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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 289104 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Aprile 17, 2010, 04:44:22 pm »

17/4/2010

Bluff e rilanci

Ma la partita non finisce qui

MARCELLO SORGI

Il gran lavoro di pompieri e pontieri e il cordone sanitario stretto attorno a Fini e ai finiani nella lunga giornata di ieri non deve ingannare: dietro l’apparente disponibilità a trovare un compromesso, le condizioni di Berlusconi sono chiare. Non a caso il premier ha voluto illustrarle personalmente nella conferenza stampa organizzata alla fine del vertice-fiume del Pdl. Dopo ore e ore in cui circolavano voci che il Cavaliere avrebbe approfittato dello strappo del presidente della Camera per metterlo fuori dal partito, riservandogli un trattamento analogo a quello adottato con Casini e l’Udc alla vigilia delle ultime politiche, Berlusconi invece ha rivolto a Fini un appello a tornare indietro sui suoi passi, un calendario più serrato delle riunioni degli organi dirigenti e un congresso del Pdl di qui a un anno e mezzo. Se il problema era ed è quello di un funzionamento più tradizionale del partito nato sul famoso predellino di Piazza San Babila, Berlusconi, a denti stretti, e pur essendo convinto che si tratta di un pretesto, è disposto tuttavia a mollare. Anche perché è l’unico modo di andare a veder le carte del cofondatore.

Se invece Fini insiste per costituire gruppi parlamentari autonomi, si accomodi, ma dev’esser chiaro che diventerebbe incompatibile con il suo attuale ruolo di presidente della Camera. Non è Berlusconi che lo sfratta: è obiettivo che non si può essere contemporaneamente leader di un gruppo e capo di un’assemblea parlamentare. E se proprio Fini è deciso a rientrare in politica, il Cavaliere è disposto a prendere per buono anche il suo impegno a non far cadere il governo e a metterlo alla prova nel nuovo ruolo di alleato esterno del Pdl. In realtà Berlusconi sa che il governo in questo caso non avrebbe vita facile, dovendo negoziare giorno dopo giorno ogni suo provvedimento con un nuovo soggetto. E punta sul fatto che nei prossimi giorni il cofondatore potrebbe accorgersi che mettere insieme i cinquanta deputati e diciotto senatori annunciati giovedì sera non è poi così facile come sembra. Quand’anche Fini ci riuscisse, se i suoi gruppi finissero col rendere la vita impossibile al governo, difficilmente poi potrebbero presentarsi davanti agli elettori a chiedere voti, specie dopo aver provocato una crisi che porterebbe diritto alle elezioni anticipate. Così, dietro le parole accomodanti del documento del Pdl e lo sforzo di buone maniere del premier in conferenza stampa, i problemi sono rimasti intatti. E tutto sarà legato ai numeri che Fini sarà in grado di mettere insieme nei prossimi giorni. Il suo futuro politico o la dura strada della ritirata dipendono solo da quelli.

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« Risposta #121 inserito:: Aprile 20, 2010, 09:32:21 am »

20/4/2010 - TACCUINO

Oggi no, ma alla fine alla divisione si arriverà
   
MARCELLO SORGI

Che non fosse un ultimatum, ma un penultimatum, s'era capito fin dall’inizio. Che la scissione non fosse scontata, pure. Ma che i finiani possano ora salutare come una vittoria la nascita e il riconoscimento della loro corrente come una minoranza interna del Pdl, che magari tra un po’ potrà puntare a una vicesegreteria o a esprimere un quarto coordinatore, francamente è un po’ troppo. Liberi loro - un po’ meno il loro leader - di crederci, come hanno creduto finora alla trasformazione del «partito del predellino» fondato dal Cavaliere a Piazza San Babila, in un «normale» partito in cui la linea viene discussa e stabilita negli organi dirigenti e poi affidata al leader pro-tempore, che ogni due tre anni ne risponde al congresso, in cui solitamente passa la mano.

Le minoranze, al plurale, avevano una grande importanza nella Dc. Uno come Donat-Cattin, per dire, che aveva una corrente del 5 per cento, era stato capace di ribaltare con il suo famoso «preambolo» l'esito del congresso che pose fine all'alleanza con i comunisti e ricreò la maggioranza delimitata chiusa al Pci. Nel grande partitone cattolico questo era possibile perché, oltre alle minoranze dichiarate, c'erano quelle occulte e allineate nelle correnti di maggioranza. Le une e le altre erano legate da un tacito patto che prevedeva la lenta consunzione della leadership e un successivo rimescolamento interno che doveva ripercuotersi nei posti al governo.

Un siffatto meccanismo, che pure rimase alla base della democrazia italiana per quasi cinquant'anni, era connaturato a un Paese in cui il confine tra partiti di governo e opposizione era invalicabile e il ruolo degli uni e degli altri prestabilito. Ma è davvero arduo immaginarsi oggi che tutto è cambiato, Berlusconi alle prese con un «preambolo», e sarà anche curioso assistere alle sue reazioni quando giovedì le diverse fazioni in campo si confronteranno, taglia qui, aggiungi là, per cercare fino all'ultimo di mettere insieme un documento unitario ed evitare la divisione del partito in maggioranza e minoranza.

Una divisione alla quale alla fine forse si arriverà lo stesso perché altrimenti non si capirebbe perché Fini abbia voluto aprire un solco così profondo con il suo cofondatore, salvo poi rassegnarsi in pochi giorni a una ritirata, che i suoi fedelissimi, basandosi proprio sulle frasette che saranno riusciti a inserire nel documento, cercheranno di far passare come una vittoria o un pareggio in un partito in cui le parole non sono mai pietre e Berlusconi, finché esiste, continuerà a comandare.

da lastampa.it
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« Risposta #122 inserito:: Aprile 21, 2010, 07:51:41 am »

21/4/2010

Cambio di generazione

MARCELLO SORGI

Anche se è stata accolta come un colpo a sorpresa, per chi ha seguito da vicino le vicende della Fiat e di Torino, la notizia del cambio della guardia ai vertici del Lingotto - con Luca Cordero di Montezemolo che lascia la presidenza a John Elkann -, non ha nulla di imprevedibile. Anzi era attesa. Elkann era da tempo preparato ad assumere la piena responsabilità del gruppo.

La gradualità con cui è salito, prima al comando dell’Exor, la società che detiene il controllo della Fiat, poi, solo qualche giorno fa, a quello dell’Accomandita di famiglia, e ieri alla guida della maggiore impresa industriale italiana, rispetta semmai la tradizione familiare di mettere alla prova il nocchiero prima di affidargli il timone. In questo senso, John era destinato al suo nuovo impegno fin da quando, dopo la morte del cugino Giovanni Alberto, l’Avvocato aveva deciso di puntare su di lui.

Designato dal nonno, il senatore Giovanni fondatore della Fiat, anche Gianni Agnelli aveva deciso di scegliere il nipote.

Per questo, John, a soli diciotto anni, era venuto a vivere in Italia. S’era iscritto al Politecnico di Torino e inizialmente aveva cominciato a vivere in un pensionato studentesco. Il tirocinio con il nonno consisteva nello stargli vicino, conoscere i suoi principali collaboratori, assistere a momenti importanti, della vita italiana e della Fiat, cercando di capire e ascoltando le spiegazioni, ma facendo meno domande possibile. Perché il messaggio che l’Avvocato gli aveva trasmesso era che esisteva un programma - in base al quale, ad esempio, John, esattamente come l’Avvocato, a ventun anni era stato chiamato nel consiglio della Fiat -, e tuttavia nulla era scontato: il ragazzo avrebbe dovuto farsi le ossa e dimostrare di essere all’altezza del ruolo.

A complicare e a rendere tutto più incerto, a cavallo del Duemila, era arrivata la grande crisi della Fiat. Una crisi aggravata dalla malattia e dalla morte dell’Avvocato, e poco dopo da quella del fratello Umberto. È in questa difficile situazione che la famiglia Agnelli, riunita in assemblea con Gianluigi Gabetti, disegna il nuovo vertice, chiamato a gestire l’emergenza: alla presidenza della Fiat va Montezemolo, John è vicepresidente, l’amministratore delegato è un nome nuovo, proposto da Gabetti che assume il ruolo di garante dell’intera operazione: Sergio Marchionne, artefice della rinascita, non tarderà a farsi conoscere e a far parlare di sé.

Se questa è appunto la successione degli eventi, che dal 1999 delle grandi celebrazioni torinesi del centenario della Fiat al 2004 dei grandi lutti e del punto più basso della crisi, hanno portato l’ultimo grande gruppo familiare industriale a scommettere ancora sulla dinastia, attrezzandosi nel frattempo per affrontare la tempesta, quel che è successo dopo, fino a ieri, si spiega chiaramente. L’ascesa di John alla guida dell’Exor, e più di recente dell’Accomandita, ha dato il senso del suo approdo, col pieno appoggio dei suoi familiari, al ruolo di capofamiglia (e di responsabile degli affari familiari) che era stato dell’Avvocato. E ciò motiva anche la volontà di Gabetti, resa pubblica limpidamente, di por fine al suo ruolo di tutor, ora che l’erede è pienamente titolato a ricoprire tutte le sue responsabilità. La staffetta con Montezemolo - accompagnata dal grande riconoscimento, non formale, ma aziendale e della famiglia, per i meriti della sua presidenza in questi sei difficilissimi anni - sta a significare che è finita almeno quell’emergenza che aveva avuto il suo apice nel 2004.

Poi, si sa, la vita di un grande gruppo automobilistico, nel presente e nel futuro, è destinata ad andare incontro a una serie continua di sfide, sui nuovi mercati e sull’orizzonte globale, sulla frontiera delle concentrazioni e degli equilibri in continuo cambiamento dell’economia mondiale. Parte di queste sfide, va detto, la Fiat le ha affrontate negli ultimi anni. Parte ancora vengono anche dalla sua tradizione, perché il gruppo, da metà del secolo scorso, e dalla Russia al Brasile, dall’India alla Cina, ha scelto di misurarsi sul crinale della concorrenza più insidiosa e delle competizioni più ardue. Marchionne è stato l’uomo che più di altri in passato ha spinto in questa direzione, e ha segnato un grande risultato con l’ingresso nella Chrysler. John, come rappresentante dell’azionista di controllo, è sempre stato al suo fianco. Ma adesso, non è un mistero, si tratta di entrare con una nuova strategia nella fase più dura.

La Fiat ha già lasciato trapelare che intende andare incontro a questa scadenza con una diversa articolazione, nella quale, ad esempio, l’alleanza tra il comparto automobilistico del gruppo e la Chrysler, potrebbe essere rafforzata. Ma come accade spesso in Italia, alle prime indiscrezioni, peraltro imprecise, su ciò che ancora dev’essere annunciato, hanno cominciato a diffondersi una serie di interpretazioni sull’eventualità che tutto questo preludesse a un disimpegno della famiglia Agnelli-Elkann dall’industria dell’auto. L’arrivo di John Elkann alla presidenza della Fiat è una risposta anche a queste voci, e come tale è stata interpretata dalla Borsa.

Questa del disimpegno di Elkann e della Fiat dall’Italia e dal mestiere che la famiglia e il gruppo fanno da più di un secolo, è una storia che meriterebbe un approfondimento. A cominciare, appunto, dalla biografia del nuovo presidente: uno nato a New York, cresciuto tra Parigi e il mondo, e venuto in Italia giovanissimo per restarci. Se non avesse avuto interesse per il suo Paese e la sua tradizione familiare, John avrebbe potuto scegliere liberamente e diversamente. Non si sarebbe stabilito a Torino, non si sarebbe sposato con una ragazza italiana da cui ha avuto due figli e con cui è rimasto a vivere nella città e nella casa che fu di suo nonno.

Se uno sceglie l’Italia e una missione difficile come quella che gli è toccata, lo fa perché vuole impegnarsi, non perché punta al disimpegno.

Ma si sa, dalle nostre parti, è difficile sfuggire alle dietrologie. John Elkann da ieri è diventato pienamente il nipote di suo nonno, ricopre esattamente le stesse responsabilità che furono dell’Avvocato e del Fondatore. La sua fortuna è che mentre qui ci s’interroga su come ha fatto, a soli 34 anni, ad arrivare così in alto, il suo lavoro, John, dovrà farlo, avendo come orizzonte l’America guidata da un Presidente quarantenne e quel pezzo di mondo nuovo e giovane che corre, in cui sono in tanti gli interlocutori che hanno la sua stessa età.

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« Risposta #123 inserito:: Aprile 23, 2010, 09:13:40 am »

23/4/2010

La realtà travolge la finzione
   
MARCELLO SORGI

L’incredibile è avvenuto: sotto gli occhi dei telespettatori che seguivano in diretta, il partito di Berlusconi - quello del predellino di Piazza San Babila, il partito di plastica delle grandi adunate, delle «ola» e dei karaoke -, tutt’insieme s’è frantumato. Per la prima volta in tanti anni, Berlusconi e Fini non rispondevano più al copione prestabilito, litigavano veramente davanti a tutti, a un certo punto sembrava pure che stessero per menarsi.

E davanti a questo crudo squarcio di realtà, i ministri che li avevano preceduti con i loro discorsi di propaganda - le realizzazioni del governo, il progresso del Paese, il sogno da non spezzare - d’improvviso parevano, loro sì, pupazzi di cera.

Nessuno avrebbe mai previsto che la politica, quella vera, fatta di passione e di sangue, potesse fare irruzione anche nel Pdl. Così come nessuno avrebbe mai creduto che nel salone dove poco prima Berlusconi assegnava i posti alle comparse - raccomandandosi di riempire le prime file, perché i giornalisti, si sa, puntano le telecamere sempre sulle poltrone vuote - a un certo punto potesse volare la famosa «merda nel ventilatore», proprio quella di Formica ai tempi del vecchio Psi, e a sorpresa si potesse ricreare il clima unico del «catino» dei consigli nazionali Dc, dove il veleno dei capicorrente scorreva tra i sorrisi dei finti amici e la rassegnazione delle vittime predestinate.

Si dirà che l’occhio e la memoria del cronista fanno presto a illudersi su un ritorno impossibile della politica, tradizionalmente intesa, in un partito che rimane proprietà privata del suo leader-padrone, come hanno dimostrato ampiamente i risultati delle votazioni finali e l’umiliazione pubblica del dissidente Fini, tornato a casa con undici miseri voti nella saccoccia. Tecnicamente, quello del presidente della Camera oscilla tra un suicidio politico e il gesto di un kamikaze: se anche sperava, stringendosi attorno alla vita la cintura esplosiva, di cambiare qualcosa, dovrà ammettere che non c’è riuscito.

Ma anche Berlusconi a questo punto dovrà riconoscere di non potersi più considerare il capo carismatico e indiscusso della sua creatura. La sua idea che si discute e si vota, e poi tutti fanno e dicono quel che ha detto chi ha vinto, supera perfino il più autoritario centralismo democratico del vecchio partito comunista. E s’è infranta, quel che è peggio, nella libera rivendicazione del diritto al dissenso, al confronto tra diversi, alla possibilità di rimettere in discussione gli accordi e perfino di perseguire idee sbagliate e destinate a finire in minoranza, tipica dei partiti liberali.

Man mano che l’accartocciarsi della sua ennesima messa in scena si svolgeva sotto i suoi occhi, il Cavaliere - fatto inatteso - trasfigurava anche lui. Sì, quella di Berlusconi - un Berlusconi col trucco disfatto e fuori dai gangheri - non è stata solo la reazione di un padre-padrone, ma anche, miracolosamente, di un uomo e di un leader appassionato, che lotta perché tiene veramente alle sue idee, sa cosa vuole la sua gente ed è pronto a difendere fino allo stremo le sue posizioni.

Dopo quel che è accaduto, certo, è difficile dire come finirà. La previsione più logica è che da separati in casa i due cofondatori non andranno lontano, e presto finiranno a contarsi in nuove elezioni anticipate. A meno che - ma è una scommessa improbabile - non capiscano che quel che è successo, pur con tutto il carico di risentimento che ha lasciato, non è detto per forza che sia negativo. Dopo sedici anni di reality e di politica-spot, l’irruzione della realtà nel tempo di celluloide del partito berlusconiano dovrebbe spingere Berlusconi e Fini a fare i conti con se stessi una volta e per tutte.

da lastampa.it
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« Risposta #124 inserito:: Aprile 23, 2010, 11:56:44 am »

22/4/2010 - TACCUINO

Se il Cavaliere facesse il doroteo
   
MARCELLO SORGI

Nella prima vita di Berlusconi, quando faceva l'imprenditore, c'è stato un tempo in cui si diceva che facesse il socialista a Milano, dov'era in rapporti anche familiari con Craxi, e il democristiano a Roma, dove lo si vedeva salire sovente le famose scale di piazza del Gesù. Altri tempi, allora il Cavaliere era solo Sua Emittenza e per far funzionare le sue tv in assenza di una legge aveva bisogno dell’aiuto di tutti. Ma pensiamo a cosa succederebbe se oggi, alla prima vera direzione del Pdl, che dovrà sancire la spaccatura tra una maggioranza e una minoranza interna e il riconoscimento della nascita della «corrente del cofondatore», il Cavaliere si comportasse da doroteo, proprio come un vecchio Dc.

Per cominciare, dovrebbe recitare la parte del padre del partito, fingendo una certa stanchezza e un'evidente rassegnazione. Dovrebbe poi aggiungere - è un classico - di non avere nulla contro le «correnti di pensiero», che anzi arricchiscono il dibattito interno e portano sempre contributi preziosi, ma di temere - sempre per il bene del partito - le «correnti di potere», che nascono per rivendicare posti e quasi sempre finiscono con il mettere in difficoltà i governi.

Sull’effettiva natura di quella di Fini, per la verità, nessuno ha dubbi. E che le correnti, da che mondo e mondo, siano servite soprattutto a far contare i vuoti nelle votazioni parlamentari decisive (a meno di non negoziare prima un accordo) è una vecchia storia. I cinquantadue che martedì sono apparsi a tutti un risultato un po’ stentato della lunga campagna finiana verso la conquista della libertà, non saranno più tali quando, e si vedrà molto presto, i lavori della Camera e del Senato dovranno interrompersi continuamente per la verifica del numero legale, o quando, di fronte a un improvviso emendamento dell’opposizione, il rischio di andare sotto si parerà repentino davanti al centrodestra.

Una ragione di più per offrire in direzione, al cofondatore che esordisce come leader della minoranza, un ruolo da «figliol prodigo», una porta sempre aperta per rientrare, uno sforzo di comprensione per tutte le eresie, anche quelle incomprensibili per l'elettorato del Pdl, che Fini agita da mesi e di cui vuol fare il suo manifesto. Insomma una cascata di ipocrisia: con la quale il Berlusconi democristiano che non vedremo mai dovrebbe sommergere il suo oppositore. In attesa di farci i conti duramente, e magari sfidarlo alle elezioni, non appena metterà veramente il governo in difficoltà. Così, appunto, facevano i vecchi Dc all’epoca della guerra delle correnti.

da lastampa.it
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« Risposta #125 inserito:: Aprile 27, 2010, 12:07:22 pm »

27/4/2010 - TACCUINO

Bersani, un leader che ancora non ha trovato un look adeguato al ruolo

MARCELLO SORGI

Sembrerà strano, per un uomo politico che ha svolto la parte più importante della sua carriera nella Seconda Repubblica, ma uno dei problemi di Bersani rimane il look. Bersani era ed è perfetto quando appare in veste ministeriale, vestito scuro e cravatta, e quando entra nel merito di problemi che mostra di conoscere approfonditamente, come quelli dell’economia del Paese di cui s’è occupato a lungo quando era al governo. Lo è meno nell’abito, ancora forse da disegnare, di leader.

Non ha, per intenderci, l’autorità cattedratica fasciata da giacche di sartoria napoletana di D’Alema, forse l’ultimo ad incarnare la figura del «segretario generale» che Vasquez Montalban descriveva sempre assiso «sul baldacchino invisibile su cui sedevano tutti i capi comunisti del mondo». Non ha la familiarità casual di Veltroni, né la capacità di rivolgersi ai giornalisti chiamandoli per nome e creando subito un’atmosfera informale. Nè ha la sofferenza di Fassino, la figura esile accompagnata da un viso scavato e da un’inconfondibile calata piemontese che lo facevano sembrare sempre uscito da una giornata di duro lavoro in fabbrica.

Bersani, è evidente, sta cercando di costruirsi una personalità nuova. Funziona bene nel contraddittorio e in genere nel talk-show serali, dove il passato da ministro gli consente di contestare i suoi dirimpettai e snocciolare dati con una certa credibilità. E’ ancora incerto, invece, nella comunicazione in prima persona, per esempio nell’appuntamento quasi quotidiano con il Tg3, dove spesso adopera troppo con gli avversari l’ironia, dando la sensazione di non aver molti argomenti per controbattere; o nelle interviste, anche in quelle stampate sui giornali. Tutto ciò è aggravato da un uso scombinato dello stile scravattato (per esempio, quando si vede bene che il colletto annodato fino a un momento prima è stato slacciato a favore di telecamere), o semisportivo (abiti interi, magari stazzonati da lunghi tragitti in automobile, scarpe classiche e camicie colorate).

Sempre meglio di certe imbarazzanti imitazioni di Berlusconi da parte di esponenti secondari del centrodestra. E tuttavia, Bersani farebbe male a trascurare questo aspetto. Quando Gordon Brown prese il posto di Tony Blair, un leader che aveva rotto i canoni della tradizione laburista anglosassone celebrando lady D. e preferendo le rock-star alla gente del suo partito, a porre il problema del nuovo leader arruffato e con il nodo della cravatta in disordine, furono giornali come il Guardian e l’Independent. Brown alla fine se n’è fregato e ha recuperato puntando sulla sostanza e affrontando bene, a detta di tutti, la crisi economica degli ultimi tre anni. Ma appunto, era al governo. E se non vincerà, com’è possibile, le prossime elezioni, di sicuro sarà criticato più per la sua bruscaggine o il suo fare goffo nei faccia a faccia decisivi di questi giorni, che non per l’efficacia della sua azione di governo.

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« Risposta #126 inserito:: Aprile 28, 2010, 05:28:45 pm »

28/4/2010 - TACCUINO

Se il presidente della Camera fa anche politica

   
MARCELLO SORGI

Ma davvero, come dice Berlusconi, il presidente della Camera deve astenersi dal far politica? A giudicare dal modo in cui finora è stato interpretato il ruolo, non si direbbe. E non solo per il precedente immediato di Casini, che ha svolto con grande personalità, non solo polemica, i suoi compiti di terza carica dello Stato. Da un sommario esame del comportamento dei predecessori di Fini, si ricava un inventario piuttosto variegato. Certo, c'è stato anche chi ha preferito tacere: Leone si sentiva tutto sommato un esterno alla Dc e sapeva che in quel partito l'importante era trovarsi al momento opportuno al giusto crocevia tra le correnti, come accadde a lui quando diventò Presidente della Repubblica. Ingrao, primo presidente comunista, amava le piazze e la gente del suo partito, mal sopportava la grisaglia presidenziale.

Ma già Gronchi, Pertini e Scalfaro, anche loro approdati poi al Quirinale, non rinunciarono mai a battersi contro i partiti (non solo i loro) e i governi con cui si confrontavano. Il primo, in anni di doroteismo imperante nella Dc, guidava in modo malandrino la corrente di sinistra. Il secondo, famoso per il suo temperamento sulfureo, scendeva nel Transatlantico e parlava chiaro: come quando, accogliendo a otto anni dal terremoto i bambini del Belice nati nelle baracche, se la prese con Moro che stentava a riceverli a Palazzo Chigi. Il terzo aveva cominciato da vicepresidente una polemica storica contro la partitocrazia e l'usurpazione dei diritti del Parlamento, che portò Pannella a soprannominarlo il «Pertini Bianco». Iotti si comportò in perfetto stile togliattiano-istituzionale, ma senza nascondere la necessità di un ammodernamento del funzionamento del Parlamento e senza esitare, nella crisi del 1987, quando fu la prima donna a ricevere il mandato esplorativo dal Presidente Cossiga, a svolgere il suo compito autonomamente, e in silenziosa polemica, con Dc e Pci.

Con Napolitano siamo agli anni della caduta della Prima Repubblica e del cosiddetto «triumvirato» (con Scalfaro e Spadolini) delle prime tre cariche istituzionali, che affrontano insieme i passaggi più delicati della crisi. Scalfaro confermerà questo metodo anche con Scognamiglio e Pivetti, i primi due presidenti eletti dal centrodestra, nella controversa ratifica del «ribaltone» che fece cadere il primo governo Berlusconi. E per finire, fu Bertinotti a dare il colpo di grazia al governo Prodi parlandone come del «più grande poeta morente». Fini con questi esempi alle spalle ha di che regolarsi e con chi sentirsi in buona compagnia.

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« Risposta #127 inserito:: Aprile 29, 2010, 10:47:03 am »

29/4/2010 - TACCUINO

Il duello e la guerra dei sospetti

   
MARCELLO SORGI

Le parole di solidarietà rivolte a Fini da Berlusconi e Schifani per il nuovo attacco del Giornale (relativo a un contratto della Rai con una società della madre della sua nuova compagna, Elisabetta Tulliani), e quelle di rassicurazione indirizzate al premier dal presidente della Camera nello studio di Porta a porta, dovrebbero bastare a dimostrare che non c’era nulla di preordinato, che non s’è trattato, insomma, del battesimo parlamentare della maggioranza nuova versione formata da berlusconiani e finiani separati in casa.

Eppure, dopo l’approvazione, con un solo voto in più del centrosinistra (e ben 95 in meno, tra assenti e in missione, del centrodestra), dell’emendamento proposto dal Pd al disegno di legge sul lavoro, tornato alla Camera dopo il rinvio deciso dal Capo dello Stato, e la conseguente sconfitta del governo, la guerra dei sospetti s’è scatenata prima in aula e poi nel Transatlantico, a segnalare un deterioramento del clima interno del partito del presidente del consiglio. Due deputati, Giancarlo Lehner e Antonino Lo Presti, rispettivamente berlusconiano e finiano, stavano per venire alle mani e sono stati trattenuti, mentre gli scambi di accuse tra i due schieramenti sono andati avanti per tutto il pomeriggio.

Se dunque, è legittimo credere, non c’era alcun disegno per mettere il governo in difficoltà – nella giornata, tra l’altro, in cui anche Bossi s’è dato da fare per scongiurare il pericolo di elezioni anticipate - , è altrettanto chiaro che lo scontro aperto in direzione giovedi scorso tra Fini e Berlusconi e la scia di polemiche che sono seguite stanno creando un effettivo disorientamento all’interno dei gruppi parlamentari. Specie in quello della Camera, dove le dimissioni del vicepresidente Bocchino potrebbero portare presto ad un voto segreto degli oltre duecentosettanta parlamentari, per confermare o cambiare i vertici del gruppo. Oppure, ciò che è più probabile, per esprimere attraverso la votazione segreta il malessere di chi assiste a quel che sta accadendo nel Pdl temendo che possa costargli il seggio in Parlamento, prima ancora che scattino i termini per la pensione.

A giudicare da quel che sta accadendo, dunque, l’ammorbidimento dei toni tra i due cofondatori non basta. Se davvero hanno deciso di non farsi la guerra e provare a convivere anche in presenza di forti divergenze, è necessario che Fini e Berlusconi disinneschino le mine sul campo prima che esplodano. Sapendo che ogni giorno ne troveranno di nuove.

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« Risposta #128 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:28:15 pm »

30/4/2010 - TACCUINO

Un altro colpo alla squadra di Berlusconi
   
MARCELLO SORGI

Anche se nella vicenda molto resta ancora da chiarire, e l'interessato, che ha avuto ieri un lungo incontro con Berlusconi, continua a dire a tutti di sentirsi al sicuro e di essere inattaccabile, il «caso Scajola» (il ministro accusato dell’acquisto, a dir poco incauto, e con l'aiuto del costruttore inquisito Anemone, di un appartamento panoramico a Roma) è destinato a trascinarsi nei prossimi giorni e a rendere più difficile il cammino già impervio del governo.

La convocazione del ministro da parte del premier e il lungo colloquio di ieri nello studio del presidente del Consiglio stanno a dimostrare che qualche preoccupazione esiste. La sensazione è che neppure Scajola abbia capito da dove è partito il siluro mirato contro di lui. Mentre si delinea invece abbastanza chiaramente la cornice in cui il caso è maturato. Siamo ancora insomma nel quadro dell'assedio a Palazzo Chigi partito con l'inchiesta contro Bertolaso e la Protezione civile, proseguito con le altre indagini che riguardavano il ministro Fitto (dimissionario, ma a causa della sconfitta alle regionali in Puglia, e poi reintegrato direttamente dal Cavaliere), e oggi arrivato a lambire Scajola. Non è un mistero che Bertolaso, Fitto e Scajola, ciascuno nel proprio ruolo e in certi casi insieme, rappresentino una sorta di squadra speciale della presidenza del Consiglio, e una sorta di triumvirato dello stesso Berlusconi e di Gianni Letta.

A parte l’azione di pronto intervento di Bertolaso e della Protezione civile, dal terremoto in Abruzzo ai disastri naturali agli eventi più delicati, come il G8, basta solo dare uno sguardo sommario all’importanza dei dossier che sono passati per le loro mani. Fitto, ministro delle Regioni, d’intesa con Letta e Tremonti, ha tenuto duro nella battaglia, interna al centrodestra, e in particolare al Pdl del Centro Sud, sulla distribuzione dei fondi per le aree sottosviluppate e dei fondi europei. Scajola è stato alle prese con la partita degli incentivi e della chiusura dello stabilimento di Termini Imerese decisa dalla Fiat.

E prima ancora delle inchieste della magistratura, gli ostacoli a cui sono andati incontro non sono stati solo di natura politica, ma anche, in qualche modo, amministrativa. L'impressione era che proprio dall’interno della macchina dello Stato a un certo punto fosse partita un’offensiva contro questo pezzo di governo nel governo che sembrava stesse accumulando su di sé troppo potere. Di qui è partito l'assedio a Palazzo Chigi e ai suoi ministri di riferimento. Un assedio che non è finito e continua con il caso Scajola.

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« Risposta #129 inserito:: Maggio 04, 2010, 10:32:19 am »

4/5/2010

La sfiducia e l'effetto boomerang
   
MARCELLO SORGI

Claudio Scajola vede appesantirsi giorno dopo giorno la sua posizione. Anche ieri le carte uscite dagli uffici giudiziari di Perugia, con i verbali degli interrogatori delle venditrici del famoso appartamento con vista sul Colosseo, hanno confermato la fondatezza delle accuse che lo riguardano e la debolezza della linea di difesa adottata finora, basata sui «non so» e non «mi risulta».

Adesso il ministro ha annunciato che risponderà in Parlamento, dopo l’appuntamento preso con i magistrati per il 14 maggio. Ma non andrà molto lontano se pensa di presentarsi alla Camera ripetendo quel che ha già detto, e definendo «attacco mediatico» le testimonianze raccolte fin qui dagli inquirenti, che gli contestano di aver ricevuto 900.000 euro in assegni circolari per acquistare la casa che ufficialmente dice di aver pagato 610.000 euro, e che invece sarebbe costata un milione e mezzo.

Denaro consegnatogli dall’architetto Angelo Zampolini, membro della «cricca» che con il costruttore Diego Anemone e il provveditore alle Opere pubbliche Angelo Balducci è al centro dell’inchiesta sugli appalti della Protezione civile.

Nel linguaggio colorito dei corridoi parlamentari, quando un ministro si trova in guai del genere, si dice che «è cotto». C’è però - c’è sempre stato -, un modo sicuro per rafforzare o consolidare la posizione di un membro del governo coinvolto in uno scandalo: presentare contro di lui una mozione di sfiducia, meglio se di sfiducia personale, in modo da aggiungere, alle normali difficoltà di approvazione di questo genere di documenti, un dotto dibattito politico giurisdizionale sull’ammissibilità degli stessi, e provocare così una stretta di solidarietà della maggioranza in favore della vittima.

La discussione sui principi, sul metodo e sull’interpretazione della Costituzione, a quel punto, diventa infatti preminente rispetto al merito dei fatti. In altre parole, aspettando di capire se veramente Scajola s’è comperato il famoso appartamento al Colosseo facendosene regalare i due terzi, o facendoselo pagare con assegni ricevuti in cambio di chissà che, il dibattito si sposterà sulla possibilità, per l’opposizione, di avanzare una richiesta di licenziamento del ministro prima che la magistratura abbia chiarito se è, sta per essere, o non è, inquisito. Ci sarà modo, a quel punto, per un qualsiasi esponente del centrodestra, tra i tanti che già adesso fanno quadrato, di proporre un rinvio, in attesa di approfondimento, della discussione. E per la Camera di approvarlo, senza per questo pagare il prezzo politico della protezione corporativa di un ministro che, agli occhi della gente, al minimo ha goduto di un privilegio inspiegabile, e per giunta in fatto di casa, cioè di un genere di prima necessità.

Antonio Di Pietro, che ieri ha presentato a nome del suo partito una mozione di sfiducia contro Scajola, tutto questo lo sa benissimo. Lo sanno anche, e si vede dal tono imbarazzato delle loro dichiarazioni, i suoi alleati del Pd, molti dei quali mal celano le perplessità sul «soccorso rosso» portato al ministro in difficoltà. A loro, anche stavolta, tocca la scelta: contendere a Di Pietro il monopolio degli arrabbiati che non si accontenterebbero neppure delle dimissioni di Scajola, e vorrebbero piuttosto vederlo appeso a testa in giù, o muoversi con più accortezza, e magari lasciarlo furbamente rosolare, per portarlo a poco a poco al giusto punto di «cottura».

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« Risposta #130 inserito:: Maggio 05, 2010, 10:49:38 am »

5/5/2010 - TACCUINO

Il rebus della successione di Scajola
   
MARCELLO SORGI


La successione di Scajola si presenta più complicata del previsto. Per una serie di ragioni: intanto il ministro, come accade a chi si trova al centro di una vicenda difficile, fino all’ultimo non credeva di doversi dimettere. Il comunicato di lunedì sera, che ha preceduto la telefonata in cui Berlusconi gli ha consigliato di rientrare a Roma dalla Tunisia, fissava tempi più lunghi: almeno una decina di giorni, nella speranza di far decantare la situazione. Quando invece ha capito che la sua sorte era segnata, ha chiesto almeno un’ipotetica promessa di recupero nel caso (improbabile) in cui riesca a far chiarezza e a discolparsi.

Berlusconi fin da domenica si era preparato all’eventualità di dover sostituire il responsabile dello sviluppo economico mettendo in fila, nella sua testa, tre nomi: uno, quello di Luca di Montezemolo, gettato lì sul tavolo perché è da sempre una sua idea, anche se il presidente della Ferrari non è disponibile. Gli altri due, Romani e Galan, il primo vice di Scajola e il secondo neo nominato all’Agricoltura, perché sono uomini di sua assoluta fiducia.

Ma è bastato che questa «rosa» cominciasse a circolare, per sollevare una serie di reazioni. A cominciare dalla Lega, che contesta una sostituzione automatica di un ministro ex-Forza Italia con un altro della stessa provenienza. In realtà la mossa, apparentemente mirata a rendere più difficile la nuova nomina, assegna a Berlusconi un margine di manovra nel suo partito, che ribolle in questi giorni di polemiche e di nascite di nuove correnti. Il premier ha buon gioco a spiegare ai suoi che è meglio ricoprire subito la casella, prima che si apra una nuova trattativa.

C’è tuttavia un altro aspetto che non è emerso pubblicamente finora, ma che non tarderebbe a generare conseguenze, nel caso di una scelta affrettata. Scajola infatti era, oltre che un esponente del Pdl proveniente dall’ex partito del premier, un democristiano e dunque uno dei pochi credenti in un governo che, formato per la prima volta senza l’appoggio dell’Udc, è stato considerato fin dalla nascita privo della componente cattolica «riconosciuta» dal Vaticano. Anche se nessuno si alzerà platealmente a rivendicare che il successore del ministro dimissionario provenga dalla stessa area, il problema è ben presente a chi deve decidere. Ecco perché, dopo l’accelerata delle dimissioni, ora dopo ora la successione si complica.

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« Risposta #131 inserito:: Maggio 06, 2010, 11:55:49 pm »

6/5/2010 - TACCUINO

Politici in balìa dei funzionari infedeli
   
MARCELLO SORGI

La decisione di Berlusconi di assumere l’interim dello Sviluppo economico e la nuova inchiesta mirata contro Denis Verdini, coordinatore del Pdl e plenipotenziario del premier ai vertici del partito, lascia pensare che l’ondata giudiziaria contro il governo e il centrodestra non si fermerà. Nei guai si trova anche l’ex ministro Pietro Lunardi, la cui figlia avrebbe ritirato personalmente tangenti. Anche se gli accusati si difendono in modo imbarazzato e si dichiarano pronti a chiarire le loro posizioni, la sensazione che la Guardia di Finanza abbia messo le mani su un centro di corruzione è ormai diffusa. Così come l’impressione che le indagini si allarghino, seguendo la ragnatela di legami arcinoti tra i diversi esponenti della maggioranza e i retroscena rivelati dalle intercettazioni telefoniche e dalle confessioni degli arrestati.

L’ultimo che ne ha resa una piena e dettagliata è Laid Ben Faithiidri, autista tuttofare di Angelo Balducci, il potente provveditore alle Opere pubbliche in carcere per l’inchiesta sugli appalti della Protezione civile. Faithiidri rivela che su tutti gli appalti controllati dal suo ufficio Balducci pretendeva una tangente del 10 per cento, che intascava direttamente, senza condividerla, tutta o in parte, con politici o partiti, e investendola subito nei modi più disparati, perfino in ville sulla costa tunisina, intestate anche queste al fidato autista.

Ecco, a chi si chiede in questi giorni se siamo di fronte a una nuova Tangentopoli e ricorda i giorni incredibili del 1992-‘93, non sfuggirà questa differenza: allora, ai tempi della decadenza, e poi della caduta, della Prima Repubblica, il meccanismo della corruzione era incentrato sul sistema dei partiti. Oggi invece a dare le carte sono altissimi funzionari della Pubblica Amministrazione, con addentellati nella Curia Vaticana (uno dei cassieri di Balducci, gentiluomo di Sua Santità, era un prete) o nella massoneria deviata.

Fermo restando che Scajola o Verdini faticheranno molto a dimostrare la loro innocenza, e difficilmente, al di là delle conseguenze penali, usciranno indenni dagli scandali che li hanno investiti, le testimonianze che li riguardano li descrivono in completa balìa dei funzionari infedeli, e perfino prigionieri dell’ingranaggio che li stritolerà, all’insaputa di Berlusconi. Il quale, ora che comincia a capire cosa è successo, avrebbe tutto l’interesse ad andare fino in fondo. Nato sulla prima onda di Tangentopoli, il Cavaliere e il suo governo rischiano davvero di essere inghiottiti dalla seconda.

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« Risposta #132 inserito:: Maggio 07, 2010, 05:36:31 pm »

7/5/2010 - TACCUINO
La carta coperta di Bossi
   
MARCELLO SORGI

Ci sono già due candidati leghisti, il presidente dei senatori Federico Bricolo e il capogruppo in commissione agricoltura Sebastiano Fogliato, per il posto al governo lasciato libero da Claudio Scajola. A dimostrazione che questa volta Bossi non scherza e vuol ricordare a Berlusconi che anche un'alleanza che funziona, come quella tra il premier e la Lega, ha bisogno di essere riscaldata di tanto in tanto con atti concreti.

Al Senatùr, va da sè, poco importa che ieri a frenare le sue brame si sia alzato il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl per gli ex-An Ignazio La Russa. L'idea di mettere le mani sull'intero comparto delle politiche agricole marcia di pari passo con la conquista di tutto il Nord avviata con i risultati delle ultime regionali. Dopo aver portato a casa due governatori su tre nelle principali regioni in cui si votava, Bossi si era fatto avanti con Berlusconi per ribadire che lo scambio tra il ministero ex di Zaia e la presidenza del Veneto non gli andava giù. Poi, come fa sempre nelle trattative, dove dà il suo meglio, il leader del Carroccio aveva finto di «accontentarsi» dei tre assessorati all'agricoltura in Piemonte, Lombardia e Veneto per la Lega, per bilanciare, aveva spiegato, il passaggio di consegne all'interno del governo.

Ora invece Bossi torna alla carica sostenendo che la strada più semplice da seguire per Berlusconi, per chiudere al più presto lo strascico del caso Scajola, è di spostare Giancarlo Galan, ex-governatore del Veneto approdato a Roma, dall'Agricoltura allo Sviluppo economico liberato da Scajola, e consentire che il Carroccio torni a ricoprire la responsabilità che le era stata assegnata al momento della formazione del governo. Far circolare i due nomi di Bricolo e di Fogliato fa parte della tattica bossiana; così come lo scarto di mercoledì contro il Cavaliere e d'accordo con Fini in difesa della magistratura serviva ad aumentare le difficoltà di Palazzo Chigi, accerchiato in questo momento dalle inchieste sulla corruzione. Naturalmente, come in tutte le sue trattative, Bossi ha anche una carta coperta, che in questo caso lo è meno di altre volte. Il Senatùr infatti aspetta da troppo tempo di sapere che ne è stato dei famosi «numeri» del federalismo fiscale, indispensabili per metterne a punto i decreti attuativi, che aveva chiesto di conoscere per marzo e che Tremonti fatica a tirar fuori. Il guaio, infatti, è che Bossi lo aveva chiesto a gennaio 2009 per marzo dell’anno scorso. E intanto siamo arrivati a maggio 2010.

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« Risposta #133 inserito:: Maggio 08, 2010, 03:08:20 pm »

8/5/2010

Il problema del terzo incomodo
   
MARCELLO SORGI

Oltre a segnare la vittoria dimezzata del conservatore David Cameron, e la sconfitta, meno grave del previsto, del primo ministro uscente laburista Gordon Brown, le elezioni inglesi del 6 maggio hanno deluso profondamente il lib-dem Nick Clegg. E sfatato, anche se non definitivamente, il mito del centro, o del terzo polo, che da qualche tempo, nell’Europa annoiata da una politica inconcludente, risorge quasi ad ogni elezione. Stavolta il candidato centrista liberal democratico era accreditato alla vigilia del voto addirittura di un exploit. Giovane, perfino più del ragazzone Cameron, un’avvenente moglie spagnola giurista, Miriam Gonzalez Durantez, che se la batte con Samantha Sheffield, l’aristocratica first lady conservatrice nipote di un re, una passione per le cravatte dorate o arancioni, Clegg è stato per tutta la campagna elettorale una sorta di miracolo vivente, vincitore negli anomali duelli tv a tre con i suoi avversari, considerato il più sincero, il più concreto, il più coraggioso, capace di affrontare, con la consulenza della sua Miriam che è un esperta della materia, anche la spinosa questione dell’Europa, del tutto ostica per gli elettori inglesi.

In un Paese come il Regno Unito, in cui è tradizione che i grandi giornali si schierino e dichiarino le loro preferenze, per lui il Guardian e l’Independent hanno cambiato endorsement, passando dai laburisti ai lib-dem. E per giorni e giorni, man mano che la data delle urne si avvicinava, non c’era sondaggio che non segnalasse la crescita personale di Clegg e del suo partito. Una campagna così univoca, un’illusione così diffusa e amplificata da un massiccio tam-tam televisivo, non potevano che portargli il corteggiamento dei due veri avversari di queste elezioni, Brown e Cameron, ai quali Clegg negli ultimi giorni dettava sprezzante le sue condizioni. Come abbia potuto una simile bolla gonfiarsi nella seria e austera Inghilterra, i cui giornali e televisioni e i cui istituti di ricerca sono tuttora portati ad esempio, è difficile crederlo. È incredibile che nessuno si sia alzato a ricordare che nella grande isola sopra la Manica si vota con sistema maggioritario a un turno e in collegi uninominali, che hanno sempre favorito la polarizzazione tra i due candidati più forti e l’alternanza tra destra e sinistra (non a caso Clegg prometteva che li avrebbe sostituiti con il proporzionale, l’unico meccanismo che favorisce il centro).

E che non uno, tra i critici più severi dei programmi laburista e conservatore, passati a setaccio e demoliti pezzo a pezzo dalla libera informazione in tutti gli aspetti propagandistici, abbia approfondito gli aspetti irrealizzabili di quello lib-dem, o i più corrivi della tattica del candidato: come il gioco a ping-pong con sinistra e destra e la richiesta, inaccettabile per un Brown che arrivava a proporgli accordi tattici, in pratica voti di desistenza, nei collegi più incerti, di dichiararsi disposto a mettersi da parte in cambio di un’apertura centrista a una possibile alleanza con il Labour. Ma esattamente come tre anni fa nelle elezioni presidenziali francesi - quando d’improvviso la terza stella di François Bayrou si accese tra quelle di Nicolas Sarkozy e Ségolène Royal (ma per poco: il sistema a due turni è anche più spietato nel lasciare in campo due soli sfidanti al ballottaggio) - l’amaro risveglio è arrivato per Nick con lo spoglio delle schede, e il modesto risultato attribuito al suo partito, una cinquantina di seggi messi insieme alla Camera dei Comuni.

Prima ancora di conoscere le analisi dei flussi elettorali, non ci vuol molto a capire che Clegg, rosicchiando voti a Cameron, ha finito per impedire che i conservatori ottenessero la maggioranza e potessero formare il governo da soli e senza tentare l’improbabile coalizione con i lib-dem, estranea all’esperienza della politica inglese. Il suo centro ha funzionato né più né meno come quello di Bayrou in Francia, che rese più rovinosa la sconfitta della Royal. E come, molti anni fa, nel 1992 in America, l’apparizione del terzo uomo Ross Perot, che affondò George Bush senior, aprendo la strada al giovane Clinton. Visto l’interesse con cui anche la classe politica nostrana ha seguito il voto inglese - scoprendo, come già nel 2007 francese, inattese correnti di simpatia, quando non vecchie amicizie e parentele culturali tra i centristi italiani e la star annunciata Clegg - c’è da sperare che serva a riflettere la realtà uscita dalle urne del Regno Unito, dopo l’ennesimo sogno mancato di una nuova primavera del Centro. Del resto, anche da noi, le elezioni sono finite da poco: e pur accusando, qua e là, qualche segno di insofferenza, gli elettori, in mancanza di un’alternativa di sinistra, e pur in presenza di una centrista, hanno continuato a votare per Berlusconi.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7318&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #134 inserito:: Maggio 09, 2010, 06:04:01 pm »

9/5/2010 (7:33)  - INTERVISTA

Ciampi: "Che errore allargare l'euro"

Parla l'ex capo dello Stato

MARCELLO SORGI

Presidente Ciampi, ma uno come lei che l’euro l’ha fatto con le sue mani, da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio e da Presidente della Repubblica, si aspettava una crisi così forte e improvvisa della moneta comune?
«Potrei risponderle di no, o almeno non di queste dimensioni. Ma se ripenso ai giorni in cui l’euro fu deciso, devo essere sincero: ci eravamo ripromessi, tutti quanti i rappresentanti dei Paesi dell’Unione Europea che avevano deciso di dar vita al sistema della moneta unica, di adoperarci per un più forte coordinamento delle politiche economiche dei governi. Avevamo la sensazione, chiarissima, che non sarebbe bastato il rispetto di ciascuno di noi per la disciplina che avevamo scelto, il famoso tre per cento del rapporto tra pil e debito pubblico imposto da Maastricht. Occorreva anche continuare il lavoro comune per far sì che insieme con il comportamento virtuoso dei singoli, necessario per restare all’interno del sistema, si facesse strada una forma di collaborazione più intensa e continuativa, dalla quale l’Unione Europea nel suo complesso sarebbe uscita rafforzata».

Fino ad approdare a quell’unione politica, e federale, agli Stati Uniti d’Europa, che in quell’epoca era lecito sognare e che invece nel tempo si sono rivelati un obiettivo molto più difficile da raggiungere? «L’auspicio era questo. Anche se a Bruxelles, quando l’euro fu varato, si parlava solo di moneta unica e di coordinamento delle politiche economiche. C’era un nesso evidente tra la decisione di entrare in un’epoca nuova, superando le difficoltà, e anche qualche diffidenza, che fino all’ultimo rischiavano di compromettere tutto, e l’impegno a fare in modo che il legame tra i diversi partners fondato sulla moneta unica si sviluppasse con comportamenti coerenti, dei quali tutti dovevano essere al contempo responsabili e garanti. È esattamente questo che è mancato o non è andato come si sperava. Ed è per questo che oggi ci troviamo a fronteggiare questa brutta crisi».

C'è qualcuno più colpevole degli altri? In altre parole, condivide ciò che dice chi, come il suo successore al ministero del Tesoro Visco, sostiene che la Grecia, al tavolo delle trattative, raccontò qualche balla, e qualcuno se n’era pure accorto, ma si decise di passarci sopra lo stesso? «È vero che l’istruttoria fu molto severa per il primo gruppo di Paesi candidati, compresi noi italiani, che dovemmo fare una delle manovre più dure della storia dal Dopoguerra, per entrare nei requisiti richiesti dal sistema. E che invece al momento dell’allargamento ci fu meno severità: in questo senso, non solo la Grecia ma anche altri Paesi era chiaro che entravano firmando una serie di obblighi che dovevano rispettare e di tappe successive che nel tempo non hanno raggiunto. Proprio perché molti di noi dovettero affrontare sacrifici importanti, oggi dovremmo chiederci se sarebbe stato meglio non essere di manica larga. E se questa è la domanda, la risposta è senz’altro sì. Il rigore avrebbe dovuto essere lo stesso per tutti».

Sta dicendo che l’ampliamento del numero dei Paesi entrati nell’euro è stato un errore? «Credo di sì. Sarebbe stato un rischio calcolato se, come le dicevo prima, insieme con l’euro fosse andato avanti il rafforzamento della collaborazione e del coordinamento in fatto di politiche economiche. Cosa che purtroppo non è avvenuta con le conseguenze che vediamo».

Presidente Ciampi, quanto pesa secondo lei il progressivo indebolimento della rete di rapporti tra i partners dell'Unione? Nei dodici anni di cui parliamo, dal ’98 ad oggi, è inutile nascondersi che l'Europa ha stentato: la Costituzione europea è nata male, è stata subito abbattuta dai referendum che dovevano ratificarla, e ha dovuto essere ridimensionata drasticamente. Il sentimento di coesione della Comunità, anche se è difficile misurarlo, sembra spesso travolto da egoismi e particolarità perfino sub-nazionali. «Se parliamo di politica, non c'è dubbio che in campo europeo si siano fatti passi indietro. È duro ammetterlo, e lo faccio con amarezza. Ma l'Europa come obiettivo non può restare solo un sogno degli europeisti».

Quanto hanno giocato i rapporti personali tra uomini di governo, all'epoca eccellenti, e adesso, non sempre, e non solo per ciò che riguarda noi, meno buoni? «Posso dirle com’erano i rapporti ai miei tempi. Alla fine di un percorso difficile come quello che avevamo fatto, ad esempio, con Theo Waigel e Hans Tietmeyer, i nostri autorevoli interlocutori tedeschi, c’era anche amicizia, oltre che rispetto. Con quelli di oggi non so. Ma al dunque, anche i partners più dubbiosi dovranno rendersi conto di non aver alcuna convenienza a tornare indietro».

Questo vale anche per l’euro? «Certamente. Ed è la ragione per cui, malgrado tutto, sono ottimista».

Lei non crede che, batti e ribatti, oggi la Grecia, domani la Spagna e il Portogallo e dopodomani, Dio non voglia, l’Italia, la speculazione possa averla vinta? «Non lo credo. La speculazione è un fatto che bisogna sempre aver presente. È come una scommessa: chi la fa, certo, spera di vincere, ma intanto guadagna già solo giocandola. Il sistema ha tutti gli strumenti per combattere la speculazione: tanto per cominciare, penso alla Bce. Ma anche i governi, guardi quel che sta accadendo, è come se tutto quel che è mancato finora, d’improvviso fosse diventato evidente. Anche i meno convinti, sanno che l’ingresso nell’euro ha significato per tutti un punto di non ritorno. Siamo come su un aereo che è appena decollato: l’unica cosa da non fare è cercare di riprendere terra. E se possibile, dobbiamo cercare di volare più alto».

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