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Autore Discussione: Toni FONTANA -  (Letto 5757 volte)
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« inserito:: Novembre 17, 2007, 08:51:42 am »

Clandestini in Libia, se questi sono uomini

Toni Fontana


Fuga da Tripoli. Di questo passo i fondali del Mediterraneo diverranno col tempo un immenso cimitero. Pochi, in un’Italia sempre più allarmata dai gravi episodi di violenza avvenuti di recente, si curano di tenere il conto delle vittime del mare e accendono i riflettori su una tragedia annunciata e continua. Gli emigranti, spesso in fuga dalle carestie, dalle guerre e dalle dittature dell’Africa e del Medio Oriente, muoiono nelle disperate attraversate verso le coste della Sicilia, o in seguito alle angherie e alle violenze che subiscono nei paesi di transito. Il più importante tra questi è la Libia.

Tra poche settimane (dall’inizio del 2008) diverrà operativo il piano dell’Unione Europea, sostenuto dal commissario Franco Frattini, che prevede pattugliamenti aero-navali in acque libiche sotto l’egida dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne (Frontex). L’obiettivo è quello di fermare i viaggi verso le coste italiane all’origine, cioè nel Paese di transito. Finora i pattugliamenti europei si sono svolti prevalentemente nel canale di Sicilia (Nautilus 1, ottobre 2006, Nautilus 2, settembre-ottobre 2007. Dal nuovo anno la Libia sarà coinvolta direttamente. L’Unione (il bilancio di Frontex è passato dai 34 milioni del 2007 ai 70 milioni previsti per il 2008) sosterrà l’installazione di un sistema di vigilanza elettronica lungo le frontiere meridionali della Libia. Tripoli ha presentato un lungo elenco di richieste: 12 aerei da ricognizione, 14 elicotteri, 240 jeep, 86 camion, 70 autobus, 28 ambulanze, 12 sistemi radar, 10 navi, 28 motovedette, 100 gommoni, 400 visori notturni, 14 sistemi di scannerizzazione delle impronte digitali.

La Libia dunque viene «reclutata» come gendarme, ma, secondo un rapporto realizzato da Fortress Europe, «osservatorio sulle vittime delle migrazioni», non solo non passa l’esame dei diritti umani, ma è anzi teatro di gravissime violazioni. Le violenze accompagnano i viaggi della disperazione nelle diverse tappe. Dalla frontiera libica meridionale entrano migliaia di migranti e rifugiati sprovvisti di documenti che vengono depredati dai «passeurs» (coloro che organizzano i viaggi). Il rapporto di Fortress Europe elenca «abusi, vessazioni, maltrattamenti, arresti arbitrari, detenzioni senza processo, deportazioni». Quando vengono intercettati dai libici i migranti vengono spesso deportati nel deserto del Niger e abbandonati al loro destino. Nel 2004 Tripoli ha ammesso che, nel solo mese di settembre, sono stati deportati 5000 immigrati. Attrezzature e aiuti che l’Europa (e l’Italia) donano alla Libia servono per realizzare centri di detenzione che vengono realizzati in molte parti del paese: Binghazi, Ghat, Juwazat. Fortress ha avuto notizia di 20 strutture operanti in Libia: «Spesso sono vecchi magazzini adibiti a prigione e sorvegliati dalla polizia». Le molte e concordanti testimonianze raccolte parlano di «arresti in mare sulla rotta per la Sicilia, retate nei campi».

Le detenzioni durano mesi ed anche anni senza alcun processo, in condizioni di sovraffollamento. In celle di modeste dimensioni (6 metri per Fico con un unico bagno vengono confinati 60-70 migranti. Le donne sono sistematicamente vittime di stupri e violenze da parte dei poliziotti. I pestaggi sono all’ordine del giorno. Per sedare tre rivolte scoppiate a Tripoli, Kufrah e Khums gli agenti non hanno esitato a sparare. Vi sono le prove dell’uccisione di due nigeriani, di detenuti colpiti con manganelli elettrici (che possono provare la cecità) del frequente uso dell’elettroshock. Alcuni migranti riescono a corrompere i poliziotti. Chi non ha soldi viene rimpatriato in aereo o deve affrontare lunghi viaggi su camion cha caricano 70-80 persone. La destinazione è la frontiera meridionale (Kufrah a sud-est, Qatrum a sud-ovest). Chi non può pagare «viene abbandonato nel deserto», chi può pagare torna indietro. Spesso i migranti vengono «comprati» da persone del luogo che li trattengono come schiavi. Queste pratiche erano molto diffuse negli anni scorsi (14.500 migranti abbandonati nel deserto tra il 1998 ed il 2003). Oggi la maggior parte dei rimpatri viene effettuata con gli aerei e le cifre delle espulsioni sono quadruplicati (189mila tra il 2003 ed il 2006). I dati più recenti forniti da Frontex sono almeno «60mila i migranti detenuti in Libia». La maggioranza dei detenuti proviene da Sudan, Egitto, Nigeria, Marocco, Mali ed altri paesi africani. Le piste transahariane sono «disseminate di scheletri di clandestini».

Secondo Fortress Europe se, dal 2008, la Libia parteciperà ai pattugliamenti coordinati da Frontex le violenze diverranno «ordinaria amministrazione di diritti negati, abusi tollerati da un Unione Europea che in nome della guerra all’immigrazione clandestina manderà a morire migliaia di clandestini». Il rapporto spiega che nei primi nove mesi del 2007 sono arivati in Sicilia 12.753 immigrati a bordo di imbarcazioni di fortuna. Nello stesso periodo 1396 migranti sono giunti in Sardegna dall’Algeria. Tra i 21.400 migranti giunti in Sicilia lo scorso anno solo 50 sono libici. Le prime nazionalità sono il Marocco (8146), l’Egitto (4.200), l’Eritrea (2859). Dal 1988 sono almeno 2432 le vittime della fuga nel canale di Sicilia. 1503 sono dispersi in fondo al mare. Le vittime stanno aumentando nonostante la diminuzione degli arrivi.

Pubblicato il: 16.11.07
Modificato il: 16.11.07 alle ore 9.53  
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« Ultima modifica: Settembre 11, 2013, 06:05:22 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 18, 2007, 06:48:50 pm »

Il miracolo africano? La sfida è la sconfitta della povertà

Toni Fontana


Il primo ad arrivare ieri a Riad, dove si è aperta la terza conferenza dell’Opec (organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) è stato il presidente dell’Ecuador Correa, che ha anticipato il venezuelano Chavez. Uno ad uno sono arrivati i leader di Angola, Algeria, Nigeria, dei paesi arabi, dell’Iran, dell’Indonesia. Per la prima volta alcuni paesi africani saranno in grado di ritagliarsi un ruolo da primi attori nel tavolo che vede assieme i «padroni dell’oro nero». Nel petrolio, ma non solo, si nasconde la chiave di un presunto miracolo africano che, nel rapporto della Banca Mondiale 2007, vede protagonisti 44 paesi del continente che «per la prima volta seguono lo sviluppo economico del resto del mondo». Anche per il 2008 si prevede una crescita media pari al 5,4%. È dunque tempo di rivedere le analisi secondo le quali l’Africa è rimasta ai margini della globalizzazione?

Molti africani e africanisti rispondono di no. «Queste statistiche - dice Carlo Carbone, africanista dell’Università della Calabria - si riferiscono ad elementi economici particolari, alle merci da esportazione ad esempio i cui prezzi vengono stabiliti dal nord del pianeta. Penso al petrolio, ai minerali non ferrosi, alle derrate alimentari da esportazione come thè, caffè e cacao. I prezzi vengono definiti da chi compra e non da chi vende, la crescita di conseguenza si misura sulla base di indicatori economici occidentali. Aumenta il potere di acquisto di ristrettissimi ceti urbani, non quello delle grandi masse contadine e del proletariato delle città. L’Africa ha davanti a sè molte opzioni, mi auguro che punti sulla propria agricoltura, sulla produzione di beni non commissionati e i cui prezzi non siano condizionati da altri. Non so se il concetto di “decrescita” (correlato al concetto occidentale di crescita) esposto da Serge Latouche rappresenti la sola risposta corretta, ma sono ottimista sul fatto che l’Africa possa riprendersi puntando sulla produttività del settore agricolo».

«I dati - interviene Andrea Amato, presidente dell’Istituto per il Mediterraneo - indicano una crescita, ma ciò avviene a partire da una decennio di regressione seguito da un altro decennio di stagnazione. Petrolio e materie prime sono all’origine della crescita, che però non determina un maggiore benessere diffuso. Da un lato crescono le ricchezze, dall’altro aumentano le povertà. E poi, in ogni caso, il merito di questa tendenza alla crescita non può essere certamente ascritto alla Banca Mondiale che in questi ultimi anni ha invece contribuito al peggioramento economico delle popolazioni rurali con la decisione di ridurre gli aiuti all’agricoltura. Ciò non ha funzionato per i livelli estremamente bassi di sussistenza dell’agricoltura stessa, errore ammesso ora dalla stessa Banca Mondiale. E poi in Africa la Cina sta sviluppando una politica spregiudicata, sottraendo il continente agli Stati Uniti che a loro volta hanno ridotto lo spazio ed influenza dell’Europa che oggi non appare in grado di contare un granché, se si escludono iniziative di alcuni paesi come la Francia».

«Non nego che vi siano dei dati positivi - aggiunge Aly Baba Faye, sociologo senegalese - ma non dobbiamo farci ingannare dalle statistiche. Non siamo di fronte ad un miglioramento complessivo delle condizioni di vita delle popolazioni africane. I paesi del continente subiscono il peso del debito e soprattutto degli interessi che sono costretti a pagare e che vanificano gli sforzi che vengono fatti per favorire la crescita. Queste sono le due questioni centrali del continente africano: la redistribuzione delle ricchezze e la riduzione del servizio al debito. Finché vi saranno questi due macigni è inutile farsi illusioni. L’Africa è ancora molto lontana dalle maggiori economie del pianeta, la sua partecipazione al commercio mondiale è ancora molto modesta e non supera il 2% del totale. La verità è che noi africani siano ancora ai margini del economia mondiale».

Critico anche il parere di Gino Barsella, giornalista, ex direttore di Nigrizia: «Le statistiche della Banca Mondiale sono parziali, si riferiscono ad indicatori macroeconomici, ad una crescita determinata dal petrolio e dalle materie prime, ma in realtà tra l’economia africana e quelle delle regioni più ricche del pianeta si è determinato un nuovo gap. Assistiamo ad una crescente spaccatura tra chi ha e la maggioranza delle popolazioni del continente, le masse dei “non registrati”, dei disoccupati, delle persone che vivono nei villaggi. In quelle statistiche non compare l’”economia informale” che è la vera ricchezza dell’Africa che vuole emergere. I dati della Banca Mondiale non ci spiegano i risultati dei piani di aggiustamento strutturale decisi a Washington che hanno costretto i paesi africani a svendere le ricchezze, che hanno favorito le privatizzazioni (che hanno avvantaggiato gli investitori stranieri), provocato il taglio delle spese sociali ed accresciuto il peso del debito».

Nel coro si inserisce Mariano Benni, direttore di Misna, l’agenzia di stampa dei missionari: «Tutti i dati delle istituzioni internazionali vanno presi con le molle - sostiene - anche perché vengono diffusi da coloro che, per molto tempo, hanno imposto soluzioni e piani che non hanno certamente favorito gli africani. I segnali di crescita sono essenzialmente determinati dall’aumento del prezzo del petrolio. Non migliorano gli indicatori che riguardano lo sviluppo sociale, il benessere collettivo delle popolazioni africane. Cresce il sospetto che alcune analisi diffuse nel mondo da grandi istituzioni internazionali nascondano propositi non proprio cristallini, una nuova caccia ai profitti nei mercati africani».

Pubblicato il: 18.11.07
Modificato il: 18.11.07 alle ore 15.22   
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 03, 2008, 12:16:04 am »

Alex Zanotelli: «Un Kenya in guerra sarebbe un pericolo per l’Africa»

Toni Fontana


Il missionario comboniano Alex Zanotelli, già direttore di Nigrizia e «icona no-global», ha vissuto 12 anni a Gorogocho, la grande periferia di Nairobi dove centinaia di migliaia di abitanti sopravvivono nella miseria e nel degrado cercando il cibo tra i rifiuti di un’immensa discarica. È estremamente preoccupato per le sorti del Kenya: «Un guerra civile in Kenya - dice - sarebbe una sciagura per tutta l’Africa Orientale. I voti delle elezioni presidenziali vanno contati nuovamente oppure debbono essere convocate nuove elezioni sotto la supervisione internazionale. Le Chiese africane possono svolgere una decisiva opera di mediazione».

Pensa che la situazione potrebbe degenerare?

«Occorre fare il possibile e l’impossibile per evitarlo. Se il Kenya precipita nello scontro etnico o nella guerra civile sarebbe davvero una tragedia, si tratta dell’unico paese che in quell’area ha finora raggiunto una relativa stabilità politica, dell’unico tassello dove non aveva trionfato la violenza. Se «salta» il Kenya va per aria tutta l’Africa Orientale dove si trovano l’Etiopia e la Somalia. E poi c’è il Sudan... se dilagherà la violenza si determinerà un danno irreparabile».

Quali sono le cause che stanno alimentando le violenze?

«La principale è la forte ed estesa ingiustizia. Quando covano miseria e frustrazione basta un cerino per dare fuoco alle polveri. Ho vissuto per dodici anni tra i diseredati di Gorogocho e so bene quali e quanti problemi ci sono. La prima violenza è quella prodotta da sistema che punta a mantenere ed estendere le baraccopoli perchè servono per reclutare manovalanza a bassissimo costo. E poi si stanno affrontando due differenti ed opposti personaggi politici che rappresentano le due principali etnie del paese. I Kikuyu sono almeno 6 milioni ed hanno avuto un ruolo importante nella conquista dell’indipendenza, mantenendo successivamente importanti posizioni nella piramide sociale. I Luo sono 3-4 milioni e non hanno mai avuto un presidente. Per questo, col tempo, è cresciuto tra loro un forte risentimento che affonda le radici anche nella povertà».

Quali interventi sono possibili da parte della comunità internazionale per tentate di evitare il peggio?

«Occorre essere consapevoli che in Kenya si sta giocando una partita importantissima destinata ad avere ripercussioni in tutta quell’area dell’Africa. L’Unione europea è in grado di svolgere un’opera importante. Anche le Chiese possono avviare una mediazione. Noi cattolici siamo in minoranza; a Nairobi ha sede il Consiglio ecumenico delle Chiese africane che certamente possiede l’autorità e le capacità negoziali per avviare una mediazione».

Con quali obiettivi?

«Esistono, a mio avviso, due possibilità: o si decide il riconteggio dei voti oppure la soluzione può essere la convocazione di nuove elezioni che dovranno avvenire sotto il controllo internazionale. Dopo quel che è successo la gente non si fida più e occorre fornire garanzie».

Pubblicato il: 02.01.08
Modificato il: 02.01.08 alle ore 8.17   
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 23, 2008, 11:24:53 pm »

Viaggio in pullman con Zapatero

Toni Fontana


Gli ultimi negozianti di calle Ferraz hanno appena abbassato le serrande quando una piccola folla si raduna davanti alla sede del Psoe. Dall’edificio sbucano gli addetti stampa con un pacco di accrediti. Inizia la «carovana di Zapatero», un lungo viaggio in pullman attraverso la Spagna che vota il 9 marzo. Mancano due ore all’inizio ufficiale della campana elettorale. La destra di Rajoy la inaugura con un comizio nel quartiere Salamanca, il più esclusivo di Madrid. «Zapatero - spiega Barbara, una collega della radio spagnola - ha scelto il Palacio municipal de Congreso del campo de las naciones».

«È un luogo dove si tengono le fiere più importanti - continua Barbara -, sulla strada per l’aeroporto di Barajas». Arrivano troupes con cavalletti ed ogni sorta di diavolerie della tecnologia televisiva, fotografi dell’agenzia Efe, firme più o meno note del giornalismo ispanico. Si aggrega anche un gruppo di giovani gay che ha organizzato per il primo marzo un «acto di apoyo» al leader e distribuisce un volantino con un grande cuore rosso con la scritta: «Se ami Zapatero, unisciti». Il pullman, modernissimo, sfreccia sull’autostrada in direzione dell’aeroporto. Domani sarà a Leon, ai confini con la Castiglia, poi in Andalusia e nel resto della Spagna. Zapatero percorrerà 13.500 chilometri toccando 15 province.

La legge parla chiaro, solo a mezzanotte in punto i leader potranno parlare in pubblico. Per cui ai registi della campagna elettorale tocca il compito di creare l’attesa, tenere alta la tensione in vista dell’arrivo del leader. E la fantasia non manca. Quando arriviamo, al seguito di Zapatero, la grande sala del Palacio, sovrastata da un ampio loggione, è stracolma. Ci saranno 5-6 mila persone. Alle spalle del palco alcune decine di giovanissimi intonano cori da stadio (i nuovi votanti sono 1,7 milioni), e si alzano formando «l’onda». «Quando si vota in Italia?» ci chiedono in molti, mentre due maxischermi mostrano il video di «defender l’alegria», la canzone della Piattaforma di appoggio a Zapatero lanciata da intellettuali e personaggi dell’arte e dello spettacolo. Il simbolo del movimento è una «c» rovesciata attorno all’occhio sinistro che, nel linguaggio dei sordomuti (che verrà usato per tutta la serata) vuol dire «presidente Zapatero». Ed ecco la trovata che eccita il pubblico. Un gruppo di giovani improvvisa con bottiglie di plastica vuote, bidoni e pialle elettriche una sorta di «flamenco-rap», il travolgente suono di tamburi ed i rumori sempre più intensi e ritmati diventano la colonna sonora per l’arrivo dei leader. Zapatero entra dell’ingresso in alto sulla platea, abbraccia la moglie Sonsoles Espinosa, una bella signora bionda che sfoggia una camicia rosso garibaldino. La coppia viene accolta da centinaia di bandiere, e un coro di inni al «presidente». «Noi spagnoli - ci dice una militante sui 50 anni - siamo fatti così, siamo passionali, forse voi in Italia non ci capirete..». Ed ecco l’altra trovata che manda alle stelle la gioia della platea. Zapatero sale sul palco e tocca un cubo che, al contatto, si illumina mostrando la scritta «Psoe». Il primo pensiero del leader è alle «192 vittime dell’attentato dell’11 marzo 2004».

Si vedono volti in lacrime, alcuni piangono e si abbracciano.

Zapatero parla senza enfasi, alterna toni bassi ad altri più forti e decisi; avvicinandoci al palco notiamo che i sorrisi che si vedono sui maxischermi sono però scavati in un volto carico di tensione, serio. Zapatero tocca il punto dolente, il rischio di astensionismo che inquieta i dirigenti del Psoe: «Alcuni pensano che votare o astenersi è la stessa cosa - dice il presidente del governo - ma noi in questi 30 anni abbiamo costruito una Spagna moderna, libera e democratica perché i nostri elettori ci hanno seguito». Poi un affondo contro gli avversari: «Noi siamo la Spagna che guarda al futuro, la Spagna del passato non tornerà mai più. La maggioranza degli spagnoli non accetterà mai più che le donne vengano discriminate nel lavoro, e noi siamo in questa maggioranza. La nostra è la Spagna della solidarietà che lotta contro la povertà nel mondo, che vuole il dialogo e la convivenza». Gli altri, i popolari di Mariano Rajoy - prosegue Zapatero - «rappresentano un passato autoritario». I giovani si alzano e sventolano le bandiere del Psoe, Zapatero si rivolge a loro che «hanno scelto la solidarietà la lotta contro le ingiustizie, che si battono per uno sviluppo sostenibile, che sono preoccupati per i mutamenti del clima». Tra applausi sempre più intensi (e una contestazione di lavoratori in sciopero del ministero della Giustizia che non interrompe il comizio) Zapatero conclude parlando del «dialogo sociale» (per il 10 marzo, all’indomani delle elezioni, ha già convocato sindacati e Confindustria), del salario minimo, delle leggi che hanno esteso i diritti civili. Non una parola sulle polemiche con la Chiesa. E quasi l’una quando Zapatero si rivolge ad «amiche e amici, compagne e compagni» per chiedere «il massimo sforzo, ogni minuto, ogni giorno. Da 130 anni - conclude - il Partito socialista operaio spagnolo si muove in un’unica direzione».

Pubblicato il: 23.02.08
Modificato il: 23.02.08 alle ore 10.54   
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 24, 2008, 11:22:02 pm »

D. Lopez Garrido: «La destra spagnola ha solo boicottato ogni nostra riforma»

Toni Fontana


Diego Lopez Garrido, 60 anni, «portavoz» socialista alla Camera (la carica, in Italia, corrisponde a quella di capogruppo) ci accoglie nei uffici del Psoe alle Cortes con un sorriso carico di ottimismo: «Le elezioni del 9 marzo sono decisive per la Spagna e per l’Europa. Se gli spagnoli, come speriamo, confermeranno la fiducia in Zapatero, ciò vorrà dire che i progressisti possono vincere e questo messaggio arriverà in Italia».

La campagna elettorale sta diventando rovente...
«È in corso un confronto a tutto campo, elettrizzante. Non assistiamo ad una corsa per la conquista del centro. Le differenze tra i due principali partiti sono chiare ed evidenti. Noi guidiamo il campo progressista, mentre i popolari si stanno sempre più collocando a destra, all’estrema destra».

Quali sono le iniziative del governo Zapatero che hanno scavato il solco con la destra?
«Nei quattro anni della legislatura abbiamo approvato 167 leggi. Quelle più importanti non solo non sono state approvate, ma sono state avversate dal Pp. La loro strategia è stata proprio questa: distinguersi, opporsi, fare muro. Hanno puntato sullo scontro frontale. Non si sono mai confrontati nel merito, sui contenuti. Abbiamo votato la “legge per l’eguaglianza tra donne e uomini”. Il Pp si è rivolto al tribunale Costituzionale, ha presentato ricorso, ma i giudici hanno dato ragione a noi. Il Pp è un partito classista e reazionario, che si oppone all’eguaglianza tra i cittadini, tra spagnoli e stranieri, non accetta l’eguaglianza tra chi è cattolico e chi non lo è, tra eterosessuali ed omosessuali, tra uomo e donna».

Il Pp, copiando Sarkozy, ha proposto il contratto di integrazione per gli immigrati (ingresso a punti ed esame per misurare l’adesione ai “costumi spagnoli”) . Secondo alcuni sondaggi il 56% degli spagnoli approva o comunque non disapprova...
«È la prova che i popolari puntano sulla divisione e sulla frammentazione. Nel 2000 hanno approvato una legge che escludeva gli stranieri da qualsiasi diritto, ed è stato ancora una volta il tribunale supremo a definire “incostituzionale” questo provvedimento. In Spagna ­ hanno stabilito i giudici - il diritto di riunirsi, di associarsi e di scioperare deve essere garantito a tutti gli esseri umani».

Le polemiche con i vertici della Chiesa si rifletteranno nel voto del 9 marzo?
«Gli elettori hanno compreso il nostro punto di vista. Alcuni ci criticano e ci giudicano deboli di fronte alle gerarchie ecclesiastiche, altri sostengono che siamo stati noi a scegliere la contrapposizione. Né gli né gli altri hanno ragione. La Costituzione stabilisce che con la Chiesa vi debbono essere relazioni “speciali”, ma lo stato spagnolo non è confessionale. Con la Chiesa abbiamo raggiunto un accordo per il finanziamento, un altro con i collegi cattolici, e, nel complesso, manteniamo buone relazioni. Per questo è sorprendente che, a poche settimane dal voto, ci sia stato un intervento diretto nella vita politica e che sia stato sollevato il tema del terrorismo per sostenere il Pp con un documento chiaramente favorevole al partito di Rajoy. Non possiamo accettare che venga detto che in Spagna si sta “dissolvendo la democrazia”, che nel nostro Paese “non vengono tutelati i diritti umani”. La nostra è una società laica».

Secondo gli ultimi sondaggi il vantaggio del Psoe sul Pp si sta riducendo.
«Certamente non cercheremo di vincere facendo leva sulla xenofobia; abbiamo regolarizzato 700mila immigrati a partire dal 2004. La nostra politica si fonda sulla legalità e l’accoglienza. I popolari invece vorrebbero “buttare a mare” gli immigrati. Gli spagnoli sanno però che la forte crescita economica del Paese si deve, per il 50%, agli immigrati. La regolarizzazione ha favorito il pagamento dei contributi che, attualmente, garantiscono la pensione ad un milione di spagnoli. Gli immigranti sono essenziali per la nostra economia».

Quali sono le relazioni tra il Psoe ed Izquierda Unida (sinistra radicale)?
«Iu ha appoggiato l’investitura di Zapatero, nel corso della legislatura, soprattutto sui provvedimento sociali e per l’estensione dei diritti civili, abbiamo ottenuto il loro appoggio».

La sinistra radicale vi accusa di puntare su riforme che non riducono i privilegi.
«Iu cerca uno spazio autonomo alla nostra sinistra, ma sa che le nostre riforme non sono “light” e che essa non ha mai avuto tanta influenza come in questi quattro anni. Nei prossimi tre anni dedicheremo molte risorse alle scuole materne e ciò è stato deciso assieme a IU, che, un tempo, per contrastare il Psoe, si alleò addirittura con il Pp».

Il vostro programma prevede la riduzione delle imposte dirette?
«Se la crescita economica si manterrà costante, se il debito continuerà a calare e proseguirà il risanamento dei conti pubblici, per prima cosa rafforzeremo i servizi sociali essenziali, quindi penseremo a flessibilizzare la pressione fiscale privilegiando coloro che guadagnano di meno. Il Pp pensa invece a fare regali ai ricchi».

Pubblicato il: 24.02.08
Modificato il: 24.02.08 alle ore 12.43   
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 12, 2008, 04:20:05 pm »

In Africa esplode la guerra del pane

Toni Fontana


Da tre giorni nella regione mineraria di Gasfa, in Tunisia, sono in corso violenti scontri tra poliziotti e manifestanti che protestano contro il carovita. Nessuno sa con esattezza ciò che sta accadendo. Il regime censura e nasconde la verità. La Tunisia, in ordine di tempo, è l’ultimo tra i Paesi africani ad essere attraversato da proteste contro il carovita e l’aumento dei prezzi degli alimentari. Dalle coste del Mediterraneo al cuore dell’Africa violenze e rivolte si stanno estendendo a macchia d’olio. Alla fine di febbraio la polizia del Cameroun ha ucciso 40 persone, in Senegal le proteste si susseguono dalla fine di marzo.

Centinaia gli arresti, scontri anche Costa D’Avorio, in Etiopia il governo ha finora scongiurato la ribellione organizzando centri di distribuzione di cereali. Tensioni e scontri anche in Egitto. «Il continente africano è attraversato da una burrasca» - scrive il quotidiano di Abidjan, Fraternité Matin. Ma non è solo l’Africa in affanno. L’aumento del prezzo del mais ha provocato conflitti sociali in Messico e in Argentina, sta aprendo nuovi fronti della protesta in Asia, dal Pakistan alla Thailandia. «L’aumento del prezzo degli alimenti non pare disgraziatamente un fenomeno congiunturale, ma strutturale» - fa notare Andrés Ortega, direttore di Foreign Policy in Spagna. Le cause sono tante e molto complesse. Marcelo Giugale dirigente della Banca Mondiale ne elenca cinque: i sussidi per la produzione di cereali destinati ai biocarburanti, l’ aumento del costo del gasolio e dei fertilizzanti, il maltempo che ha flagellato aree produttive primarie nel pianeta (come l’Australia), l’aumento del consumo di carne in Asia che ha fatto lievitare il domanda di mangimi, speculazioni che hanno provocato l’impazzimento dei prezzi. I dati diffusi dalla Fao non concedono nulla all’ottimismo. Il raddoppio dei prezzi dei beni alimentati (in molti casi triplicati) rischia di far diventare più poveri 100 milioni di persone che popolano paesi già afflitti da carestie ed emergenze, il tasso di povertà aumenterà dal 3 al 5%. In Africa ci provocherà l’annullamento dell’impatto dell’aiuto internazionale. La Fao spiega che negli ultimi due mesi i prezzi dei cereali hanno subìto un aumento molto forte, grano e riso costano il doppio rispetto ad un anno fa. La protesta dilaga in Africa perché saranno le popolazioni di quel continente a pagare il prezzo più salato. La Fao prevede che, entro il 2008, importare cereali costerà il 56% in più, le tariffe dei trasporti subiranno aumenti vertiginosi, oltre il 70%. La Fao teme una «crisi mondiale» e prevede fortissimi aumenti anche dei prezzi delle sementi e dei fertilizzanti (tra il 30 ed il 70%). In Africa grandi masse di contadini poveri si stanno spostando verso le città che crescono in modo disordinato confinando in immense periferie i più poveri. Nel 2007, per la prima volta nella storia, il numero di persone che vive nei centri urbani ha superato quello di coloro che risiede nelle zone rurali.

Nell’Africa subsahariana questa percentuale si colloca tra il 35 e il 50% ed è in continuo e veloce aumento. Alcuni Paesi africani, i stanno nuovamente indebitando senza aver tratto vantaggio da alcune riduzioni concesse dai paesi occidentali. La Banca Mondiale propone alcune soluzioni (nuovo patto per una politica alimentare globale e fondo di emergenza dei paesi donatori) e punta il dito contro i biocarburanti. «Gli americani - ha detto il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick si preoccupano di come riempire i serbatoi delle loro auto, ma c’è gente che non sa come riempire lo stomaco».

I biocarburanti (combustibili ottenuti da materie prime vegetali) sarebbero la causa principale dell’aumento dei prezzi perchè riducono la produzione e la domanda di prodotti alimentari. Zoellick su questo è categorico e, alla vigilia della riunione del G7 (che si è aperta ieri a Washington) ha chiesto ai Paesi che producono materie prime per i biocombustibili di «essere sensibili in questo momento di fronte alle difficoltà che i paesi più poveri stanno attraversando». Alcuni però fanno notare che i dirigenti della Banca Mondiale predicano bene, ma razzolano male. Le Ong (tra queste l’italiana Crbm, campagna per la riforma della Banca Mondiale) ricordano che questa istituzione sta promuovendo la costituzione di due nuovi fondi, il cui valore oscillerebbe tra i 7 ed i 12 miliardi di dollari, per finanziare opere, come dighe, nell’emisfero nord del pianeta. «I fondi pubblici - dice invece Crbm - devono essere usati per aumentare gli investimenti nelle fonti energetiche rinnovabili e non in progetti arcaici a carbone, come il Tata Mandra in India». Le previsioni della Fao e delle grandi agenzie internazionali non ammettono ritardi nell’affrontare i problemi. Occorre rinunciare ai biocarburanti? Anche l’agenzia europea per l’Ambiente chiede all’Unione di rinunciare all’obiettivo di giungere, entro il 2010, al 10% di benzina verde sul totale dei carburanti. L’Agenzia dice che queste produzioni non solo non riducono le emissioni di gas, ma «accelerano la distruzione di foreste tropicali» in alcuni paesi, come ad esempio l’Indone\sia.

«Si profila - interviene Louis Michel, commissario europeo - uno choc alimentare mondiale, meno visibile di quello petrolifero, ma con effetti potenziali di un vero tsumani economico e umanitario in Africa».

Pubblicato il: 12.04.08
Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39   
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