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Autore Discussione: Francesco GIAVAZZI.  (Letto 66009 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:50:42 pm »

IL COMMENTO
Quella trappola nascosta nel Jobs act
Di Francesco Giavazzi

La riforma del mercato del lavoro arriva questa settimana al Senato per l’approvazione definitiva. Il dibattito si concentrerà ancora una volta sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè sulle norme che consentono ai giudici di imporre la riassunzione di un lavoratore licenziato. Ma non è più questo il problema centrale. Ciò di cui si dovrebbe discutere - e che invece è stato messo in sordina - è il fatto che la riforma si applicherà solo ai nuovi assunti. P er i lavoratori che mantengono un contratto a tempo indeterminato continuerà a valere il vecchio articolo 18. Questo rischia di generare una nuova divisione del mercato del lavoro, con effetti che potrebbero cancellare i benefici della riforma.

La legge delega approvata dalla Camera stabilisce che i decreti delegati (che Matteo Renzi ha già pronti) delimitino chiaramente le possibilità di reintegro nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari, l’aspetto più controverso della legge. Nella sostanza, tranne in casi estremi, i licenziamenti per motivi disciplinari non saranno appellabili, così come quelli adottati per motivi economici. D’ora in avanti, cioè per i nuovi contratti, l’articolo 18 viene in sostanza abolito.
Il fatto che l’abolizione riguardi solo i nuovi contratti crea due problemi.
Innanzitutto, come si comporteranno i giudici di fronte a licenziamenti decisi da un datore di lavoro che vuole semplicemente sostituire un dipendente coperto dall’articolo 18 con un nuovo contratto privo di quella protezione?

Ma il rischio maggiore è il blocco della mobilità. Come ha osservato Marco Leonardi, uno degli studiosi più attenti del nostro mercato del lavoro, è improbabile che un lavoratore oggi tutelato dall’articolo 18 decida di spostarsi, firmando un nuovo contratto che invece non lo prevede. Alcuni lo faranno perché non temono il licenziamento, ma altrettanti non ne vorranno sapere.
In Italia ci sono 1,5 milioni di cambi di contratto volontari all’anno su un totale di 14,5 milioni di contratti a tempo indeterminato. Ciò significa che ogni anno un lavoratore su 10 lascia volontariamente il posto di lavoro per spostarsi in un’altra azienda. Anche considerando che i lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti (ai quali si applica l’articolo 18) sono meno di un terzo del totale, con questa legge si rischia di frenare il turnover. E il turnover volontario dei lavoratori da un posto all’altro è l’olio dell’economia italiana dove il licenziamento individuale è relativamente raro e gran parte della riallocazione si fa volontariamente.

Il problema è tanto più grave oggi poiché la nostra possibilità di riguadagnare la competitività perduta (circa il 30% rispetto alla Germania negli ultimi 15 anni) passa non tanto da una riduzione dei salari, bensì dalla riallocazione della produzione da aziende scarsamente produttive (tipicamente imprese di servizi protette dalla concorrenza) verso imprese più efficienti, tipicamente quelle esposte alla concorrenza internazionale. Il danno di una norma che renderebbe questa riallocazione più difficile è gravissimo.

Il Senato ha ancora la possibilità di correggere questo errore. Nel testo originale proposto dal governo le nuove regole si applicavano a tutti, non solo ai nuovo assunti. Poi Renzi ha ceduto alle pressioni interne del suo partito. Se il Senato cambiasse questo comma della legge si renderebbe necessario un nuovo voto alla Camera, e tempi un po’ più lunghi. Un piccolo prezzo rispetto al danno che l’attuale formulazione comporterebbe. Un’alternativa consisterebbe nell’usare la leva fiscale per favorire la mobilità volontaria dai vecchi ai nuovi contratti. Ma sarebbe una soluzione imperfetta e di dubbia efficacia. Insomma, pensiamoci bene prima di approvare, per la smania di fare in fretta, regole che potrebbero addirittura peggiorare il nostro mercato del lavoro.

30 novembre 2014 | 09:39
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_novembre_30/quella-trappola-nascosta-jobs-act-2f654c4c-786a-11e4-9707-4e704182e518.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Gennaio 22, 2015, 05:40:13 pm »

Le primarie per finta che Venezia non merita

Di Francesco Giavazzi

Le primarie del Partito democratico per il sindaco di Venezia sono la dimostrazione che in Italia il consenso politico continua a poter essere acquistato. Con la differenza che ora comprarlo costa non più di qualche spicciolo: quanto necessario per organizzare poche migliaia di cittadini e spedirli a votare alle primarie del Pd.

Decapitate dall’inchiesta sul Mose, le imprese che negli scorsi vent’anni, grazie a leggi ad hoc, hanno sottratto ai contribuenti 2,3 miliardi di euro (cifra documentata in Corruzione a norma di legge, Rizzoli 2015) sono rapidamente risorte e stanno per vincere di nuovo.

La politica sembra non aver capito nulla. O meglio: io spero che non abbia capito nulla perché la drammatica alternativa è che ancora una volta essa sia connivente, come lo fu in passato quando approvò le leggi che hanno consentito che il Mose si trasformasse in un «furto legale» ai danni dei contribuenti.

Mentre Matteo Renzi commissariava i lavori in Laguna, le imprese che da quei lavori hanno lucrato i 2,3 miliardi si sono già spostate su un’altra partita: il grande porto off-shore che vogliono costruire con denaro pubblico in mezzo all’Adriatico. Costo previsto, poco più di 2 miliardi di euro. Per realizzare quell’inutile ma ricchissimo progetto serve una politica debole e un sindaco che non si opponga agli interessi delle imprese in campo. Un sindaco che nei fatti non impedisca il sacco di Venezia. Abilmente gestite, le primarie di Venezia ci daranno quel sindaco. Un giornalista veneziano, Nicola Pellicani, persona certamente perbene, ma che non si è mai espresso pubblicamente contro le imprese del malaffare e del quale non si conosce il progetto per la città. Pellicani è fortemente sostenuto da Massimo Cacciari che ha governato Venezia per 15 dei vent’anni in cui il Consorzio Venezia Nuova, gestendo i lavori del Mose, ha saccheggiato la città. Poiché nelle primarie di coalizione Pellicani dovrà sfidare un avversario forte, il senatore del Pd Felice Casson, avrà bisogno di molti appoggi: quelli che le imprese del Mose certamente gli offriranno consentendogli di battere Casson. Ma procediamo con ordine. La strategia con cui alcune imprese riescono a trasformare le opere pubbliche in rendite straordinarie è sempre la stessa. Prima si rinviano le decisioni e si lascia che monti un problema drammatico. Le grandi navi che mettono a rischio la basilica di San Marco, o l’Expo, i cui lavori non cominciano nel 2008, quando fu scelta Milano, ma 5 anni dopo, quando ne mancano meno di 3 all’apertura della manifestazione. Problemi noti da anni, ma lasciati macerare, così che, di fronte all’emergenza, la politica si trovi costretta a decidere letteralmente in poche ore.

A quel punto le sole opzioni concretamente disponibili sono quelle abilmente preparate da alcuni. Ma per poterle realizzare c’è bisogno di modificare qualche norma. E la politica, presa per la gola, non ha alternative. Così si creano le rendite straordinarie di cui si appropriano legalmente i costruttori delle grandi opere. (Poi ci sono anche gli stupidi che rubano, e che, come si è visto nella vicenda del Mose, sono rapidamente scaricati da chi è impegnato nel gioco vero). Così è accaduto che le certificazioni antimafia siano state sospese per gli appalti dell’Expo perché bisognava far presto (poi fortunatamente è arrivata l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone a riportare la legge). Così è accaduto nella vicenda del Mose: dopo l’alluvione del 1966 si lasciano trascorrere 40 anni e infine, nel 2006, la politica si trova a dover decidere in poche ore. Sul tavolo del governo di Romano Prodi c’è il progetto del Consorzio Venezia Nuova, preparato da anni e corredato dalle valutazioni di una messe di esperti internazionali, tutti scelti dal Consorzio. Un progetto che nessuno ha mai discusso seriamente. L’alternativa sono le soluzioni radicalmente alternative al Mose portate dal sindaco Cacciari. Che fa Prodi? Zittisce il ministro dell’ambiente che strillava ed agitava il giudizio negativo della Commissione di valutazione sull’impatto ambientale del Mose e dà il via libera al progetto del Consorzio.

Così sta accadendo per il porto off-shore che si vuol costruire nel mezzo dell’Adriatico. La tecnica in questo caso è sfruttare strategicamente il clamore internazionale prodotto dalle foto delle grandi navi che transitano davanti a San Marco. Il decreto Clini-Passera che sospendeva quei passaggi fu approvato dal governo Monti due anni fa. Poi fu sospeso, perché ci fosse il tempo di studiare soluzioni alternative. Poteva essere un’occasione per riflettere sulla riorganizzazione dei porti dell’Alto Adriatico, magari concentrando le navi commerciali a Trieste e spostando le navi da crociera a Marghera, dove potrebbero arrivare già domani usando il canale percorso dalle petroliere Ma non a caso per due anni non si fa nulla. Intanto la pressione internazionale cresce: sul tavolo c’è una sola soluzione, proposta dal presidente del porto di Venezia, Paolo Costa. Richiede lo scavo di un nuovo canale che porti le navi in città aggirando il bacino di San Marco. È palese che questa è solo una pezza tappa-buchi: navi sempre più grandi arriveranno comunque nel centro della città storica, una situazione alla lunga insostenibile. Ma è proprio questo quel che vogliono Costa e i costruttori. Creare una situazione insostenibile cosicché si sia «costretti» a decidere la costruzione del porto nel mezzo dell’Adriatico, un altro ricco lavoro decennale per le imprese del Mose. Dopo quanto accaduto, Venezia deve fermarsi e riflettere sul suo futuro: vuole diventare Disneyland, o rimanere una città? E in questo caso con quali attività produttive? Sono scelte che richiedono una politica forte e decisa, soprattutto nei confronti dei «padroni della città», interessati al suo futuro solo per le rendite che essa garantisce. È un vero peccato che la politica sembri non capirlo.

19 gennaio 2015 | 15:51
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_19/primarie-finta-che-venezia-non-merita-39f9489c-9fe9-11e4-84eb-449217828c75.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Febbraio 06, 2015, 11:01:44 am »

Francoforte e le richieste di Atene
Invisibili trame contro l’euro


Di Francesco Giavazzi

La simpatia che il nuovo governo greco suscita in molti, la condiscendenza verso un Paese le cui condizioni sociali sono da alcuni anni drammatiche rischiano di farci cadere in una trappola che potrebbe portare dritti alla fine dell’euro. La Banca centrale europea con la mossa di ieri sera, e cioè con la sospensione del finanziamento diretto delle banche greche, ha mostrato di essere ben conscia dei rischi che si stanno correndo. La vittoria elettorale di Alexis Tsipras e il suo annuncio che non intende rispettare gli impegni assunti dal precedente governo erano stati accolti in modo diverso in Germania. Da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, con grande preoccupazione. Dagli oppositori dell’euro con comprensione. Costoro vedono nel risultato delle elezioni greche un’occasione per criticare il modo in cui la Merkel ha finora gestito la crisi di Atene. Auspicano una revisione del programma di salvataggio concordato con la troika (Fondo monetario internazionale, Ue e Banca centrale europea) e ascoltano con attenzione le nuove proposte della Grecia per una ristrutturazione dei suoi debiti.

Critiche legittime e programmi ragionevoli, ma che nascondono un comportamento strategico. Il loro vero obiettivo è spingere la Bce ad accettare una ristrutturazione dei titoli di Atene che essa acquistò nel 2010 nell’ambito del Securities market programme, circa 31 miliardi di euro. Ma se lo facesse, la Banca violerebbe i trattati europei, che impediscono di finanziare debiti pubblici stampando moneta. I governi sono liberi di condonare anche tutto il debito greco, ma la Bce (che peraltro fino ad ora ha ottenuto un buon rendimento da quell’investimento) non lo può fare.

Non solo la Bce non può accettare perdite sui titoli pubblici che ha acquistato: non può neppure accettare, come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle banche, titoli di un Paese che ha abbandonato il programma concordato con la troika. Un programma che, come ha rivelato ieri sera la Bce, è già di fatto violato. La sospensione del finanziamento delle banche è un primo passo nella direzione che potrebbe portare alla uscita della Grecia dall’Unione monetaria. L’obiettivo strategico di chi oggi è così accondiscendente verso Tsipras era dare scacco matto alla Bce, costringendola a violare apertamente i trattati. Indirettamente, bloccare il cosiddetto Quantitative easing, il programma di acquisto di titoli pubblici che la Bce ha annunciato il 22 gennaio. Eliminare quindi il paracadute per l’euro e mettere a rischio l’intera architettura dell’Unione monetaria.

Ma da ieri i nemici dell’euro devono sapere che Francoforte rimane il presidio della moneta unica.

5 febbraio 2015 | 08:56
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_05/trame-contro-euro-bce-giavazzi-da193e50-acfe-11e4-8190-e92306347b1b.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Giugno 14, 2015, 03:47:00 pm »

L’EDITORIALE
Mercato e Stato, tre domande su Cassa depositi e prestiti

Di Francesco Giavazzi

Il governo si appresta a sostituire i vertici della Cassa depositi e prestiti, la più grande istituzione finanziaria italiana. Per avere un’idea delle dimensioni, si pensi che il suo bilancio è dieci volte quello di Unicredit e Intesa Sanpaolo messe insieme. Lo Stato ne possiede oltre l’80 per cento, il capitale restante è detenuto da alcune fondazioni: Cariplo, Fondazione San Paolo, e altre. Che il governo desideri «metterci la faccia» assumendosi la responsabilità della gestione (il presidente, Franco Bassanini, e l’amministratore delegato, Giovanni Gorno Tempini, furono nominati ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, anche se scadrebbero solo l’anno prossimo) è non solo naturale, ma anche opportuno. Infatti, diversamente da altre aziende, come l’Eni, di cui lo Stato detiene il 30%, ma investitori privati detengono il 70%, la Cassa non ha veri soci privati. È quindi opportuno che il ministero dell’Economia eserciti pienamente i suoi doveri di azionista quasi totalitario. Ma nel momento in cui lo fa deve spiegare con grande trasparenza quali sono gli obiettivi che intende perseguire con questa enorme quantità di denaro generata dai nostri risparmi.

Negli ultimi anni la Cassa ha operato con obiettivi diversi. Nel caso di Ilva, ad esempio, si è opposta ad intervenire nell’azienda pugliese. H a ritenuto che sarebbe stato preferibile che lo Stato accettasse l’offerta di Mittal, il grande operatore siderurgico indiano, interessato ad acquisire il laminatoio di Taranto. Una scelta «di mercato» che non fece piacere al governo Renzi. In quella, come in altre vicende simili, il fatto che lo statuto della Cassa le vieti di investire in aziende in perdita ha consentito agli amministratori di opporsi a estemporanee sollecitazioni della politica che chiedevano interventi a prescindere dalla redditività economica.
Contemporaneamente la gestione di Bassanini e Gorno Tempini ha fatto anche investimenti discutibili. Ad esempio entrando (seppur non direttamente ma attraverso il suo Fondo strategico, del quale però la Cassa controlla oltre i due terzi del capitale) nella società Rocco Forte Hotels, con la scusa che gli alberghi sono un «settore strategico»; nella Cremonini, con la scusa che la filiera della carne è anch’essa «strategica» per il settore agroalimentare; nella Trevi, un’azienda di ingegneria; nella Sia, una società di servizi bancari, e così via. Investimenti dei quali si fa fatica a comprendere la strategia, a meno che essa non consista nel fare le medesime scelte che farebbe un investitore privato ma con l’immenso vantaggio di una raccolta che non costa quasi nulla perché garantita dallo Stato e di un azionista, sempre lo Stato, che non esige rendimenti particolarmente elevati.

Tre sono le domande cui il governo dovrebbe rispondere prima di metter mano al dossier Cassa.
Prima domanda: perché l’utilizzo di questa straordinaria quantità di risparmio delle famiglie deve essere decisa dalla politica, anziché da investitori privati? Quali obiettivi intende perseguire? Il governo è disposto ad impegnarsi a far sì che la Cassa intervenga solo là dove si verificano dei chiari «fallimenti del mercato», il che evidentemente esclude l’investimento in alberghi o in società di ingegneria? Impegnerà la Cassa a non detenere le azioni delle aziende acquisite per più di tre anni, dando così credibilità all’impegno che l’intervento pubblico, là dove giustificato da un fallimento del mercato, sia propedeutico ad una successiva privatizzazione? Ad esempio, la Cassa vuole acquisire aziende pubbliche locali (già partecipa agli aeroporti di Napoli, Torino e Milano, ad un termovalorizzatore a Torino, eccetera) in modo da favorirne l’aggregazione e poi la privatizzazione. Ma senza un vincolo su quanto a lungo ne potrà detenere le azioni, da queste aziende la Cassa non uscirà mai con la scusa che sono uno strumento per fare «politica industriale». Insomma, il rischio è che la disponibilità di uno strumento di intervento tanto ricco dia luogo ad una continua ricerca di ambiti nei quali utilizzarlo. È come dare 100 euro ad un ragazzino chiedendogli di usarli solo per le emergenze: quanto passerà prima che li usi per cambiare il suo smartphone?
Altrettanto importante è impedire che la Cassa pompi ricavi esagerati dalle sue partecipazioni in alcuni monopoli naturali, come le reti elettriche e del gas, a scapito dei consumatori. Il che significa impedire che la Cassa sia, come è oggi, un’interfaccia opaca fra mercato e regolamentazione con conflitti di interesse ubiqui. Si pensi ad esempio al caso del risparmio postale: quando la Cassa fissa le commissioni per la raccolta, di fatto determina il risultato economico delle Poste, a scapito del consumatore.

La seconda domanda riguarda lo statuto della Cassa e il ruolo delle fondazioni. La loro definizione di azionisti «privati» è evidentemente una foglia di fico: le fondazione bancarie tutto sono tranne che azionisti che operano con criteri di mercato. Ciononostante esse oggi svolgono, come azionisti della Cassa, due ruoli importanti. Innanzitutto la loro presenza, fosse anche con una sola azione, evita che il bilancio della Cassa sia consolidato nei conti dello Stato. Se ciò accadesse il governo non potrebbe più «privatizzare» aziende pubbliche, come ha fatto con Eni ed Enel, semplicemente spostandone il possesso dal ministero dell’Economia alla Cassa. In secondo luogo, senza il consenso delle fondazioni è impossibile cambiare lo statuto della Cassa. Questo è un problema perché, come già accennato, lo statuto attuale non consente di intervenire in aziende in perdita. Se quindi il governo volesse usare la Cassa anche per risolvere crisi industriali - come ha dimostrato di voler fare nel caso dell’Ilva - dovrebbe cambiarne lo statuto. Per farlo, o estromette le fondazioni o le convince obtorto collo ad accettare una modifica dello statuto. Che intende fare?

La terza domanda è più generale. Vorrei che il presidente del Consiglio, prima di nominare il nuovo vertice della Cassa, spiegasse che cosa pensa del rapporto fra Stato e mercato. Ad esempio, si sente spesso dire che senza sussidi pubblici non ci può essere innovazione. A questo proposito alcuni citano il caso dell’iPhone che a loro parere non esisterebbe se 70 anni fa il Pentagono non avesse investito nella tecnologia da cui poi è nata la Rete. Innanzitutto qualunque cosa abbia fatto il Pentagono 70 anni fa, senza l’intuizione di Steve Jobs certo non avremmo l’iPhone; inoltre vi è un’enorme differenza fra mettere in gara imprese private per una fornitura militare o assegnarla a Finmeccanica, un’azienda di cui lo Stato è il maggior azionista. Che pensa Matteo Renzi di queste discussioni?
Pare che il prossimo investimento della Cassa sarà nella banda larga, con la giustificazione che Telecom non la vuole fare - se non addirittura un ingresso diretto nell’azionariato della società (cioè una ri-nazionalizzazione) per propiziare una decisione in quel senso. Telecom ritiene che un investimento nella banda larga non produrrebbe un sufficiente rendimento economico, e quindi distruggerebbe valore per gli azionisti. Può darsi che si tratti di un caso evidente di fallimento del mercato che giustifica l’intervento pubblico. Ma ne siamo proprio sicuri?
Qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili - un caso, si disse, di fallimento del mercato - il governo decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Furono così concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: pagati dalle famiglie, nelle loro bollette elettriche, a poche migliaia di fortunati. E non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i pannelli sussidiati dallo Stato rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.

14 giugno 2015 | 09:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_14/mercato-stato-tre-domande-cassa-depositi-prestiti-ac87039a-125d-11e5-85f1-7dd30a4921d8.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:50:27 pm »

Le buone regole del mercato
Lo Stato investitore che può far male alla nostra economia
I nuovi vertici della Cdp devono guardarsi dalla tentazione di sostituirsi ai privati. Serve una buona regolamentazione dei mercati, non ci serve un’altra Iri

Di Francesco Giavazzi

Il governo ha giustamente deciso di esercitare i propri diritti di azionista quasi totalitario della Cassa depositi e prestiti e sostituirne i vertici con nuovi amministratori. Bene, ora però deve spiegare cosa vuole che essi facciano, cioè dare loro un mandato preciso. Oggi la Cassa può investire solo in imprese sane, e questo le ha consentito di opporsi alle sollecitazioni della politica che chiedeva interventi a prescindere dalla redditività economica. Ma non si capisce a cosa serva un’istituzione pubblica che può fare solo le stesse cose che farebbe un investitore privato. Se questa è la logica - e sono conscio del rischio di consentire che la Cassa finanzi aziende in difficoltà - meglio privatizzarla e usare quanto si ricava per abbattere il debito pubblico.

L’intervento diretto dello Stato nell’attività economica è giustificato solo in presenza di «fallimenti del mercato», cioè situazioni in cui il mercato, lasciato a se stesso, non riesce ad utilizzare le risorse in modo efficiente. Quindi via subito da alberghi, società di ingegneria, consorzi della carne, attività nelle quali la Cassa oggi investe attraverso un fondo «strategico». Via anche dalle start-up. Il compito dello Stato non è finanziare nuove idee. Per questo esistono investitori abbastanza bravi, almeno osservando quanto accade nella Silicon Valley. Compito dello Stato è creare le condizioni per cui costoro investano di più in Italia, ad esempio con norme che facilitino l’innovazione anziché proteggere le rendite che sono messe in pericolo da nuovi servizi e nuovi prodotti (vedi il caso Uber). A lcune innovazioni nascono dalla ricerca a scopi militari, ad esempio le nuove batterie per i telefoni cellulari, nate dall’esigenza di dare più autonomia ai soldati americani che combattevano nel deserto. Ma questa ricerca richiede un’adeguata spesa militare, non la proprietà pubblica delle imprese che producono armamenti o batterie. E la spesa militare va assegnata alle imprese migliori: se la si usa per proteggere campioni nazionali è più probabile che finisca in corruzione anziché in buona ricerca.

La Cassa ha investimenti importanti in alcune reti: elettriche, del gas, forse fra poco anche nella banda larga. Perché queste reti devono essere pubbliche? Di che cosa abbiamo paura? Che il Fondo sovrano di Singapore, che sarebbe interessato ad acquistarle, smonti i tralicci elettrici e li sposti in Asia? Lo Stato ha un compito diverso. Creare autorità di regolamentazione forti e indipendenti affinché quelle reti non si trasformino in rendite monopolistiche per chi le possiede. E far sì che le regole siano certe. Il pasticcio delle autostrade, dove lo Stato modifica le regole ex-post danneggiando i concessionari, e poi li compensa allungando le loro concessioni senza metterle a gara, è un esempio di regolamentazione incerta che crea rendite monopolistiche. Insomma, i fallimenti del mercato, laddove esistono, si correggono con buona regolamentazione, non con la proprietà pubblica.

Allora che fare della Cassa? Alcuni propongono di utilizzarla per risolvere il problema dei crediti che le banche non riescono a fasi rimborsare, almeno non per intero. In Italia sono circa 350 miliardi di euro che costituiscono un ostacolo alla concessione di nuovi prestiti. Ma anche qui la soluzione è intervenire modificando le regole, non metterli a carico dello Stato. Esistono investitori specializzati nel recupero crediti: li acquistano dalle banche e poi si occupano di riscuoterli. Il problema è che il prezzo che oggi offrono, in Italia, è stracciato. E lo è perché, diversamente da altri Paesi, in Italia escutere una garanzia richiede tempi biblici, e questo deprime il prezzo di quei crediti. Cambiamo le norme, ad esempio creando sezioni specializzate dei tribunali civili, e il problema dei crediti incagliati si risolverà da solo. Un esempio di «fallimento del mercato» è talvolta il credito alle piccole imprese quando l’imprenditore non ha sufficienti garanzie. La soluzione ovvia sarebbe cambiare la mentalità delle nostre banche, ma questo richiede tempo. Nel frattempo si può creare un fondo di garanzia pubblico - questo sì potrebbe essere finanziato dalla Cassa - che affianchi le garanzie portate dalle imprese. Un esperimento del ministero per lo Sviluppo economico ha dato buoni risultati, ma si può fare molto di più. Anche in questo caso si tratta di garanzie, non di proprietà pubblica.

Un altro esempio, in verità raro, è il caso di un’impresa che subisce uno shock temporaneo e rischia di fallire perché nessun investitore è disposto ad acquisirla. Se il problema è temporaneo, investitori interessati a «salvarla» ce ne sono perché in quel momento acquisirla costa poco. Se non se ne presentano è perché forse il problema dell’impresa è strutturale, non temporaneo. Ma talvolta succede. È il caso della Chrysler: se non fosse intervenuto il governo di Washington sarebbe fallita distruggendo conoscenze e capitale umano. Innanzitutto non bisogna dimenticare che ciò accadde nel momento peggiore della recessione più profonda degli ultimi 80 anni, quindi non è un caso frequente. Inoltre, se si volesse cambiare lo statuto della Cassa per consentirle di intervenire in aziende in difficoltà, è importante che la proprietà pubblica sia limitata nel tempo. Obama cominciò a vendere azioni della Chrysler già sei mesi dopo averle acquisite e uscì completamente dopo 30 mesi. Se non si mettono limiti di tempo vincolanti c’è il rischio che queste imprese restino pubbliche per sempre.

Infine c’è un caso interessante di fallimento «politico», non del mercato. È il caso delle liberalizzazioni. Aprire un mercato a imprese nuove e più efficienti spesso significa ridurre la rendita di chi già opera in quel mercato perché la regolamentazione, inevitabilmente, crea delle rendite. È il caso di Uber contro i taxi. Ma poiché l’opposizione all’eliminazione di una rendita è comprensibilmente fortissima, liberalizzare è spesso impossibile. Si tratta di un fallimento «politico» perché la politica dovrebbe capire che i benefici della liberalizzazione sono così grandi che meritano l’investimento necessario per compensare, almeno in parte, chi perde la propria rendita. Forse alla Cassa si potrebbe assegnare il compito di costituire un fondo di garanzia per i «rentiers». Charles Wyplosz e Jacques Delpla ( La fin des privilèges : Payer pour réformer , Parigi 2007) raccontano come nel 1868 l’imperatore del Giappone, volendo liberalizzare il Paese, emise un prestito internazionale per compensare i samurai che obbligava a rinunciare ai loro privilegi. Alcuni samurai usarono il compenso ricevuto per aprire attività industriali e talvolta divennero imprenditori di successo.

Insomma, per avviare un nuovo corso della Cassa non basta cambiare gli amministratori. Occorre chiarirsi le idee sui compiti che le si vogliono assegnare. I quali non possono consistere in fare ciò che farebbe (meglio) un investitore privato. E questo deve deciderlo la politica, non è una cosa che può essere delegata ai nuovi amministratori per bravi che siano.

22 giugno 2015 | 08:20
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_22/cdp-buone-regole-mercato-stato-investitore-che-puo-far-male-nostra-economia-56ec0f20-189d-11e5-9aa1-cadc98d103d7.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Giugno 30, 2015, 06:36:22 pm »

Quanti Tsipras ci sono in Europa?

Di Francesco Giavazzi

Fra il 1995 e il 2009, l’anno prima dell’inizio della crisi, il reddito pro capite medio dei cittadini greci è salito dal 47 al 71 per cento di quello dei cittadini tedeschi. Un avvicinamento straordinario, in realtà reso possibile da una altrettanto straordinaria accumulazione di debito, non molto diversa dall’esperienza italiana degli anni 80 (fortunatamente meno drammatica), che infatti finì con la crisi del 1992. Fra il 2010 ed oggi il rapporto fra i due redditi pro capite è tornato al livello del 1995: una caduta molto dolorosa, che si era vista solo durante la Grande Depressione degli anni Trenta, tuttavia inevitabile perché la ricchezza non la si conquista indebitandosi. Questo arretramento non è dovuto, come alcuni - ad esempio Grillo - sostengono, al peso degli interessi che in questi anni la Grecia è stata costretta a pagare sui suoi debiti. Come mostrano Ken Rogoff e Jeremy Bulow (www.vox.eu), dal 2010 al 2014 la Grecia ha continuato a ricevere dai Paesi europei, dalla Bce e dal Fondo monetario, un flusso netto positivo di aiuti, cioè più denaro di quanto dovesse pagarne in interessi sul suo debito estero. Solo quest’anno, dopo che Tsipras ha arrestato il pur timido processo di riforme, il flusso netto è diventato negativo. E con esso la crescita. Se i primi anni dell’aggiustamento sono stati particolarmente dolorosi - come lo sono in ogni famiglia che dopo un periodo di spese un po’ folli debba riabituarsi a non fare acquisti che eccedano il suo reddito - nel 2014 la Grecia aveva ricominciato, anche se lievemente, a crescere (+0,6 per cento). Quest’anno grazie alla cura Tsipras è tornata in recessione. Una domanda si ponevano ieri gli investitori, soprattutto i non europei. Ci sono altri Tsipras nei Paesi dell’euro? Lo sguardo va a due partiti che da tempo applaudono le politiche greche: Grillo in Italia e Podemos in Spagna, entrambi reduci da significativi risultati elettorali (i sindaci di Madrid e Barcellona sono stati eletti il mese scorso con i voti di Podemos). Da questa mattina il costo del nostro debito pubblico dipende da quanto credibile è l’impegno del governo ad attuare, dopo il Jobs act e con la medesima determinazione, quelle riforme senza le quali non ci può essere né crescita né occupazione. E senza le quali il Movimento 5 Stelle può solo rafforzarsi.

29 giugno 2015 | 08:11
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_29/quanti-tsipras-ci-sono-europa-8e125f40-1e1f-11e5-958d-f9395af606a3.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:50:23 am »

Referendum
Grecia, lo scambio virtuoso
Come convincere i giovani greci che l’Europa è la loro sola speranza


Di Francesco Giavazzi

Ad Atene i sondaggi lasciano intravedere, pur con grande incertezza, una vittoria dei sì. Fra coloro che intendono esprimersi per il sì, la maggior parte interpreta il voto come una scelta di rimanere nell’euro e nell’Unione Europea. Sono gli anziani e i pensionati i più favorevoli al sì: forse perché, diversamente dai giovani, apprezzano, essendoci passati, che cosa significhi navigare senza il timone dell’Europa. La scelta dei giovani, invece più favorevole al no, è preoccupante. E non solo per la Grecia. L’Europa non va da nessuna parte se perde il consenso dei giovani.
Come è più volte accaduto, soprattutto in Europa, le crisi sono l’occasione per le scelte coraggiose. Nel giugno 2012, quando molti investitori, soprattutto americani, scommettevano che l’Unione monetaria di lì a qualche settimana sarebbe stata sciolta, il Consiglio europeo varò l’unione bancaria.

La de-nazionalizzazione della vigilanza sulle maggiori banche europee - in pratica inviare ispettori finlandesi a controllare le banche portoghesi - è la modifica più rilevante dell’architettura europea da quindici anni in qua. A questo seguì l’a qualunque costo di Mario Draghi, impegno che aprì la strada a ingenti acquisti di titoli pubblici da parte di Francoforte, cosa impensabile solo un anno prima. Se vinceranno i sì, i capi di Stato europei debbono dimostrare ancor più determinazione, perché la crisi è più grave di cinque anni fa. Devono convincere i giovani greci, anche quelli che voteranno no, che l’Europa è la loro sola speranza.

Come farlo? In Grecia facendo sì che l’economia ricominci a creare opportunità di lavoro: nel privato, non nel settore pubblico. A Bruxelles facendo un passo avanti nell’integrazione così che un’altra vicenda greca sia d’ora in avanti meno probabile. E soprattutto dando l’idea che l’Europa è qualcosa di più nobile di un punto di aliquota dell’Iva. Per questo secondo obiettivo basta seguire le indicazioni contenute nel rapporto che giovedì scorso i «Cinque presidenti», Schulz, Juncker, Tusk, Dijsselbloem e Draghi, hanno consegnato ai capi di Stato europei, delineando un progetto di integrazione realistico per i prossimi anni.

Per crescita e lavoro occorre ribaltare l’impostazione dei programmi di aiuto alla Grecia. Quelli su cui si è litigato per sei mesi erano vincolati dal rifiuto di Tsipras di avviare riforme profonde dell’economia - mercato del lavoro, mercati dei beni e dei servizi, giustizia, un allungamento significativo dell’età lavorativa - senza le quali non ci possono essere né crescita, né lavoro. Di queste cinque riforme l’Italia ne ha fatte due, lavoro e pensioni, e i risultati si cominciano a vedere. Non potendo fare queste riforme, ad Atene ci si è concentrati sui conti pubblici limitandosi ad alzare le tasse: non è così che si rimette in piedi un’economia stremata.
Bisogna quindi partire dalle riforme negoziando flessibilità fiscale (sia sul deficit che sui tempi di rientro dal debito) in cambio di riforme. In questi mesi il meno aperto, oltre a Tsipras, si è dimostrato il Fondo monetario internazionale perché ai suoi azionisti, per la più parte Paesi emergenti, la Grecia non interessa, e forse anche perché la signora Lagarde ha appena chiesto che il suo mandato venga rinnovato e per ottenerlo ha bisogno dei voti dei Paesi emergenti. Del Fondo non c’è bisogno: questa volta possiamo far meglio da soli con la vigilanza della Commissione europea.

In Europa c’è un capo di governo che è riuscito a scambiare riforme per flessibilità. Non è Hollande, l’interlocutore speciale dei tedeschi, che tuttavia non ha né ridotto il deficit, né fatto alcuna riforma significativa, ma Matteo Renzi. A fronte del Jobs act Renzi ha ottenuto da Bruxelles e dalla signora Merkel un allentamento dei vincoli fiscali (quasi mezzo punto di Prodotto interno lordo in meno nella scorsa legge di Stabilità). Nei prossimi giorni il presidente del Consiglio dovrebbe far leva su questo spostamento di baricentro per tentare di coagulare consenso permettendo di ripetere almeno quanto fatto nel giugno 2012. Aiuterebbe i giovani greci, aiuterebbe l’Europa e, non ultimo, potrebbe essere l’occasione per ritrovare lo smalto, oggi un po’ appannato, dei primi mesi di governo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
3 luglio 2015 | 12:31

Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_03/grecia-scambio-virtuoso-d4ac3742-216b-11e5-be97-5cd583b309bb.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:57:03 pm »

Meno Stato per tagliare le tasse
Di Francesco Giavazzi

Una parte importante dei risparmi che il governo si propone per il prossimo anno, in modo da abbassare la pressione fiscale, non proviene da tagli alla spesa pubblica, che pure verrà ridotta, ma dall’eliminazione di una messe di agevolazioni fiscali. Ad esempio: il regime privilegiato delle cooperative ci costa, in termini di mancato gettito, 300 milioni l’anno (dati della Ragioneria generale dello Stato); l’accisa ridotta sul gasolio impiegato per l’autotrasporto delle merci e di alcuni passeggeri (inclusi i taxi) un miliardo e mezzo; altrettanto la speciale accisa sul carburante degli aerei; 640 milioni quella sulla navigazione nelle acque interne, e così via. Eliminare questi privilegi, che non sono stati attribuiti con un criterio di efficienza, ma concessi a chi è più bravo nel percorrere i corridoi di Parlamento e ministeri, è certamente un bene. Ma da un diverso punto di vista, cancellare le agevolazioni fiscali significa alzare, non abbassare le tasse. Insomma, per ridurre la pressione fiscale non c’è altro modo che tagliare la spesa.

Nel Regno Unito il governo di David Cameron fra il 2010 e il 2013 ha ridotto le spese di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. Su tre anni sono quasi 50 miliardi di minori spese. Oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria molto più grave dell’Italia, cresce fra il 2,5 e il 3% l’anno, contro il nostro misero 0,7 previsto per quest’anno.

Perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Ritengo che il motivo vero risieda nel grande spazio che Stato, Regioni e Comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia del nostro Paese. Fintantoché quello spazio non verrà ridotto, la spesa si può contenere ma non scenderà abbastanza per abbassare in modo significativo le tasse. Un esempio sono le funzioni esercitate da Regioni e Comuni nella raccolta dei rifiuti o nella produzione e distribuzione di acqua ed energia elettrica, funzioni che potrebbero essere svolte in modo spesso più efficiente da imprese private. Ma la politica deriva benefici economici e talvolta elettorali dalla gestione di queste attività (assunzioni, consigli di amministrazione, gestione degli appalti di fornitura) e quindi ha un incentivo a mantenere pubblico il loro controllo, scaricando sui cittadini il costo dei benefici di cui essa si appropria. Ciò non significa che un Paese stia tanto meglio quanto più limitato è lo spazio occupato dallo Stato. Esistono funzioni pubbliche essenziali per il buon funzionamento di una società: la giustizia, l’ordine pubblico, la difesa, scuola e sanità (il che non significa che non vi debba essere spazio anche per il settore privato). Per altre funzioni tuttavia (ad esempio la raccolta dei rifiuti) bisognerebbe sempre chiedersi se il beneficio, al netto dei costi dell’intermediazione politica, giustifichi l’aumento della pressione fiscale che ciò comporta.

L’ex commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli, ha censito le società partecipate da amministrazioni locali. Nel 2012 erano 7.726 con mezzo milione di dipendenti. Metà di queste aziende sono o di proprietà interamente pubblica, o comunque a maggioranza pubblica. Nel 2012 le loro perdite lorde (dati del ministero dell’Economia) sono state di circa un miliardo e 200 milioni di euro (senza contare le perdite non palesi coperte da contratti di servizio con le amministrazioni pubbliche). La sola Atac, l’azienda che gestisce il trasporto pubblico di Roma, ha accumulato in otto anni, dal 2006 al 2013, oltre 1,2 miliardi di perdite: in parte per effetto di un organico di 12 mila dipendenti, a fronte dei 9 mila della milanese Atm i quali hanno un costo unitario inferiore del 20%. Il «Piano Cottarelli» propone alcune misure per ridurre il numero di queste aziende da quasi 8 mila a mille, quante sono in Fra ncia, ove pure la presenza dello Stato è pervasiva: chiudere le partecipate non operative, o che comunque hanno dimensioni ridotte in termini di fatturato e/o dipendenti, vietare partecipazioni indirette in società che offrono servizi pubblici privi di rilevanza economica, uscire dalle società in cui il pubblico, nel suo complesso, non raggiunga almeno una quota del 10 per cento, estendere il divieto di partecipazioni indirette ai servizi pubblici privi di rilevanza economica. Non sembrano passi impossibili. E tuttavia nulla accade.

Un altro motivo è che il governo per primo dà un cattivo esempio. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, così che i profitti del secondo continueranno a sussidiare il primo in modo non trasparente, deprimendo il valore dell’azienda. Come ha osservato Franco Debenedetti (sul Sole 24 Ore del 21 agosto scorso) è l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. Con la «privatizzazione» il Tesoro manterrà il 60% delle azioni, imporrà un tetto del 5% al possesso azionario, in modo da tener lontani investitori istituzionali, e riserverà una parte delle azioni vendute ai dipendenti (in pratica ai sindacati). Come si fa poi a imporre a Comuni e Regioni di cedere la maggioranza delle aziende pubbliche locali?

30 agosto 2015 (modifica il 30 agosto 2015 | 07:59)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_30/meno-stato-tagliare-tasse-8539334c-4ed7-11e5-ad01-b0aa98932a57.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:06:02 pm »

Soldi pubblici e idee
La Cassa? Usiamola per le scuole

di Francesco Giavazzi

I nuovi vertici della Cassa Depositi e Prestiti, nominati dal governo nel mese di luglio, si sono insediati e hanno cominciato a lavorare. Sarebbe stato auspicabile (lo scrissi il 14 giugno e poi ancora il 22 giugno) che a questo cambiamento si accompagnasse un progetto, un’idea di quali obiettivi il governo intenda dare alla Cassa, che è la maggiore istituzione finanziaria italiana. Ciò non è accaduto e per il momento sul tavolo dei nuovi amministratori si sono accumulate solo alcune «grane»: fra queste l’Ilva di Taranto e la Saipem, due aziende che per motivi molto diversi hanno dei guai che il ricco portafoglio della Cassa potrebbe aiutare a risolvere.

La Cassa può essere impiegata in due modi.
Il primo, quello che sembra si stia delineando, è sfruttare abilmente l’artificio contabile che ha posto la Cassa fuori dal perimetro dei conti pubblici, consentendole di aggirare le regole europee che vietano aiuti dello Stato a imprese in difficoltà. Lo fanno anche Francia e Germania ed è un uso certamente legittimo. Solo, a mio avviso, poco lungimirante. I soldi finiranno prima delle grane da risolvere. Saranno serviti per salvare un certo numero di aziende, alcune che meritavano di essere salvate, altre invece che sarebbe stato meglio chiudere perché ormai incapaci di camminare con le loro gambe. Se va bene, il saldo netto di questi interventi sarà vicino a zero. Più probabilmente, io temo, sarà negativo perché risulterà molto difficile arginare le pressioni politiche per l’utilizzo di questo ricco salvadanaio. L’alternativa è usare la Cassa per un grande progetto di cambiamento e rinnovamento dell’Italia. Interventi che, diversamente dalla soluzione di qualche grana passeggera e presto scordata, lascino qualcosa per cui i nostri figli e i nostri nipoti ci possano ringraziare.

Perché ad esempio non dare alla Cassa il compito di finanziare la ristrutturazione dei nostri oltre 33.000 edifici scolastici? Il ministro Giannini ha avviato una ricognizione dello stato di salute di questi edifici. Il risultato sarà che un gran numero richiede interventi anche urgenti. Non solo strutturali: le scuole che hanno una moderna sala computer per gli alunni, o anche solo un collegamento a Internet, sono una rarità. Certo, per migliorare la scuola non bastano edifici rinnovati, e non sono neppure la cosa più importante.

Un bravo insegnante apre la testa dei suoi alunni anche in una scuola disastrata; una capra svogliata rimane tale anche in un edificio scintillante. È una questione di regole, non di soldi, e i provvedimenti sulla Buona Scuola hanno finalmente cominciato a smuovere le acque. Ma anche gli spazi sono importanti. Fra cinquant’anni, quando le automobili fatte di acciaio si vedranno solo nei musei, dell’Ilva, per quanto oggi importante, nessuno si ricorderà. Ma chi ha avuto la fortuna di studiare in una di quelle belle scuole costruite nell’Ottocento (sono oltre 1.300 in Italia) ancora ringrazia la lungimiranza dei nostri bisnonni.

5 ottobre 2015 (modifica il 5 ottobre 2015 | 06:54)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_05/cassa-usiamola-le-scuole-a618bbfe-6b1b-11e5-9423-d78dd1862fd7.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Novembre 09, 2015, 05:06:04 pm »

Per le nuove imprese
Steccati da demolire (subito)

Di Francesco Giavazzi

Per consolidare la ripresa della nostra economia, cioè evitare che le buone notizie di queste settimane si rivelino un fuoco di paglia, sono necessarie tre condizioni: un mercato del lavoro fluido, una pressione fiscale contenuta e soprattutto un ambiente in cui imprese giovani possano sostituirsi a quelle che hanno esaurito la loro capacità di innovare. Il Jobs act è la più importante riforma economica attuata in Italia da cinquant’anni a questa parte: la prima condizione è quindi soddisfatta. Per quanto riguarda il secondo punto, la pressione fiscale, che aveva raggiunto un picco del 44 per cento nel 2012 ed è oggi al 43,7%, scenderà il prossimo anno al 43. Ancora elevata, ma finalmente la direzione è quella giusta.

Dove invece l’azione del governo rimane gravemente insufficiente è nel creare le condizioni per la nascita di nuove imprese. Barriere all’entrata proteggono imprese anziane, spesso inefficienti, impedendo l’ingresso di imprenditori nuovi e di nuove tecnologie. È un’insufficienza grave perché la produttività è più elevata nelle imprese giovani che in quelle vecchie. C’è un nesso diretto fra entità delle barriere all’entrata e produttività. Utilizzando dati raccolti al livello di singole aziende, John Haltiwanger, dell’Università del Maryland, trova che un quarto della crescita della produttività nel settore manifatturiero americano sia attribuibile alla nascita di nuove imprese.

In uno studio sul commercio al dettaglio italiano il mio collega Fabiano Schivardi trova che le aziende protette da barriere all’entrata sono meno produttive, hanno profitti più alti e praticano prezzi anch’essi più elevati. Trova anche che quando queste barriere vengono rimosse occupazione e investimenti crescono.

Il governo aveva un’occasione unica per ridurre le barriere all’entrata e far crescere la produttività. Finora purtroppo l’ha sprecata. Ma non è troppo tardi. In febbraio il Consiglio dei ministri aveva esaminato un Disegno di legge sulla Concorrenza predisposto dal ministero per lo Sviluppo economico. Era un ottimo testo che rimuoveva molte barriere all’entrata. Ad esempio consentiva la vendita dei medicinali di fascia C (quelli utilizzati per patologie di «lieve entità») anche in esercizi commerciali diversi dalle farmacie, favorendo la nascita di nuove attività come le parafarmacie. Rimuoveva l’obbligo per gli autisti Ncc (noleggio con conducente) di ritornare in rimessa tra una chiamata e l’altra, aprendo il mercato a servizi quali Uber. Vietava che le Autorità portuali fossero, al tempo stesso, regolatori dei servizi offerti al porto e fornitori dei servizi stessi, una norma, quest’ultima, che scoraggia la nascita, nei porti, di aziende di servizi private: chi si mette in concorrenza con imprese possedute da chi ne fissa le regole? Quel testo obbligava anche le Regioni a rivedere periodicamente l’accreditamento delle strutture sanitarie private, in modo da impedire il consolidarsi di monopoli di fatto. Durante il Consiglio dei ministri tutte queste norme furono stralciate su richiesta del partito di Alfano e in particolare della ministra della Salute Lorenzin e dell’allora ministro delle Infrastrutture Lupi, entrambi al governo con il mandato preciso di proteggere alcune rendite. Stralciate furono pure, questa volta col consenso del Pd, le norme che aprivano ai privati i servizi pubblici locali, focolaio di inefficienza e corruzione.

Dopo aver così svuotato il Disegno di legge, in marzo il governo lo ha depositato in Parlamento e non se ne è più occupato. Otto mesi di discussione parlamentare hanno consentito a tutti coloro cui il disegno di legge toglieva un po’ di rendita di organizzarsi per evitarlo. Un’audizione dopo l’altra, una pressione di questa o quella lobby e di una legge già timida ben poco è rimasto. È davvero sorprendente che un governo che non ha esitato a schierarsi contro i sindacati per far approvare il Jobs act non abbia il coraggio di opporsi alla lobby dei farmacisti e dei presidenti delle autorità portuali. Sembra quasi che Renzi faccia fatica a capire l’importanza di mercati aperti che consentano l’ingresso di nuove imprese.

La regolamentazione di nuovi servizi, la cosiddetta sharing economy, non può essere affrontata (lo spiegava molto bene Dario Di Vico su questo giornale venerdì scorso) delegando alla burocrazia il compito di disciplinare attività che spesso sono ancora in fase di sperimentazione. In California, il luogo in cui c’è più innovazione al mondo, quando si apre un nuovo mercato, o viene introdotta una nuova tecnologia, le autorità disegnano la regolamentazione insieme alle nuove imprese, bilanciando i vantaggi dell’innovazione con la tutela dei cittadini. L’approccio burocratico delle nostre autorità nega di fatto il «diritto a innovare».

Non è troppo tardi. Prima che il Parlamento voti il Disegno di legge sulla Concorrenza il governo potrebbe introdurre, tramite un emendamento, molte delle norme stralciate e altre ancora. Gli uffici dell’Autorità garante per la Concorrenza e il Mercato possono essere una fonte eccellente di suggerimenti.

Nel caso dei servizi pubblici locali, ad esempio la raccolta dei rifiuti, aprire il mercato a imprenditori privati - ovviamente con contratti ben scritti e strumenti per farli osservare - ha un altro grande vantaggio: eliminerebbe automaticamente molte delle migliaia di politici che oggi siedono nei Consigli di amministrazione delle aziende pubbliche locali e la corruzione che spesso vi si accompagna.

9 novembre 2015 (modifica il 9 novembre 2015 | 07:28)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_09/nuove-imprese-steccati-demolire-subito-1c1c3334-86a7-11e5-858b-c98d4f30b0b8.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Dicembre 30, 2015, 05:50:49 pm »

Attaccare la Ue non ci conviene
Il governo, il caso delle quattro banche salvate dal decreto e Bruxelles

Di Francesco Giavazzi

I l caso delle quattro banche chiuse il mese scorso non è solo una questione di risparmiatori truffati e autorità di vigilanza. Riguarda anche la solidità dei nostri risparmi e la nostra credibilità in Europa. Il deficit pubblico della Francia - anche al netto degli interventi varati dopo gli attacchi del 13 novembre - chiude l’anno vicino al 4% e rimarrà sopra il 3% fino al 2017. Nessuno se ne preoccupa. Il fatto che questo sottoponga Parigi alla Procedura europea di sorveglianza (dalla quale noi uscimmo nel 2013) non preoccupa il governo francese che agisce come se quella procedura non fosse attiva. La strategia europea di Parigi è molto diversa dalla nostra: una diplomazia tanto attenta quanto efficace e discreta, l’opposto della nostra e soprattutto di affermazioni come quella con cui Matteo Renzi accompagnò il varo dell’ultima legge di Stabilità: «Se la bocciano la ripresento uguale!». Il risultato è che della Francia, che pure non ha finora adottato alcuna riforma significativa, alle riunioni europee nessuno mai parla e Parigi fa sostanzialmente ciò che vuole. Dell’Italia invece si discute nei dettagli. Anziché criticare Germania e Francia perché fanno i propri interessi, sarebbe meglio chiedersi perché riescono a farlo - e riflettere se la nostra strategia sia davvero vincente. Un esempio è la vicenda delle quattro banche chiuse dal governo con il decreto del 22 novembre. Sulle banche Renzi ha sinora fatto scelte giuste rispettando le regole europee.

I l premier avrebbe quindi potuto far leva sul decreto del 22 novembre e ripetere ciò che dice spesso: «Siamo tornati autorevoli in Europa proprio perché ne rispettiamo le regole». Invece ha usato l’occasione per aprire una nuova offensiva. Ci conviene? Un argomento dell’attacco all’Europa è che si usano due pesi e due misure. Ad esempio si è accettato che la Germania spendesse fra 240 e 270 miliardi per salvare le proprie banche, mentre a noi è stato proibito. Innanzitutto Berlino lo ha fatto quando ancora le regole lo consentivano. Ma al di là delle regole, la differenza è che gli investitori sono disposti ad acquistare una tale quantità di nuovi titoli pubblici tedeschi, mentre è dubbio che l’Italia, anche se potesse, riuscirebbe ad emettere ad un costo ragionevole 200 miliardi di nuovo debito per ricapitalizzare con denaro pubblico le nostre banche. Quindi dovremmo ricorrere, come fece la Spagna, al Fondo salva Stati e ciò significherebbe sottoporsi alla vigilanza della troika. Addio alla tanto invocata flessibilità!

Ma c’è un punto più importante. Per anni si è osservato che ciò che conta è il nostro debito netto, non il debito pubblico lordo. Cioè, a fronte degli oltre due trilioni di euro di debito pubblico si dovrebbero contare i circa tre trilioni di ricchezza finanziaria delle famiglie. Il nostro debito pubblico, sostengono alcuni, non è poi tanto rischioso perché compensato da una quantità ancor maggiore di ricchezza privata. Bene: ciò che è accaduto il mese scorso è proprio questo. Alcuni cittadini hanno visto una parte della loro ricchezza impiegata per salvare quattro banche, in tal modo evitando che il salvataggio si tramutasse in maggiore debito pubblico. Se questo ci indigna, la si smetta di dire che la ricchezza delle famiglie è una garanzia per il debito pubblico. Sulle banche il governo Renzi ha preso tre buone decisioni. La più importante, a febbraio, fu l’obbligo imposto alle Popolari di trasformarsi in normali società per azioni. Tutto quanto è accaduto quest’anno deriva da quella decisione che ha spazzato via il connubio fra credito locale e consenso politico locale. Senza quel decreto le Popolari avrebbero continuato ad essere degli zombi che prestavano denaro solo a chi, come accadeva a Vicenza e alla Banca dell’Etruria, si impegnava ad acquistare titoli emessi dalla banca stessa.

La seconda buona decisione è il decreto del 22 novembre. In quel decreto il governo ha deciso di valutare i crediti inesigibili delle quattro banche chiuse a poco meno del 18% del loro valore nominale, cioè al prezzo al quale essi oggi possono essere venduti sul mercato. Valutarli di più significava cedere all’illusione che col tempo il loro valore sarebbe risalito. Il Giappone visse in quell’illusione per un decennio e per un decennio le sue banche non finanziarono investimenti.

La terza buona decisione, infine, è stata di non violare le regole europee sugli aiuti di Stato e quindi non usare il Fondo di garanzia sui depositi per salvare azionisti e obbligazionisti delle quattro banche chiuse, rimandando i casi di truffa evidente ad un intervento pubblico separato. Come si è visto con il caso della banca pugliese Tercas - che è ora obbligata a restituire i fondi ricevuti al momento del salvataggio - l’eventualità che un intervento sia giudicato un aiuto di Stato rende la banca molto difficile da vendere perché pochi acquirenti se ne assumerebbero il rischio. Decisioni che vanno nella giusta direzione, quindi. Perché non far leva su di esse anziché usarle per aprire una nuova offensiva europea?
Attaccare le istituzioni di Bruxelles per togliere acqua a chi nuota nell’antieuropeismo non paga.

27 dicembre 2015 (modifica il 27 dicembre 2015 | 07:47)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_27/attaccare-ue-non-ci-conviene-14bfe714-ac65-11e5-9807-438c782270a2.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Gennaio 20, 2016, 04:10:56 pm »

Ragioni economiche
I migranti e la logica tedesca

Di Francesco Giavazzi

L’accoglienza e l’inserimento dei rifugiati nella nostra società, a prescindere dall’aspetto umanitario, è un fatto positivo per l’economia dei Paesi dell’euro. Aprire le frontiere ai rifugiati, come ha fatto la Germania, non solo è il modo etico per affrontare una tragedia inesorabile, ma - a patto di rispettare le condizioni che indicherò più avanti - aiuta l’economia europea. Questa è la ragione per cui Angela Merkel non deflette dalla sua scelta di frontiere aperte.

I Paesi dell’euro hanno due problemi: un tasso di fertilità molto basso, che via via riduce la popolazione, e una carenza di domanda. Il tasso di fertilità nell’eurozona è in media 1,6 (cioè 1,6 figli per ogni donna). Per mantenere la popolazione stabile il tasso di fertilità dovrebbe essere un po’ sopra 2. Gli unici Paesi europei in cui questo accade sono Irlanda e Francia. La bassa fertilità è solo in parte compensata dall’allungamento dell’età lavorativa, che cresce troppo lentamente. Risultato: la popolazione attiva scende, e questo ci costa circa mezzo punto l’anno di minor crescita. Diversamente dalla fertilità, che è un fenomeno di lungo periodo, la carenza di domanda è un’eredità della crisi. Ma entrambe, scarsa domanda e bassa fertilità, ritardano l’uscita dalla recessione.

Fra i Paesi dell’euro, quello in cui questi problemi sono più accentuati è la Germania. La fertilità tedesca è una delle più basse: solo 1,38 bambini per ogni donna. Anche la domanda è particolarmente bassa in Germania, come dimostra il fatto che essa abbia un avanzo nei conti con l’estero pari a quasi l’8 per cento del prodotto. Cioè la Germania produce quasi l’8 per cento più di quanto spende. L’eurozona ha quindi un problema aggregato - poca domanda, bassa fertilità - e uno squilibrio, fra la Germania e il resto dell’area. Accogliere i rifugiati, e accoglierne di più in Germania, è il modo per correggere entrambi.

La Germania è anche il Paese che ha più spazio nei propri conti pubblici: il 2015 si è chiuso con un avanzo di bilancio pari a 1 punto di Pil (Prodotto interno lordo). Un milione di rifugiati, quanti la Germania ne ha accolti nel 2015, costa circa un terzo di punto di Pil l’anno: sussidi diretti, attività per facilitare l’integrazione, abitazioni, scuole, assistenza medica. Di tanto quindi cresce la spesa pubblica tedesca con effetti positivi sul resto dell’eurozona. Un rifugiato costa allo Stato tedesco circa 12 mila euro il primo anno, una cifra che si riduce nell’arco di 5-10 anni quando egli si inserisce nel mercato del lavoro ed esce dai programmi di assistenza.

Accogliere i rifugiati è quindi una strategia intelligente: aumenta la spesa pubblica nel breve periodo, per l’assistenza necessaria, ma in un modo che si corregge automaticamente entro un decennio. Nel lungo periodo rifugiati integrati contribuiscono alla sostenibilità del sistema pensionistico. L’effetto sulla popolazione è di aumentarla di circa il 2% nel triennio. Un numero non enorme, ma sufficiente per arrestare la caduta della popolazione tedesca. L’effetto poi si propaga nel tempo per il maggior tasso di fertilità delle donne immigrate. L’età dei rifugiati conta: più sono giovani, più a lungo dovranno essere educati e assistiti, ma più a lungo anche pagheranno tasse e contributi sociali. Angela Merkel è forse il solo statista europeo ad aver capito che accogliere i rifugiati e investire nel loro capitale umano non ha solo un aspetto di solidarietà: è più lungimirante che costruire autostrade.

Tutto questo richiede però due condizioni. I benefici dell’integrazione si ottengono solo con il rispetto delle regole; negli Stati Uniti l’integrazione funziona, pur se con mille difficoltà, perché la violazione delle regole è punita duramente. L’integrazione inoltre deve rispettare i valori del Paese che accoglie, come ha chiaramente spiegato Ernesto Galli della Loggia alcuni giorni fa su queste colonne. Episodi, come quelli accaduti in Francia, in cui in alcune scuole in quartieri con significativa presenza di cittadini di religione musulmana, presidi e insegnanti hanno in modo passivo accettato che fosse tolta la carne dalla mensa per evitare discussioni, non aiutano l’integrazione e sono inammissibili.

Il secondo problema riguarda l’equilibrio di genere. La recente ondata di rifugiati è composta per lo più di maschi. Ma l’equilibrio di genere si realizza con l’integrazione e con i ricongiungimenti familiari. È la scarsa capacità di integrare che mantiene lo squilibrio di genere. Anche qui la Germania è un buon esempio: su 7,8 milioni di cittadini nati fuori dai confini tedeschi esattamente la metà sono donne. Solo per alcune nazionalità, in particolare per i cittadini di origine africana, la percentuale di donne è inferiore al 40 per cento.

18 gennaio 2016 (modifica il 18 gennaio 2016 | 08:18)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_18/i-migranti-logica-tedesca-e6462018-bdaa-11e5-b5c4-6241fae93341.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Gennaio 29, 2016, 06:03:16 pm »

Italia e Germania
Renzi e Merkel: l’alleato che Berlino vorrebbe

Di Francesco Giavazzi

Angela Merkel, incontrando Matteo Renzi domani, si chiederà quanto il potere abbia cambiato l’uomo politico che lei ebbe la lungimiranza di invitare tre anni or sono a Berlino, quando egli aveva perso le primarie del Pd ed era solo il sindaco di una relativamente piccola città italiana. L’impressione deve essere stata favorevole perché in seguito, al primo Consiglio europeo cui Renzi partecipò, lo presentò come «il mio amico Matteo». Forse in quel momento, volgendo lo sguardo intorno al tavolo e osservando la modestia politica dei partecipanti, Angela Merkel coltivò la speranza che quel giovane italiano ne potesse assumere la guida e aiutarla nel faticoso compito di rendere più solide le istituzioni europee.

Da quel giorno si sono alternate conferme e delusioni. Conferme per la capacità di portare in porto riforme che da anni venivano millantate, senza che nessun governo riuscisse a farle. Delusioni perché Renzi non è riuscito — forse non ha neppure provato? — a consolidare la sua posizione nel Consiglio europeo e a diventare un punto di riferimento. Come molti suoi predecessori non è andato al di là di qualche battaglia in difesa di legittimi interessi nazionali. Battaglie condotte male per di più, senza capire, ad esempio, che per essere influenti a Bruxelles sui dossier per noi più importanti sarebbe stato meglio chiedere i posti di commissario europeo alla Concorrenza o di direttore del dipartimento che si occupa di Aiuti di Stato.

Invece il posto di Alto rappresentante per gli Affari esteri che abbiamo ottenuto è di grande prestigio ma, come si è visto, del tutto inutile per quei dossier. Angela Merkel è l’unico vero statista in Europa, il solo capace di non abbandonare un progetto in cui crede anche se ciò significa, come si è visto durante la crisi dei rifugiati, sfidare l’opinione pubblica del proprio Paese. L’unico, nella tradizione di Konrad Adenauer, Helmut Schmidt e Helmut Kohl, che si chieda come contribuire alla Storia del suo Paese e quale futuro si debba costruire. Se Helmut Kohl sarà ricordato per l’unificazione della Germania, Angela Merkel vuole essere ricordata come il cancelliere che ha salvato l’Unione Europea. Ma ha bisogno di alleati, e oggi in Europa ne ha pochi.

A Est Polonia e Ungheria hanno imboccato una strada che li sta allontanando dai principi di democrazia che sottostanno al progetto europeo. La Gran Bretagna si prepara a un voto in cui potrebbe decidere di abbandonare l’Unione. Portogallo e Spagna hanno perduto l’equilibrio politico e non riescono a formare governi stabili. La Francia, alleato storico, è incapace di riformarsi e quindi indebolita. In questo quadro deprimente l’Italia può essere l’alleato indipendente e leale di Angela Merkel. Un’occasione unica di poter contribuire alla costruzione dell’Europa in cui vivremo guardando al di là del proprio orticello.

Per giocare questo ruolo il presidente del Consiglio deve convincersi che senza Europa nessun Paese può farcela da solo (basti guardare alla vicenda greca). Incominciando con il discutere in modo intelligente le proposte contenute nel Rapporto dei cinque presidenti sul completamento dell’Unione monetaria e proporre che l’argomento sia posto all’ordine del giorno del Consiglio europeo del 18 febbraio.

27 gennaio 2016 (modifica il 27 gennaio 2016 | 22:15)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_28/renzi-merkel-l-alleato-che-berlino-vorrebbe-839ff582-c53a-11e5-9850-7f16b4fde305.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Agosto 13, 2016, 11:02:25 pm »

Politica economica
Perché l’incertezza pesa più del rischio
Le valutazioni degli investitori internazionali sull’impatto del No al referendum e quei precedenti fino alla Brexit. Il precedente della campagna elettorale di Schröder

Di Francesco Giavazzi

Viviamo nel tempo dell’incertezza. Ma che cos’è con precisione l’incertezza, e che effetti ha sul comportamento delle persone, in particolare degli investitori finanziari? L’Italia sta entrando in un periodo di elevata incertezza politica: che effetti può avere sui mercati? Vi sono modi per attenuarli? Esporsi a situazioni che comportano dei rischi fa parte della nostra vita quotidiana, ma l’incertezza è diversa dal rischio. Come spiegò un economista americano, Frank H. Knight, nel 1921, affrontare un rischio significa esporsi ad un evento aleatorio essendo in grado di stimare la probabilità che esso si verifichi: gioco alla roulette e so che (se non è truccata) la probabilità che esca il rosso è esattamente 50 per cento. In situazioni di incertezza, invece, questa stima non è possibile.

Un esempio di questi giorni è la possibilità di trovarsi nel mezzo di un attentato terroristico: non c’è modo per stimare la probabilità che un terrorista si faccia saltare in aria nell’aeroporto dal quale partirò domani. Come reagiscono le persone in queste due situazioni? Spiegano i miei colleghi Pierpaolo Battigalli, Simone Cerreia, Fabio Maccheroni e Massimo Marinacci, grandi esperti di incertezza, che le persone di solito preferiscono fare scelte che comportino rischi conosciuti invece che sconosciuti, cioè preferiscono esporsi al rischio che all’incertezza. Per esempio, preferiscono investire in una tecnologia già adottata che in una nuova, anche se sanno che la prima risulta efficace solo nel 50 per cento dei casi. Questo atteggiamento è conosciuto come «avversione all’ambiguità».

L’avversione all’ambiguità ha due conseguenze. Innanzitutto, più le persone sono avverse all’ambiguità, più insistono nelle loro scelte, con la conseguenza che diventa difficile indurle a cambiare il loro comportamento. Per esempio, indurle a lavorare di più cambiando la tassazione sul lavoro. Un altro modo in cui le persone reagiscono all’ambiguità è rifugiandosi in «porti sicuri»: questo accade nei mercati finanziari con un fenomeno che viene chiamato flight to quality. Pensiamo a quanto accadde il 14 settembre 2008, il giorno del fallimento della banca statunitense Lehman Brothers. Ex post, è relativamente facile individuare ciò che fece esplodere quella banca, ma ex ante è questione diversa. Gli investitori sapevano che la realtà dei mercati finanziari è molto complessa, con milioni di potenziali punti deboli, ma non li avevano mai presi in considerazione perché li ritenevano irrilevanti in tempi normali. Quando Lehman fallì, e le interdipendenze fra quei punti deboli divennero essenziali, si trovarono catapultati da un situazione di rischio, in cui erano abituati a operare, a una di incertezza. E reagirono proprio come suggerisce la teoria dell’avversione all’ambiguità, abbandonando tutti gli strumenti finanziari (i cui prezzi crollarono) e rifugiandosi nei titoli garantiti dallo Stato. Qualcosa di simile è accaduto dopo la Brexit. Dalla sera alla mattina gli investitori si sono trovati di fronte ad una situazione difficile da valutare con gli strumenti usuali: che sarebbe accaduto alle relazioni commerciali fra Gran Bretagna e Unione Europea, come sarebbero stati riscritti i trattati con Stati Uniti, Canada, India e gli altri grandi partner commerciali della Gran Bretagna? Ancora una volta la reazione è stata una fuga dalla sterlina per rifugiarsi in Paesi meno incerti.

Un’altra conseguenza dell’avversione all’ambiguità riguarda il modo in cui le persone reagiscono alle riforme. Pensiamo al dibattito attualmente in corso su una possibile modifica di alcune regole pensionistiche. Tommaso Nannicini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ha detto (Il Sole24Ore del 7 agosto) che occorre trovare «misure di solidarietà interne al sistema previdenziale che aiutino le carriere discontinue a colmare alcuni vuoti contributivi». In altre parole, occorre ridurre le pensioni relativamente più elevate per compensare quelle che altrimenti sarebbero troppo basse. Ma senza specificare che cosa si intende per pensioni relativamente più elevate, si introduce un elemento di incertezza: alcuni pensionati non sanno né se saranno fra coloro che verranno colpiti, né di quanto. Di fronte a questa incertezza possono solo cercare di risparmiare di più, preparandosi al peggio. Lo stesso accadde in Germania nei mesi precedenti le elezioni del settembre del 1998. Durante la campagna elettorale Gerhard Schröder si era impegnato, qualora avesse vinto, a cancellare la riforma pensionistica appena varata dal suo avversario, il cancelliere Helmut Kohl. Ma non disse quali provvedimenti alternativi avrebbe adottato, poiché tutti sapevano che il sistema pensionistico tedesco non era sostenibile. Di fronte all’incertezza, nei mesi precedenti quell’elezione vi fu una caduta dei consumi e una forte crescita del risparmio privato. Evidentemente i cittadini tedeschi reagirono all’incertezza proteggendosi e risparmiando di più. Il risultato fu un forte rallentamento dell’economia anche perché Schröder, che vinse quelle elezioni, impiegò alcuni anni prima di varare la sua riforma pensionistica.

Il referendum costituzionale del prossimo autunno, e le conseguenze che provocherà, sono un’importante fonte di incertezza. Gli investitori esteri — che detengono più della metà del nostro debito pubblico — leggono che la vittoria del No potrebbe provocare la caduta del governo. Dopo essere stati esposti alla narrazione di una nuova era politica, si chiedono se sia stata solo un’illusione, non capiscono che cosa potrebbe accadere dopo. In altre parole non si trovano ad affrontare un rischio dal quale hanno gli strumenti per proteggersi, ma una situazione di incertezza. Nel motivare la sua decisione di cambiare opinione sull’Italia, da stabile a negativa, l’agenzia canadese Dbrs ha scritto venerdì scorso che il motivo principale è «l’incertezza politica riguardo all’esito del referendum costituzionale». Ciò che li preoccupa non è se la riforma della Costituzione verrà approvata, ma, nel caso non lo fosse, chi gestirà la trattiva con Bruxelles sulla legge di Stabilità i cui tempi si sovrappongono a quelli del referendum. Come nel caso della Brexit, la risposta degli investitori internazionali potrebbe essere l’abbandono dei nostri titoli pubblici, alla ricerca di porti rischiosi ma meno incerti. Che fare? Poco per influenzare il risultato del referendum, tranne informare con chiarezza i cittadini sui quesiti che verranno loro sottoposti. Questa incertezza non si può cancellare. Ma qualcosa si può fare per eliminare altre fonti di incertezza. Ad esempio varare e far approvare da Bruxelles e dal Parlamento la legge di Stabilità prima della data del referendum e smetterla di annunciare riforme del sistema previdenziale senza indicarne i dettagli.

9 agosto 2016 (modifica il 9 agosto 2016 | 23:06)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_agosto_09/perche-l-incertezza-pesa-piu-rischio-675413fc-5e70-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Giugno 03, 2017, 11:31:21 am »

I progetti ambigui dei partiti sulla Ue

  Di Francesco Giavazzi

Nelle ultime settimane la Borsa di Milano è stata la più debole in Europa. Il motivo è semplice: con l’accordo sulla legge elettorale e il conseguente possibile avvicinarsi delle elezioni è aumentata la percezione dell’incertezza politica e questa preoccupa gli investitori. Alcuni riducono l’esposizione all’Italia vendendo azioni e titoli di Stato, ad esempio i Btp, molti vendono a termine, cioè a scadenza, scommettendo su un’ulteriore caduta dei prezzi di Borsa durante l’estate. C’è qualcosa che i partiti possono fare per evitarci di trascorrere i prossimi mesi nell’ansia di ciò che accadrà ai nostri risparmi? Che il risultato delle elezioni sia incerto è un fatto. Le leggi elettorali possono attenuare l’instabilità, ma sull’incertezza relativa ai risultati delle elezioni non si può far nulla perché, per fortuna, viviamo in una democrazia. C’è però una seconda causa di incertezza. È legata a ciò che farà chi vincerà le elezioni. Qui invece qualcosa, anzi molto, i partiti possono fare e se lo facessero contribuirebbero a ridurre l’incertezza.

Alcuni, Lega e Movimento 5 Stelle, sono ambigui su uno dei temi fondamentali della prossima campagna elettorale: il nostro rapporto con l’Europa. Talvolta dicono che se vincessero promuoverebbero un referendum consultivo sull’euro, altre volte (immagino preoccupati di perderlo anche dopo aver vinto le elezioni) sono più vaghi. Berlusconi cerca di evitare il problema proponendo la doppia circolazione, euro e lire insieme, sull’esempio delle Am-lire che circolavano in Italia dopo la Seconda guerra mondiale. Omette però di spiegare che quella moneta era stampata dagli americani, quindi non aumentava il nostro debito pubblico, come invece farebbero delle Am-lire dei giorni nostri. Su queste posizioni non so che cosa si possa fare per ridurre l’incertezza: temo nulla perché ho l’impressione che neppure chi le propone abbia chiaro il percorso che vuole seguire.

Altri non mettono in discussione l’euro. Su questo punto il Partito democratico è chiaro. Potrebbe però fare di più per ridurre l’incertezza. Ad esempio, il primo provvedimento che attende il nuovo governo sarà la legge di stabilità, cioè come trovare 20 miliardi, quanti saranno necessari per correggere i conti e cominciare a far scendere il debito. Che farebbe il Pd se vincesse? Dove pensa di trovarli? Aumentando le tasse o riducendo le spese, e in questo caso quali spese? Lo so che è un tema che potrebbe far perdere voti, ma anche la caduta della Borsa dovuta all’incertezza fa perdere voti. Un modello c’è ed è il metodo Macron. Durante la campagna elettorale il nuovo presidente francese aveva tre punti fermi: l’euro non si discute, i conti pubblici francesi saranno corretti, le regole dell’eurozona devono essere cambiate. Su quest’ultimo punto in Francia e Germania già si discute e sarebbe bene che i partiti italiani a questa discussione partecipassero. (Per una sintesi delle proposte in campo si veda un libretto che ho curato con Agnès Bénassy-Quéré e altri economisti europei, «Europe’s Political Spring» uscito ieri sul sito vox-eu). Insomma, nonostante le elezioni incombenti è possibile ridurre l’incertezza connaturata al voto. Indicare pochi ma chiari punti fermi farebbe bene ai mercati, ai nostri risparmi e potrebbe anche far guadagnare qualche voto.

31 maggio 2017 (modifica il 31 maggio 2017 | 21:32)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_giugno_01/i-progetti-ambigui-partiti-ue-bf715cb2-4636-11e7-9b23-80b3b0be0a6c.shtml

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