruttore Anemone e del Provveditore alle Opere pubbliche Balducci - è arrivata a sfiorare Palazzo Chigi, le Mura Vaticane e la felpata schiera dei gentiluomini di Sua Santità? Con la rivelazione, che ha fatto altro rumore, di una quinta colonna tra gli alti gradi della stessa magistratura inquirente, e le conseguenti dimissioni dal suo ufficio del procuratore aggiunto della capitale Achille Toro, accusato di aver passato informazioni riservate ai futuri imputati.

Vanno inquadrate in questo stesso filone l’inchiesta sulla cosiddetta P3, che coinvolge il coordinatore del Pdl Denis Verdini, e adesso anche quella che ha portato alla convocazione di Berlusconi. Convocazione tardiva, in extremis, se è vero che di qui a pochi giorni tutto l’incartamento sarebbe caduto in prescrizione, e invece la chiamata del presidente del Consiglio, che si avvarrà del «legittimo impedimento», darà un altro anno e mezzo di tempo agli inquirenti per inquisirlo.

Naturalmente nessuno può mettere in dubbio le ragioni della Procura, specie in casi in cui l’intreccio di interessi obliqui e illegali è evidente. Non è in discussione, in altre parole, che la giustizia debba fare il suo corso. Quel che colpisce è solo il cambio di velocità, dalla marcia lenta alla corsa. È inevitabile, ancorché indimostrabile, che il nuovo ritmo abbia risentito del rilancio della riforma della giustizia e dell’intenzione annunciata dal premier di andare allo scontro, non più con le toghe politicizzate, ma con la magistratura nel suo insieme.

Indipendentemente dalle nuove accuse piovutegli sul capo, è su questo che Berlusconi dovrebbe riflettere. Com’è impostata - una sorta di redde rationem con i magistrati -, la riforma non va da nessuna parte. Basta solo rileggere le proposte: la nuova bozza, tanto per fare un esempio, aggiunge anche l’ipotesi di obbligare la Corte Costituzionale ad approvare le sue sentenze con maggioranze di due terzi.
A parte il fatto che un’innovazione come questa richiederebbe una nuova legge costituzionale, come quella che faticosamente sta affrontando l’iter parlamentare per restaurare il lodo Alfano, si può pensare che una norma del genere trovi davvero l’appoggio di cui ha bisogno per essere approvata, a cominciare dal «sì» di Fini? E si può credere, nel caso in cui si ritenga di vararla con legge ordinaria, che la Consulta rinunci successivamente a dichiararla incostituzionale?

Purtroppo la scelta dello scontro frontale, maturata ancora una volta dal Cavaliere, potrà portare solo nuovi conflitti e pochi o nessun risultato pratico. Un fallimento già prevedibile, che sarebbe veramente un peccato, perché tra le riforme attese dal Paese, quella della giustizia è tra le più urgenti. Non a caso il Capo dello Stato non si stanca di sollecitarla. Ma una riforma contro i magistrati, oltre ad essere sbagliata, difficilmente vedrà la luce. Servirà piuttosto a creare nuove occasioni di rottura politica, ad aprire la strada a elezioni giocate sul tema della legalità e a una campagna elettorale orrenda: fatta di accuse contrapposte, spiate e denunce anonime, come quelle degli ultimi mesi, in un clima di fine regime. Un altro passo avanti verso il baratro, che ancora può essere evitato.

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