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Autore Discussione: Nicola Tranfaglia Mafia, sangue e mercato  (Letto 6649 volte)
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« inserito:: Novembre 08, 2007, 06:50:39 pm »

Mafia, la battaglia continua

Nicola Tranfaglia


Non avrebbe senso mettere in dubbio che la cattura dei Lo Piccolo e degli altri «colonnelli» del gruppo erede di Provenzano ha rappresentato una vittoria delle forze dell’ordine siciliane e delle altre strutture repressive nei confronti di Cosa Nostra. Come è dimostrato dalla storia difficile sulla cattura del «capo dei capi» Provenzano, devono esserci circostanze e volontà rilevanti per raggiungere simili risultati e ha relativa importanza la disputa su quali interne rivalità o concorrenze abbiano favorito la cattura. È probabile, a mio avviso, che Lo Piccolo, padrone e controllore del traffico delle estorsioni in gran parte dell’isola, non fosse stato investito di una carica suprema sia perché la rivalità con Matteo Messina Denaro, boss della mafia trapanese, aveva trovato un accomodamento temporaneo e non un pace vera sia perché i grandi traffici internazionali di Cosa Nostra sono probabilmente in altre mani.

Certo, la questione del rientro degli «americani» (Inzerillo ed altri) costituisce un problema ancora irrisolto e non siamo in grado di prevedere come si evolverà. È l’eredità dei corleonesi, e la scelta della linea politica della mafia siciliana, a costituire il prossimo terreno d’accordo o di scontro all’interno della commissione interprovinciale e vedremo presto che cosa succederà.

Proprio per questo non ci si può far prendere da un ottimismo eccessivo e ritenere che la mafia abbia perduto la sua guerra e che lo Stato stia per vincerla. Al contrario, le posizioni segnalano che, al di là di battaglie singole pur significative, vale la pena ricordare che, nelle tre regioni in cui il dominio territoriale delle cosche resta invasivo e il controllo economico soffocante (Sicilia, Calabria, Campania e una parte della Puglia), la mafia ha conseguito risultati imbarazzanti per una democrazia moderna.

Economia, società e istituzioni sono condizionate in maniera determinante dall’espansione dei metodi mafiosi presenti nella società politica, come in quella civile ed economica.

I politici o i magistrati che si spingono a cercare di combatterle o operano in maniera contraddittoria si trovano subito in pericolo e in casi estremi vengono eliminati (basta ricordare il caso Fortugno in Calabria). Oppure il caso opposto del presidente della regione siciliana processato, con qualche innegabile fondamento, segnala forme di penetrazione che non risparmiano neppure i vertici istituzionali.

La verità storica dimostra, almeno da centocinquant’anni, che il processo di conquista da parte delle mafie (e in questo momento sono la ’ndrangheta e la camorra a guidare la corsa grazie alla maggior disgregazione delle due regioni interessate e un numero minore di sconfitte politico-militari) procede e, sul piano economico-finanziario, ha conseguito risultati assai difficili da mettere in discussione. Le ragioni che hanno condotto a questa difficile situazione sono chiare ma le classi dirigenti italiane (parlo della coalizione che governa come di quella che è all’opposizione pur con rilevanti e note differenze) stentano ancora, pur dopo tutta l’esperienza storica ormai accumulata, a rendersi conto che la repressione di polizia e magistratura, sempre necessaria, non può da sola (anche se fosse costante e tutti sappiamo che così non è stato nell’ultimo decennio) risolvere il problema.

Mancano altri due strumenti difficili da mettere in azione ma indispensabili per mettere la mafia in crisi grave e addirittura definitiva.

Il primo è costituito dallo sviluppo economico delle tre regioni direttamente interessate che oggi è malato e, almeno in buona parte, caratterizzato da meccanismi parassitari. Penso in questo momento alla situazione campana, in cui, nelle precedenti esperienze di governo, né il centro-destra né il centro-sinistra sono riusciti a innescare regole virtuose, a livello locale come nazionale, per uscire dal sottosviluppo.

E lo stesso discorso si può applicare alla Calabria che ha visto, più o meno negli stessi anni, cambiare i governi locali senza verificare risultati positivi. Non basta cambiare le èlites di governo o gli obbiettivi enunciati per ottenere salti di qualità rilevanti. È troppo forte l’inquinamento mafioso o il processo disgregativo è andato troppo avanti nella conquista della società politica e di quella civile?

Ma l’altro strumento di cui si parla assai poco e che nel lungo periodo può essere davvero decisivo è quello della mentalità collettiva, dell’acculturazione delle grandi masse popolari e piccolo-borghesi ma anche di quelle delle classi dirigenti locali.

Manca, in quelle regioni, una cultura dello stato di diritto, degli interessi generali, dello spirito di cooperazione moderno,di un superamento degli interessi individuali e familiari o del clan particolare.

E non basta far retorica su questi problemi. È necessaria, al contrario, un’opera costante a livello nazionale e locale per inoculare, negli anni infantili e dell’adolescenza, i valori fondamentali di una convivenza civile caratterizzata dalle regole del diritto, dell’uguaglianza, della solidarietà piuttosto che quelle della prepotenza e dell’arroganza a livello individuale come a quello collettivo.

Sembra un’utopia irrealizzabile? Eppure è un obbiettivo in gran parte realizzato nei maggiori paesi europei come la Francia, la Germania, l’Inghilterra e la Spagna. Che cosa manca al nostro paese perché si vada in questa direzione? Aspettiamo risposte dal governo che sosteniamo con convinzione dal momento in cui ha iniziato la sua opera.

Pubblicato il: 08.11.07
Modificato il: 08.11.07 alle ore 15.05   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 16, 2007, 12:16:21 pm »

Quella ragnatela tra Québec e Reggio Calabria


 Dimenticate la mafia rurale di Provenzano. La Cosa Nostra italo-canadese descritta dalla Dia di Roma non taglieggia le focaccerie e non vive nei tuguri dei cugini siciliani. È una multinazionale del business che traffica in narcotici, ma pensa in grande: tonnellate di cocaina nascosta nel pellame per rendere impossibile il lavoro ai segugi dell'antidroga. Gli uomini di Rizzuto cercano di stringere accordi anche con una azienda leader come la Dani Leather di Arzignano (55 milionidi fatturato), costruiscono società per creare cliniche nel Lazio e villaggi turistici in Puglia. A Montreal cercano di agganciare il grande costruttore italiano Broccolini, che per una coincidenza ha realizzato il Saputo Stadium.

Ogni cellula agisce all'insaputa dell'altra, ma al centro di tutto ci sono sempre loro: i Rizzuto. Nick, il patriarca, e Vito, il boss. Sembrano usciti da un film. La parte operativa delle loro attività la delegano a manovali di varie etnie, dagli irlandesi della West End Gang ai famigerati motociclisti Hells Angels. Il network funziona anche se è meno stabile. Quando Vito Rizzuto è stato arrestato, gli Hells si ribellano al suo delfino, Francesco Arcadi, uccidendogli l'autista nell'ottobre 2006. Il 23 agosto arriva la risposta: un picciotto spara contro una Porsche parcheggiata davanti al ristorante Cavalli, il più trendy di Montreal: si salva per un pelo un capo degli Hells.

I Rizzuto sono boss moderni, ma allo stesso tempo antichi. Somigliano al principe di Villagrazia, Stefano Bontate, spazzato via dai 'viddani' di Riina. Non a caso i legami milanesi di Rizzuto sono gli stessi che emergevano nelle vecchie indagini del 1980 sui fratelli Dell'Utri e Vittorio Mangano. Vito Rizzuto è stato arrestato la prima volta nel 2002 su una Grand Cherokee intestata non a un contadino, ma alla principale società di rifiuti di Montreal, la OMG. Il clan negli ultimi anni sente il richiamo della terra natia. La società di rifiuti, prima di essere ceduta a un sano gruppo canadese, aveva aperto anche una filiale italiana. Dopo il tentativo di costruire il ponte sullo Stretto (sventato dalla Dia nel 2005), ora i Rizzuto puntavano agli appalti dell'autostrada Salerno-Reggio, senza dimenticare la A-30 Toronto-Ottawa.

Québec o Calabria fa lo stesso.

(15 novembre 2007)
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« Ultima modifica: Novembre 16, 2007, 12:18:08 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 16, 2007, 12:20:37 pm »

Boss connection

di Marco Lillo e Antonio Nicaso

È uno degli uomini più ricchi del mondo: il suo gruppo caseario fattura 4 miliardi.

Ma ora i magistrati vogliono fare luce sul ruolo di Lino Saputo nel riciclaggio tra Italia e Canada.

E spuntano rapporti con il padrino Bonanno


Lino Saputo era felice come un bambino il 27 ottobre scorso.

Maria Grazia Cucinotta, strizzata in un tubino scuro, quella sera al Plaza di Atlantic City gli stava consegnando il premio della Cnsa, la Confederazione dei siciliani del nord America: "Ecco a voi il miglior imprenditore dell'anno, il primo produttore di latticini del Canada, il terzo negli Stati Uniti". Il re del formaggio sorrideva ai 700 italiani. Ad applaudirlo c'erano l'ex ministro Enrico La Loggia, il console d'Italia a New York, il deputato di Philadelphia Salvatore Ferrigno, l'assessore siciliano Santi Formica e tanti altri. A braccetto con l'altro premiato, l'attore Ben Gazzara, assaporava al volgere dei settant'anni la dolce discesa della vita. La mente andava alla lunga salita affrontata per essere su quel palco: l'infanzia in Sicilia, il piroscafo che nel 1952 lo porta da Montelepre, il paese del bandito Giuliano, fino all'America.

Gli inizi con il padre, la bicicletta per consegnare 10 chili di mozzarella al giorno, la crescita, la quotazione in Borsa a Toronto, il boom dell'ultimo decennio che ha decuplicato il fatturato fino a 4 miliardi di dollari e gli utili a 400 milioni l'anno. Lino stringeva al cuore quella targa perché era un riconoscimento alla storia dei Saputo. Non poteva sapere che il nome della sua famiglia, impresso sul 35 per cento della produzione casearia del Canada, sulla squadra di calcio di Montreal e sullo stadio avveniristico della città, proprio quel nome a 4 mila miglia di distanza, era finito nel mirino della Direzione distrettuale antimafia di Roma coordinata da Italo Ormanni.

Cinque giorni prima, il 22 ottobre, la Dia di Roma, guidata dal colonnello Paolo La Forgia, ha arrestato 16 boss e colletti bianchi del clan di Vito Rizzuto. Le indagini dei vicequestori Silvia Franzé e Alessandro Mosca sono durate due anni e hanno colpito duramente la connection tra il Canada e l'Italia. A 'L'espresso' però risulta che l'ultima pista investigativa percorsa dal nucleo di polizia tributaria di Milano porta proprio ai rapporti tra Rizzuto e i Saputo. Il capitano Gerardo Marinelli e il maggiore Vincenzo Andreone hanno intercettato tra il 2005 e il 2006 l'imprenditore Mariano Turrisi, l'uomo di Rizzuto a Roma, mentre tentava di riciclare 600 milioni di dollari mediante la cessione proprio a Lino Saputo del suo gruppo Made in Italy, destinato a operare nel settore del lusso. Saputo non è indagato, ma l'operazione (vedi articolo a pag. 47) ha nuovamente acceso il faro sui suoi rapporti con la criminalità.

Qualche mese prima degli arresti, il pm romano Adriano Iasillo ha scritto una lettera riservata alla Polizia interforze del Canada: "La Guardia di Finanza ha intercettato conversazioni dalle quali si capisce che è in corso un'operazione di cessione del gruppo Made in Italy all'imprenditore canadese Lino Saputo per la somma di 600 milioni di dollari americani di cui 300 sarebbero destinati direttamente alla famiglia capeggiata da Vito Rizzuto (...) sarebbe estremamente utile acquisire ogni dato che provi il collegamento tra Saputo e Rizzuto". Alla richiesta del pm italiano non è giunta alcuna risposta. 'L'espresso' ha svolto una ricerca negli archivi del governo canadese e dello Stato di New York, nei vecchi rapporti della polizia e dell'Fbi, scoprendo una serie di documenti che provano i trascorsi rapporti di affari tra Saputo e la storica famiglia Bonanno di New York, della quale proprio il boss Rizzuto è oggi il rappresentante in Canada.

Per ricostruire la saga parallela bisogna partire da un documento. La richiesta di ingresso in Canada presentata il 25 maggio 1964 da un emigrante: Giuseppe Bonanno, nato a Castellammare (Trapani), religione cattolica, cittadinanza statunitense. Bonanno non è un siciliano qualunque. Secondo molti è il Padrino con la 'P' maiuscola, quello al quale si sarebbe ispirato Mario Puzo per il personaggio di don Vito Corleone. Morirà nel 2002 dopo una sola condanna per ostruzione alla giustizia, ma quando presenta la domanda per entrare in Canada è il capo della famiglia omonima che compone insieme ad altre quattro la cupola americana di Cosa Nostra. Bonanno lascia New York per sfuggire alle indagini e ai killer del clan rivale. Punta su Montreal perché sa di avere amici pronti ad accoglierlo: i Saputo.

Allegata alla sua domanda c'è una lettera della Giuseppe Saputo & sons: "Caro Mr. Joseph Bonanno (.) tu ci hai aiutato molto negli anni e noi siamo felici di averti nelle nostre attività. Siamo pronti a darti il 20 per cento delle nostre tre società a fronte di un investimento di 8 mila dollari. Siamo certi che ci potrai aiutare enormemente nell'espansione dell'attività. Con il tuo aiuto raddoppieremo i dipendenti". Non c'è da stupirsi. Bonanno non gestiva solo affari illeciti. Come racconterà nella sua autobiografia, 'Uomo d'onore', tra una sparatoria e l'altra fabbricava anche mozzarelle. Nel Wisconsin era socio occulto di un caseificio (tuttora attivo) gestito da un certo John Di Bella di Montelepre, il paese dei Saputo. Proprio Di Bella presentò 'Il Padrino' e 'Il re del formaggio' e chissà che non sia lo stesso John Di Bella che accompagnò Bonanno al vertice più importante della storia della mafia, nel 1957, al Grand Hotel delle Palme di Palermo.

Il Canada, comunque, non accolse Bonanno. Anzi lo arrestò e lo rispedì al mittente. L'ingresso nel gruppo Saputo saltò. Ma non del tutto. Un'indagine governativa Usa 15 anni dopo dimostrerà che Bonanno è stato socio di Saputo. Nel 1980 Lino Saputo voleva aprire un caseificio a due passi dalla Grande Mela, ma lo Stato di New York negò la licenza al termine di un'indagine condotta in collaborazione con la polizia dal consigliere del Dipartimento dell'Agricoltura Thomas Conway. 'L'espresso' ha letto il rapporto Conway che sembra tratto da una sceneggiatura di Francis Ford Coppola. Tutto inizia il 20 maggio 1964. Bonanno compra il 33 per cento di una delle tre società del gruppo Saputo, la Cremerie Stella. Stando a un verbale, che Saputo dice di non avere mai visto, i due soci si spartiscono così le cariche: Saputo è amministratore, Bonanno tesoriere. Passano due anni e il figlio di Bonanno, Salvatore, viene fermato a Montreal su un'auto intestata al genero del gran lattaio. Nel 1972 la Polizia trova nella valigetta di Saputo una strana contabilità dove sono segnati gli utili distribuiti a un misterioso azionista denominato con le iniziali: J. B. "È Joe Borsellino, mio cognato e socio", giura Saputo. Conway non gli crede: JB era Joseph Bonanno. Con appuntati pagamenti per 44 mila e 766 dollari (all'epoca un tesoretto) riferiti a JB.

Le indagini canadesi del 1972 si concludono con un nulla di fatto e Saputo può continuare la sua ascesa. E anche le sue relazioni pericolose. Lo scopre l'Fbi monitorando la spazzatura di Bonanno dal 1975 al 1979. Il Padrino è anziano e annota gli impegni con meticolosa precisione. Poi a sera getta tutto nel cassonetto a beneficio degli agenti travestiti da netturbini. Scrive Conway: "Ben 206 note confermano le relazioni continuate tra Bonanno, Lino Saputo e il cognato Joe Borsellino (...) biglietti di auguri, richieste di Bonanno ai Saputo sui loro business, preoccupazioni per le inchieste e persino trasferimenti di fondi da Saputo a Bonanno". In un foglio il Padrino scrive: "Lino is a person of mine (.) is a god boy". Nel 1975 il boss organizza un incontro a Long Beach e annota di voler pagare la suite e il ristorante per Lino e la moglie. Secondo il rapporto Conway, nel 1977 Bonanno dà istruzioni a Saputo e Borsellino per consegnare 51 mila dollari alla nipote del boss. Nella sua rubrica ci sono tutti i numeri di Lino e e nelle sue note si trovano 27 riferimenti di questo tenore: "Parlare con Lino per sapere se è possibile portare i soldi in California prima di Natale". Oppure: "Peppe e Lino per il liquido". Peppe, secondo l'Fbi, è Giuseppe (Joe) Borsellino, il cognato delegato a tenere i rapporti con il boss: oggi si occupa del ramo costruzioni dell'impero familiare ed è un personaggio chiave a Montreal.

Nato a Cattolica Eraclea, come Vito Rizzuto, mantiene stretti rapporti con il paese di origine. Per esempio, quando il sindaco di Cattolica, Nino Aquilino, nel 2004 vola a Montreal per l'Immacolata Concezione, prima incontra il boss Nick Rizzuto. Poi va allo Sheraton per la festa e si fa fotografare con il cognato di Saputo, Joe Borsellino. Joe e Lino comunque si sono presi una bella rivincita otto anni dopo il gran rifiuto di New York. Nel 1988 il gruppo compra una delle maggiori aziende di latticini degli Stati Uniti e nessuno lo ferma. Ormai è un imprenditore affermato. Fino al 1998 Lino Saputo siede nel board della National Bank del Canada e oggi controlla un impero presente in tre continenti con 9 mila dipendenti e 45 stabilimenti: dall'Australia alla Germania, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Nel suo consiglio di amministrazione c'è l'ex premier del Québec. È senza dubbio l'italiano più potente del Canada, il 317esimo uomo più ricco del mondo, davanti a Luciano Benetton. Lui non rinnega i suoi concittadini, anche quelli chiacchierati. Nel 1992 partecipa al funerale del boss Joe Lo Presti, ucciso da una pistolettata. Tra la folla gli agenti intravedono anche il boss di Montreal, Vito Rizzuto. Oggi i loro nomi sono di nuovo l'uno accanto all'altro in un rapporto di Polizia. Ma stavolta in ballo ci sono 600 milioni di dollari

(15 novembre 2007)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 16, 2007, 12:24:11 pm »

Made in Italy è cosa nostra

di Marco Lillo e Antonio Nicaso


Agganci politici tra Roma e gli Usa. E tanti soldi.

Così l'imprenditore Mariano Turrisi cercava accrediti per riciclare 600 milioni.

Lo hanno arrestato per mafia 


C'è anche il senatore a vita Giulio Andreotti tra i contatti italiani vantati dall'imprenditore Mariano Turrisi, arrestato per mafia il 22 ottobre scorso. L'uomo che seguiva per conto del boss Vito Rizzuto un'operazione di riciclaggio da 600 milioni di dollari, raccontava spesso di avere ottenuto un incontro con il senatore a vita. Ma Turrisi faceva di tutto per ottenere un riconoscimento ufficiale del ruolo della sua società Made in Italy, spendendo soldi e nomi con grande facilità. Si era legato ai Savoia, diventando vicepresidente del loro movimento politico e pagando l'affitto della sede romana, perché erano un ottimo biglietto da visita. Assieme a Emanuele Filiberto era stato a New York in cerca di relazioni eccellenti. E proprio negli States si era fatto fotografare con il rabbino Ronald Greenwald, già consigliere dell'ex presidente Richard Nixon. Un personaggio influente sui due lati dell'Atlantico.

In Italia aveva puntato su Vincenzo Luciani: un ex democristiano che inizialmente ha una piccola quota di Made in Italy. E soprattutto amico dell'allora presidente della Commissione esteri Gustavo Selva. Turrisi fa pure circolare una lettera di raccomandazione firmata dal politico di An nella quale si cita un amico comune: il senatore americano Arlen Specter. Specter, leader repubblicano della Pennsylvania, è un figura di peso anche nelle questioni giudiziarie di Washington. A 'L'espresso' risulta che effettivamente Selva e Specter hanno conosciuto Turrisi. Ma la lettera sarebbe un falso. Turrisi infatti è il classico personaggio che si muove sempre al confine tra il riciclatore e il truffatore. Tenta di accreditare suoi rapporti con il viceministro al Commercio estero Adolfo Urso, che sei mesi fa scrive una lettera per diffidarlo. Vuole assoldare come consulente l'ex sottosegretario dell'ultimo governo Andreotti, Nino Cristofori, ma anche con lui le cose finiscono male.

Politica e riciclaggio erano due facce della stessa medaglia. Il manager di Piedimonte Etneo aveva bisogno di un riconoscimento ufficiale alla sua società del ruolo di tutela dalla contraffazione del Made in Italy. Il suo piano? Made in Italy doveva diventare concessionaria dello Stato per il marchio perché solo così avrebbe potuto giustificare l'esborso di 600 milioni per quella scatola vuota. Il Nucleo polizia tributaria di Milano guidato dal colonnello Virgilio Pomponi ha ricostruito la storia dal 2002, quando Mariano chiama il boss Vito Rizzuto e lo saluta così: "Baciamo le mani".

Nel 2003 Vito dice a un collaboratore: "Mariano è un mio socio, abbiamo fatto delle cose insieme". Nel settembre 2005, dopo l'arresto di don Vito, Turrisi vola a Montreal per vedere il figlio del boss, Nick junior, e il cugino, Frank Campoli. Un mese dopo i due sono intercettati mentre parlano dell'operazione Made in Italy ed esprimono dubbi sulle capacità di Turrisi nel portarla a termine. Ma Turrisi ce la mette tutta. Dal suo ufficio di fronte a Palazzo Chigi contatta finanzieri libanesi e consulenti Usa di primo livello. Sostiene di avere un filo con la Metro Goldwin Mayer per fare un parco divertimenti ispirato all'Italia a Las Vegas, vive tra Cannes e l'hotel d'Inghilterra. Lo finanzia il socio Rodolfo Fedi fiducioso nell'arrivo della grande somma. Turrisi gli dice: "Il re del formaggio (Saputo, ndr) ci darà 600 perché lui non deve sapere, ha detto la famiglia, prenderà la metà".

Anche la società che avrebbe concluso l'acquisto è creata e diretta da Turrisi, ma si chiama Saputo Enterprises Corporation. Non risultano collegamenti azionari con il gruppo di Lino Saputo. E, in tutti gli atti dell'indagine, non c'è mai una lettera o una telefonata di Turrisi a Saputo, che infatti non è stato iscritto nel registro degli indagati. Ma gli inquirenti italiani vogliono ricostruire fino in fondo la liason tra Italia e Canada. E andranno a sentire in Svizzera i banchieri dell'Ubs che avrebbero gestito l'operazione per chiarirne tutti gli aspetti

(15 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 28, 2008, 11:32:52 pm »

CRONACA

Reggio Calabria, 18 in manette. Legami con il clan Morabito

Le accuse: "Associazione per delinquere di tipo mafioso"

Le mani della 'ndrangheta sulla Sanità arrestato anche consigliere regionale

Tra le persone coinvolte, Domenica Crea, implicato nel caso Fortugno subentrò nel seggio del politico della Margherita ucciso nell'ottobre 2005


REGGIO CALABRIA - Un patto tra 'ndrangheta e politica, per il controllo del settore della sanità in Calabria. E' quel che si delinea nelle oltre mille pagine dell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Reggio Calabria su richiesta della Dda nei confronti di 18 persone accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, abuso d'ufficio, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, truffa, omissione di soccorso, soppressione e distruzione di atti veri.

Gli elementi raccolti, scrive il gip, "rendono palese la circostanza che una serie di organizzazioni criminali radicate sulla fascia ionica reggina (...) abbiano coalizzato le loro forze dando luogo, attraverso soggetti a essi legati da stretto rapporto fiduciario, a un'unitaria struttura di sostegno alla candidatura di Domenico Crea", considerato il più adatto "a garantire al meglio gli interessi delle cosche e assicurare loro i vantaggi disparati conseguenti all'uso distorto di un'importante funzione pubblica ai diversi livelli in cui ciò può verificarsi".

Per questo 18 persone, fra le quali il consigliere regionale Domenico Crea, sono state raggiunte dal provvedimento di custodia cautelare, nell'ambito di un'operazione denominata "Onorata Sanità", che rientra in un filone d'inchiesta sull'omicidio di Francesco Fortugno, il vicepresidente del consiglio regionale della Calabria ucciso a Locri nell'ottobre del 2005. I provvedimenti sono stati eseguiti all'alba di oggi dai carabinieri del comando provinciale reggino. Le persone indagate sono complessivamente quarantaquattro.

Fra gli arrestati figurano elementi organici alla cosca del boss Giuseppe "Tiradritto" Morabito. Il provvedimento ha colpito anche Alessandro e Giuseppe Marcianò, padre e figlio, due degli imputati - come mandanti - per l'uccisione di Fortugno. Tra le persone colpite dalle ordinanze di custodia cautelare in carcere, anche Antonio Crea, 29 anni, medico, figlio di Domenico. Il giovane professionista è direttore sanitario della clinica privata "Anya" di Melito Porto Salvo, che è stata posta sotto sequestro.

Tra i destinatari dei diciotto provvedimenti di custodia cautelare in carcere, c'è anche Giuseppe Pansera, medico, genero del boss Giuseppe Morabito, considerato uno dei capi dell'organizzazione criminale e arrestato negli anni scorsi dopo lunga latitanza. La Giunta regionale della Calabria ha disposto la sostituzione immediata di tutti i vertici dell'assessorato alla Salute, la costituzione di parte civile al processo e un'inchiesta interna, oltre alla sospensione dei dirigenti colpiti da misure cautelari.

Per il presidente della Commissione d'inchiesta sullo stato della sanità in Calabria, Achille Serra, "si sono evidenziati rapporti tra quella parte della sanità malata e la malavita organizzata". Un'indagine, secondo il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Francesco Forgione, "che mette a nudo un vero e proprio sistema di interessi e di affari costruito sullo scempio della sanità pubblica calabrese".

(28 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 29, 2008, 10:38:11 pm »

Gli arresti in Calabria (29 gennaio 2008)

Mafia, politica e affari, quand'è che Loiero si deciderà ad andarsene?

di Nuccio Iovene*


Diciotto arrestati, tra cui il consigliere regionale prima UDC, poi Margherita e ora della nuova DC di Rotondi, Domenico Crea, subentrato in Consiglio a seguito della morte dell'On. Fortugno, e vari manager e dirigenti della Sanità calabrese, confermati solo poche settimane fa nei loro ruoli dal Presidente della Regione Loiero, a cui si aggiungono altri 29 indagati nell'ambito della medesima inchiesta relativa al rapporto mafia-politica in particolare nella sanità della provincia di Reggio Calabria.

E' l'ultima tappa, almeno per il momento, di una vera e propria via crucis che investe il sistema sanitario regionale mettendo in evidenza un sistema di potere politico-criminale ai danni della salute dei cittadini calabresi, basato sulla rapina delle risorse regionali e sulla gestione di appalti, clientele e carriere al fine di un controllo totale ed asfissiante di questo come di altri aspetti della vita della regione.
Lo stato della sanità in Calabria è drammaticamente uno dei più evidenti punti di crisi dell’attuale giunta.  C'è un ASL, quella di Locri, commissariata dopo l'omicidio Fortugno per infiltrazione mafiosa; c'è la più alta emigrazione sanitaria che continua; si sono susseguiti numerosi e drammatici casi di malasanità in diverse aree della regione, dalle ispezioni dei NAS con conseguente chiusura di ospedali e reparti mentre irresponsabilmente si dichiarava che tutto andava per il meglio fino alle tragiche vicende dell'ospedale Jazzolino di Vibo Valentia; c'è una protesta diffusa tra gli operatori, nei sindacati, tra i cittadini sullo stato in cui continua a versare la sanità in Calabria; si sono ridotte le ASL in una notte senza che l'assessore al ramo dell'epoca, a suo dire, fosse informato né d’accordo; i conti consuntivi degli anni passati di alcune ASL non sarebbero disponibili, mettendo seriamente sotto ipoteca il deficit sanitario della regione ed in discussione l'affidabilità dei conti; all'indomani delle elezioni regionali si nomina in una delle principali ASL della regione un manager voluto dal centrodestra e cacciato dal centrosinistra nella regione Lazio, anche per le inchieste giudiziarie che lo avevano investito, e lo si tiene al suo posto fino a che non viene arrestato; c'è il giallo degli assistiti fantasma che prima ci sono, poi non ci sono , poi sono di meno, lasciando tutti nella confusione più totale; c'è l'incarico dato a Cognetti proprio nel momento in cui era più acuto il suo scontro con il Ministro della Sanità; c’è un piano sanitario regionale che da mesi è oggetto di scontro, basato solo su logiche di campanile e di potere, e sul quale la sinistra presente in Consiglio regionale ha avanzato fortissime critiche.  La dichiarazione dello stato di emergenza socio-sanitaria nella regione Calabria fatta dal Consiglio dei Ministri così come la commissione ministeriale presieduta dall’ex prefetto di Roma Achille Serra, per verificare lo stato complessivo dei servizi sanitari calabresi, sono gli ulteriori recenti tasselli di un quadro drammatico e desolante.

Tutto questo ha ovviamente radici antiche e solide. Ma non può sfuggire a nessuno che dopo circa tre anni di giunta regionale Loiero, assessore regionale alla Sanità Doris Lo Moro fino a poche settimane fa, la situazione non solo non ha fatto un solo passo avanti ma il cumulo di disastri è tale da richiedere decisioni conseguenti.

Cosa altro deve succedere, mi chiedo e si chiede l'opinione pubblica calabrese e di tutta Italia, perché si decida di rompere questo intreccio perverso operando scelte chiare e trasparenti.

Loiero, il Mastella calabrese, dovrebbe prendere atto del fallimento della sua Giunta e dell'attività del Consiglio Regionale su questo come su altri fondamentali terreni e restituire la parola ai cittadini. Per la Calabria se non si spezzano trasversalismo e consociativismo, l'intreccio tra mafia politica ed affari, se non si mette fine al trasformismo infinito di settori ampi del ceto politico regionale non può esserci un futuro.

Serve discontinuità, coerenza e rigore ed è per questo che la sinistra, unitariamente, deve battersi.

Se non lo fa uccide la speranza di un possibile cambiamento e dichiara la propria omologazione. 

Noi di Sinistra Democratica non possiamo consentirlo.

*Senatore. Coordinatore regionale SDSE

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 05, 2008, 06:29:09 pm »

Mafia, sangue e mercato

Nicola Tranfaglia


La mafia continua a sorprendere. I casi recenti della condanna dell’ex presidente della Regione Sicilia Cuffaro per favoreggiamento di alcuni mafiosi e l’arresto del consigliere regionale Crea dell’Udc in Calabria sono significativi. Da questo punto di vista una previsione sbagliata è stata quella di molti tra i più autorevoli studiosi della mafia in Italia negli anni scorsi.

Una previsione che, pure, poteva trarre fondamento da quello che è accaduto in vari paesi occidentali. Si pensava cioè che alla fase storica caratterizzata dalle guerre sanguinose degli ultimi decenni, che hanno prodotto migliaia di vittime interne alle cosche e l’uccisione sistematica di uomini dello Stato seguisse una nuova fase che avrebbe prodotto la finanziarizzazione di Cosa nostra, la sua trasformazione in holding finanziarie intente ad operazioni, più o meno lecite, di vendite e acquisti di azioni e di immobili, a livello nazionale e internazionale.

Questo è in parte avvenuto anche in Italia, come dimostra la confisca in atto di patrimoni sempre più cospicui di capimafia condannati in via definitiva e la nascita di cooperative che si occupano, su mandato dei nostri tribunali e della commissione Antimafia, della gestione di beni e aziende appartenuti ai mafiosi.

Ma quella previsione poteva condurre a credere che le ragioni sociali centrali di Cosa Nostra si esaurissero o che perdesse importanza la centralità della violenza mafiosa nell’acquisizione degli appalti pubblici, di imprese che per un certo tempo avevano operato lecitamente nell’economia nazionale, infine la punizione dei politici o dei burocrati che si oppongono all’azione di Cosa Nostra nelle istituzioni, nella politica come nell’economia.

Questo, purtroppo, non è avvenuto. La mafia si è finanziarizzata grazie all’acquisizione di capitali sempre crescenti e, nello stesso tempo, ha mantenuto e nutrito il suo braccio violento e militare che entra in funzione tutte le volte che singoli o gruppi sociali si oppongono alla sua azione parassitaria e alla sua penetrazione nei gangli delle istituzioni.

Una conferma clamorosa a questa drammatica realtà ci è data dalla cronaca quotidiana ma la recentissima pubblicazione della relazione del procuratore nazionale Antimafia aggiunge al quadro complessivo alcune osservazioni che spiegano meglio la situazione attuale.

«Le indagini condotte dalla Direzione Distrettuale Antimafia nei confronti delle famiglie palermitane - scrive Grasso - hanno evidenziato l’ascesa a posizioni apicali di mafiosi che rivestono un ruolo significativo nella società civile e nelle professioni. I numerosi approfondimenti realizzati sui nessi tra l’organizzazione e settori economica-amministrativa nel distretto di Palermo hanno reso palese un quadro di relazioni criminali e di interdipendenze funzionali che ha coinvolto il vertice della Regine autonoma siciliana.

Il progetto di ricostruzione di Cosa Nostra dopo la cattura di Provenzano, proseguono i giudici concludendo la relazione su Palermo, «è tuttora perseguito con il rafforzamento del radicamento nel territorio, mediante un capillare controllo delle attività economiche legali (appalti, attività economiche oggetto di estorsioni) e illegali (traffico di stupefacenti, grandi rapine)».

Le indagini in corso, osserva la relazione di Grasso, fanno pensare che «è in atto una fase di transizione nell’esistenza della mafia siciliana verso una forma di associazione criminale governata da soggetti acculturati e propensa a una politica di mediazione e di infiltrazione istituzionale economica e finanziarizzazione e, al tempo stesso, proiettata ad assumere la fisionomia tipica dell’associazione segreta».

Ci sono, se si legge con attenzione questo ultimo documento cui seguirà nei prossimi giorni o settimane la relazione della commissione parlamentare Antimafia che ha lavorato in questo biennio, elementi allarmanti sulla situazione attuale.

In primo luogo, non si può dire che Cosa Nostra non abbia reagito efficacemente all’ultima ondata di azione repressiva da parte dello Stato giacchè dalla relazione di Grasso risulta con chiarezza che la sua presenza nella società civile e delle professioni è, a quanto pare, più massiccia e capillare che in passato. Ora la guidano soggetti acculturati che conoscono meglio lo Stato e le istituzioni locali, quindi possono meglio agire all’interno con un’azione di mediazione e d’intervento come quello disegnato nel documento.

Infine la segretezza sempre maggiore non favorisce certo le indagini della polizia e della magistratura per ostacolare una simile, inquietante penetrazione.

Se non ci sarà, di qui ai prossimi mesi, un’azione più forte e decisa da parte del governo, come dai ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Economia, attenti a intervenire sul piano economico, sociale e culturale per opporsi alla nuova strategia della mafia, Cosa Nostra rischia di diventare protagonista tra i soggetti operanti nel nostro Paese. Con le conseguenze che non sto qui ad illustrare.

Pubblicato il: 05.02.08
Modificato il: 05.02.08 alle ore 12.33   
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