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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 287736 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Dicembre 30, 2009, 05:26:16 pm »

30/12/2009 - TACCUINO

Ma non hanno nulla da dire i democratici e il Senatùr?
   
MARCELLO SORGI

La polemica di fine anno sulla proposta del sindaco di Milano di intitolare una strada a Craxi, nel decennale della morte, rischia di attorcigliarsi attorno a un falso problema. La questione non è arrivare a una sorta di impossibile memoria condivisa del leader socialista, che fu innegabilmente un grande statista, fu altrettanto certamente processato e condannato per corruzione, con uno zelo e in un clima che guardati a tanti anni di distanza hanno aspetti di persecuzione, e poi dovette finire i suoi giorni in Tunisia, anche perché nella gran confusione italiana non si trovò il modo di compiere un gesto umanitario e consentirgli di venire a morire a casa sua.

Il punto non è neppure l'atteggiamento di Di Pietro, a suo modo coerente con la rudezza che ha importato dal suo vecchio mestiere di pm a quello di politico: si tratti, appunto, dell'incapacità di esprimere un giudizio storico un po' più approfondito su quella che fu la sua vittima principale, o di articolare un ragionamento appena più prudente sull'aggressione a Berlusconi del 13 dicembre.

No, c'è dell'altro. A distanza di dieci anni dalla morte, Craxi rappresenta il termometro della capacità di una classe politica di riflettere sul vantaggio a breve - e sul disastro che ne è seguito - di un atteggiamento di pura acquiescenza con una magistratura decisa ad ergersi a giudice della politica, in generale, e non dei singoli politici. In questo senso, va detto, sono coraggiose sia l'iniziativa del sindaco di Milano, che all'epoca dei fatti non faceva neanche vita pubblica, sia l'adesione del presidente Napolitano alla celebrazione promossa dalla Fondazione Craxi.

Mentre mancano all'appello - ma c'è tempo, in fondo sono giornate di festa - altri interlocutori che negli anni hanno rielaborato il loro giudizio sul destino del leader del Psi e sull'intera vicenda di Tangentopoli. Basti solo pensare a leader del Pd come D'Alema e Fassino, che sul tema hanno riempito pagine dei loro libri, o alla Lega, contraria, a livello comunale, a Milano, all'intitolazione della strada, intenta, ai tempi del processo Enimont ad allungare nell'aula della Camera macabri nodi da forca, ma da tempo, con Bossi, e accanto a Berlusconi, schierata contro i giudici che esagerano.

Già, non ha niente da dire, oggi, il Senatùr su Craxi?

da lastampa.it
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« Risposta #61 inserito:: Dicembre 31, 2009, 04:56:39 pm »

31/12/2009 - TACCUINO

Salvaguardare l'arbitro sarebbe interesse di tutti
   
MARCELLO SORGI


È senz’altro una scommessa, la decisione di Napolitano di porre anche su Internet, su «You tube», il suo tradizionale messaggio di Capodanno, che come tutti gli anni viene trasmesso stasera in tv. Mentre infatti in televisione il Presidente viene mandato in onda a reti unificate, nella larghissima platea di una particolare prima serata, in cui tutti o quasi tengono il televisore acceso anche come indicatore del tempo che manca al brindisi di mezzanotte, il Capo dello Stato, on line, si sottoporrà ad un particolare indice di gradimento: sarà interessante vedere quanti saranno i cliccatori e a che ritmo cresceranno.

Non è un mistero che, nel tempo, il messaggio abbia visto cambiare la sua funzione. Quando i Presidenti «regnavano» in una condizione di quasi assoluto riserbo, l’apparizione dell’inquilino del Quirinale, nel suo studio, alla sua scrivania, intento a cercare un dialogo con i cittadini e con le famiglie, riunite in un momento di serenità, aveva la forza di un evento eccezionale. Di qui l’attenta esegesi e le accurate interpretazioni che se ne facevano sui media, e le reazioni generalmente di consenso che lo accompagnavano.

Da quando invece il Paese è impantanato nella sua transizione infinita, quello del Presidente è diventato un mestiere infernale. Anche se i suoi poteri formali sono molto limitati, il Capo dello Stato è chiamato quasi tutti i giorni ad arbitrare e a cercare di moderare il livello di scontri politici ormai divenuti intollerabili e che spesso degenerano in veri e propri duelli istituzionali, tra governo e Parlamento, tra governo e magistratura o tra giudici e politici a prescindere dalla loro collocazione partitica.

Napolitano cerca di farlo con misura, tentando di indirizzare, nel contempo, le forze politiche a un confronto in positivo, che non si riduca solo a uno scambio continuo di veti o di insulti. Ma va detto che è un’opera assai ardua. Negli ultimi tempi è anche venuto meno quella sorta di rispetto istituzionale che tendeva a tenere fuori il Presidente dai giudizi contingenti dei partiti. Napolitano, in questi suoi tre anni e mezzo di presidenza, è stato attaccato da destra e da sinistra, senza remore. Dovrebbe essere interesse di tutti salvaguardare l’arbitro, specie in un periodo in cui lo scontro si fa sempre più duro. Se invece non lo si fa, vuol dire che la situazione è davvero oltre il livello di guardia.

da lastampa.it
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« Risposta #62 inserito:: Gennaio 05, 2010, 08:11:04 am »

5/1/2010 - TACCUINO

Quel "rassicurante" muro che continua a dividere maggioranza e opposizione
   
MARCELLO SORGI

Riaperta dopo l'aggressione a Milano contro Berlusconi, la disputa sulle riforme istituzionali non promette ancora nulla di buono.
Si sono sentite e lette molte frasi di circostanza anche dopo il discorso di Capodanno del Capo dello Stato: a parole, tutti sono d'accordo e impegnati a far sì che il confronto possa riprendere e le modifiche alla Costituzione possano essere approvate in tempi brevi.

Ma finora non si sono visti fatti.

C'è stata poi una rivalutazione della cosiddetta «bozza Violante» approvata a Montecitorio nella precedente legislatura dalla commissione affari costituzionali presieduta dall'ex presidente Violante. La bozza, che prevede corsie preferenziali per il governo in Parlamento a fronte di uno statuto dei diritti dell'opposizione e la riduzione del numero dei parlamentari, fu varata con un voto bipartisan.
Ma poiché prefigura anche una modifica dei poteri del Senato, destinato a diventare Camera delle Regioni, è difficile che trovi una buona accoglienza a Palazzo Madama, dove infatti si parla di riavviare il processo costituente partendo da capo.

La questione attorno a cui tutti girano, non a caso, è quella del metodo per approvare le riforme, che viene prima dei contenuti.
Da parte della Lega era venuta la proposta di una Convenzione, formata in parte da parlamentari in carica scelti nei due rami del Parlamento, e in parte da membri designati dal governo e dalle Regioni. Ma il Pdl s'è opposto, e anche il Pd non è parso entusiasta.

La ragione di queste riserve è presto detta: se la Convenzione dovesse fallire, sarebbe come mettere una pietra sopra alle riforme.
E se invece dovesse funzionare con lo stesso metodo con cui più di sessant'anni fa fu varata la Costituzione, il rischio è quello di un rimescolamento di carte nelle attuali coalizioni che potrebbe riaprire tutti i giochi. In altre parole: se la Lega entra nella Convenzione con l'intenzione, ribadita da Bossi, di trattare liberamente con tutti senza vincoli di coalizione, pur di arrivare in tempi brevi al federalismo, il Pdl non potrebbe più essere sicuro com'è adesso della sua alleanza con il Carroccio. E se Di Pietro, a sua volta, entra con l'intenzione di sbarrare la strada a qualsiasi costo alla riforma della giustizia, che invece il Pd, in certi termini, sarebbe disposto ad approvare, Bersani rischia di pagare un prezzo troppo caro alla concorrenza di Italia dei Valori. Insomma, dietro le promesse di disponibilità e le prove di confronto, il muro che divide la maggioranza dall'opposizione è ancora alto. E per alcuni, purtroppo, è anche rassicurante.

da lastampa.it
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« Risposta #63 inserito:: Gennaio 09, 2010, 11:15:52 am »

9/1/2010
 
Dove lo Stato non c'è
 
MARCELLO SORGI
 
Ha una spiegazione chiarissima - anche se ha provocato un duro scontro con l’opposizione, e aperto una serie di polemiche all’interno della maggioranza - la dichiarazione con cui il ministro dell’Interno Roberto Maroni, di fronte alla rivolta iniziata giovedì sera a Rosarno e proseguita ieri, ha preso posizione contro gli immigrati clandestini, e soltanto in seconda battuta contro la criminalità organizzata che amministra il mercato nero delle braccia. Come uomo del Nord avvezzo alle reazioni più esasperate dei cittadini contro gli aspetti degradati dell’immigrazione, Maroni ha colto subito che per la prima volta un atteggiamento simile si era diffuso anche al Sud. La novità della gente di Rosarno in piazza per chiedere l’immediato allontanamento dei clandestini in rivolta, la disperazione della ragazza aggredita da una folla impazzita, devono aver convinto il ministro che in questa guerra di poveri erano i calabresi, gli italiani, i primi a dover essere rassicurati. Di qui la presa di posizione attorno a cui, mentre la rivolta montava, s’è discusso per tutto il giorno. E di qui, in serata - davanti alla recrudescenza di episodi di violenza contro i clandestini e nel timore di uno scontro di tutti contro tutti - la decisione di inviare rinforzi di polizia.

In realtà, lo sappiamo bene, quel che è accaduto a Rosarno è la logica conseguenza di una situazione trascurata, e la Calabria è di nuovo per il governo una delle emergenze più gravi. Una regione in cui le autorità locali hanno già confessato pubblicamente varie volte di aver perso il controllo del territorio. E ancora, in cui, nel giro degli ultimi giorni, la magistratura è diventata obiettivo di una serie di attentati (nell’ultimo, filmato da una telecamera, è addirittura una donna a guidare il commando).

E dove inoltre il lavoro agricolo, una delle poche risorse esistenti, è regolato dalla legge del più forte, per consentire l’utilizzo di manodopera irregolare in forma di schiavitù. Se questa è ormai la Calabria, la responsabilità - tutta o in parte - non può però essere scaricata sui clandestini. Che i rivoltosi debbano essere messi in condizione di non offendere e al più presto espulsi dai confini nazionali, non ci piove. E altrettanto che debba essere assicurato ai cittadini di Rosarno il diritto di recuperare la loro tranquillità. Ma il campanello d’allarme della rivolta ha suonato anche per ricordare al governo che la Calabria non può diventare un pezzo d’Italia in cui lo Stato s’arrende. Di qui a martedì, quando si presenterà in Senato per discutere dell’accaduto, Maroni ha tempo di prendere alcune iniziative. E deve farlo proprio perché ha intuito che la stanchezza dei meridionali di Rosarno è ormai vicina a quella dei suoi concittadini del Nord.

Le prime cose indispensabili sono già state fatte ieri per fronteggiare l’emergenza. In secondo luogo sarebbe opportuno il superamento della polemica sulla cittadinanza breve agli immigrati, che ha ripreso a tormentare il centrodestra. Poiché non è questo il problema all’ordine del giorno, non è il caso di far confusione. Infine, su due punti, ci si aspetterebbe che il governo intervenisse con la stessa risolutezza con cui s’è mosso negli ultimi tempi nella lotta alla mafia. Il primo è un giro di vite necessario contro la ’ndrangheta e la criminalità organizzata calabrese, sotto qualsiasi forma si presenti. L’altro riguarda il vergognoso mercato delle braccia, su cui finora è calato un velo complice di distrazione. Per evitare, si dice - anche se non si capisce - di danneggiare l’economia sommersa del Sud. In tre giorni, è difficile che si possa avere qualche effetto concreto. Ma dopo anni di colpevole tolleranza, e in una situazione giunta al collasso, anche una seria intenzione sarebbe un passo avanti.

da lastampa.it
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« Risposta #64 inserito:: Gennaio 13, 2010, 05:31:36 pm »

13/1/2010

Carta di riserva per il dialogo
   
MARCELLO SORGI


Dopo un mese e passa di promesse di dialogo tra governo e opposizione, la rottura maturata ieri sulla giustizia non deve meravigliare. Berlusconi non solo non ha rinviato i provvedimenti depositati in Parlamento per garantirsi il salvacondotto penale, ma allo stesso scopo ha cominciato a studiare un decreto legge - da portare oggi al Consiglio dei ministri - basato su una sentenza della Corte Costituzionale che prevede, a certe condizioni, la sospensione di tre mesi dei processi.

Era scontato che Bersani, su questo terreno, non potesse concedergli nulla.

L'accelerata di ieri del Pd è dipesa anche dall'ipotesi del decreto. Il premier vi si è accostato quando ha saputo che nei prossimi due mesi dovrebbe comparire ben ventitré volte al Palazzo di giustizia di Milano. Un calendario considerato incompatibile con gli impegni di governo, e determinato, forse, dai numerosi rinvii chiesti finora dal Cavaliere. Ma il Pd si stava preparando alla svolta anche prima, lamentando che, come altre volte, il governo avesse preparato fuori dalle Camere il testo del suo maxiemendamento. La versione definitiva del «processo breve», il contestato taglio dei tempi dei procedimenti penali, è stata scritta materialmente a Palazzo Grazioli.

Nelle ultime legislature, questo di considerare il lavoro delle commissioni parlamentari e dei singoli deputati e senatori come un optional, da correggere un minuto prima del voto con un testo governativo blindato, è un malvezzo al quale i governi, non soltanto l'attuale di centrodestra, si sono purtroppo abituati. Da parte di Palazzo Chigi, esservi ricorso anche su una materia controversa come questa, dà l'idea dell'importanza che il premier attribuisce al proprio salvataggio.

Tra governo e opposizione, e tra governo e magistratura, si andrà quindi a uno scontro di fortissima intensità, destinato ad occupare quasi interamente la campagna elettorale per le elezioni regionali. Dopo le quali invece, dovrebbe tornare in discussione il destino delle grandi riforme di cui fino a tre giorni fa si parlava con ottimismo. Ieri i toni del leader del Pd non lasciavano sperare che dopo una contrapposizione come quella che si prepara il dialogo possa riprendere tanto facilmente. Eppure, la sensazione, che riguarda, sia Berlusconi, sia Bersani, è che entrambi alla fine si tengano una carta di riserva.

Il Cavaliere ha voluto dare una spinta ai due testi giacenti in Parlamento - «processo breve» e «legittimo impedimento» -, e non ha escluso il ricorso al decreto, perché, con tre colpi in canna, si sente più sicuro di centrare il suo obiettivo. Se anche uno solo di questi provvedimenti dovesse andare in porto, però, non è detto che insisterebbe sugli altri due. Anzi, potrebbe fermarsi, e una volta superate le elezioni regionali, verificare se da parte del centrosinistra esista ancora la disponibilità a un diverso tipo di intesa. Ad esempio, com'è emerso negli ultimi giorni, sul ripristino per via costituzionale dell'immunità parlamentare.

Quanto a Bersani, la faccia dura all'annuncio della svolta era dovuta. Ma il «mettersi di traverso» del Pd non si sa ancora se preluda a un ostruzionismo parlamentare, o a una dura opposizione, ma senza ostruzionismo. Sicura, al momento, è soprattutto l'irritazione del centrosinistra per il metodo seguito dal centrodestra e per il confronto promesso e negato. E in una battaglia parlamentare senza esclusione di colpi, verrà quel che verrà.

Non è facile, certo, parlare di tregua, nel giorno stesso in cui viene dichiarata guerra. Ma al di là delle leggi del Cavaliere, la giustizia e i rapporti tra il potere politico e quello giudiziario interessano molto anche il centrosinistra. Sono troppi anni che le riforme mancate tengono il Paese inchiodato a una transizione infinita. Che l'opposizione lasci Berlusconi e la maggioranza ad ingoiare da soli il loro rospo, è comprensibile. Mentre è difficile credere che anche stavolta, la politica, nel suo complesso, non si giochi la posta più alta.

da lastampa.it
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« Risposta #65 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:31:29 pm »

14/1/2010 - TACCUINO
 
La brusca marcia indietro del Cavaliere
 

MARCELLO SORGI
 
La brusca marcia indietro del Cavaliere, con l'ammissione a denti stretti che in questo momento la riforma fiscale annunciata qualche giorno fa è impossibile, e con la scomparsa dall'ordine del giorno del Consiglio dei ministri del decreto blocca-processi che martedì sera sembrava imminente, ha di fatto annullato l'effetto sorpresa del ritorno al lavoro del premier.

Sulle tasse, è possibile che il Cavaliere sia stato indotto a riflettere che la materia è sotto stretta sorveglianza europea: la conferma dell'annuncio dei tagli avrebbe probabilmente portato un richiamo di Bruxelles. Sulla giustizia, la lunga trattativa con il Quirinale e con il presidente della Camera deve aver convinto Berlusconi che era inutile forzare con il decreto, per ottenere una sospensione di soli 45 o 60 giorni dei processi, e beccarsi nel contempo uno sciopero dei magistrati e una levata di scudi dell'opposizione destinate a influire sull'avvio della campagna elettorale.

Berlusconi insomma accelera, frena, riflette, e sembra preoccupato, per ora, di tenere insieme la sua maggioranza e presentare agli elettori che dovranno votare tra due mesi per le regionali un centrodestra compatto. In questa chiave deve leggersi anche il rinvio dell'ufficio di presidenza del Pdl che doveva varare il quadro completo delle candidature per le tredici regioni. L'incertezza del Pd in alcune situazioni chiave come l'Umbria, la Campania, la Puglia e la Calabria, riapre per il Cavaliere la possibilità di stringere Casini nella trattativa finale, e magari convincerlo a schierarsi con il centrodestra, come ha fatto nel Lazio, anche dove la contrattazione tra Udc e centrosinistra era ormai molto avanti.

La riapertura di un canale di comunicazione tra i due leader ex-alleati risale a due mesi fa. Ma l'incontro a Palazzo Chigi tra Berlusconi e Casini non aveva prodotto altro che buone intenzioni e una mezza promessa di aiuto al premier sulla riforma della giustizia. L'intreccio tra questi due problemi aperti e l'opportunità di non regalare l'Udc al centrosinistra potrebbero aver spinto il Cavaliere a prendere tempo.

Rispetto per il Quirinale, niente rotture con Fini, attenzione per gli alleati di oggi e di ieri, meno polemiche, ma senza rinunciarci del tutto, con i magistrati. E' con questa ricetta che il premier si prepara a gestire la delicata fase 2 della legislatura. Le elezioni di marzo sono praticamente le ultime di qui al 2013: se Berlusconi riesce a uscirne bene, o benino, o anche soltanto in piedi, potrà dedicarsi alla realizzazione del suo programma quasi senza ostacoli.
 
da lastampa.it
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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 15, 2010, 03:56:22 pm »

15/1/2010 - TACCUINO

Gianfranco e l'interesse a dimostrare lealtà in campagna elettorale
   
MARCELLO SORGI

Scontata no, ma certo era molto attesa la tregua tra Berlusconi e Fini siglata nel loro incontro di ieri. A parte la visita del presidente della Camera al premier in ospedale dopo l’attentato del 13 dicembre, era almeno da novembre che i due non si parlavano, e da settembre che non riuscivano a mettere in pratica il patto di consultazione siglato in presenza di Gianni Letta.

In mezzo ci sono mesi di turbolenza, con il Cavaliere che era arrivato alle soglie del chiedere le dimissioni di Fini dalla terza carica istituzionale per il continuo contrappunto e le frequenti prese di distanza del «cofondatore» del Pdl dalle posizioni del governo e del suo partito.

Adesso ci riprovano con la «concertazione» e con la promessa di incontrarsi più spesso (una delle cose che più dispiacciono a Fini è che Berlusconi fa tutte le settimane il punto con Bossi, ma con lui no). La verità è che, stabilito che nel futuro prossimo il centrodestra dovrà trovare il modo di ingoiare il rospo del salvacondotto giudiziario per il Cavaliere, sotto qualsiasi forma («processo breve», «legittimo impedimento» o altro) si presenti, Fini ha tutto l’interesse a mostrarsi leale in campagna elettorale, per ritagliarsi, dopo, uno spazio di interlocuzione sulle riforme con l’opposizione.

Il presidente della Camera ha in serbo una serie di proposte elaborate dalla fondazione a lui vicina che vogliono riportare l’attenzione sul tema del presidenzialismo (o semipresidenzialismo) e dell’elezione diretta del premier o del Capo dello Stato. Materie, queste, che l’opposizione guarda con estrema circospezione, che sarebbe pronta a rigettare qualora venissero da Berlusconi, ma che potrebbe discutere con un leader come Fini che sino ad ora ha dato dimostrazione di saper stare al di sopra delle parti.

Nella coda dell’incontro è stata esaminata - e condannata - la cosiddetta politica dei due forni che porta l’Udc ad allearsi indifferentemente con il centrodestra e il centrosinistra in situazioni e in Regioni diverse. L’attacco è rivolto ovviamente a Casini, per spingerlo a esaminare con più prudenza le alleanze dove ancora non ha fatto la sua scelta (Campania e Puglia) o dove sta per farla a favore del Pd (Calabria, in cambio dell’offerta della candidatura a governatore). Ma in subordine, il Pdl si rivolge anche direttamente agli elettori di centrodestra dell’Udc, nelle cui file l’alleanza con il partito di Bersani non solleva certo gridi di gioia, per spingerli a mostrare nelle urne il loro dissenso.

da lastampa.it
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« Risposta #67 inserito:: Gennaio 19, 2010, 05:06:38 pm »

19/1/2010

Messaggio ai mancati innovatori
   
MARCELLO SORGI


Adesso in tanti diranno che Napolitano ha riabilitato Craxi, a dieci anni dalla morte in esilio. Ma non era questo, o non solo questo, l’intento che il Presidente ha affidato alla lunga lettera inviata alla vedova del leader socialista. Napolitano ha detto chiaramente, con tutto il peso del suo ruolo, che Craxi non può essere archiviato solo come un corrotto.

E che «l’impronta non cancellabile» che «tra luci e ombre» ha lasciato nella storia non può essere «sacrificata» al computo delle sue responsabilità giudiziarie. Invece, con una «durezza senza eguali», sanzionata, come il Presidente ha voluto ricordare, anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, Craxi è stato trasformato in un capro espiatorio, di Tangentopoli e della corruzione politica che lui stesso aveva denunciato. Napolitano, coraggiosamente, ha scelto di citare anche il famoso discorso del leader del Psi alla Camera, il 3 luglio ‘92, quando, a Tangentopoli ormai esplosa, parlando di «degenerazioni, corruttele, abusi, illegalità» del sistema di finanziamento della politica, Craxi sfidò anche uno solo dei deputati, che potesse considerarsi innocente, ad alzarsi in piedi, e nessuno si alzò.

Pur consapevoli del problema, i partiti infatti, di fronte all’ondata montante delle inchieste giudiziarie che dovevano seppellirli, non erano stati in grado di fare nulla per evitare che fossero solo i magistrati ad agire con i loro mezzi. Craxi, di conseguenza, si convinse a «lasciare il Paese» (nella lettera non si parla di esilio o di fuga), una decisione seguita dalla malattia e «dalla morte in solitudine, lontano dall’Italia».

Mirata a ricostruire un giudizio più equanime, su un personaggio e su una vicenda trattati finora con la lente deformante, una lunga parte della lettera è dedicata all’azione politica e di governo, da innovatore, di Craxi, nei quattro anni a Palazzo Chigi, prima della sua rovinosa caduta. Dalla politica estera al Nuovo Concordato, Napolitano ne elenca i meriti e i limiti, soffermandosi anche sulla prima stagione delle riforme istituzionali: un tentativo sterile, conclude, per mancanza di disponibilità dei leader d’allora dei maggiori partiti, ma che riuscì, almeno, a produrre la riforma della presidenza del Consiglio.

Di qui in poi, pur nell’attento stile formale del Presidente, la lettera è in crescendo e contiene un duro atto d’accusa contro gli stati maggiori della Seconda Repubblica, incapaci di realizzare le riforme, della cui mancanza era morta la Prima.

Napolitano descrive un sistema che, pur dotato per la prima volta di una concreta alternanza tra diversi schieramenti politici (ciò che per quarant’anni era stato impossibile in Italia), invece di approfittarne per un fattivo confronto, e per i necessari interventi legislativi, è andato avanti per altri quindici anni in un inutile rimpallo di accuse e di responsabilità tra centrodestra e centrosinistra. Senza riuscire minimamente, e in fondo senza neppure provare seriamente, a riempire il vuoto politico che s’era manifestato già ai tempi di Tangentopoli, e grazie al quale, a giudizio del Quirinale, è avvenuto il «brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra giustizia e politica» che dura ancor oggi.

Di più, il Capo dello Stato non poteva dire. E se ha parlato da uomo del suo tempo, e anche, con un certo orgoglio, una volta tanto non nascosto dall’abito istituzionale, da politico tradizionale e da leader della Prima Repubblica, non c’è dubbio che per le parole usate, e per l’occasione scelta, la lettera di Napolitano ad Anna Craxi ha il peso di un messaggio alle Camere. Ed è per questo che resterà nella memoria come uno degli atti politici più espliciti e più significativi della sua presidenza.

da lastampa.it
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« Risposta #68 inserito:: Gennaio 20, 2010, 05:46:19 pm »

20/1/2010 - TACCUINO

Berlusconi e Pier finiranno col dirsi addio
   
MARCELLO SORGI

Strana storia, questa di Berlusconi e Casini. Erano partiti per rimettersi insieme, finiranno col separarsi definitivamente, senza volerlo, anzi volendo il contrario. Forse già oggi l’ufficio politico del Pdl chiuderà il tentativo di riconciliazione dichiarandolo fallito, cercherà in qualche modo di salvare l’«eccezione» del Lazio, dove l’Udc ha fatto un accordo «personale» con la Polverini, ma finirà con l’accantonare l’ipotesi di un rientro dell’Udc in buona parte delle coalizioni di centrodestra che punteranno a riprendersi le Regioni il 28 marzo.

Eppure erano partiti così bene, Silvio e Pier. Prima una lunga e circospetta annusata, poi l’incontro di due mesi fa, senza promettersi, ma anche senza escludere niente. Per Casini l’obiettivo era di evitare l’uscita del suo partito dalle ricche amministrazioni di Lombardia e Veneto. Certo, la pretesa di allearsi in metà del Nord (Piemonte e Liguria) con il centrosinistra e nell’altra metà con il centrodestra poteva risultare eccessiva. Nell’Udc dicono che le alleanze con Bersani (e con la Bresso e Burlando) si sono chiuse quando già era chiaro che Bossi non avrebbe consentito a Berlusconi nessuna apertura. Ma qualche sospetto sui tempi, dall’altra parte, rimane.

Né è bastata a fugarlo la fretta con cui Pier ha chiuso l’accordo nel Lazio con la Polverini e vorrebbe fare altrettanto con Caldoro in Campania e con Scopelliti in Calabria. Nel primo e nel terzo di questi casi i candidati governatori provengono da An e in tutti e tre il centrodestra ha buone possibilità di vittoria anche senza l’Udc, mentre per Casini l’alleanza con il centrosinistra risulterebbe ostica, essendo l’elettorato di queste regioni più orientato verso il Popolo delle libertà. La Puglia è un caso a parte, in cui la confusione del Pd non consente di far previsioni: ma, anche lì, Casini ha dichiarato la sua piena disponibilità a Bersani ponendo - e ritirando subito dopo - la pregiudiziale anti-primarie. Alla fine di questo percorso, è chiaro che se domenica Vendola sarà il candidato del centrosinistra, all’Udc non resterà che candidarsi da sola.

Ma a questo punto, la pulce che da qualche giorno era stata messa in un orecchio a Berlusconi ronza sempre più forte: non sarà, si sta chiedendo il Cavaliere, che Casini voleva mettersi con il Pdl solo dove la vittoria del centrodestra era più probabile, o dove il candidato governatore faceva riferimento a Fini? E se alla fine, come ormai è quasi certo, in Piemonte, Liguria, Marche, Basilicata, Calabria e forse anche in Puglia, Casini risulterà alleato di Bersani, non sarà che sta facendo per davvero le prove generali per il Comitato nazionale di liberazione dal Cavaliere?

da lastampa.it
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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:16:03 pm »

21/1/2010 - TACCUINO

Lo spettro dell'incostituzionalità da scongiurare alla Camera
   
MARCELLO SORGI


Ricapitoliamo: due giorni fa, non due anni fa, il Capo dello Stato, non un semplice parlamentare, in una lettera inviata ad Anna Craxi nell’anniversario della morte del leader socialista, ha scritto che le inchieste di Tangentopoli - anche se motivate da un sistema corrotto con cui ogni partito veniva finanziato -, introdussero «un brusco spostamento di equilibri tra politica e giustizia».

Quello di Napolitano, pur essendo il più importante, non è stato il solo intervento in materia. Con l’eccezione – ovvia – del solo Di Pietro, tutti i partiti, con accenti diversi, hanno discusso di Craxi come capro espiatorio della liquidazione per via giudiziaria della Prima Repubblica, e dell’incapacità mostrata dalla politica nel suo complesso di ristabilire un equilibrio laddove era avvenuto uno squilibrio. Di tentativi, ce ne furono tanti, è stato ricordato: da destra e da sinistra. Ma tutti inadeguati. Sulla soluzione apparentemente impossibile del problema si sono rotti la testa almeno cinque ministri di Giustizia, e un paio di governi ci hanno rimesso le penne.

Ci si aspettava che dopo questo dibattito insolitamente autocritico e impietoso, a cui molti leader importanti hanno dato il loro contributo, il Parlamento avrebbe saputo sfruttare l’occasione offerta al Senato dalla discussione sul «processo breve», per tornare ad affrontare il problema dei rapporti tra politica e giustizia. Invece niente, tutto è rimasto come prima. Berlusconi è andato avanti come un treno su un provvedimento che – è lui il primo ad esserne consapevole – rischia di nuovo di infrangersi contro un giudizio di incostituzionalità. L’opposizione, immemore dei buoni argomenti portati a favore di Craxi (D’Alema, non un qualsiasi deputato, aveva detto che il leader socialista «è entrato nella storia»), è rimasta ferma nel suo rifiuto di tentare di affrontare in modo condiviso il problema.

Il quale problema, sempre per ricapitolare, si presenta con due corni: primo, è necessario ristabilire una qualche forma di immunità per i politici, non perché debbano essere protetti a qualsiasi costo dai processi, ma per evitare, almeno, che questo accada, quando le accuse appaiano chiaramente strumentali o quando sono in grado di ostacolare lo svolgimento del mandato ricevuto dagli elettori. Questa immunità non potrà che essere temporanea e limitata, se non altro per non passare da uno squilibrio a favore dei magistrati al suo opposto. Ma dovrà – ed è questo il secondo corno, più difficile – riguardare anche Berlusconi. C’è da sperare che il mediocre passaggio al Senato possa servire a riservare alla Camera, agli stessi argomenti, un esame più accurato.

da lastampa.it
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« Risposta #70 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:32:35 am »

22/1/2010 - TACCUINO

Il senatur è già il vincitore delle prossime elezioni
   
MARCELLO SORGI

La faticosa e per certi versi interminabile sessione della scelta dei candidati governatori delle regioni sta logorando insieme Berlusconi e Bersani, i leader dei due ex partiti a vocazione maggioritaria, che devono rifare i conti con i problemi di costruzione delle coalizioni e di equilibrio di potere e di visibilità dei diversi alleati.

Chi invece già adesso, anche prima che la gara cominci, può considerarsi vincitore, è Bossi. Il leader della Lega ha dichiarato anzitempo le sue pretese e in men che non si dica è riuscito a centrare i suoi obiettivi. Voleva scommettere sulla guida di due regioni al Nord, e l’ha ottenuta. Aveva due candidati scelti da tempo, attrezzati per il bisogno, e li ha piazzati. A guardarli, il candidato Cota e il candidato Zaia sono perfetti esponenti della Lega di governo, costruiti come si costruivano una volta gli aspiranti a incarichi di quel peso, quando ancora i partiti esistevano.

Hanno alle spalle un lungo tirocinio locale, un rapporto consolidato con il territorio, si sono fatti strada un passo dopo l’altro, a colpi di risultati parziali che, tranne loro, hanno sorpreso tutti gli osservatori, pronti ogni volta a lanciare l’allarme per la crescita del Carroccio al Nord, dimenticando che l’insediamento stabile della Lega data da più di vent’anni. Inoltre sono esponenti della seconda generazione leghista, più moderata e meno rivoluzionaria, cattolica e avvezza al buon vicinato con parroci che un tempo invitavano a votare per la Dc, e ora per il partito del Senatur.

La designazione di Cota e Zaia non ha sollevato alcuna reazione tra i leghisti: tanto tutti sapevano che toccava a loro e tutti, con Bossi, guardano all’obiettivo finale di un Nord completamente leghistizzato e federativo. Anche il sindaco di Verona Flavio Tosi, accreditato come possibile alternativa a Zaia, s’è guardato bene dal farsi avanti, perché sa che il suo momento verrà solo quando sarà chiamato.

Così Berlusconi, quando i suoi vanno a dirgli che di questo passo la Lega sorpasserà il Pdl nelle regioni settentrionali, un po’ fa finta di ascoltarli, e un po’ li manderebbe a quel paese: infatti la verità che il premier non confesserebbe neppure a se stesso è che la Lega si avvicina di più del Pdl al partito che il Cavaliere avrebbe voluto costruire a sua immagine e somiglianza. E che i leghisti sono spesso più bravi degli azzurri perché - contrariamente alle mode -, sono rimasti autentici politici di professione, formati nell’unica organizzazione che funziona ancora come un partito, dall’ultimo vero leader che si diverte a far politica come si deve.

da lastampa.it
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« Risposta #71 inserito:: Gennaio 23, 2010, 06:06:19 pm »

23/1/2010

I contrasti paralizzano il sistema
   
MARCELLO SORGI

Non sarà solo una coincidenza, non sarà neppure la bomba a orologeria temuta dal centrodestra, ma certo la conclusione dell’inchiesta che vedrà presto Berlusconi, suo figlio e l’intero vertice dell’azienda di famiglia nuovamente imputati, è caduta in un momento che peggiore non poteva essere: all’indomani della contrastata approvazione del «processo breve» in Senato e nel pieno dello scontro, che si prepara, sulla stessa materia alla Camera. Il premier e il figlio Pier Silvio dovranno rispondere di accuse che riguardano anche fatti recenti, dal 2003 in avanti fino al 2009, e di reati come la frode fiscale e l’appropriazione indebita per false fatturazioni e per aver gonfiato i costi di centinaia di film. La prima cosa che dovrebbe essere bandita, da qualsiasi parte provenga, è la tentazione di approfittarne, per riscaldare il clima politico già arroventato dall’incipiente campagna elettorale.

Questo davvero non servirebbe a nessuno, e men che mai allo stesso Berlusconi. La convinzione che dovrebbe farsi strada piuttosto è che il sistema rischia ormai di essere paralizzato dai contrasti: non siamo insomma alla vigilia di una nuova Tangentopoli, in grado di azzerare la Seconda Repubblica com’era accaduto con la Prima. Ma non siamo nemmeno alle viste di una soluzione che, una volta adottata, possa essere riconosciuta da tutti come un punto di equilibrio, e perciò stesso faccia cessare lo scontro. Dopo la prova di forza al Senato, adesso, la ricerca di una via d’uscita è in corso alla Camera. Non s’è neppure cominciato, per la verità, e non è detto che si possa arrivare rapidamente a un traguardo. Ma, proprio per questo, ieri Fini è intervenuto, se non proprio per fissare nuove regole del gioco, per proporre, almeno, di provare a tenere un atteggiamento diverso rispetto al problema. Il presidente della Camera veniva da un incontro avuto giovedì con Berlusconi, e per una volta sembrava non parlare in dissenso. La tesi di Fini è che il «giusto processo», dopo la rapida, frettolosa per certi versi, ma non inutile, approvazione in prima lettura, debba ora essere sottoposto a una drastica revisione da parte dei deputati. Una procedura che richiederà tempo, e finirà col fare escludere che la nuova legge possa arrivare in porto prima delle elezioni regionali. Ma che così darà la possibilità di rientrare in gioco a tutte le forze politiche che non intendano mantenere atteggiamenti pregiudiziali. Se Berlusconi rinuncia al diktat, e l’opposizione parallelamente abbandona l’idea di liberarsi per via giudiziaria del Cavaliere e del suo governo, ha lasciato intendere il Presidente della Camera, a Montecitorio potrebbe svolgersi un vero confronto parlamentare come non se ne vedono da tempo.

Quella di Fini è un’impostazione ragionevole, a cominciare dall’idea di prendere tempo per consentire a tutti di riflettere. Malgrado ciò - è inutile nasconderlo - sono molte le incognite che si preparano per contrastarla, e poche le possibilità che possa essere accolta. A un’apertura di Casini - che tuttavia resta contrario al «processo breve» ma sarebbe disposto ad appoggiare l’approvazione del «legittimo impedimento» (l’altro testo in discussione, che potrebbe consentire al premier di rinviare le sue pendenze penali) -, non ci sono stati riscontri da parte del centrosinistra. E tra Bersani e Di Pietro - sarà la rincorsa già partita per le regionali - ormai è difficile distinguere. Inoltre, sulla disponibilità del Cavaliere a sostenere l’appeasement proposto da Fini, qualche dubbio rimane: perché Berlusconi si tiene, si tiene, ma poi si fa scappare il piede dalla frizione.

La verità che giorno dopo giorno diventa sempre più evidente è questa: la soluzione al problema, aperto da quasi diciassette anni, del riequilibrio tra potere politico e potere giudiziario, è quella che era scritta nella Costituzione e fu cancellata sull’onda della cosiddetta «rivoluzione italiana», l’immunità parlamentare. A suo favore, non a caso, nei giorni scorsi si sono levate anche voci autorevoli come quella dell’ex Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e di alcuni giudici di Magistratura democratica. E per il suo ritorno è giacente a Palazzo Madama una proposta di legge bipartisan firmata dai senatori Chiaromonte (Pd) e Compagna (Pdl). In un anno, lavorando seriamente, un’immunità opportunamente modificata potrebbe essere reintrodotta. Non così la legge-tampone, il salvacondotto che nel frattempo esige Berlusconi. E che potrà essere varata, se davvero lo sarà, solo a prezzo di nuove pesanti lacerazioni.

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« Risposta #72 inserito:: Gennaio 26, 2010, 09:50:48 am »

26/1/2010

Sindaco cattolico solo a parole
   
MARCELLO SORGI

Sarà certamente solo una coincidenza che l’appello del cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, per una nuova generazione di politici cattolici, sia giunto nel giorno delle dimissioni del sindaco di Bologna Flavio Delbono. Di quei valori a cui Bagnasco s’è riferito come un decalogo necessario per riqualificare tutta la politica agli occhi dei cittadini, Delbono, che nel Pd rappresentava l’ala cattolico-moderata vicina a Prodi, non ne rispettava neppure uno.

Gli erano estranei sia il rispetto della famiglia (delle due mogli mollate, una l’aveva lasciata mentre era incinta), sia quello della «cosa pubblica», da considerare «importante e alta in quanto capace di segnare il destino di tutti», sia la capacità di ascolto e il rifiuto dell’arroganza e della «denigrazione», che invece praticava spietatamente nei confronti della sua ex-segretaria compagna. Se poi dovesse essere dimostrato che i Bancomat che maneggiava non erano suoi, e gli venivano messi a disposizione per ingraziarselo, come dicono le accuse che lo riguardano, Delbono avrebbe peccato anche contro il valore della buona e corretta amministrazione.

All’indomani della batosta subita in Puglia con la vittoria di Vendola alle primarie, la decapitazione del primo cittadino di Bologna rappresenta per il Pd un danno assai più grave. Pur avendo smesso da tempo di essere la città simbolo del socialismo realizzato italiano, il laboratorio politico del Pci, il luogo di sperimentazione architettonica e sociale degli intellettuali di partito, Bologna infatti ha ancora nell’immaginario collettivo il ruolo di ultima capitale della sinistra. Questa identità non è stata intaccata neppure dalla storica sconfitta inflitta dalla destra nel ’99 e dall’avvento, per una sola stagione, del sindaco-macellaio Guazzaloca. Bologna era ed è rimasta al suo posto emblematico perché è ancora il centro del modello emiliano basato sul controllo del partito sul territorio e sull’economia collaterale, legata in gran parte alle sue aziende fiancheggiatrici e alle sue ramificazioni cooperative.

A Torino, a Milano, a Napoli come a Bari, la sinistra è stata al governo e all’opposizione alternativamente, secondo le stagioni, senza che questo influisse in modo decisivo sui destini e sugli equilibri nazionali. Se invece crollano Bologna e il suo modello, la liquidazione del centrosinistra verrebbe percepita come una realtà, anche al di là del fatto che poi si verifichi effettivamente. Le dimissioni di Delbono possono innestare un processo del genere? Dipende. Forse sarebbe meglio chiedersi se Delbono, nel suo partito e nella sua città, era l’esempio di una degenerazione del ceto politico forgiato nella migliore accademia della sinistra, o invece lo rappresentava pienamente. Stiamo parlando di un uomo, di un professionista, di un docente universitario rispettato e temuto, che pur avendo alle spalle un’esperienza e una carriera nell’amministrazione regionale, al fianco del governatore Errani che adesso si ripresenta, e in collegamento sia con Prodi che con Bersani, al momento di candidarsi alla carica di primo cittadino non valuta minimamente come fattore di rischio la propria vita privata disinvolta e con qualche ombra amministrativa. E non lo fa, è lecito presumere, perché quella vita privata è talmente sotto gli occhi di tutti che Delbono, in buona fede, può considerarla normale.

Ma è normale, appunto, che un assessore e un esponente di primo piano vada in giro con la segretaria-amante, la ospiti negli alberghi pagati dalla regione, e poi, quando la scarica, la cancelli e la degradi con una logica usa e getta, fino a spedirla in una specie di call-center? Ed è normale che non appena la vicenda esplode in campagna elettorale, il futuro sindaco faccia spallucce? Non sono solo le risposte pubbliche, di uno che fino a qualche giorno fa diceva che non si sarebbe dimesso neppure dopo un rinvio a giudizio. Ma, viene ancora da chiedersi, quelle private. Cosa avrà detto Delbono a Prodi, Bersani ed Errani? Gli avrà spiegato la verità? E i suoi interlocutori, prima che venisse fuori, erano al corrente della storia? E se non lo erano perché poi non hanno dubitato di lui?

Sono interrogativi legittimi in qualsiasi caso, ma lo sono ancor di più se si discute di centrosinistra. Proprio in questi giorni, in Parlamento, il Pd è impegnato in una strenua e legittima battaglia contro le leggi che Berlusconi sta facendo approvare dalla sua maggioranza, per limitare il potere d’intervento della magistratura sulla politica e per impedire che i processi in cui è coinvolto facciano il loro corso. L’opposizione del Partito democratico - che il premier considera un attacco personale - è basata sulla necessità di fare chiarezza sul riemergere della corruzione a qualsiasi livello, prima di aprire la strada a provvedimenti che potrebbero legare le mani alla magistratura. È augurabile che lo stessa richiesta di trasparenza il Pd, dopo Bologna, sia in grado di rivolgerla anche verso se stesso.

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« Risposta #73 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:40:38 pm »

27/1/2010 - TACCUINO

D'Alema, il Lider Maximo che non tramonta mai
   
MARCELLO SORGI

L’elezione di Massimo D'Alema alla presidenza del Copasir, l'organo parlamentare di controllo sui servizi, era annunciata da tempo, da quando Rutelli, uscito dal Pd, aveva deciso di lasciarla, e in qualche modo scontata. L'elezione all'unanimità, avvenuta ieri, all'indomani della sconfitta pugliese del Pd nelle primarie che è stata messa in conto da tutti all'ex ministro degli Esteri, forse lo era un po’ meno.

Non che il Copasir sia un organismo di particolare importanza, la responsabilità dei servizi essendo tutta in carico al governo. Ma la capacità di passare indenne attraverso qualsiasi genere di difficoltà ormai avvicina D'Alema, sempre più, al mito degli intramontabili "cavalli di razza" dc della Prima Repubblica: Fanfani, Andreotti, e se non fosse finito come è finito, Moro. Leader che venivano celebrati non solo per la capacità di riproporsi e candidarsi a guidare fasi nuove, in un'epoca in cui tutto o quasi ruotava attorno al loro partito. Ma per l'abilità di superare qualsiasi disfatta. Con il «lider Maximo», com'è soprannominato - anche se i tempi sono molto cambiati, e il Pds, i Ds e adesso il Pd nei quindici anni della Seconda Repubblica sono stati più all'opposizione che al governo -, si può fare lo stesso esercizio: provare a misurare la sua capacità di sopravvivenza a partire dagli incarichi che ha avuto e perduto in tutto questo periodo. Dunque, cominciando dal 1994, l'anno della «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto abbattuta dalla prima entrata in campo di Berlusconi, la carriera di D'Alema, tra alti e bassi, ha conosciuto molti rovesci, ma nessuno definitivo.

D'Alema ha avuto e perduto la segreteria del suo partito, la presidenza dell'ultima Bicamerale per le riforme istituzionali, la presidenza del Consiglio (unico leader post-comunista ad approdare a Palazzo Chigi), il ministero degli Esteri. E' stato candidato alla Presidenza della Repubblica nella tornata in cui fu eletto Napolitano. S'è ritrovato fuori dal vertice del Pd con la segreteria di Veltroni, ma c'è rientrato da poco come punto di riferimento della segreteria Bersani, grazie alla quale è ora arrivato al Copasir con i voti di tutti. Per Fanfani, Enzo Biagi aveva coniato un famoso soprannome che gli rimase incollato tutta la vita: il «Rieccolo». Per l'inossidabile D'Alema, l'ultimo dei leader della sinistra a sedere sul baldacchino invisibile che una volta era riservato ai capi comunisti di tutto il mondo, non servirebbe neppure: perché non è che ritorni. Non se n'è mai andato.

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« Risposta #74 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:43:48 pm »

28/1/2010 - TACCUINO

Casini e il paradosso della politica dei due forni
   
MARCELLO SORGI


Con la riapertura della trattativa con il centrodestra sulle regionali, Pierferdinando Casini entra nel suo giro più difficile. Nell’immediato infatti può segnare all’attivo che tutta la fase preparatoria delle coalizioni che cercheranno di aggiudicarsi i governi regionali ha visto l’Udc come il partito più corteggiato da entrambe le parti. Dal Pd, prima delle disastrose primarie in Puglia contro Vendola. E ora, in extremis, dal Pdl, anche se fino a una settimana fa gli uomini più vicini al Cavaliere tifavano per un accordo organico tra centristi e sinistra, che avrebbe potuto liberare una parte dei cattolici moderati contrari all’intesa con Bersani e portarli, anzi riportarli a destra.

Ora invece la minaccia che Casini si presenti da solo, sottraendo voti al centrodestra e finendo con il favorire il centrosinistra, e la sua successiva offerta di riconsiderare le alleanze in Puglia e Liguria, ha creato allarme ai vertici del Popolo della libertà e ha convinto il premier a riaprire la trattativa. Escluso che questo possa valere per Lombardia, Veneto e Piemonte, dove la Lega non consentirebbe alcun riavvicinamento dell’Udc al centrodestra, e dove Casini, almeno in Piemonte, ha da tempo stretto l’accordo con il Pd, l’eventuale intesa in Liguria, da decidersi entro domani, renderebbe di nuovo competitivo il Pdl in una parte del Nord-Ovest in cui il Pd parte favorito. Lo stesso vale per la Puglia dopo l’exploit alle primarie che ha dato a Vendola uno sprint in partenza difficile da recuperare.

Se però la strategia di accordi bilanciati del centro con la destra e con la sinistra, che aveva portato inizialmente l’Udc a sbilanciarsi sul versante del Pd, dovesse ora subire un capovolgimento, e portare alla fine i centristi nell’anticamera di un accordo organico con il Pdl nelle regioni più importanti e nella maggior parte delle situazioni ancora aperte, Casini, pur potendosi dichiarare vincitore anche prima del voto, si troverebbe di fronte a una contraddizione, che neppure un democristiano di vecchia scuola come lui potrebbe sciogliere facilmente.

Escluso nel 2008 dal partito berlusconiano che poi risultò vincente alle elezioni, Casini s’era dedicato a una legislatura di opposizione diversa, in attesa di accompagnare Berlusconi verso l’uscita e accelerare una fase nuova. Sarebbe davvero singolare che, partito come ex-alleato del Cavaliere per liquidarlo, si ritrovi adesso, al contrario, attraverso le regioni, nientemeno che a puntellarlo.

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