Jeremy, il ribelle vegetariano che odia l’austerity e la Nato
Il Labour deve essere un partito socialista. Magari con qualche correzione, di sicuro dobbiamo riscoprire il valore della proprietà pubblica nei settori chiave dell’economia
Di FABIO CAVALERA
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA Orti per tutti. A Jeremy Corbyn piace sognare. Anche nell’ultima dura battaglia per conquistare la leadership laburista ha messo in campo la sua prolifica immaginazione. E per ringalluzzire il popolo stanco del centrosinistra ha rispolverato un vecchio pallino: un giardino in ogni casa e un pezzo di terra da coltivare «in modo che ciascuno abbia la possibilità di piantare patate e pomodori». Lui stesso, Jeremy Corbyn, è un appassionato di tuberi, bulbi e foglie. Nel 2003, dopo una lunga trafila, gli recapitarono l’autorizzazione a curare un minuscolo appezzamento a Islington, nord londinese, il suo collegio elettorale che da 32 anni lo conferma parlamentare alla Camera dei Comuni. Al mattino sale in bicicletta e provvede direttamente a semine, tagli e innaffiature.
Non si prenda Jeremy Corbyn per un pazzo eversore o per un nostalgico e patetico ex figlio dei fiori, visto che ha tagliato il traguardo delle sessantasei primavere. È così: idealista, cortese, di modi semplici. E testardo, tanto testardo da divorziare dalla moglie quando lei decise di spedire uno dei figli alla grammar school, le scuole più selettive. Anche Jeremy aveva frequentato una grammar school ma voleva per la prole, tre ragazzi, una secondaria popolare. Perse la partita in famiglia e il matrimonio finì. Le rigidità di un tempo sono svanite ma il DNA politico di Jeremy Corbyin non ha subito alterazioni: piaccia o non piaccia è di sinistra, senza sbavature e senza ripensamenti. In Parlamento per più di 500 volte, dal 1997 ovvero da quando partì la modernizzazione targata Tony Blair, ha votato contro le indicazioni del partito: no alla guerra in Iraq, no all’aumento delle tasse universitarie, no alle privatizzazioni. «In Germania sarei più moderato dei socialdemocratici», replica alle critiche.
Lo hanno dipinto come un «rosso» pericoloso. «Ci porterà al disastro», hanno minacciato i guru della terza via centrista. Ma il feroce fuoco di sbarramento degli architetti del New Labour prima trionfanti oggi tramortiti, i Tony Blair, i Peter Mandelson, i Gordon Brown, accantonate le loro dilaganti rivalità e gelosie personali, non è servito a nulla. Hanno tirato fuori qualche scheletro dall’armadio di Corbyn: ad esempio le simpatie per «gli amici di Hamas e degli Hezbollah» o l’invito a Westminster rivolto a Jerry Adams, capo dell’Ira, dopo le bombe a Brighton nel 1984. Un buco nell’acqua. «Se Tony Blair stringe la mano ai capi di Hamas è una grande leader. Se io dico che occorre dialogare con ogni parte in causa nei conflitti sono un amico dei terroristi».
Jeremy Corbyn non è un estremista con le armi nascoste sotto il letto. È un melting pot di correnti, di movimenti, di convinzioni, di radicalismo educato. È un pacifista, è un repubblicano in un paese di ferventi monarchici, è un euroscettico in un partito europeista, è un No Tav, è abbagliato dai greci di Syriza e dagli spagnoli di Podemos, è nemico del nucleare, sostiene la piena eleggibilità dei Lord e non la nomina di casta, è un uomo di piazza che nel 1984, già sui banchi dei Comuni, fu arrestato per un corteo non autorizzato contro l’apartheid in Sudafrica. Non è mai cambiato dimostrando una coerenza ferrea.
Un eretico, questo sì, che ha sbaragliato il campo sia per il manifesto grigiore degli altri contendenti, percepiti come una fotocopia in bianco e nero dell’establishment laburista targato Blair, sia per via di quel suo motto che ha ripetuto all’infinito, trovando consensi specie fra i giovani e le donne: «Se siamo laburisti è perché vogliamo che il partito laburista sia il veicolo del cambiamento sociale». Sottinteso: l’omologazione ai Bush che vanno in Iraq (leggi Blair), gli inchini alla City e alla finanza «creativa» (leggi Blair e Brown), le balbuzie sul bilancio statale da sfoltire coi tagli mirati (leggi Ed Miliband) hanno regalato sconfitte. «È autodistruttivo opporre l’austerità morbida all’ austerità dura di Cameron». La svolta presuppone una forte caratterizzazione. «Altrimenti destra e sinistra sono uguali».
Jeremy Corbyn è piantato nel solco della tradizione formatasi con gli insegnamenti dei genitori, che si erano conosciuti nelle proteste antifranchiste durante la guerra civile spagnola, e consolidata al termine degli studi liceali quando stracciò l’iscrizione all’università e partì per due anni di volontariato in Giamaica seguiti dall’arruolamento nel sindacato. «Ma non guardo indietro, io guardo avanti con idee nuove». Gli piacerebbe ristabilire la clausola dello statuto che vincola i laburisti al socialismo. «Magari con qualche correzione. Di sicuro dobbiamo riscoprire il valore della proprietà pubblica nei settori chiave dell’economia». Propone di rinazionalizzare le poste, le ferrovie e le società che producono e distribuiscono energia.
È uno choc. Esistono due partiti laburisti: Corbyn e i corbynisti, gli eredi e gli orfani del New Labour blairiano. Tenerli assieme è la prima scommessa di Jeremy Corbyn. «Io intendo collaborare con tutti, però con obiettivi chiari». Il che significa ribaltare la linea di marcia e cancellare gli ultimi venti anni di storia laburista. In politica estera è per la distensione con la Russia di Putin, per l’uscita dalla Nato, per l’accantonamento dei missili nucleari. Sull’Europa minaccia: «Sono per l’Europa che armonizza le condizioni di lavoro. Contrarissimo all’Europa del libero mercato». Il referendum incombe e Corbyn sbandiera la possibilità di schierarsi per l’uscita dall’Unione. Dirompente. Come pure sull’economia. Ha scritto dieci punti, ricevendo l’appoggio di 50 economisti capitanati da David Blanchflower, un ex membro del comitato per le politiche monetarie della Banca d’Inghilterra. Il succo è: basta tagli alla spesa pubblica, più tasse per ricchi, banche, fondi. Poi «il quantitative easing del popolo», l’ha chiamato così, ossia l’istituto centrale che stampa moneta da destinare alle infrastrutture e all’occupazione. «Il dovere dei governi è assicurare che l’economia lavori per l’intera comunità e che riduca le diseguaglianze».
In fin dei conti, al nuovo leader interessa di più la coerenza che l’ufficio a Downing Street. Se gli andrà male ha sempre il suo orto da coltivare. Una cosa è certa: con il «sovversivo» buono il laburismo cambia pelle.
@fcavalera
13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 10:11)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Da -
http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_13/jeremy-ribelle-vegetariano-che-odia-l-austerity-nato-8da33442-59e5-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml