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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 289101 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Febbraio 25, 2010, 09:32:54 am »

25/2/2010 - TACCUINO

I vescovi vogliono politici nuovi
   
MARCELLO SORGI


Di per sé, un documento antimafia della Conferenza episcopale dei vescovi non sarebbe una grande novità. E’ dal 1989 che la denuncia del degrado imposto dalla criminalità organizzata nei territori che tiene sotto controllo ha cessato di essere patrimonio di parroci e vescovi coraggiosi (alcuni dei quali ci hanno rimesso la vita), per trovare posto nei documenti dell’episcopato.

Ma il modo in cui la Cei ieri è tornata sull’argomento merita di essere analizzato anche per altre ragioni. Oltre a segnalare l’escalation e la trasformazione in potenza economica delle mafie, i vescovi dicono che le classi dirigenti del Sud sono inadeguate a contrastarle. Possibile, specie di questi tempi. Ma si dà il caso che il Mezzogiorno, dove peraltro si gioca la partita più importante delle elezioni del 28 marzo, sia amministrato quasi esclusivamente dal centrosinistra, e in questo senso il documento della Cei possa essere letto anche come un invito a un ricambio, peraltro diffuso a un mese dal voto.

Come sempre in questo genere di interventi, non c’è, nella presa di posizione dei vescovi, una spinta diretta all’alternativa, che peraltro al Sud si presenta difficile viste le numerose contiguità presenti anche nel centrodestra con le organizzazioni criminali. E se si segue il filo del discorso cominciato qualche tempo fa, fermo restando che il documento danneggia di più le amministrazioni di centrosinistra, non si può trascurare il fatto che la Cei da tempo stia insistendo, più in generale, sulla necessità di preparare una nuova classe dirigente per il Paese, più vicina ai valori cattolici, per farla subentrare a quella attuale che mostra segni evidenti di logoramento.

Un’impostazione del genere insomma non necessariamente presuppone una scelta di campo. Potrebbe anzi essere mirata anche ad altri scopi, a cominciare dalla scelta dei candidati da inserire nelle liste che dovrebbero essere completate in questa settimana. Al di là del giudizio negativo su chi è attualmente al governo al Sud, è come se i vescovi premessero sui partiti, tutti i partiti, fin qui impegnati solo a parole sulla scelta di candidature pulite, per convincerli a dare una prova effettiva di rinnovamento. Ed è come se questo richiamo fosse rivolto, insieme, alle forze politiche e ai loro elettori: per farli scegliere, a prescindere dagli schieramenti, solo i candidati affidabili, e in grado di garantire la loro estraneità al sistema politico-mafioso. Che ai vescovi ormai appare come una sola cosa, e sembra condividere gli stessi obiettivi, contrari agli interessi della comunità.

da lastampa.it
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« Risposta #91 inserito:: Febbraio 26, 2010, 12:04:53 pm »

26/2/2010

Lacrime di coccodrillo
   

MARCELLO SORGI

Passeranno alla storia come le più classiche lacrime di coccodrillo, le dichiarazioni indignate con cui ieri il presidente del Senato Schifani si è impegnato ad espellere al più presto da Palazzo Madama, facendolo decadere dalla carica, il senatore Nicola Di Girolamo.

Parlava, appunto, come se il caso che riguarda il parlamentare truffatore - che, fingendo di aver residenza in Belgio, era riuscito ad essere inserito in lista con una raccomandazione del suo amico nazista Gennaro Mokbel, già in rapporti con la Banda della Magliana e con il potente clan calabrese Arena, e si era poi fatto eleggere come rappresentante degli italiani all’estero grazie a un’attiva collaborazione del ramo tedesco della ’ndrangheta -, non fosse già noto, nelle sue grandi linee, e rubricato dagli uffici del Senato da un anno e mezzo. Come se un altro esponente del Pdl, il senatore Augello, non avesse cercato, fin da agosto 2008, di convincere i suoi colleghi a intervenire. E come se la questione non fosse tornata all’ordine del giorno una seconda volta, quando appunto fu reiterata dal Senato la decisione di proteggere dalle sue ignominiose responsabilità il suddetto Di Girolamo.

Ora è tutto uno scaricabarile. Il presidente della Camera Fini, in aperta polemica con i senatori della sua stessa parte, dice che voterebbe per l’arresto di Di Girolamo. Il capogruppo Gasparri, che si è battuto per evitarlo, sostiene che la responsabilità è di chi accettò che un simile campione fosse messo in lista. E fa il nome di Marco Zacchera, pure lui ex An, che ha riconosciuto che la scelta fu sua.

Zacchera non è certo uno sconosciuto per Fini. E poi, andiamo, è possibile che il partito che più s’era battuto per concedere il diritto di voto agli emigrati italiani - una storica battaglia condotta per decenni, fin dall'epoca del Msi, da Mirko Tremaglia -, alla seconda occasione in cui questo genere di elezione veniva messa in pratica, non avesse un candidato migliore da proporre? Ed è credibile che un qualsiasi candidato, non solo quello da presentare all’estero, sia entrato in lista, con buone probabilità di essere eletto, senza che i leader del partito lo conoscessero e sapessero qualcosa delle ombre che si portava dietro?

Diciamo la verità, è impossibile crederlo. Ma anche ammesso che Di Girolamo, in buona o cattiva fede, fosse stato garantito al limone ai vertici del Pdl - o più precisamente dai vertici dell’ex An a Berlusconi -, con le carte che sono arrivate al Senato dopo la sua elezione, ce n’era abbastanza per capire che aveva voluto farsi eleggere per ragioni inconfessabili, forse proprio per evitare di finire in carcere.
E di conseguenza, per sbatterlo fuori prima ancora che la sua vita da parlamentare cominciasse.

Invece, è andata come è andata, e adesso c'è la rincorsa a metterci una pezza. Sono tempi difficili per la Seconda Repubblica, non passa giorno che non salti fuori una storia di corruzione o di rapporti obliqui tra politici e criminalità organizzata. Combinazione, alla fine di questa settimana, dovranno anche essere presentate le liste per le regionali. Vediamo cosa s’inventano, stavolta, per convincerci che è impossibile che salti fuori un altro Di Girolamo.

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« Risposta #92 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:20:54 am »

3/3/2010 - TACCUINO

Il caos nel Pdl e i vantaggi per il Cavaliere

   
MARCELLO SORGI

Diceva Andreotti che a pensar male si fa peccato ma non si sbaglia. Applicato alla grottesca vicenda della lista del Pdl e del listino della Polverini esclusi dalle elezioni a Roma, il criterio andreottiano porta a questo. Non è affatto detto che, passata l’irritazione iniziale (non c’è giorno, negli ultimi tempi, che non gli arrivi una cattiva notizia) Berlusconi sia così dispiaciuto di quel che sta accadendo nella Capitale. E che insieme agli evidenti svantaggi che si profilano, non ne stia calcolando anche i vantaggi.

In fondo, Polverini è una candidata di Fini, il cofondatore-alleato-avversario, che non perde occasione per attaccarlo. La candidata del cuore del Cavaliere per il Lazio era Luisa Todini, che a malincuore ha dovuto mettersi da parte. In fondo, il Popolo della libertà a Roma non somiglia affatto al modello di partito che sogna il Cavaliere, e dopo l’elezione in Campidoglio di Alemanno è subalterno, sia al primo sindaco di Roma che non è in buoni rapporti con Gianni Letta, sia al gruppo di intellettuali della fondazione finiana che Berlusconi considera un laboratorio di iniziative mirate contro di lui.

I voti di centrodestra, in fondo, non andranno certo al centrosinistra. Per quanto sfrido possa esserci verso l’astensione, ci sono altre liste di centrodestra che potrebbero intercettarli. In fondo, c’è Storace, che da amico che era, è diventato nemico di Fini e per questo è stato espulso dal centrodestra, ma non ha mai smesso di essere amico di Berlusconi. Con quel suo partitino, «La Destra», può raccogliere sia voti moderati in trasferta o abilmente convogliati in quella direzione, sia voti di destra-destra. In fondo, poi, anche l’Udc romana non è da buttar via, con quel Baccini che, pur avendo un rapporto altalenante con Casini, s’è tenuto sempre buono il Cavaliere e Palazzo Chigi, pronto a mollare gli ormeggi al momento più opportuno.

Ecco perché, in fondo in fondo, Berlusconi non si straccerà le vesti se la candidata di Fini perderà le elezioni grazie al maldestro intervento degli amici del sindaco di An. Archiviata la sconfitta, potrà godersi la resa dei conti tra i suoi ruvidi alleati, e aprire la porta del partito ai suoi vecchi amici ingiustamente emarginati. Il nemico del mio nemico è mio amico. La sconfitta del mio avversario è la mia vittoria. Queste non sono massime andreottiane. Ma se qualcuno dicesse che somigliano ai pensieri di Berlusconi in queste ore, non ci sarebbe niente da stupirsi.

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« Risposta #93 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:41:45 am »

2/3/2010 - TACCUINO

Il lavorìo a 4 per le riforme
   
MARCELLO SORGI


Il gran lavorio della scorsa settimana tra Fini, Casini, D’Alema e Pisanu segnala che, al di là dei toni esagerati della campagna elettorale, esiste in una parte dei leader politici la consapevolezza che la parte restante della legislatura va dedicata alle riforme. Il degrado del clima politico, la frequenza dei casi di corruzione e la sensazione diffusa di un ritorno di Tangentopoli ha reso, se possibile, ancora più urgente il restauro, troppe volte promesso e mai realizzato, di un sistema che agli occhi dei cittadini appare ingolfato e ripiegato su se stesso.

Si parla di riduzione del numero dei parlamentari, differenziazione dei ruoli delle Camere, rapporti più fluidi tra governo e Parlamento. Progetti, questi, che, se concretizzati, darebbero all’opinione pubblica il segno di un’inversione di rotta. Ci sono tuttavia due aspetti di questa discussione che, malgrado le buone intenzioni, potrebbero nuovamente riportare su un binario morto il cammino della Grande Riforma.

Il primo è che quel che è avvenuto tra Fini, Casini, D’Alema e Pisanu è accaduto alle spalle, quando non in aperta polemica, con Berlusconi. E’ come se questi interlocutori di prima grandezza, che hanno sì il peso e la capacità di impostare una nuova fase politica, discutessero ufficialmente di riforme, ma in realtà del dopo-Berlusconi. Discussione legittima, visto che questa dovrebbe essere l’ultima legislatura in cui il Cavaliere guida un governo. Ma è pensabile che, esaurita la sua esperienza a Palazzo Chigi (e ammesso che non ci ripensi), Berlusconi si faccia completamente da parte? E soprattutto: è realistico credere a una sessione di riforme fatta in barba a Berlusconi?

Il secondo problema riguarda le posizioni in materia istituzionale degli stessi Fini, Casini, D’Alema e Pisanu. Non è un mistero che i primi due, ai tempi della Bicamerale, fecero un accordo sul presidenzialismo, cioè l’elezione diretta del Capo dello Stato o del premier o di tutti e due, mentre gli altri due sono più a favore di un ritorno alla designazione parlamentare (stile Prima Repubblica) del premier da parte delle Camere. L’elezione diretta, in qualsiasi modo avvenga, comporta una divisione bipolare degli schieramenti. La scelta parlamentare piega più a favore di un ritorno al sistema proporzionale. Si può anche dire che D’Alema è più d’accordo con Fini sul presidenzialismo e il bipolarismo, e più disponibile al ritorno, parziale o totale, al proporzionalismo vagheggiato da Casini e Pisanu. Questo per dire che al di là delle buone (e cattive) intenzioni, la strada delle riforme è in salita.

da lastampa.it
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« Risposta #94 inserito:: Marzo 04, 2010, 11:16:41 am »

4/3/2010

La politica nelle mani dei giudici
   
MARCELLO SORGI

Per quanto difficile possa sembrare, il pasticcio preelettorale senza eguali esploso tra Roma e Milano va affrontato con freddezza. L’idea che in Lombardia, cioè nella più ricca e più importante regione del Nord, l’opinione pubblica in maggioranza schierata da anni con il centrodestra sia sostanzialmente privata del diritto di voto, per mancanza delle liste dei partiti in cui si riconosce, è grottesca. Così come lo è, nel Lazio, la prospettiva che dopo la mediocre fine dell’amministrazione di centrosinistra, travolta dallo scandalo Marrazzo, non sia data agli elettori la possibilità di valutare un’alternativa, e gli sia praticamente imposta solo la scelta tra l’astensione e la conferma dello schieramento uscente.

Sarebbe però abominevole, e sicuramente peggio, che il governo Berlusconi, per ovviare agli errori grossolani di esponenti locali del partito del premier, intervenisse in qualsiasi modo allo scopo di ristabilire la normalità della competizione elettorale.

La consapevolezza di questo limite - oltre il quale, è bene ribadirlo, si passerebbe da una democrazia come quella italiana, che funziona con qualche guasto, a un regime vero e proprio - per fortuna è presente, sia nel premier che nel ministro dell’Interno Maroni, a cui tocca sorvegliare il normale svolgimento delle elezioni. In questo caso, di normale, è rimasto ben poco, per la verità. Ma non c’è nulla, proprio nulla, che Maroni possa fare, senza venir meno ai suoi doveri di uomo di Stato e senza incorrere in un atteggiamento di evidente parzialità.

Allo stesso modo sarebbe impensabile che la via d’uscita politica che il governo e la maggioranza non possono proporre, si trovasse invece con una disponibilità bipartisan dell’opposizione. Da qualche parte si sente dire che il centrosinistra non ha alcuna convenienza a spingere per elezioni che, con due macroscopiche assenze come quelle che si delineano, verrebbero percepite come una specie di doppio golpe: localizzato, limitato a due Regioni nevralgiche e per cause diverse, ma pur sempre colpo di Stato. L’affermazione ha una sua fondatezza, dal momento che, se nel Lazio l’esito del voto è tuttora incerto, in Lombardia il solitario candidato del Pd vincerebbe, sì, ma andrebbe a governare in nome di una minoranza. E tuttavia è fuori della realtà chiedere al centrosinistra di contribuire a togliere le castagne dal fuoco ai suoi avversari, per fare insieme una sorta di condono e stabilire un precedente in cui le liste si presentano e si cambiano, si firmano, non si firmano o si mettono le firme false, e le elezioni si convocano e si sconvocano, e i risultati si proclamano ma si contestano, e alla fine la posta viene rimessa in gioco tante volte finché non vince solo chi deve vincere.

Dappertutto, nel mondo, le elezioni sono competizioni spietate e non a caso regolate da norme severe, che sempre si fanno valere. Abbiamo avuto le elezioni americane del 2000 in cui lo scettro di leader più potente del mondo, in mancanza di un risultato chiaro, fu assegnato dalla Corte Suprema. E anche senza ricorrere a esempi sproporzionati, ci sono stati una serie di casi, oggi quasi dimenticati, in cui la magistratura anche in Italia s’è trovata a intervenire su situazioni che potevano pregiudicare la corretta espressione della volontà popolare.

E’ già accaduto alle regionali di dieci anni fa che le elezioni in Molise, vinte dal centrosinistra nel 2000, siano state annullate un anno dopo per la successiva esclusione di due liste non corredate da firme valide. Nel 2001 si rivotò e, forse anche per il modo in cui si era arrivati al risultato precedente, vinse il centrodestra. Ma anche nel 2005 le elezioni in Basilicata dovettero essere spostate di quindici giorni dal prefetto per la mancata ammissione di una lista civica a Potenza, poi riammessa a soli tre giorni dalla data precedentemente fissata per il voto. E clamoroso, nello stesso anno, fu il caso della lista presentata, esclusa e poi riabilitata dal Consiglio di Stato, di Alessandra Mussolini nel Lazio, che sottraendo voti allo schieramento di centrodestra negli ultimi giorni di campagna elettorale fu decisiva per la sconfitta del governatore uscente Francesco Storace.

Una politica troppo spesso basata su colpi bassi e lotte intestine all’interno delle coalizioni ha già dovuto far ricorso molte volte, negli ultimi anni, a una magistratura che su un terreno così delicato fa quel che può, e necessariamente si esprime con una giurisprudenza controversa e con decisioni che, seppure chiudono le dispute, quasi mai riescono a spegnere il fuoco delle polemiche. Non è la migliore delle soluzioni possibili, ma purtroppo non c’è altra strada. A sessantaquattro anni dalla nascita della Repubblica, proclamata peraltro dalla Corte di Cassazione, non siamo forse il Paese che dubita ancora dei risultati del Plebiscito del 2 giugno ’46 e della sconfitta della monarchia?

da lastampa.it
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« Risposta #95 inserito:: Marzo 05, 2010, 10:17:12 am »

5/3/2010 - TACCUINO

Dopo Roma la Lombardia

E allora Bossi fa dietro-front
   
MARCELLO SORGI

Detto da lui, l'ultimo dei leader della Prima Repubblica e l'unico ad essere riuscito a traghettare nella Seconda, suonava ancora più pesante. «Dilettanti allo sbaraglio» aveva apostrofato il vecchio Bossi, con lo sdegno del consumato professionista della politica, la Polverini e i borgatari romani di An suoi sostenitori, responsabili della mancata presentazione delle liste del Pdl e della candidata presidente a Roma.

Oltre al disprezzo per la confusione con cui era stata condotta l'operazione dagli ex-An, il duro giudizio del Senatur malcelava la sua intima soddisfazione per il fatto che il pasticcio era accaduto a Roma, a ulteriore conferma dell’approssimazione tipica della Capitale. «Dilettanti», insomma, e per di più romani: nulla di peggio, agli occhi degli elettori leghisti del Nord e del loro leader carismatico. Anche per questo Bossi aveva subito dettato una linea rigorosa, prontamente applicata dal ministro dell’Interno Maroni, che invitava Berlusconi ad evitare interventi del governo che avrebbero potuto risolversi in una toppa peggiore del buco. A malincuore il premier, furente per l’esclusione delle liste ma più propenso a trovare una via d'uscita a qualsiasi costo, aveva dovuto prenderne atto e spiegare alla Polverini che non c'erano molte soluzioni sul tappeto.

Questa inviolabile linea del Piave - ma forse sarebbe più corretto definirla linea del Po -, è franata miseramente mercoledì sera, di fronte alla sentenza della Corte d'Appello di Milano che ha escluso Formigoni, e con lui tutti i partiti che lo sostenevano, compresa la Lega, dalle regionali in Lombardia. Il dietro-front del Carroccio, per nulla imbarazzato, è maturato nel corso di una sola notte davanti al rischio, incalcolabile per la Lega, di non partecipare per la prima volta dopo oltre vent’anni alle elezioni nella regione simbolo della cultura nordista, la Lombardia ombelico della Padania.

Così, già ieri mattina, ecco Bossi reclamare il decreto che fino a due giorni prima aveva escluso; ecco Maroni intento in una difficile conversione a "U", ed ecco Calderoli, il ministro più istituzionale della Lega, l'uomo che ebbe il coraggio di definire una «porcata» la legge elettorale che portava la sua firma, raccomandare al suo leader e al suo collega del Viminale un sondaggio preventivo con il Quirinale, per evitare di approntare un decreto che magari il presidente Napolitano non avrebbe firmato. Mai dire mai, diceva una vecchia regola della politica. Che stavolta, anche un uomo consumato come Bossi deve aver dimenticato.

da lastampa.it
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« Risposta #96 inserito:: Marzo 09, 2010, 11:01:41 pm »

9/3/2010

Più politici e meno avvocati
   

MARCELLO SORGI

Questa del Tar di Roma, che doveva riammettere la lista del Pdl per le regionali del Lazio, sarà la quinta o sesta, tra ordinanze e sentenze, che in questa incredibile guerra giudiziaria che ha sostituito la campagna elettorale, finora sono servite solo a rendere incerto anche l'esito finale delle elezioni.

Se la vertenza ha avuto come epicentri le due capitali italiane, nessuno infatti può escludere un contagio e un’epidemia di ricorsi anche dopo i risultati. Nell’illusione, per la verità prevedibile fin dall’inizio di questo pasticcio, che a furia di rimettere in discussione - e se possibile annullare qua e là - le votazioni, si possa tornare alle urne e cambiare i risultati finché si vuole. A questo punto l'unica cosa chiara è che il famigerato «decreto interpretativo», che ha portato l’assedio fin sotto il Quirinale, s’è rivelato inutile oltre che controproducente. A Milano, approfittando del fatto che non era stato ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, la magistratura ha preferito prescinderne esplicitamente.

A Roma, i giudici amministrativi hanno concluso che, seppure, come diceva il decreto, la presenza dei rappresentanti del Pdl doveva considerarsi sufficiente a presumere che la lista stava per essere presentata, non c’era nessuna prova né che la delegazione del partito fosse materialmente presente, né che fosse pronta a consegnare la documentazione. La verità può essere interpretata, ovviamente. Ma appunto, un’interpretazione vale l’altra, e quella dei giudici ha prevalso.

Ma siccome alla follia non c'è limite - e una sorta di tarlo ha ormai preso tutti i contendenti, facendoli sembrare fuori di senno - c’'è perfino chi pensa che la guerra giudiziaria debba continuare. Incuranti del monito del ministro dell'Interno Maroni, che ha consigliato di chiuderla qui, gli esponenti romani del partito di Berlusconi e i sostenitori della candidata Polverini si aspettano che oggi la lista cassata ieri dai giudici amministrativi - che a loro volta avrebbero dovuto contraddire i magistrati della Corte d’Appello - sia riammessa in extremis dall’ufficio elettorale del tribunale romano davanti al quale ieri intanto l’hanno ripresentata. A loro volta gli avversari del Pd - che tramite la giunta regionale di centrosinistra della Regione Lazio hanno fatto ricorso contro il decreto del governo davanti alla Corte Costituzionale - hanno annunciato che se il Tribunale riammetterà la nuova lista del Pdl, loro faranno un altro ricorso al Tar per ottenere la sospensione della riammissione.

Ecco perché tenere la contabilità delle istanze, dei ricorsi, degli appelli e delle sentenze - provvisorie perché c’è sempre un tempo supplementare della partita - ormai è impossibile. Non ci riuscirebbe neppure Kafka, lo scrittore che così mirabilmente descrisse la disperazione di un uomo davanti alle contraddizioni della giustizia. Il paradosso è che ciascuno loda, o impreca contro, i magistrati di varia estrazione a cui è stato affidato il destino politico di queste elezioni, secondo il tenore delle loro decisioni. E ognuno annuncia una carta segreta, una procedura particolare, una norma interposta, e insomma una mossa del cavallo, grazie alla quale il gioco può essere riaperto all’infinito.

Non ce n’è uno - uno solo basterebbe! - che invece sia capace di dire a voce alta quel che molti hanno già capito. E cioè che per questa strada, presto o tardi, non è un’esagerazione, si arriva alla morte della democrazia. Quando non c’è più nulla di definito, quando il rispetto dell’avversario sembra venuto meno per sempre, quando le regole non valgono più, tanto si possono cambiare, non c'è neppure chi vince e chi perde, perché nessuno sarà disposto a rispettare il verdetto delle urne. Tutti piuttosto penseranno a sovvertirlo in un modo o nell’altro, chiamando in causa alternativamente, e sperando che tra loro si contraddicano, ora il giudice amministrativo, ora quello civile o quello penale.

Di fronte a ciò c’è una sola cosa da chiedere ai politici: tornate a far politica. Sembra ovvio, ma non lo è. E’ assurda l’idea che la gente possa davvero appassionarsi alla telenovela delle aule di tribunale. E Berlusconi, che dice di conoscere la «sua» gente meglio degli altri, dovrebbe saperlo. Dovrebbe dire ai suoi elettori, non solo quello che ha fatto, ma quel che intende fare nel futuro. Ci sarà o no il taglio delle tasse? Il piano casa vedrà la luce? Le province saranno abolite? Queste sono le cose che gli elettori vogliono sapere. Allo stesso modo la Polverini, candidata dotata di buona immagine e carattere forte, potrà rimediare all’esclusione della lista del suo partito se sarà in grado di spiegare agli elettori di centrodestra cosa devono fare per farla vincere anche in una situazione anomala. Ce la farà, se riuscirà a convincerli che, malgrado l’imprevisto a cui è andata incontro, ha la grinta e la passione necessaria per affrontare i problemi del Lazio e far marciare l'elefantiaca macchina amministrativa della Regione. Infine, anche l'opposizione dovrebbe smetterla di passare il suo tempo con gli avvocati. Ora che il decreto salva-liste è diventato inutile, anche la manifestazione di sabato è incomprensibile. Bersani dia l’esempio e ci rinunci.

da lastampa.it
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« Risposta #97 inserito:: Marzo 10, 2010, 09:27:43 am »

10/3/2010 - TACCUINO

Il Pdl e l'ansia da successione (che non ci sarà)

   
MARCELLO SORGI

La faida in corso da mesi nel Pdl - determinante nel pasticcio delle liste e nell'esclusione dei candidati del partito dalle elezioni nel Lazio - una spiegazione ce l'ha.
Ormai molti esponenti del centrodestra ne parlano, senza neppure abbassare il tono della voce, e dicono che i guai sono cominciati nella seconda metà dell'anno scorso, quando s'è diffusa la convinzione che Berlusconi avrebbe potuto lasciare anche prima della fine naturale della legislatura.

Come si sia potuta spargere una voce del genere, e soprattutto come abbia potuto attecchire a poco più di un anno dalle elezioni vittoriose del 2008, è difficile crederlo. Gli scandali, i problemi familiari, momenti di velata stanchezza che qualcuno sosteneva di aver constatato di persona al cospetto del Cavaliere, e poi il clima montante degli ultimi mesi del 2009, l'idea che una volta giunto al suo ultimo giro, il premier avrebbe necessariamente dovuto occupare la seconda parte del suo mandato a gestire la successione.

Di qui, appunto, il panico nelle seconde e terze file, per non dire delle quarte e delle quinte, l'atmosfera da ultima spiaggia che, in coincidenza con la battaglia delle candidature, ha creato una corsa a qualunque costo all'ultimo posto disponibile, come se la conclusione annunciata di un'era durata tre lustri dovesse per forza coincidere con la fine di una sorta di età dell'oro.

Per incredibile che possa sembrare, questa è la ricostruzione autentica che più di uno all'interno del Pdl fa delle ragioni che hanno portato al disastro degli ultimi giorni. Ora, il paradosso di tutta questa storia è che, anche se molti verosimilmente ci hanno sperato, Berlusconi non ha nessuna, ma proprio nessuna, intenzione di mettersi da parte. Anzi, per come è fatto, le difficoltà lo spingono con più convinzione a battersi.

La campagna elettorale è da sempre il momento che lui giudica migliore per le sue performances. E, malgrado i sondaggi più recenti non siano generosi, il Cavaliere non considera affatto pregiudicata la tornata elettorale. Anzi, ritiene che con un forte impegno di comunicazione, gli elettori disorientati del centrodestra possano essere rimotivati e una vittoria che adesso sembra irrealistica possa essere riacciuffata. Questo ha spiegato ieri di persona a un'abbacchiata Renata Polverini, candidata governatrice del Lazio che corre in salita, al sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha una parte di responsabilità nell'esclusione della lista del Pdl e ai coordinatori del partito. A regolare i conti, hanno capito quelli che lo ascoltavano, Berlusconi penserà dopo le elezioni.

da lastampa.it
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« Risposta #98 inserito:: Marzo 11, 2010, 09:33:14 am »

11/3/2010 - TACCUINO

L'impossibile disarmo bilaterale
   
MARCELLO SORGI

La ricostruzione fornita ieri da Berlusconi, secondo cui la presentazione della lista del Pdl a Roma sarebbe stata impedita da una congiura tra militanti radicali attivissimi e burocrazia assai inerte, e la conferma che il centrodestra scenderà in piazza sabato 20 marzo contro la «sinistra antidemocratica», hanno fatto capire ieri, se ancora ci fosse qualche dubbio, che la campagna elettorale per le regionali ruoterà tutta attorno al pasticcio delle liste.

Invano i leader dei due schieramenti si sono sfidati ieri a piantarla e a uscire dalla dimensione di lite da condominio in cui sono precipitati dopo la ragnatela inestricabile di ricorsi giudiziari contrapposti presentati nei giorni scorsi. La verità è che nessuno mette in conto la possibilità di un disarmo unilaterale, e l'appello a tornare a parlare di politica deve considerarsi dunque caduto nel vuoto.

Si va verso una campagna elettorale basata su un'aperta delegittimazione tra le due parti. Un ulteriore passo indietro, verso l'imbarbarimento del confronto politico, e un definitivo allontanamento dai modelli di normale democrazia bipolare, il cui presupposto è che tutti sono legittimati a governare. Qui invece l'incomunicabilità registrata con qualche preoccupazione dal Quirinale (e annotata con amarezza dal Capo dello Stato nella mail che aveva fatto seguire alla contestata firma del decreto) continua a produrre i suoi frutti avvelenati.

Avremo quindi sabato prossimo la prima manifestazione del centrosinistra in cui, cercando di salvaguardare (vedremo quanto) il ruolo del Presidente della Repubblica, Bersani e soci accuseranno Berlusconi di aver infranto le regole della democrazia usando il governo per cercare di salvare le liste del suo stesso partito. Accusa giustificata, va detto, quando il famigerato «decreto interpretativo» è stato varato.
Ma assai meno ora che le due diverse magistrature di Milano e di Roma che si sono occupate di Formigoni e Polverini hanno dichiarato esplicitamente di prescinderne e ne hanno contemporaneamente certificato l'inutilità.

Allo stesso modo avremo il sabato successivo la seconda manifestazione del centrodestra, che ribalterà i giudizi di antidemocraticità sull'opposizione, accusandola, come ha fatto ieri Berlusconi, di voler correre senza avversari come ai tempi dell'Unione sovietica.

Il bello è che con questi argomenti sperano di convincere un elettorato demotivato a tornare sulla strada delle urne. Non li sfiora neppure il dubbio che tutto quel che stanno facendo spinge un sacco di gente verso l'astensione.

da lastampa.it
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« Risposta #99 inserito:: Marzo 12, 2010, 08:15:52 am »

12/3/2010 - TACCUINO

Da elezioni a campionato di serie B
   
MARCELLO SORGI

Avevano detto: basta, facciamola finita con la guerra giudiziaria. Ma ieri hanno ricominciato peggio di prima. Alla sola, ventilata, possibilità, che il Consiglio di Stato potesse pronunciarsi oggi, o al più tardi domani, smentendo le due sentenze di esclusione della lista del Pdl del Lazio, la giunta regionale di centrosinistra ha fatto ricorso alla Corte costituzionale per chiudere definitivamente la contesa.

Definitivamente si fa per dire, dal momento che è impossibile dipanare l'intreccio di iniziative contrastanti e concomitanti, prese davanti a giudici di vario tipo. Al momento, per semplificare, si può dire questo: il punteggio è di due a uno a favore del centrosinistra, la partita è ormai ai calci di rigore finali. Il centrodestra ha segnato a Milano, dove tutto è andato a posto e Formigoni, Pdl e Lega possono correre tranquillamente, praticamente sicuri di vincere. Ma il centrosinistra ha segnato due volte a Roma, dove prima il Tar e poi l'ufficio elettorale del Tribunale hanno negato l'ammissione della lista del partito del premier, malgrado il decreto scritto su misura per farla riammettere.

Ora la speranza (per il centrodestra) o il timore (per il centrosinistra) è che il Consiglio di Stato, cioè la Corte d'Appello del Tar, intervenga più o meno nello stesso modo in cui lo fece nel 2005, quando a soli tre giorni dal voto fu salvata la lista di Alessandra Mussolini, che era stata esclusa all'atto della presentazione per irregolarità nelle firme dei presentatori, e rientrando portò alla sconfitta il governatore uscente della Regione Francesco Storace. In quel caso - ed ecco perché speranze e timori sono giustificati - i consiglieri di Stato decisero senza entrare nel merito della vicenda specifica, con la sola ragione di consentire il diritto di voto anche a una piccola minoranza come quella dei sostenitori della nipote del Duce.

Ma siccome la lista del Pdl non dovrebbe solo essere riammessa, ma ammessa per la prima volta, visto che non è stata neppure presentata, il Consiglio di Stato, per farla entrare in campo, dovrebbe necessariamente far riferimento al contestato decreto del governo. Di qui l'iniziativa avversa della giunta regionale, mirata a far dichiarare in tempi brevissimi l'incostituzionalità del decreto. Come può finire? Per restare alla metafora, o pareggio, due a due, se il Consiglio di Stato dà ragione al Pdl, o tre a uno per il centrosinistra se arriva prima la Corte costituzionale. Le chiamavano elezioni, adesso sono ridotte a un campionato di serie B.

da lastampa.it
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« Risposta #100 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:02:41 am »

13/3/2010

Un Paese oltre ogni limite

MARCELLO SORGI

La nuova ondata di intercettazioni resa nota ieri dal «Fatto quotidiano» ci consegna uno spaccato del potere anche peggiore di quel che si poteva immaginare. Di per sé, l’idea che il presidente del Consiglio chiami al telefono il direttore generale della Rai Mauro Masi, il direttore del Tg1 Augusto Minzolini e il membro dell’Agcom, l’Autorità indipendente per le telecomunicazioni, Giancarlo Innocenzi, non è fuori dalla realtà. Ma se solo è verosimile il contenuto dei verbali, riassunti stavolta, e non pubblicati tra virgolette, è il modo in cui li tratta - da servi, neppure da dipendenti! - che fa spavento. Se questo è il livello a cui è giunta la vita pubblica, ancorché nei suoi anfratti nascosti, siamo ormai oltre la «bolgia» infernale denunciata dal Capo dello Stato. Del resto sarebbe proprio Masi a lamentarsi perché certe cose, a suo dire, non accadono neppure nello Zimbabwe.

Malgrado ciò occorre distinguere. Il premier che cerca di orientare il responsabile del principale telegiornale dell’emittente di Stato è solo uno, uno dei tanti politici che tutti i giorni cercano di guadagnare visibilità, ascolto e spazio a dispetto di altri.

Chiunque abbia lavorato come giornalista in Rai sa che un malinteso concetto del servizio pubblico fa credere a ciascuno dei quasi mille membri del Parlamento di essere azionista di viale Mazzini, e in base a questo di poter accampare pretese, senza rispetto, né per chi fa informazione, né per chi deve fruirne come pubblico. Sta alla personalità e alla professionalità di chi riceve le telefonate reagire e salvaguardare, per quanto possibile, l’informazione dalle pressioni indebite. Ma siccome al telefono si ricevono anche notizie, e siccome i politici non hanno sempre ed esclusivamente torto, un giornalista che condivida, in qualche caso, il punto di vista del suo interlocutore, e come Minzolini lo faccia esplicitamente, anche nel caso si tratti del presidente del Consiglio, non è detto che faccia necessariamente qualcosa di male.

Diversi sono i casi di Masi e Innocenzi. In qualche modo, e con opposti atteggiamenti, stando sempre al riassunto delle intercettazioni, sarebbero stati coinvolti nella cancellazione per il periodo elettorale del programma di Michele Santoro «Anno Zero», che si è tirata dietro la sospensione di tutti i più importanti spazi di approfondimento, da «Porta a porta» a «Ballarò» a «In mezz’ora». In questo caso sembra che, mentre il membro dell’Agcom Innocenzi (a lungo dipendente delle emittenti Mediaset prima di approdare a Forza Italia) si adoperava, non solo per favorire, ma per suggerire una via per ghigliottinare il conduttore sgradito al premier, il direttore generale Masi a modo suo resisteva. E si sarebbe piegato solo dopo il silenzio imposto ai talk-show della Rai dalla Commissione parlamentare di vigilanza, e seguito dal regolamento dell’Autorità - peraltro sospeso ieri mattina dal Tar - che lo estendeva anche alle reti tv private. Ma con la collaborazione di uno, o con l’opposizione dell’altro dei due altissimi funzionari, alla fine l’effetto è stato lo stesso: e Berlusconi, anche se non gli spettava, l’ha avuta vinta sul terreno - la politica in tv - su cui da sempre è più sensibile.

Accanto a questa ricostruzione, per forza di cose frammentaria e meritevole di approfondimenti - per accertare, almeno, se Innocenzi debba rispondere di esser venuto meno ai doveri di imparzialità connessi al suo incarico di membro di un’Autorità indipendente - c’è un altro interrogativo che aspetta risposte. Come si sa, l’inchiesta che ha portato alla scoperta di tutto è partita da Trani, in Puglia. Le indagini riguardavano un giro di usura basato su carte di credito irregolari. Alcuni degli indagati avrebbero minacciato di rivolgersi all’Agcom e alla Rai come consumatori truffati, millantando amicizie che potevano procurargli assistenza da parte dell’Autorità e attenzione giornalistica da parte del Tg1.

Un magistrato che decida di conseguenza di mettere sotto controllo uno (solo uno?) dei membri dell’Agcom dovrebbe sapere che quell’organo non si occupa di protezione dei consumatori. Se non lo sa, appena scopre che ha sbagliato indirizzo, dovrebbe chiudere le intercettazioni. Lo stesso vale per il direttore del Tg1, che tra l’altro sulla storia delle carte di credito ha anche mandato in onda un servizio.

Invece il magistrato rimane in ascolto. E quando si accorge che al telefono dei suoi intercettati c’è Berlusconi, moltiplica le sue attenzioni, anche se è chiaro che né lui né gli altri due c’entrano niente con la storia della truffa. Per questa strada - una via obliqua - s’è arrivati a rivelare le pressioni del premier sull’informazione Rai. Ma - va detto - difficilmente si potrà arrivare fino in fondo e conoscere tutta la gravità e i dettagli del caso, specie ora che è finito nel frullatore della campagna elettorale. Il magistrato che ha continuato a tendere il suo orecchio, pur sapendo che la vicenda non era di sua competenza, non ha dato grande prova di serietà. Anzi, magari senza capirlo - cosa che fa dubitare della sua intelligenza - ha contribuito ad accelerare la legge che vuole tagliare le intercettazioni. D’altra parte, se è così facile spiare il presidente del Consiglio (oggi Berlusconi, ma era successo anche a Prodi), non si troverà più tanto facilmente qualcuno contrario a limitarle. Così, giorno dopo giorno, cresce la confusione e la sensazione è che anche i diritti più elementari e le libertà indispensabili siano messi a rischio. L’Italia sta diventando un Paese senza il senso del limite.

da lastampa.it
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« Risposta #101 inserito:: Marzo 16, 2010, 10:25:10 am »

16/3/2010 - TACCUINO

I misteri dell'inchiesta in Puglia

   
MARCELLO SORGI

Uno dei primi dubbi che s'è posto a proposito del caso Berlusconi-Agcom-Tg1 riguardava il luogo dell'inchiesta, Trani. Com'è possibile che una procura di provincia che sta indagando su un traffico di carte di credito irregolari arrivi - nientemeno! - a inquisire il presidente del consiglio per concussione? Palazzo Chigi, gli uffici dell'Autorità indipendente per le telecomunicazioni e la redazione del Tg1 si trovano nella Capitale: come potevano gli inquirenti aggirare questo evidente limite territoriale?

Queste domande prescindono dalle eventuali responsabilità di Berlusconi, che sarà compito di un tribunale giudicare, se si arriverà a un processo. Ma sottendono una domanda più generale: quali che siano le sue colpe, che paese è un paese in cui il capo del governo può essere messo sotto inchiesta così facilmente, da un giudice che non sa neppure quali sono i compiti dell'Agcom, tanto da ritenere che possa occuparsi anche della difesa dei consumatori truffati con le carte di credito?

Ieri i magistrati di Trani hanno cercato di spiegare il senso delle loro iniziative. Dunque l'inchiesta sarebbe stata incardinata in Puglia dopo due decisivi interrogatori. Nel primo l'ex sottosegretario e attuale membro dell'Agcom Giancarlo Innocenzi, richiesto di illustrare le eventuali pressioni subite da Berlusconi, negò. Ed ecco partire contro di lui l'accusa di favoreggiamento, da parte dei magistrati che, disponendo delle intercettazioni delle telefonate con il premier che si sbracciava per ottenere la chiusura di «Annozero», capirono subito che Innocenzi mentiva. E siccome aveva mentito a Trani, ecco motivata anche la competenza territoriale della locale Procura.

Nel caso di Minzolini tutto fu ancora più semplice. Avendo il direttore del Tg1 detto che per lavoro parlava con molti politici, tra cui Berlusconi, ma che non si sentiva tenuto a rivelare il contenuto di conversazioni professionali, l'interrogatorio del direttore del Tg1 venne secretato. Ma Minzolini - si sa com'è fatto - all'uscita dal Palazzo di giustizia si mise a telefonare e a raccontare, stupito, quel che gli era successo. Di qui l'accusa di rivelazione di segreto istruttorio, anche in questo caso commessa a Trani. Si tratta di motivazioni formalmente ineccepibili. Che non spiegano, tuttavia, la lunga serie di intercettazioni fatte prima che i reati di cui Innocenzi e Minzolini sono accusati venissero commessi. Il dubbio che la forzatura operata a Trani possa impedire un serio accertamento della verità rimane. E giorno dopo giorno diventa più forte.

da lastampa.it
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« Risposta #102 inserito:: Marzo 17, 2010, 10:18:27 am »

17/3/2010 - TACCUINO

Testa a testa tra Michele e il premier

   
MARCELLO SORGI

Ieri a Trani è stato il «Santoro day». Il conduttore di «Annozero» s'è mosso con sapienza sulla scena. Diversamente da Minzolini, che appena uscito dall'interrogatorio era corso a telefonare a Palazzo Chigi, Santoro ha fatto poche dichiarazioni, spiegando che era tenuto a un obbligo di riservatezza, ma lasciando intendere che la storia della sua persecuzione politico-mediatica è nota e pubblica, e risale ai tempi del famoso editto bulgaro di Berlusconi nel 2001.

Le immagini sui tg, la folla di microfoni e telecamere attorno al giornalista, privato per il momento del suo programma e della ribalta tv, il suo comportamento «istituzionale» a fronte della campagna che per tutto il giorno il Cavaliere ha continuato a condurre contro l'avversario individuato nell'asse tra magistratura politicizzata e sinistra, hanno reso chiaro quale sarà l'effetto dell’inchiesta pugliese sulla campagna elettorale.

Si sta già andando a grandi passi verso un duello uno contro uno, com'è tipico delle competizioni bipolari, tra Berlusconi e Santoro. Con il premier nella parte che gli riesce meglio - quella della vittima -, e che solitamente funziona benissimo per mobilitare l'elettorato di centrodestra. E il conduttore di «Annozero» che va a riempire il vuoto di proposta del centrosinistra. Non è un mistero, come s'è visto anche nella manifestazione romana di sabato a Piazza del Popolo, che l'opposizione sia riuscita, sì, a rimettere insieme tutti i pezzi della vecchia coalizione che sosteneva Prodi nel 2006 ma non sia apparsa ancora in grado, né di esprimere, né di lasciare intuire un'ipotesi di candidatura per la guida del Paese.

Mentre a destra, si tratti della nascita della nuova corrente di Fini, o del profilo tecnocratico incombente di Tremonti, i movimenti per la successione di Berlusconi sono sempre più evidenti, anche a tre anni dalla scadenza elettorale, a sinistra di questo non si parla per non litigare. E' in questo quadro che Santoro, anche al di là delle sue intenzioni, rimedia con la sua presenza alla mancanza di alternativa nella campagna elettorale 2010. Con quale vantaggio per Berlusconi (che già si muove in questo senso), e quale rischio per il centrosinistra, è facile intuire.

da lastampa.it
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« Risposta #103 inserito:: Marzo 18, 2010, 08:45:46 am »

18/3/2010 - TACCUINO

Un richiamo all'Italia impazzita
   
MARCELLO SORGI

Ci vuole una pazienza infinita, come quella, appunto, del Presidente Napolitano, per mettersi in mezzo - letteralmente - alla rissa interminabile tra poteri che dovrebbero essere indipendenti, senza necessariamente diventare avversari. In discussione, come ha spiegato il Capo dello Stato, non è il diritto dei magistrati inquirenti a condurre le loro indagini in piena autonomia. Così come non è quello del governo di disporre un'ispezione in una sede giudiziaria, sia pure quella in cui s'è aperta l'ennesima inchiesta contro il presidente del Consiglio. E neppure, va da sé, la possibilità per il Consiglio superiore della magistratura di prendere in esame le risultanze dell'ispezione, non di doverla giudicare in anticipo. Basta solo - ed è quello che Napolitano ha voluto ricordare a tutti - che ognuna delle parti in causa lavori nel pieno rispetto delle prerogative delle altre.

Ciò che invece avviene sotto gli occhi di tutti - anche del Presidente della Repubblica, che ovviamente non può spingersi a censurarlo esplicitamente - è esattamente il contrario: inchieste, come quella di Trani, condotte ai limiti delle procedure previste e in un periodo, come la campagna elettorale, in cui determinano effetti politici. Ispezioni, come quella annunciata dal ministro di giustizia Angelino Alfano, presentate dichiaratamente come reazioni del governo alle inchieste, e non come controlli di tipo amministrativo, che devono necessariamente soggiacere alla riservatezza e all'autonomia della magistratura inquirente. E poi controreazioni, in genere molto dure, dei giudici sottoposti a ispezioni. E interventi, al minimo intempestivi, del Csm, come se i giudici che hanno già reagito malamente alle ispezioni avessero bisogno di essere spalleggiati, e come se appunto l'organo di autogoverno dei magistrati non dovesse limitarsi ad aspettare di poter leggere le carte prima di dire la sua.

A tutto questo, che si verifica purtroppo ormai immancabilmente ogni qualvolta un'inchiesta mira sui politici, e in particolare su Berlusconi, deve porre rimedio il Capo dello Stato: chiamato in campo non nel suo classico ruolo arbitrale, ma proprio per separare contendenti che sembrano aver voglia di menare le mani. Napolitano provvede alla necessità, ribadendo un principio che dovrebbe essere ovvio - ognuno al suo posto e nell'ambito dei propri poteri -, ma evidentemente non lo è più, nell'Italia impazzita di questo inizio 2010.

da lastampa.it
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« Risposta #104 inserito:: Marzo 19, 2010, 03:54:32 pm »

19/3/2010 - TACCUINO

L'ostacolo cha azzoppa Nichi
   
MARCELLO SORGI

Oltre a spostare contro il centrosinistra la bilancia dei guai giudiziari finora pendente verso il centrodestra, l’arresto dell’ex vicepresidente della Regione Puglia Sandro Frisullo, uomo forte del Pd nella giunta travolta dallo scandalo Tarantini (lo stesso che aveva poi organizzato un traffico di escort in casa di Berlusconi a Roma e in Sardegna), mette un ostacolo inatteso nella corsa solitaria del governatore Nichi Vendola, fin qui favorito e proteso verso la vittoria.

Uscito miracolosamente indenne dal terremoto che lo ha costretto ad azzerare la sua amministrazione, premiato nella sua resistenza a farsi da parte, e a farsi sostituire dall’esangue candidato del Pd Boccia alla guida della Regione, plebiscitato alle primarie del suo partito e applauditissimo, perfino più degli altri leader nazionali della coalizione, alla manifestazione di sabato scorso a Piazza del Popolo, il pupillo di Bertinotti fino a ieri viaggiava tranquillo verso la riconferma.

E per quanto possa cercare di difendersi dall’insidia Frisullo, ricordando di averlo cacciato subito dalla giunta insieme con gli altri assessori accusati, i dettagli dell’inchiesta sono tali da rendere difficile credere che Vendola fosse completamente all’oscuro di tutto ciò che avveniva alle sue spalle. Se solo si riflette che, secondo le accuse di Tarantino (che dovranno tuttavia trovare riscontri) Frisullo, in cambio di “protezione politica” per gli appalti nella Sanità, aveva ricevuto, prima un anticipo di cinquantamila euro, e poi undici rate mensili da dodicimila, più una serie di servizi che andavano dalle pulizie domestiche di un appartamento che era nella sua disponibilità, alla fornitura di escort che venne praticamente sperimentata su di lui, prima di essere riproposta in grande stile per ingraziarsi il premier, i casi sono due.

O Vendola qualcosa aveva intuito, ma ha preferito aspettare di avere qualche conferma dalle indagini, prima di prendere i suoi provvedimenti. In questo caso il governatore avrebbe freddamente perseguito la rovina del Pd pugliese, per dargli una lezione definitiva. Oppure era veramente all’oscuro di tutto, e ciò deporrebbe a carico dei maggiori esponenti dello stesso Pd, che avrebbero dimostrato una tale professionalità in fatto di corruzione da aggirare perfettamente il controllo di un politico di esperienza come appunto il governatore. A parte la figura di ingenuo che farebbe in questo caso, Vendola si troverebbe a riproporre come suo maggiore alleato un partito che parte, con fin troppo evidenza, azzoppato.

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