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Autore Discussione: Walter VELTRONI. -  (Letto 37558 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 02, 2009, 11:53:14 pm »

Veltroni al Capranica con il popolo del Lingotto

di Maria Grazia Gerina


Due anni dopo il Lingotto, da cui tutto è cominciato. Veltroni, non più segretario del Pd, chiama tutti a raccolta, al teatro Capranica, a due passi da Montecitorio. La sala è piena. Ci sono solo posti in galleria, dicono i commessi. "Bentornato Walter", recita uno striscione appeso alla balaustra. Sul palco, anche Sergio Chiamparino. E poi Debora Serracchiani e Francesca Barracciu, un'altra Debora, europarlamentare mancata nonostante le sue 117mila preferenze. In prima fila, la squadra del Campidoglio, da Ileana Argentin a Roberto Morassut. E poi Piero Terracina, Miriam Mafai, Ettore Scola. E, tra loro, Dario Franceschini. Valter saluta. Parte un applauso, spontaneo. "Non è la riunione di un corrente, ma un momento per ragionare insieme del nostro paese", dice il senatore Zanda a cui tocca fare gli onori di casa. E ovviamente del partito. "Giovani, leadership, come costruire una classe dirigente, come costruire una democrazia compiuta", sono le questioni che Zanda mette sul tappeto. "Ma l'amalgama è riuscito", assicura. E poi lascia le parole agli altri testimonial. Che parlano di quello che non ha funzionato in questi anni, del vecchio, del nuovo. E ben presto il grido diventa "Basta a questo Pd che assomiglia al Gattopardo". Lo lancia Francesca Barracciu, da isolana. "I morti seppelliscano i morti e lasciamo spiccare il volo al Pd".

17.00 Francesca Barracciu: "Basta con questo Pd gattopardesco, spazio al nuovo"
Con le sue 117mila preferenze conquistate in Sardegna Francesca Barracciu, se non fosse per i meccanismi elettorali che tagliano sistematicamente via la seconda isola dal parlamento europeo, poteva essere un'altra Debora Serracchiani. E un po' parla come lei. Dice che "Franceschini sta “simpatico anche a lei". Ma poi aggiunge carne al fuoco. Contro un "Pd gattopardesco" e "una classe dirigente che ormai il futuro ce l'ha alle spalle".  "I morti seppelliscano i loro morti e sia consentito a questo partito di spiccare il volo", dice Francesca Barracciu, "A me più che i 150 anni che abbiamo alle spalle stanno a cuore i 20-30 anni che abbiamo davanti". "In Sardegna i signori delle tessere sono già in campo e stanno compromettendo il radicamento serio del partito nei territori", avverte. E andando avanti così: "Non so quanti, anche tra quelli che ci hanno votato alle europee, continueranno a stare con questo partito".

17.15 Pietro Ichino: «Il Pd è nato per dare voce anche a chi non è rappresentato dal sindacato»
Tra i primi a prendere la parola è il giuslavorista Pietro Ichino, che Veltroni ha voluto portare in parlamento. Lo fa citando don Milani. "Dobbiamo occuparci dell’operaio che non ha nemmeno il sindacato alle spalle. Quello a cui nessuno dà voce perché non ha nemmeno una tessera in tasca", dice Ichino. E spiega che è una certa risonanza che ho sentito tra il discorso sul nuovo partito proposto al Lingotto e quelle parole di don Milani che lo ha convinto ad accettare "l'invito di Walter a candidarmi nel 2008". Il suo spirito del Lingotto parla di 2 milioni di lavoratori "ai quali il sindacato non dà voce". Co.co.co, partite Iva. "La vecchia sinistra ha ingannato i giopvani quando ha detto che la fonte del precariato era la legge Biagi", dice. Il "suo" Pd  è nato per rappresentare le istanze di quel popolo.

17.30 David Sassoli: "Non dobbiamo inseguire la destra e i sondaggi"
Il grido lo lancia Francesca Barracciu, ma piace anche al David Sassoli, anche lui una delle "novità" dell'ultima campagna elettorale, che spende qualche parola per difendere Debora Serracchiani e il senso delle sue parole. "Perché se questo partito non può essere un film con Totò e Tina Pica, ancora meno può essere una parodia del Gattopardo in cui i notabili locali indoassano i panni dei rinnovatori", spiega con una battuta quale sia la posta in gioco. Ovvero il rinnovamento. E ancora prima: "Capire cosa si è inceppato". "Non siamo capiti se inseguiamo la destra sul suo stesso terreno", avverte Sassoli. "Dobbiamo essere sinceri e non pensare di barattare valori nel mercato di ciò che i sondaggi dicono ci convenga". E ancora, terzo punto da tenre presente: "In coloro che non ci hanno votato per delusione o per rabbia c'è un forte sentimento di partecipazione". E la speranza di "una nuova politica", che non va tradita.

17.45 Gentiloni: "Non confondiamo il sogno dell'Ulivo con l'incubo dell'"Unione"
Giovani, meno giovani sul palco del Capranica. Ma anche molti della generazione "incriminata", che prova a ritrovare lo spirito del Lingotto: "Appartengo a una generazione che a 18 anni ne aveva già quaranta e non ha mai accettato i compierne 41", premette con una citazione l'ex ministro Paolo Gentiloni. Che prova a farsi carico, appunto, dello spirito del Lingotto, prima di tutto difendendo le primarie come via al rinnovamento: "Le primarie sono quel meccanismo che ha permesso a un ragazzo di 35 anni di diventare sindaco di Firenze contro tutto e contro tutti". E senza mitizzare il Lingotto prova a recuperare l'obiettivo messo a fuoco allora: il governo del paese. "Se si manifestasse una crisi della ledership a destra e il Pd non fosse pronto sarebbe insopportabile per il nostro popolo", avverte. E suggerisce da ex Dl di sgomberare il campo dalle nostalgie. Per Ds e Margherita, un partito del 16-17% e un altro del 10-11%. O anche per l'Ulivo. Perché "Non vorrei qualcuno confonda il sogno dell'Ulivo con l'incubo dell'"Unione".

18.15 Serracchiani: "Conflitto d'interessi, laicità , giustizia. Ma il Pd per essere una forza riformista deve fare spazio anche a chi un passato non ce l'ha"
Prova a fare il bis. E sarà che la platea è "simpatica", come dice lei, con un pizzico di autoironia, ma gli applausi arrivano anche questa volta. Specie quando, marzullescamente, Debora Serracchiani si fa una domanda e si dà una risposta. "Abbiamo qualcosa da rimproverarci?". "Abbiamo molto da rimproverarci", dice, cominciando il lungo elenco delle "doglianze" con il conflitto di interessi. Il passaggio più applaudito di tutto il discorso. "La prima volta ne abbiamo sentito parlare nel 1993 e siamo ancora qui a dirci che qualcosa non è risolto. Abbiamo qualcosa da rimproverarci? Sì abbiamo molto da rimproverarci", bacchetta Debora che scandisce: "Quello che chiede al Pd è di mettere in agenda problema e indicare con quali strumenti risolverlo. Non vorrei che arrivassimo al punto che l'interesse di un privato non deve essere turbato da quello pubblico". L'agenda del Pd. Debora prova a scandirla, da leader. Da giovane emergente che riconsoce il passato ma rivendica: "Il pd per essere una grande forza riformista ha bisogno anche di quelli che un passato non ce l'hanno".  La laicità , prima di tutto, il tema su cui ha battuto di più durante il suo discorso di esordio. E quindi la necessità di ricercare dentro al Pd "un'etica condivisa". "La legge sul divorzio e sull'aborto non sono stati incidenti di percorso ma esempi concreti di laicità", scandisce, sperando che da lì si possa ripartire. "E questa volta non ci fermeremo alla libertà di coscienza ma troveremo una vera sintesi". E poi ancora: "Giustizia. Ne parliamo solo il giorno in cui si inaugura l'anno giudiziario. Non può essere tabù, un tema da lasciare a Di Pietro". La legge elettorale: "Non posiamo tirarlla fuori di tanto in tanto. Abbiamo dato battaglia contro il porcellum, ora dobbiamo tenere in agenda la riforma sistema elettorale. Discutiamo animatamente ma decidiamo".

Confessa di aver riletto il discorso del Lingotto per prepararsi. Forse per questo anche lei tira fuori una lettera. Non la legge. La riassume. Quella di Rita Clemente, ricercatrice, "che se ne è andata dall'Italia sperando che un altro paese possa garantire vita migliore ai suoi tre figli". Rinuncerà alla cittadinanza, racconta Debora. "Il pd deve costurire un paese in cui nessuno rinunci ad essere italiano", dice, spiegando, alla Veltroni, l'Italia che lei ha in mente. Laica. Dove la "morale" è qualcosa che "riguarda tutti noi e non solo un problema del presidente del consiglio". E dove la sicurezza e l'integrazione non siano valori che dividono destra e sinistra. "Bisogna creare una alternativa culturale a quella dei piccoli egoismi che la destra è riuscita a imporre nella testa degli italiani prima ancora che nelle urne", dice. Ma prima ancora, per farlo, "bisogna tornare a parlare con la gente".


18.30 Chiamparino: "Troppi chi, il congresso non è cominciato bene". E poi va via l'audio
Sono le 18.30 quando al Lingotto va via il collegamento audio. Debora Serracchiani ha appena finito di parlare.  "Che sia un sabotaggio delle giovani generazioni", scherza qualcuno. Sul palco quando i microfoni si spengono "Sergio Chiamparino, che dopo aver rinunciato a candidarsi, si trova anche a dover rinunciare a parlare. A meno fino a quando i microfoni non si riaccendono. Fa appena in tempo a dire l'essenziale. "Non abbiamo più l'orgoglio di essere dalla parte giusta", scandisce rimandando per contrasto all'esempio della Lega. Anche lui riparte dal Lingotto, ma quello di sabato, quello dei "piombini", dei giovani in cerca di una "terza via". E avverte "troppi chi troppi pochi che cosa il congresso non è iniziato bene". Torna l'audio. E Chiamparino lancia il suo "partito federale e autonomista". Prima però riprende parlando un po' da leader e un po' "da sindaco", visto che "è quello che ho scelto di continuare a fare". E spiega che cosa significa non inseguire la destra sulla sicurezza e tenere presente però che la sicurezza è anche una questione di libertà delle persone. "Le ronde servono per far sì che polizia e carabinieri si occupino delle ronde invece che della sicurezza, premette. Ma: "L'unico modo per fare sentire più libero e più sicuro l'operaio è fare più asili nido o più case popolari per chi si sente scavalcato in graduatoria dagli immigrati". E invoca con Pietro Ichino che ha parlato poco prima di lui una "grande ridistribuzione del reddito che sposti risorse da settori garantiti e protetti a settori non garantiti e protetti". Questo spiega significa "essere dalla parte giusta del paese". Invoca la laicità . E poi la questione che gli sta più a cuore. "Lo vogliamo fare o no un partito federale e autonomista?", chiede rivolto a Veltroni. E invoca piattaforme regionali autonome che magari possano avere uno sbocco unitario. Questa è la base – dice – per avviare quel partito che parta dai territori e per tornare coon questo congresso a parlare al paese.

02 luglio 2009
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 18, 2009, 07:20:28 pm »

«Alleanza riformista con Vendola, socialisti e radicali.»

«Lavorerò nell’Antimafia e sul conflitto d’interessi»

«Non posso tollerare il potere sempre più invadente della criminalità»


ROMA — «Buono e chiaro il discorso di Franceschini. Un passo avanti per il Partito democratico».

Cosa fa uno dei pochi leader politici italiani che si è dimesso da leader, cosa fa Walter Veltroni ex segretario Pd? «Non sono pentito, ma non sto fuori con allegria. Diciamo che sono sereno».

Dalla politica non ci si riesce a dimettere... «Voglio occuparmi dei temi che mi appassionano. Non si può accettare passivamente di vivere in un Paese in cui le mafie hanno un potere sempre più invadente. Camorristi che sparano per strada, Saviano che vive braccato, le organizzazioni criminali che fatturano 100 miliardi l’anno. Una parte del Sud è nelle loro mani, e risalgono l’Italia. Assurdo che in Italia si parli d’altro».

Quindi? «Ho chiesto al capogruppo del Pd alla Camera di far parte, come semplice membro, della Commissione antimafia».

Senza farsi troppo notare, segue anche le vicende del Pd... «Vedo due piattaforme nitidamente diverse. Una è legittimamente dentro l’evoluzione Pci-Pds-Ds. Punta a un modello di partito come ce n’erano un tempo».

L'altra? «La piattaforma di Franceschini disegna un partito con l'ambizione di cambiare radicalmente il Paese, diventando il perno dell’Alleanza riformista per l’Italia. Per me, dopo il fallimento dell’Unione, è questa la vocazione maggioritaria del Pd».

Alleanza riformista, assieme a chi? «Questo Pd dovrebbe sviluppare innanzitutto il rapporto con la formazione di Vendola, i socialisti di Nencini, i radicali ».

E Di Pietro? L'Udc? «La prima fascia di alleati è quella che ho detto. Poi, sulla base dei progetti riformisti, si possono stringere patti con le altre formazioni di opposizione».

Parliamo solo di forze politiche consolidate. «Il partito deve essere invaso dalla società civile. Perché la modernità è fatta di persone che vivono con la politica un rapporto non totalizzante. Queste persone devono essere in prima fila, come alle primarie del 14 ottobre. Altrimenti, gli stati maggiori ammalati di correntismo restano padroni. Correntismo: la malattia più grave che ha minato il Pd!».

Malattia che può vanificare il progetto? «L’errore mio più grave, da segretario, è stato non combattere a fondo le correnti. Nei partiti moderni si discute, poi si vota e si decide. Nel Pd il rischio è che ci siano tante casematte raccolte attorno ai vari leader e chiuse all’esterno. Così, la selezione delle classi dirigenti non avviene fra i migliori ma sulla base delle quote di appartenenza».

Una visione che non apre grandi prospettive. «Con Vico, sostengo: Parevan traversie, erano opportunità. Ma ciascuno deve pensare con la propria testa e non essere "uomo" di qualcun altro. I danni compiuti sono sufficienti. La grande tragedia di questi anni, che ha aperto la strada al periodo berlusconiano, è la caduta del primo governo Prodi».

Ventuno ottobre 1998, Veltroni vicepremier. «Sì, Ciampi al Tesoro, Napolitano agli Interni, Andreatta alla Difesa. Un governo troppo autonomo dai partiti. E i partiti lo fecero saltare. Rifondazione comunista, innanzitutto ».

Ma non solo. «Non solo. In quel governo nessuno ha mai parlato a nome di un partito o di una delegazione».

Quindi, certi vizi non sono mai stati debellati? «Ho fatto il segretario del Pd per soli 14 mesi. Una cosa mi dispiace davvero: dopo le dimissioni nessuno degli altri protagonisti ha alzato la mano e ha detto: "Forse qualcosa ho sbagliato anche io". Non dipendeva da me la vicenda dei rifiuti in Campania, né l’andamento della giunta in Abruzzo. Sarebbe stato bello e generoso se qualche mano si fosse alzata. Anche fra i ministri del secondo governo Prodi...».

La mano di D'Alema. «Basta. L’eterna diatriba D’Alema-Veltroni io l’ho chiusa unilateralmente. Con le mie dimissioni e la decisione di non partecipare al congresso».

Ma il correntismo, la caduta del primo governo Prodi... «Io e D'Alema abbiamo due diverse visioni politiche. E non da oggi. Ma questo può essere fecondo e vitale, in un clima di lealtà e solidarietà».

Oggi però sembra che le carte comincino a mescolarsi. Fassino con l’ex Dc Franceschini, l’ex popolare Bindi con Bersani. «È positivo. A patto che non siano blocchi compatti che scelgono una parte o l’altra ».

Se Franceschini perde il congresso, c’è un rischio scissione dei moderati? «La risposta è no».

Cosa pensa della candidatura Grillo? «Grillo ha raggiunto il suo scopo: stare sui giornali, sempre contro il centrosinistra ».

Ieri Franceschini ha fatto autocritica sulla legge mai varata dal centrosinistra contro il conflitto di interessi. «Tema chiave. Berlusconi che convoca Fiorello per chiedergli di non andare in un gruppo televisivo concorrente del suo è una vicenda simbolica, come la demolizione della vita culturale del Paese che il governo sta attuando. Con Roberto Zaccaria lavoriamo a un testo molto semplice: incompatibilità fra funzioni pubbliche e possesso di mezzi di comunicazione».

Neanche il governo Prodi- Veltroni si occupò di conflitto di interessi. «Tutto era sospeso, in quel periodo: andava avanti il lavoro della Bicamerale per la grande riforma istituzionale, che poi Berlusconi fece saltare».

Franceschini ieri è tornato a parlare di una riforma di governo e Parlamento da condividere con gli avversari. «Gli interlocutori non si scelgono e una riforma istituzionale è indispensabile: o il funzionamento della democrazia diventa veloce, o la democrazia sarà travolta e la gente preferirà le decisioni alla partecipazione».

Non sta già accadendo? «Il modello di democrazia imperiale di Berlusconi prevede opinione pubblica debole e potere forte. Quindici anni di berlusconismo stanno lasciando il Paese in ginocchio: deprivazione di valori, sottrazione di legalità. Sfiducia e odio sono gli ingredienti più diffusi. Inquietudine e frustrazione sono diffusi quanto mai prima ».

C’è stato clamore, pochi giorni fa, per la sua rivalutazione di Bettino Craxi, più «moderno» di Berlinguer. «La prima fase del nuovo corso socialista, la stagione del congresso di Torino e della convenzione di Rimini o posizioni come quelle di Sigonella mostrarono indubbia vitalità. Ma ho sempre detto che Berlinguer ha saputo compiere strappi coraggiosi e decisivi rispetto alle posizioni tradizionali del Pci, vedi la Nato o l’Europa. E Berlinguer aveva ragione sulla questione morale. Il Psi non cadde per un complotto dei giornali. Esisteva allora una questione morale, e non riguardava solo i socialisti. Questione morale che esiste anche oggi».

Andrea Garibaldi
18 luglio 2009

da corriere.it


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La citazione

Giambattista Vico (1668-1744) fu filosofo e storico.
La frase qui citata da Veltroni— «sembravano traversie ed erano in fatti opportunità» —è tratta dalla dedica a papa Clemente XII dell’edizione del 1730 della Scienza nuova. Nell’opera, l’uomo viene individuato come il creatore della civiltà umana attraverso la storia: ma al di là della sua azione si colloca quella di una Provvidenza che porta alla realizzazione di obiettivi di progresso e giustizia
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 02, 2009, 03:43:10 pm »

«Incompatibilità tra incarichi di governo e proprietà di patrimoni superiore a 30 milioni»

Conflitto d'interessi, la bozza Veltroni sottoscritta da Pd, Idv e Udc

L'ex segretario: «L'assenza di questa norma ha privato l'Italia di una regola tipica delle democrazie liberali»

 
ROMA - Tredici articoli e il tentativo di rimediare a quello che viene definito un «vulnus» della legislazione italiana: è la proposta di legge per regolare il conflitto di interessi che Walter Veltroni ha presentato insieme a Roberto Zaccaria, del Pd, e a deputati di tutti i partiti d'opposizione: Massimo Donadi e Leoluca Orlando dell'Italia dei Valori, Bruno Tabacci dell'Udc e Beppe Giulietti, portavoce dell'Associazione Articolo 21, eletto nell'Idv e ora passato al gruppo Misto.

SEPARAZIONE - «Come avevo annunciato - afferma Veltroni - ho lavorato con Roberto Zaccaria ad un testo di legge che affronti in modo definitivo il tema, cruciale in una democrazia, della separazione tra interessi pubblici e privati. In questi anni la colpevole assenza di questa norma ha finito con il privare il nostro Paese di una regola tipica di tutte le democrazie liberali. Il valore politico di questa iniziativa - conclude l'ex segretario del Pd - è per me in primo luogo nel fatto che essa è sostenuta e sottoscritta unitariamente da autorevoli parlamentari di tutta l'opposizione».

LE REGOLE - Nella relazione al testo si definisce inefficace la legge Frattini del 2004 e si citano il testo di Dario Franceschini della passata legislatura e quello di Gianclaudio Bressa, presentato nell'aprile scorso. La proposta di legge in particolare, stabilisce la «incompatibilità assoluta» tra precisi incarichi di governo (da presidente del Consiglio a sottosegretario a commissario del governo) e, ad esempio, «la proprietà di un patrimonio di valore superiore a 30 milioni di euro la cui natura, anche riguardo alla concentrazione nel medesimo settore di mercato, configura l'ipotesi di conflitto di interessi», «la proprietà, il collegamento o il controllo diretto o indiretto di un'impresa che svolga la propria attività sulla base di qualunque titolo abilitativo rilasciato dallo Stato». In questo caso, la soluzione indicata dalla proposta di legge è «l'invito ad optare (da parte dell'Autorità Antitrust, ndr), con decadenza dalla carica in caso di mancata opzione». Fuori dai casi di incompatibilità assoluta, invece, si indica la strada dell'obbligo di astensione, sottoponendo il caso all'Autorità. La proposta di Veltroni indica poi la strada per la «repressione di situazioni di conflitto di interessi»: diffida, sanzioni amministrative pecuniarie per violazione degli obblighi di dichiarazione o di astensione o per inottemperanza alla diffida, che arrivano fino a un livello «non inferiore al doppio e non superiore al quadruplo del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dall'impresa» proprietà del soggetto. Il testo prevede infine anche la «parità di accesso ai mezzi di comunicazione durante le campagne elettorali», da parte dei candidati a cariche elettive.


01 agosto 2009
da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 17, 2009, 04:38:12 pm »

17/10/2009

Il silenzio colpevole
   
WALTER VELTRONI


Caro direttore,
un mio amico appassionato di montagna mi ha raccontato che ormai su alcune grandi vette italiane si vede la neve nera. Questa immagine mi torna nella mente guardando il mio Paese oggi. La meraviglia della sua storia, della sua identità, della sua cultura, nitida come la neve. E la pesantezza di uno spirito pubblico, di un senso comune, in cui smarrimento e odio sembrano avere il colore della pece.

«Alla democrazia ghe pensi mi»: è una frase che racconta per intero l’assurdità della condizione politico-istituzionale in cui si trova oggi l’Italia.
Così come racconta molto il fatto che, diciassette anni dopo, numerosi indizi fanno pensare alla morte di Paolo Borsellino come alla conseguenza dell’eroico rifiuto di una trattativa tra Stato e mafia.

Eccola, l’istantanea del nostro Paese. Rissosità politica condita da un odio che ha paragoni solo con i momenti più duri degli Anni Settanta e Ottanta.

E immobilità, ripetizione sistematica di diseguaglianze, conservatorismi, illegalità. Tutto questo non può durare sino allo sfinimento del Paese.

«Maggioranza silenziosa». Dalla fine degli Anni Sessanta in America, e subito dopo da quest’altra parte dell’oceano, Italia compresa, è con queste parole, che si descrive la larga parte di cittadini abituata a non partecipare attivamente alla vita politica e a non esprimere opinioni sulle grandi scelte del proprio Paese. È un’espressione che nel tempo ha avuto indubbio successo, che ancora oggi è ampiamente usata e che permette spesso a chi governa di accreditarsi come beneficiario di un consenso popolare a prova di qualunque opposizione.

Io credo che oggi, in questo preciso momento storico, sia però un’altra la definizione che meglio racconta lo spirito diffuso, il clima prevalente, del nostro Paese. In Italia, questa è la mia idea, c’è una «maggioranza civile» che forse non riesce ancora a farsi sentire, visto se non altro il clamore di polemiche e scontri ormai continui e assordanti, ma che certo non è passiva, non è disinteressata, non è rinunciataria. È una maggioranza civile stanca di Berlusconi e delle sue urla, sempre più attonita di fronte ad un presidente del Consiglio che negando alla radice il suo stesso ruolo è in guerra ormai con tutti: con il Capo dello Stato e con i giudici della Corte Costituzionale, con i mezzi di informazione che raccontano quel che non dovrebbero e con i giornali che affermano con il loro lavoro la sacralità di quel diritto che si chiama libertà di stampa, con i sindacati che difendono i diritti dei lavoratori, con l’Unione Europea che ammonisce l’Italia a non scadere in comportamenti inumani nei confronti degli immigrati. È una maggioranza civile stanca anche di un «grillismo» che non a caso, come il «berlusconismo», fa rima con populismo. Stanca pure di un certo «dipietrismo» che troppe volte preferisce la facilità della polemica alla difficoltà della ricerca delle soluzioni.

Non è una maggioranza, nessuno si illuda e nessuno fraintenda, da catalogare nel gioco della composizione e scomposizione di questo o quello schema politico, di questa o quella prospettiva di governo. Per essere chiari, considererei un errore gravissimo ipotesi di governi pasticciati o di grandi coalizioni, che apparirebbero tanto velleitarie quanto inopportune in un Paese che ha invece bisogno di radicali innovazioni, di profonde sfide ai conservatorismi e non di accordi politici al minimo comun denominatore. Non è tempo di «governissimi». È tempo di una sana alternanza di tipo europeo.

È la larga parte della popolazione italiana che vorrebbe un Paese retto semplicemente (anche se dopo un quindicennio sappiamo quanto semplice non sia) da una naturale dialettica democratica: due schieramenti alternativi, in serrata e anche aspra competizione politica, ideale e programmatica, per guadagnare il diritto di governare e il dovere di rispondere a fine legislatura del proprio operato. Dovrebbe essere una cosa scontata? Sì, è vero, e in effetti in ogni grande Paese europeo è così. Ma da noi no. Proprio non riusciamo ad uscire da logiche vecchie e paralizzanti, da conservatorismi, veti e rissosità di diverso tipo e con un solo esito: il male dell’Italia. E la mia paura è che così proseguendo il nostro continuerà ad essere un Paese fermo e terribilmente diseguale, con infrastrutture arretrate e senza mobilità sociale, sempre più diviso fra ricchi e poveri, fra chi paga le tasse e chi no. E se aggiungiamo l’atteggiamento di chi spinge a contrapporre Nord e Sud e un clima di cupa intolleranza e ora di vergognosa omofobia e di violenza, verbale e non solo, che avvolge le nostre città e colpisce i più deboli, gli indifesi, chiunque sia percepito come «altro», ecco emergere il ritratto preoccupante di un’Italia che tende a frammentarsi pericolosamente e che rischia davvero di smarrire se stessa, la sua identità, il suo futuro.

Io ora sono fuori da responsabilità nella vita politica attiva. Ma amo il mio Paese e oggi lo vedo impaurito, sfiduciato, attraversato di nuovo da un clima di odio e contrapposizione che nella storia italiana è spesso sfociato in intolleranza e violenza. Sento perciò che il malessere diffuso che c’è nell’opinione pubblica e che confessano sottovoce molti uomini politici, anche della maggioranza, dovrebbe produrre a breve un sussulto di responsabilità politica e istituzionale, di tutti e di ciascuno. Anche con il coraggio di cercare quella riforma della macchina delle decisioni e delle garanzie che per me costituisce da tempo il cuore dei problemi italiani.

Nella storia di questo Paese quando la democrazia, specie in tempi di insicurezza sociale, si è inceppata, la nazione è sempre precipitata verso avventure pericolose. Per questo i silenzi oggi sono colpevoli. Per questo la speranza, una speranza che ogni persona di buon senso è chiamata a far crescere, vorrei dire ora o mai più, è che il silenzio si rompa definitivamente, che una stagione si chiuda e un’altra se ne apra. Una stagione più civile, nella quale la maggioranza degli italiani potrà finalmente ritrovarsi.

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Agosto 24, 2010, 11:04:51 am »

La lettera di Walter Veltroni

«Scrivo al mio Paese e vi dico cosa farei»

Rischiamo che questa monarchia livida sia sostituita da una pura difesa dell'esistente.

Si va incontro a suggestioni di democrazia autoritaria del sistema russo o cinese


Caro Direttore, scrivo al mio Paese. Scrivo agli italiani che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavoravano o perché non possono lavorare. Scrivo agli imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un'autostrada come la Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi
in questi mesi.


Scrivo ai lavoratori che sentono che si è aperto un tempo nuovo e difficile, in cui, per resistere alla pressione di una globalizzazione diseguale, dovranno rinegoziare e ritrovare un equilibrio nuovo tra diritti e lavoro. Scrivo ai nuovi poveri italiani, i ragazzi precari, che arrivano a metà della vita senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la sicurezza di poter mettere al mondo dei figli. E senza che politica e sindacati si occupino di loro.
Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, un secolo di questo tempo leggero e bulimico, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio. Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese.

Ma non è successo, per tanti motivi. Come cercherò altrove di approfondire, credo più per ragioni profonde e storiche che per limiti di quella campagna elettorale che si concluse con il risultato elettorale più importante della storia del riformismo italiano. Non è successo e dopo alcuni mesi io mi feci da parte. Forse è questo l'altro titolo per il quale sento di potermi rivolgere al mio Paese. Sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie). Non ho chiesto alcun incarico, non ho fatto polemiche, non ho alimentato veleni. Ho semmai taciuto e ingoiato fiele, anche di fronte a varie vigliaccherie.

Cosa sta succedendo a noi italiani? Abbiamo trascorso la più folle e orrenda estate politica che io ricordi. Una maggioranza deflagrata, un irriducibile odio personale e politico tra i suoi principali contraenti, toni e giudizi che si scambiano non tra alleati ma tra i peggiori nemici. E poi dossier, colpi bassi, una orrenda aria putrida di ricatti e intimidazioni che ha messo in un unico frullatore informazione, politica e forse poteri altri costruendo un mix che non può non preoccupare chi considera la democrazia come un insieme di regole, di valori, di confini. Il Paese assiste attonito allo sfarinarsi della maggioranza solida che era emersa dalle urne, a ministri che sembrano invocare freneticamente la fine della legislatura, nuovi voti, nuovi conflitti laceranti. Mentre stanno per essere messe in circolo emissioni consistenti di titoli pubblici per finanziare il nostro abnorme debito pubblico chi governa questo Paese sembra dominato dal desiderio della instabilità. E, tutto, senza una parola di autocritica. Chi ha vinto le elezioni e ne provoca altre neanche a metà delle legislatura vorrà almeno dichiarare il proprio fallimento politico?

L'alleanza di centrodestra sembra immersa nello scenario dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Prima l'abbandono di Casini, ora la irreversibile crisi con Fini. Le forze più moderate hanno abbandonato uno schieramento sempre più dominato dalla logica puramente personale degli interessi di Berlusconi e dallo spirito divisivo di una Lega che alimenta ogni forma di egoismo sociale con lo sguardo solo al tornaconto elettorale immediato. Con effetti che già registriamo nel sentire diffuso e nei comportamenti. Un Paese che smarrisce il suo senso di comunità, la sua anima solidale, la sua coscienza unitaria finisce con lo sfarinarsi violentemente.

Quella che stiamo vivendo è una profonda crisi del nostro sistema. Era la mia ossessione quando guidavo il Pd. Mi angoscia l'idea che la democrazia rischi sotto la pressione delle spinte populistiche e dei conservatorismi di varia natura. E la crisi di questi mesi rafforza una distanza siderale tra la vita politica e i reali bisogni dei cittadini e della nazione. Berlusconi forza costantemente e pericolosamente i confini immaginando di vivere in un regime che non esiste. Se ci fosse un semipresidenzialismo lui certo non potrebbe disporre, ciò che è già una insopportabile anomalia oggi, di giornali e tv con i quali promuovere se stesso e randellare i suoi avversari. Ma neanche quella che su questo giornale è stata giustamente definita la «repubblica acefala» può fare sentire al Paese che il sistema politico tempestivamente ascolta, comprende, decide. Indeterminatezza di tempi, modalità, sedi di decisione hanno accompagnato anche altre stagioni politiche.

Questo è il rischio che corriamo, l'alternativa tra una monarchia livida e una pura difesa dell'esistente. E tra i cittadini rischia di rafforzarsi l'idea che di fronte alla velocità del nostro tempo, dei suoi repentini mutamenti sociali e finanziari, a essere più «utile» sia un sistema che decide, qualsiasi esso sia. Il rischio è che si faccia strada, anche in Occidente, quella suggestione di «democrazia autoritaria» che è già una realtà in sistemi, come quello russo o, in forma diversa, in quello cinese, che stanno segnando il tempo della fine dei blocchi. La possibilità che la società globale porti con sé un principio di disunità e che questo reclami poteri centrali forti e semplificati è molto di più di un rischio. Rimando per una analisi più compiuta al volume di John Kampfner Libertà in vendita o al bellissimo lavoro di Alessandro Colombo La disunità del mondo. In una società globale una democrazia che non decide è destinata a soccombere. Ma in una società globale la suggestione autoritaria si scontra con una irrefrenabile esigenza di libertà, libertà di sapere, dire, pensare. Dunque l'unica strada che i veri democratici devono percorrere è quella di una repubblica forte e decidente. Ma questa comporta profonde e coraggiose innovazioni, nei regolamenti delle Camere, nell'equilibrio dei poteri tra governo e Parlamento, nelle leggi elettorali, nella riduzione dell'abnorme peso della politica, nella soppressione di istituzioni non essenziali. Bisogna semplificare e alleggerire, bisogna considerare il tempo delle decisioni come una variante non più secondaria. E, soprattutto, l'Italia, tutta, deve ingaggiare una lotta senza quartiere alla criminalità che succhia ogni anno 130 miliardi di euro alle risorse del Paese. Non basta che si arrestino i latitanti. La mafia è politica, è finanza. La mafia compra e condiziona. La mafia invade tutto il territorio e credo che ora, guardando le cronache di Milano o di Imperia, ci si accorga finalmente che non è un problema della Kalsa di Palermo o una invenzione di Roberto Saviano, ma una spaventosa realtà che altera il mercato, distorce la concorrenza, limita la libertà delle persone.

Le culture di progresso non possono declinare solo un verbo: difendere. Agli italiani non sembra di vivere in un Paese da conservare così come è. Un Paese che non ha una università tra le prime cento del mondo (dopo averle inventate), che ha una metà, meravigliosa, di sé sotto il condizionamento di poteri criminali, che ha evasione altissima e altissima pressione fiscale, che ha una amministrazione barocca e il primato dei condoni, che scarta come un cavallo l'ostacolo ogni volta che deve sfidare sondaggi e corporazioni. Un Paese fermo, che ha bisogno di correre. Che ha bisogno di politica alta, ispirata ai bisogni della nazione. Non è retorica. Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e altri hanno dimostrato che si può stare a Palazzo Chigi per servire gli italiani. Bene o male, ma servire gli italiani. Non se stessi.

Spero che si concluda rapidamente l'era Berlusconi. Ma forse con una visione opposta a quella di alcuni protagonisti della vita politica italiana. Spero che finisca questo tempo non per tornare a quello passato. Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo e riportare l'orologio ai giorni in cui pochi leader decidevano vita e morte dei governi, quasi sessanta in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante. Anche perché quei partiti avevano storie grandi che affondavano nel Risorgimento o nelle lotte bracciantili e quei leader avevano fatto, insieme, la Resistenza o la Ricostruzione. Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché la sua anomalia (una delle tante, troppe della storia italiana) ha costretto dentro recinti innaturali, pro o contro, una dialettica politica che avrebbe potuto e dovuto esprimersi nelle forme tipiche della storia del moderno pensiero politico occidentale. Senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo, schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti, capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente in un Paese con una politica più lieve e perciò più veloce ed efficiente nella capacità di decisione del suo sistema democratico. Solo così sarà possibile affrontare, in un clima civile, l'indifferibile esigenza di ammodernamento costituzionale per dare alla democrazia la capacità di guidare davvero la nuova società italiana. Se saremo invece tanto cinici da pensare che il declino di Berlusconi possa aprire la strada a un nuovo partitismo senza partiti e alla sottrazione ai cittadini del potere di decidere il governo, finiremo con l'allungare l'agonia del berlusconismo e l'autunno italiano.

In questa estate orrenda non per caso la frase più citata dai leader politici è stata «Mi alleo anche con il diavolo pur di...». Lo ha detto Calderoli parlando del Federalismo, lo hanno detto alcuni leader del centrosinistra parlando della necessità di una santa alleanza contro Berlusconi. Io rimango dell'idea che invece le uniche alleanze credibili, prima e dopo le elezioni, siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica. In fondo il repentino declino del centrodestra conferma proprio questo. È giusto semmai che, in caso di crisi di governo, si cerchino soluzioni capaci di fronteggiare per un breve periodo l'emergenza finanziaria e sociale e di riformare la legge elettorale dando forma, per esempio attraverso i collegi uninominali e le primarie per legge, a un moderno e maturo bipolarismo. Perché poi, alle elezioni prodotte dal dissolvimento della destra, si presenti uno schieramento alternativo capace di assicurare all'Italia quella stagione di vera innovazione riformista che questo nostro Paese non ha mai conosciuto. Perché questo Paese deve uscire dall'incubo dell'immobilità che perpetua rendite e povertà. Deve conoscere un tempo di radicale, profondo cambiamento. È questo, da decenni, il frutto dell'alternanza nei diversi Paesi europei.

Il nostro è un meraviglioso Paese. Amare l'Italia e gli italiani dovrebbe essere una precondizione per partecipare alla vita politica. Chiunque alzi gli occhi nella Cappella Palatina di Palermo o nella galleria di Diana di Venaria Reale non può non sentire tutto intero l'orgoglio di essere figlio di questo Paese e della sua straordinaria e travagliata storia. Lo stesso orgoglio che si prova pensando agli italiani che lavorano per la nazione, imprenditori od operai, insegnanti o poliziotti. Per questo il nostro Paese merita di più. Merita di più dei dossier e dei veleni. Di più della politica ridotta a interesse di un leader. Di più delle alleanze con il diavolo. Il nostro Paese deve smettere di vivere dominato solo da passioni tristi. È difficile. È possibile.

Walter Veltroni

24 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 26, 2010, 11:34:03 am »

26/9/2010

La testa in avanti

WALTER VELTRONI


Caro direttore,
il Partito Laburista solo qualche mese fa ha perso le politiche in modo rovinoso.
Non è una eccezione, purtroppo. Il roll back della sinistra in Europa è clamoroso. In poco più di dieci anni sono passati alla destra Francia, Germania, Inghilterra, Italia e anche i Paesi scandinavi. Nel Vecchio Continente si affermano una nuova destra populista e persino forze dichiaratamente estremiste se non esplicitamente neofasciste. Il Labour Party ha scelto tra due belle, giovani, candidature separate, al traguardo, solo da un punto percentuale di differenza. David ha svolto la sua campagna richiamandosi alle intuizioni del New Labour di Tony Blair che fece voltare pagina agli inglesi dopo il lungo periodo thatcheriano. Suo fratello Ed è un uomo di forte cultura ambientalista, un elemento identitario che cresce nell’opinione pubblica europea, e forse più vicino di altri alle Unions. Ma parliamo, in ogni caso, di veri e coraggiosi riformisti, di vere culture della modernità e dell’integrazione. Lo dimostra la campagna elettorale fatta parlando ai giovani, nei social network, casa per casa. Non c’è nei fratelli Miliband, oggi personalità decisive del partito, nessuna tentazione di trovare testa all’indietro le risposte alle sfide difficili del pensiero democratico in una società globalizzata e parcellizzata. Il Labour si prepara così alla rivincita. In un Paese stabile, segnato dalla cultura dell’alternanza.

Situazione diversa da quella italiana. Nella quale alla decomposizione dello schieramento di governo non corrisponde ancora, come è stato per Cameron, l’affermazione di uno schieramento alternativo. Luca Ricolfi si è occupato di questo, commentando sulla Stampa il documento sottoscritto da 76 parlamentari.

Ricolfi ha letto il documento e ha detto di condividerne le preoccupazioni politiche: la possibile deriva del Pd e del centrosinistra verso una riedizione dell’Unione, che nel passato ha dimostrato di poter vincere ma non di governare, o la nascita di un terzo polo, arbitro del gioco politico, che impedirebbe ai cittadini di scegliere il governo del Paese. È proprio la preoccupazione per questi due possibili esiti di elezioni anticipate che ha portato il Pd, nelle scorse settimane, a unirsi attorno al segretario Bersani nel sostenere l’utilità, in caso di crisi di governo, di un governo di emergenza, per rasserenare il Paese e cambiare la legge elettorale.

Ricolfi pone problemi reali. Sono convinto che dietro la orrenda stagione politica che stiamo vivendo non ci sia solo un insanabile contrasto personale e politico, ma anche l’evidente inadeguatezza della coalizione di centrodestra a realizzare l’ambizioso programma di riforme del quale il Paese ha urgente, perfino drammatico, bisogno. Si tratta di un fallimento che si ripete per la terza volta ed è il frutto di una insanabile contraddizione tra la natura populistica del berlusconismo e quel moderno riformismo che serve a scuotere l’Italia.
La sconfitta del centrodestra e del berlusconismo è quindi condizione necessaria per far ripartire l’Italia. Necessaria, ma non sufficiente.

L’altra condizione è che il Partito democratico si dimostri in grado di aprire quel ciclo riformatore che né l’Unione né il centrodestra, pur così diversi tra loro, sono stati in grado di realizzare. Il Partito democratico è nato per questo, per far rinascere la speranza nel cambiamento, ma «per responsabilità diffuse e condivise», come abbiamo scritto nel documento, non è ancora riuscito a mettersi all’altezza della sfida. E infatti, Berlusconi perde terreno, non solo nei sondaggi, anche nelle elezioni vere: alle regionali il Pdl ha perso il 40 per cento dei voti che aveva preso alle politiche. Eppure, noi non riusciamo ad approfittarne.

Nel documento lo spieghiamo così: usiamo troppo la parola «difendere», applicata a questa o a quella conquista del riformismo del secolo scorso, e troppo poco la parola «cambiare».
Prendiamo giustizia e scuola. C’è una sola cosa straordinaria in questi settori ed è la passione e la motivazione di chi vi lavora. Ma le mediocri performance di questi due essenziali servizi sono alla base della scarsa competitività e della crescente disuguaglianza: oggi, carriere e stipendi degli operatori dipendono, essenzialmente, dalla anzianità. È un incentivo distorcente. Bisogna privilegiare, previa valutazione di tutto e di tutti, il merito e l’impegno.

Abbiamo i salari più bassi tra i grandi Paesi dell’Ue, il costo del lavoro relativamente alto e una produttività del lavoro e totale declinante. Ci vuole un nuovo, coraggioso, patto tra produttori, ispirato alla crescita e al lavoro. E rimango convinto che una forza democratica non abbia oggi senso se non si propone di dare una risposta alla più inaccettabile delle moderne disuguaglianze, la totale assenza di certezza per l’oggi e di speranza per il futuro che oggi devasta la vita di milioni di giovani italiani, uno su tre dei quali è disoccupato. Di questo ha scritto ieri Pietro Ichino.

Oggi, nel Sud più che nel Nord, la politica ricerca il consenso con la spesa improduttiva (esempio le assunzioni clientelari); e la società, a sua volta, rivolge alla politica una domanda che ne premia i comportamenti peggiori. In questo senso, il federalismo è un’occasione soprattutto per il Mezzogiorno: costi e fabbisogni standard - per le prestazioni essenziali della Pubblica amministrazione - possono far emergere «buona» politica e «buona» società. Su un punto voglio esprimere un avviso radicalmente diverso da quello di Ricolfi: è quello della lotta per la legalità. Aver assicurato alla giustizia dei latitanti è importante, ma i poteri criminali sono sempre più forti in questo Paese, estendono il loro controllo sul territorio, specie nel Nord più ricco, e condizionano politica e finanza in modo crescente.

Penso che ora per tutti noi l’obiettivo debba essere far finire al più presto il pericoloso autunno del berlusconismo e, insieme, costruire quella chiara alternativa politica che deve dare all’Italia una stagione riformista, che rompa la continuità gattopardesca.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7875&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 24, 2010, 10:33:13 am »

INTERVISTA A VELTRONI

"C'è una maggioranza silenziosa e stanca"

«L'invito a contestualizzare le bestemmie di Berlusconi segna la crisi terribile della Chiesa»


ROMA - «Siamo stati gli italiani che andavano a Firenze per salvare le persone e i libri dall'alluvione. Era l'Italia dei ragazzi del 1966, in fondo figli dei ragazzi del 1945. Eravamo un paese generoso, altruista, solidale. Oggi siamo il paese di quelli che si fanno fotografare ad Avetrana davanti alla casa dov'è stata assassinata una ragazza di quindici anni, o di quelli che si scansano di fronte a una donna colpita a morte nella metropolitana di Roma. È accaduto sul serio questo passaggio? O questo passaggio è nel racconto dell'Italia? Il paese si è trasformato davvero, o si è trasformato il modo in cui viene descritto, narrato, in cui si selezionano le cose importanti?».

Secondo lei, Walter Veltroni?
«Non ci si può stupire se oggi l'Italia, con i suoi efferati fatti di cronaca o con la povertà del suo dibattito politico, mostra un volto che a ciascuno di noi dà ansia e amarezza. Alla domanda "si può vivere senza valori?" lo spirito del tempo ha risposto sì. Invece non è vero. Non si può vivere senza valori. E non mi rassegnerò mai all'idea che gli unici valori per un paese come il nostro fossero quelli racchiusi nelle ideologie del Novecento. Un paese senza valori è un campione senza valore: una scatola vuota, un guscio di anime sostanzialmente finite, un mondo di passioni tristi, una competizione senza regole. Ed è questo che si è voluto. In tutti questi anni si è fatto un genocidio dei valori. Si è animato, per pure ragioni quantitative – i voti, l'auditel –, un paese dominato dalla paura. C'è un bellissimo libretto di Andrea Kerbarker, dedicato alle finte minacce con le quali abbiamo convissuto in questo passaggio di secolo. La vita di tutti noi è dominata dalla paura. Paura di qualsiasi cosa. Paura di malattie misteriose: talvolta riaffiorano persino pesti millenarie dal profondo della storia. Paura della tecnologia. Dello sviluppo. Della crescita. Soprattutto, paura dell'altro. Quell'altro che, quando lo vediamo in televisione, racconto del mondo globalizzato, ci fa sentire onnipotenti, ma quando si materializza davanti a noi ci spinge a considerarlo un pericolo».

La paura non è causata anche dalla crisi mondiale?
«Certo, la paura è figlia anche dell'insicurezza sociale, di un mondo senza garanzie, di ragazzi che crescono avendo timore del futuro e non voglia di futuro. Forse per questo nel 1966 andavano a salvare il passato, e ora vanno a farsi fotografare nell'orrore. Questa insicurezza inevitabilmente genera un'ansia di vivere e sottrae quella voglia di conquistare il futuro che è tipico, persino biologicamente, di una generazione. Paura e insicurezza producono egoismo sociale. È il mondo del "nimby", not in my backyard: fate quel vi pare, ma lasciate perdere il mio giardino. È il paradosso della globalizzazione: da una parte la Cnn, l’I-pad, la Rete; dall'altra un mondo sempre più piccolo, in cui la vita è concentrata nel quartiere, nelle relazioni familiari, dove tutto quel che succede sembra essere un terremoto, visto che non c'è niente di grande fuori che ti faccia mettere le cose nella giusta gerarchia. Non è vero che un mondo senza speranze collettive è più libero e felice; è un mondo più violento. E quando nella storia hanno prevalso le paure - pensiamo all'avvento del nazismo -, si sono fatte strada le soluzioni più devastanti. L'idea che l’altro sia un pericolo ha sempre generato violenza, e questo contrasto tra un mondo grande che si vede in tv e da cui dipende in forma incontrollabile il tuo destino, dall’11 settembre alla crisi finanziaria, e di un mondo bonsai che è quello di un localismo egoista, figlio del rifiuto di una dimensione di relazione sociale e solidale, non può che portare alla barbarie. E persino a rischi per la democrazia».

Di chi è la colpa? Certo non solo della destra.
«Tutti hanno responsabilità in questo. Tutti hanno pensato che i valori fossero roba buona per i poeti e i visionari, e non ossigeno per la convivenza comune. C'è una crisi dei partiti, che parlano solo di se stessi. C'è una spaventosa crisi della scuola, che non riesce a interpretare i bisogni di una generazione figlia di una società frantumata. C'è una crisi terribile della Chiesa: quando ho sentito dire per giustificare Berlusconi da parte di un uomo di Chiesa che anche le bestemmie vanno contestualizzate, ho pensato che forse il processo di secolarizzazione è andato oltre i confini immaginabili. Un paese è anche figlio della sua storia. La rimozione del valore della Resistenza, ormai messa sullo stesso piano di chi aveva continuato l'avventura del fascismo, così come le difficoltà a riconoscere il valore fondativo del Risorgimento e dell'unità d’Italia, raccontano un altro degli elementi di questa cancellazione dei valori».

Un'altra foto di Veltroni (LaPresse)
Un'altra foto di Veltroni (LaPresse)
La televisione come la trova?
«La televisione, la Rete, Facebook sono i luoghi dove il mondo appare. Più il mondo si fa piccolo, più compare attraverso la tv. La ragazza di Avetrana che probabilmente ha contribuito a uccidere sua cugina, e che ha mentito a tutte le trasmissioni tv cui partecipava senza alcun pudore, che quando è stata portata in carcere sembra aver chiesto cos'hanno detto i tg, è il prodotto di un tempo in cui si sono spogliati gli esseri umani di altre ambizioni se non quella di apparire, di essere in tv per dimostrare di essere al mondo. Non sembri un atteggiamento del passato; ma io penso che una società senza pedagogia sia una società morta. Che sia morta una società senza maestri, senza una trasmissione di esperienza, di sapere, di conoscenza che dia a ciascuno degli orizzonti di interesse, di avventura, di scoperta che oggi appaiono assolutamente limitati. Per questo penso che la tv non debba rinunciare a questa ambizione. Tutto è quantitativo nella società moderna, il Pil come l'Auditel, e nulla è qualitativo. Sono convinto che si dovrà trovare uno strumento di rilevazione dello stato di salute di una società diverso dal éil. Qualità dell’educazione, qualità dell'aria, pluralismo informativo, stabilità sociale: esistono tanti altri fattori che una società moderna dovrà trovare il modo di misurare. La stessa cosa vale per la televisione».

Si riferisce in particolare alla Rai?
«Quando il servizio pubblico televisivo fa "L'Isola dei famosi" smette di essere se stesso. C’è qualcosa che viene prima della miseria in cui il direttore generale della Rai ha cacciato l'azienda in questi mesi, dando l'impressione di una volontà di normalizzazione unidirezionale. Il servizio pubblico dovrebbe cercare proprio quello che sembra voler cancellare, cioè la diversità dei linguaggi, degli approcci. Non dovrebbe preoccuparsi dell'omogeneità di quello che offre al pensiero di chi momentaneamente governa. Dovrebbe aiutare l’intelligenza collettiva del paese».

Berlusconi cita spesso l'elenco delle trasmissioni e dei personaggi tv che considera di sinistra: Santoro, Floris, Fazio, Saviano, Dandini, Gabanelli…
«A me non interessa tanto il punto di vista politico. È evidente che il pluralismo politico è necessario. Mi interessa la qualità culturale. Ovviamente giudicare non spetta a me, come a nessun uomo politico. Tranne qualche eccezione, però, è evidente che non c'è più creatività. La tv è una specie di format universale: tutti i programmi sono uguali. Andiamo verso un mondo di città fatte di centri commerciali, di case piene di mobili Ikea, di tv monopolizzate da Grandi Fratelli, di strade percorse da persone con l'iPad in mano. Un mondo terribilmente uniforme e omogeneo, che tende a cancellare tutti gli elementi di diversità. Eppure la tv è il regno della diversità. Ci sono stati momenti molto belli nella storia della televisione italiana: la rete Due di Massimo Fichera, la rete Tre di Angelo Guglielmi, la rete Uno di Emanuele Milano. Ci sono stati momenti nei quali la tv pubblica ha saputo accompagnare il paese nella sua crescita, non assecondarlo nei suoi difetti. Per questo penso che la Rai abbia bisogno di un profondo, radicale cambiamento, probabilmente persino nei meccanismi di finanziamento».

Pensa alla rinuncia alla pubblicità?
«Con una normativa antitrust che riguardi il privato e regoli il conflitto di interessi come si fa in ogni società liberale, si può pensare a un canone esigibile attraverso la bolletta elettrica, in modo da stanare gli evasori. A quel punto il servizio pubblico dovrebbe essere liberato dal dominio dell'Auditel, rimettendo in circolo risorse pubblicitarie, a condizione che non vadano all'oligopolista privato e cioè Berlusconi. Noi abbiamo bisogno che ci sia più tv, la più diversa possibile; che la Rai torni a produrre e creare, non solo ad acquistare format degli altri. Tutto questo sarà possibile solo se la Rai riuscirà a liberarsi dal dominio dei partiti».

Ma anche la sinistra ha lottizzato la Rai.
«Da anni sostengo che occorre nominare un direttore generale, il cui mandato sia a cavallo di due legislature e che abbia pieni poteri. Se oggi al vertice ci fossero Franco Bernabé o Enrico Bondi, avendo al fianco persone con una competenza specifica sul prodotto, io penso che la Rai uscirebbe dai guai imbarazzanti in cui si trova oggi».

Un "governatore" della Rai?
«Non certo una figura autocratica; una persona che senta di dover rispondere non a chi l'ha momentaneamente nominato, ma al paese. E che abbia una missione: far crescere la qualità della vita culturale italiana. Purtroppo questo paese è dominato dal passato. E il passato è pieno di buchi. Cercare di capirlo è doveroso e affascinante; ma procura anche angoscia il pensiero che siano stati condannati solo ora i responsabili della strage di piazza della Loggia a Brescia, che è avvenuta nel 1974. Noi ci stiamo occupando delle stragi del '92 e del '93, un momento cruciale della recente storia italiana. Ma il passato è aggrappato alle gambe di questo paese, e gli impedisce di correre verso il futuro. In Inghilterra hanno presentato una manovra di tagli da quasi novanta miliardi di sterline, ma non hanno fatto un taglio lineare; hanno tagliato l’economia, la difesa e gli esteri e non hanno tagliato la scuola».

L'ha fatto un governo conservatore.
«Sì. Consapevole però che se non si investe sul sapere e sulla conoscenza i paesi europei sono destinati a essere schiantati dalla concorrenza del mondo globalizzato. Se non si investe sull’ambiente, sulla qualità di uno sviluppo compatibile, non ci si può dire un paese moderno. Se i ricercatori italiani vanno all’estero, se la scienza e la ricerca sono considerate meno importanti di Masi, l’Italia non avrà futuro. Il futuro del paese deve diventare l'assillo delle persone responsabili. Credo che, alla fine di questo insopportabile incubo in cui ci tocca vivere, fatto di dossier, litigi, divisioni finte e vere, interessi personali, vincerà chi saprà razionalmente dire al paese: è arrivato il momento di fare quei cambiamenti che l'Italia non ha mai conosciuto nella sua storia; ricostruiamo quel sistema di valori, il cui perno è racchiuso in una serie di parole-chiave».

Quali sono?
«La prima è comunità. Allo smarrimento del mondo, e dell'Occidente in particolare, si può reagire con l'arroccamento egoistico, con il localismo identitario. O si può reagire con lo spirito di comunità. Non c'è nulla di male se in questa grande confusione ciascuno cerca in una dimensione più minuta il senso delle cose. Nulla di male se questo avviene in uno spirito di comunità, come lo pensava Adriano Olivetti. Dovremo darci un modo di vivere della democrazia che riconosca questa dimensione comunitaria. Dovremo accentuare gli elementi di autogoverno e di responsabilizzazione«.

Il federalismo fiscale non è proprio questo?
«Ma oggi viene visto esattamente al contrario dello spirito comunitario: ognuno faccia come gli pare a casa sua, liberiamoci degli zaini. Il federalismo può diventare uno strumento utile. Ma nella dimensione culturale in cui viene pensato dalla Lega, finisce per rafforzare le burocrazie e gli elementi di pesantezza, di lentezza. Invece occorre aumentare lo spazio della sussidiarietà e della società civile. La politica deve ritrarsi dagli spazi inopinatamente invasi, e riaffermare orgogliosamente un ruolo di guida che ha perduto”.

E le altre parole-chiave?
«Inclusione. La capacità di includere culturalmente, socialmente, religiosamente, per evitare che le separazioni e le esclusioni diventino, come stanno diventando in Italia e altrove, intolleranza o violenza. Pensiamo al successo dei partiti neonazisti in Europa, al revanscismo di una destra sparita da decenni dalla storia americana che ora riappare in una campagna elettorale particolarmente violenta. La terza parola-chiave è merito: ciascuno ha il diritto di essere giudicato per il merito di quello che fa. Tutte le forme di “6 politico” sono gigantesche ingiustizie sociali. Diamo a tutti opportunità, ma a ciascuno il confronto con il merito di quello che realizza. Il più bel giornale italiano, che si chiama Internazionale, ha ripubblicato un articolo di "The Atlantic": due bambini americani frequentano due classi diverse, e se ne segue l'evoluzione misurando i progressi dell'uno e le difficoltà dell’altro in relazione alla capacità e alla passione dei due differenti maestri. Il merito è il contrario della logica italiana delle raccomandazioni e dell’egualitarismo lottizzato. La quarta parola è creatività. L’Italia ha dentro di sé grande talento. Ma il paese non accompagna e non aiuta chi ha l’ambizione di creare. Penso alla frase di Tremonti, per fortuna smentita, secondo cui "la cultura non si mangia". Infine, l’ultima parola-chiave è legalità: rispetto delle regole del gioco, rispetto della concorrenza, rispetto degli altri. Penso che da un paese smarrito, angosciato, malato come il nostro si debbano estrarre le virtù civili».

Colpa solo di Berlusconi?
«La colpa storica di Berlusconi è aver assecondato i difetti dell’Italia e aver combattuto le sue virtù civili. Credo che oggi esista una maggioranza silenziosa degli italiani che si è stufata di questo paese immobile e rissoso e vorrebbe occuparsi di cose serie, che vorrebbe avere un'Italia unita e dinamica, che vorrebbe respirare un'aria di diritti e di doveri. Questa maggioranza merita per una volta nella storia di diventare anche maggioranza politica».

Aldo Cazzullo

23 ottobre 2010(ultima modifica: 24 ottobre 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_23/veltroni-aldo-cazzullo_3c269b3e-deae-11df-99d6-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:24:43 pm »

L'ex leader «Irresponsabile votare ora». «Ridurre le ambizioni fa perdere peso politico»

«Il Pd cambi rotta o il destino è a rischio»

Veltroni: «Sono per un'alleanza sul programma allargata a chi ci sta e di cui noi siamo il perno»


ROMA - Walter Veltroni, che succede al Pd? Ieri la Puglia, ora Milano: ogni volta che si vota alle primarie, vincono gli altri.
«Ci sono volte in cui dispiace aver ragione. Com'è scritto nel documento firmato da 75 parlamentari, la perdita della vocazione maggioritaria del Pd può comportare rischi molto forti per il destino del partito del riformismo italiano. Purtroppo i sondaggi e le primarie confermano che la riduzione delle ambizioni comporta la riduzione del peso politico. Rimango convinto che il Pd non possa non aver dentro di sé un'ambizione maggioritaria, altrimenti non è il Pd. Dev'essere un soggetto capace di accendere un sogno nella società italiana, un razionale e realistico sogno. E l'unico sogno che la storia politica ci ha dimostrato essere realizzabile è quello riformista di Martin Luther King, di Olof Palme, di Brandt, di Obama: il cambiamento radicale del presente non attraverso il racconto di una società altra, ma attraverso la sfida molto più dura di cambiare la società com'è oggi. Se il Pd rinuncia a questa ambizione, se rinuncia a dire alla società italiana che la vuole portare fuori dal tunnel dove si trova da tempo immemorabile, il Pd non è se stesso».

Com'è possibile che il primo partito di opposizione perda consensi proprio mentre li perde il primo partito di maggioranza?
«Ma i sondaggi dicono pure che nessun partito italiano ha un elettorato potenziale grande come il nostro: i numeri si invertono, il 24% diventa il 42. Quel divario dev'essere colmato attraverso il ritorno a un'ispirazione che sia da Pd. Se il Pd si trasforma in una forza a fatica distinguibile, se rinuncia al suo essere più com'è il Partito laburista inglese o il Partito democratico americano che come sono i partiti socialisti europei, non ce la farà a costruire l'alternativa di cui l'Italia ha bisogno».

Bersani come si sta muovendo e come l'ha trovato lunedì sera da Fazio?
«Io apprezzo il lavoro che sta facendo Bersani. Siamo in una fase in cui bisogna garantire il massimo di convergenza, e in questa crisi la convergenza c'è. Però mi è spiaciuto, nel suo intervento a "Vieni via con me" sotto molti aspetti apprezzabile, non sentire mai l'aggettivo "democratico". Bersani ha detto "sinistra", "progressisti"; mai "democratici". Per me non è un aggettivo che si usa per privazione degli altri; democratico è il pensiero politico più forte che la storia del '900 ci abbia consegnato, ancora valido per essere usato nel tempo successivo: l'unico pensiero politico che abbia radici di cui dobbiamo essere orgogliosi. Essere democratico non è meno che essere di sinistra; è la più radicale delle politiche di cambiamento. Il Pd deve assumere senza equivoci questa identità, coniugata con il suo verbo fondamentale; che non è il verbo "difendere", ma il verbo "cambiare". Il paese ha bisogno di un cambiamento profondo».

Franceschini, Letta, la Bindi sostengono un'alleanza vasta con Fini e Casini. Lei che ne dice?
«La cosa più grave che può accadere al Pd è dividersi tra chi sostiene che bisogna allearsi con Vendola e Di Pietro e chi con Fini e Casini. Solo il fatto che si discuta di questo contraddice il progetto originario, secondo cui dovevano essere gli altri a discutere se allearsi con noi. Il Pd non ritroverà il consenso perduto se non ritorna centrale, se non individua le grandi frontiere di innovazione necessarie all'Italia. Su quelle vediamo chi c'è».

Quindi lei non esclude un'alleanza allargata?
«Sono per un'alleanza allargata programmaticamente a chi ci sta. Non cadiamo nel vizio da Prima Repubblica di discutere prima di alleanze che di cose, e in primo luogo di precarietà e legalità, che sono le due cose fondamentali. E potrei continuare: ambiente, scuola. Questi sono i temi su cui il Pd deve ritrovare una fortissima capacità di innovazione, per rappresentare il perno di un'alleanza più vasta possibile in vista delle elezioni. È evidente che non possiamo essere solo noi. Non invoco né l'autosufficienza né l'isolamento. Il punto è la centralità, è se sei tu a indicare la frontiera su cui costruire un'alternativa fondata su un'idea d'Italia, su un messaggio positivo, non solo sul dire che Berlusconi non va bene».

Che impressione le fa l'ascesa di Vendola?
«Non ho paura di avere altri alla mia sinistra. Se Nichi ha successo è un bene; a condizione che il Pd, forza di centrosinistra, sia capace di intercettare il voto degli astensionisti e i voti in uscita dal centrodestra, anziché mettersi a fare lo stesso mestiere di Vendola. Lui può svolgere una funzione positiva: evitare che l'esasperazione di una radicalità che rinuncia a una sfida di governo porti a una posizione minoritaria e ininfluente. L'ultima cosa che noi possiamo fare è immaginare una campagna con lo schema del '94, con i progressisti da una parte, al cui interno prevalgono le posizioni più radicali. Il centro è nato perché al centro si è aperto uno spazio».

E i «rottamatori» di Renzi?
«L'innovazione è sempre benedetta e benvenuta. Ma si fa con il coraggio di scelte politiche, non agitando l'esigenza di cambiamento di per se stessa. Quando noi andammo oltre il Pci, non pensammo di "rottamare" Tortorella o Chiaromonte; chiedemmo di dar vita a qualcosa di nuovo. E lo facemmo consentendo a quella sinistra, nella coalizione dell'Ulivo, di governare per la prima volta l'Italia».

Si riaffaccia l'ipotesi di un ruolo politico per Saviano. Che ne pensa?
«Il successo di "Vieni via con me" conferma l'esistenza di una nuova maggioranza silenziosa che non ne può più di una politica rissosa, pesante, inconcludente, che si è stancato di Berlusconi e del suo universo orrendo. È una maggioranza di italiani che vorrebbe girare pagina e ogni volta che può esprimersi si esprime, stavolta con un programma tv. È un fatto culturale prima che politico, il segno di un'inversione di tendenza. Saviano è l'espressione di questo mondo che tiene alla legalità e non capisce perché uno scrittore venga sfidato da autorità che dovrebbero essere al suo fianco, perché debba prendersi gli insulti di Maroni e Berlusconi. Ho affetto e stima per Roberto, so come vive, so che ogni volta che i governanti anziché stargli vicino lo scagliano lontano aumentano per lui isolamento e solitudine. Ma so anche che Saviano non è politicamente collocabile. È trasversale, perché la legalità costituisce un pre-valore, che dovrebbe essere comune a tutti».

È vero che il Pd ha trovato una linea comune per la riforma elettorale? Qual è la vostra proposta?
«È nell'Assemblea nazionale che abbiamo votato all'unanimità le linee guida della nostra posizione sulla nuova legge elettorale. E abbiamo confermato le ragioni di una proposta che va nel senso di un sistema sul modello di quello francese. Ma siamo aperti a cercare con gli altri soluzioni che rimuovano le anomalie dell'attuale legge elettorale e consentano all'Italia di avere un sistema stabile».

Si va verso elezioni anticipate?
«Chi vuole le elezioni è nemico dell'Italia. Non lo dico per una forzatura propagandistica, ma perché sento una preoccupazione persino drammatica su quel che accade su scala europea. Quando Van Rompuy dice che sono in gioco in queste ore l'Ue e l'euro, dice una cosa gigantesca, che dovrebbe far fermare tutti a riflettere. Stiamo per vedere incrinata la più grande conquista politica di questo nuovo secolo. L'Italia arriva al momento critico con tutti gli indicatori negativi: crescita di debito, deficit, spesa pubblica; calo delle entrate fiscali. Ricordo che, quando ero al governo con Prodi, ogni giorno Ciampi entrava nella nostra stanza sorridendo, e ci mostrava la differenza in positivo rispetto al giorno prima dello spread tra i Bund tedeschi e i nostri Btp. Oggi il divario è tornato a livelli mai raggiunti dal 2000, da quando siamo nell'euro. Ci attendono manovre di rientro dal debito molto forti. Sento parlare di 45 miliardi di euro per la prossima primavera. In queste condizioni, l'idea di elezioni anticipate è un'idea da nemici dell'Italia».

Chi vincerebbe?
«Sarebbe un voto dall'esito incerto. Nessuno degli schieramenti sarebbe in grado di garantire la modernizzazione e la stabilizzazione necessarie. Rischiamo di perdere sei mesi per ritrovarci in uno stallo peggiore di quello di oggi».

Lei quindi è per un governo tecnico?
«Questo governo è finito. È finito il ciclo politico di Berlusconi, per quante manovre e campagne acquisti possa tentare. Si deve dar vita a un governo di responsabilità istituzionale, che non sia un ribaltone, ma raccolga tutte le forze in Parlamento preoccupate di questa condizione del tutto particolare in cui versano l'Italia e l'Europa, e delle conseguenze sociali sugli italiani che si impoveriscono, sulle aziende che chiudono. Un governo che, come il governo Ciampi, rassereni e dia sicurezza al paese, cambi la legge elettorale, prepari il terreno a una dialettica di tipo europeo tra schieramenti diversi».

Quanto dovrebbe durare?
«Non certo un mese. Deve avere il respiro necessario per fare tutto questo, non nell'interesse dei partiti ma dell'Italia. Lo chiedono tutte le forze sociali, dalle organizzazioni degli imprenditori a quelle dei lavoratori. Dobbiamo sancire la fine del berlusconismo ed evitare che Berlusconi trascini nella sua crisi anche le forze del centrodestra. Tutte le forze responsabili diano vita a una fase di transizione, con un governo di altissimo profilo, immagine e autorevolezza; oppure il paese rischia moltissimo».

Chi dovrebbe guidarlo?
«Ho fatto il nome di Ciampi non per caso. Non necessariamente dev'essere la persona che occupa lo stesso ruolo. Ma persone con quella cifra, quella autonomia, quell'indipendenza esistono. L'Italia, ricordiamolo sempre, è molto migliore di come oggi la si rappresenta».

Aldo Cazzullo

18 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_novembre_18/veltroni-il-Pd-cambi-rotta-o-il-suo-destino-a-rischio-aldo-cazzullo_b21f2fe2-f2de-11df-8691-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 29, 2011, 06:02:31 pm »

LA LETTERA

È ora di scendere in piazza

di WALTER VELTRONI 


CARO Direttore, il momento che vive il paese è tra i più drammatici che l'Italia abbia mai conosciuto. La sensazione di sfarinamento delle regole minime della vita civile, l'arroganza di chi detiene il potere, la delegittimazione intollerabile del prestigio della nazione all'estero si accompagnano ad una pericolosa sensazione di impotenza e di sfiducia dei cittadini.

Un mondo sta finendo, un mondo durato diciassette anni, che ha stravolto il paese senza introdurre una sola modernizzazione. La vita politica è stata imprigionata dentro un'anomala dialettica tutta negativa. Solo qui gli schieramenti e le esperienze di governo si sono consumati esclusivamente "contro" impedendo al paese di conoscere ciò che è suo diritto conoscere: riforme, modernizzazioni, pagine nuove di giustizia sociale e diritti collettivi. Solo il primo governo Prodi, con l'obiettivo dell'euro, è riuscito a mobilitare le coscienze e dare al paese la sensazione di essere proiettato verso una meta collettiva. Quel mondo sta finendo, ma non finisce. E anzi sta abbarbicato ad istituzioni che si cerca di piegare ancora una volta a ragioni meschinamente personali. Fino al punto di mettere in gioco il destino stesso dell'Italia. Cinismo, da "avvelenatori di pozzi".

Oggi l'Italia è un paese stanco, sfibrato, nauseato. E la crisi bussa violentemente alle porte delle famiglie trovando ragazzi imprigionati nella trappola della precarietà, lavoratori in cassa integrazione, piccoli imprenditori schiacciati da burocrazia e
stretta creditizia, talenti con la valigia in mano. E, in tutti, una paura nuova per gli italiani. La paura del futuro. E la sensazione che la politica sia non la soluzione, ma uno dei fattori della crisi. Esiste il rischio che si faccia strada la frustrazione che, spesso, genera radicalizzazione disperata. Dobbiamo evitarlo, tutti insieme. Cercando di fare in modo che questa crisi devastante finisca, dando spazio alle energie sane del paese. In questo momento molti elettori che hanno votato per il centrodestra sentono un disagio profondo anche se stentano a individuare un'alternativa credibile.

Ora però è il momento non di dividersi sul futuro. Ma di dare forza non alla rabbia ma alla speranza. È ora che questo paese faccia sentire la sua voce. Il paese che intraprende, il paese che ha talento, il paese che fatica, il paese delle persone perbene, che sono tali indipendentemente dalle loro opinioni e sensibilità culturali, civili, politiche. C'è una Italia migliore di quella che domina la vita pubblica. Non un'altra Italia, ma la nazione vera o larga parte di essa. So bene che anche le ultime vicende ci raccontano di quanto siano arrivati in profondità i guasti del berlusconismo. Ma non accetto la rassegnazione di chi dice che ormai tutto il paese è perduto. Non è così. Ci sono energie immense. È semmai la politica, chiusa in se stessa, che non riesce ad esprimerle e a farle pesare.

Per questo penso che, per accelerare la transizione, sia bene entri in campo la soggettività dei cittadini. Come sta già avvenendo con le raccolte di firme e con appelli sottoscritti sulla rete. Entri in campo prima che vincano rassegnazione o radicalizzazione. Uscire da questo immobilismo malato, da questa rissosità inconcludente è una esigenza avvertita dall'intero paese. E allora mentre Berlusconi riunisce i suoi per scagliarsi contro i magistrati e lanciare un'altra campagna di odio io credo che si apra uno spazio grande e importante per mandare un messaggio nuovo e forte. Sarebbe bello se tutte le forze politiche di opposizione, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dell'impresa, i mezzi di comunicazione e le associazioni del volontariato, i singoli cittadini promuovessero una giornata di impegno civile nel nome dell'Italia che crede nella democrazia, nelle regole, nel valore del lavoro e dell'impresa, che vorrebbe solamente avere un paese dinamico, in cui esista pluralismo, senso dello stato, rispetto reciproco.

Un'altra Italia, rispetto a quella violenta e inane di oggi. Un paese possibile. Sarebbe allora bello se in uno stesso giorno, in una stessa ora, in tutti gli ottomila comuni italiani, nessuno escluso, i cittadini si riunissero nella piazza centrale, per dire "giriamo pagina, ritroviamo l'Italia". Una manifestazione civile, non di parte. Senza bandiere, senza comizi che possano dividere. Una grande festa della democrazia italiana, in cui sia protagonista l'autorganizzazione civile. Un momento fatto vivere dalle comunità dei cittadini. Occasioni nelle quali anche un elettore deluso dal centrodestra si possa ritrovare. Sarebbe la più grande manifestazione della storia italiana. In cui si attiverebbe un protagonismo diffuso. Non organizzare il pullman per andare a Roma o a Milano a sentire un comizio. Ma far vivere nella più piccola come nella più grande piazza italiana l'indignazione e la speranza.

Se a Pieve di Soligo o a Mazara del Vallo, in quei luoghi meravigliosi che sono le piazze dei comuni italiani, si ritrovassero, come è possibile, milioni di persone, sarebbe anche il modo più bello di celebrare i centocinquanta anni di questo grande paese. E far capire a tutti gli italiani chi divide e semina odio e chi unisce e apre alla speranza. E sono sicuro che ai luoghi fisici si aggiungerebbero migliaia di piazze virtuali. "L'Italia in piazza", come si intitola lo splendido libro di Mario Isnenghi, ha cambiato spesso il destino della nazione. Dimostriamo che c'è un'Italia che ha solo voglia di girare pagina. Dimostriamo che dopo il tempo di Berlusconi inizia il tempo degli italiani. Che vogliono vivere il loro futuro in una comunità solidale, non in un saloon rissoso.
 
(29 gennaio 2011) © Riproduzione riservata 

http://www.repubblica.it/politica/2011/01/29/news/ora_di_scendere_in_piazza-11799226/?ref=HRER3-1
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 02, 2012, 03:20:53 pm »

Veltroni: 'Occhio, crolla tutto'

di Marco Damilano

«La situazione è più grave di come sembra. La depressione economica ricorda quella che negli anni '30 portò al nazismo e poi alla guerra. La democrazia rischia di essere sostituita dal populismo e dalla tecnocrazia. Noi politici dobbiamo capirlo. E proporre subito un nuovo grande patto sociale». Parla l'ex leader del Pd

(28 dicembre 2011)

Il 2011 è stato un anno pericoloso. Una grande cupezza, un pessimismo opprimente. Con due eventi positivi: l'uscita di scena di Silvio Berlusconi come premier, che non significa solo la fine di un governo ma la chiusura di un lungo tempo politico e culturale. E il risveglio della società civile, dal movimento delle donne in poi, un'opinione pubblica che vuole partecipare e contare". La politica ai tempi della recessione: Walter Veltroni ragiona sull'anno che verrà e non nasconde l'inquietudine: "Questo tempo non è una parentesi". E non lo sarà il governo dei tecnici: "Basta con le riserve. Il Pd deve appoggiare Mario Monti con autonomia, ma con convinzione".

Si annuncia una recessione più pesante del previsto. La politica è pronta ad affrontarla?
"Ho l'impressione che la politica non sia consapevole di quanto sta accadendo. Si parla di recessione, ma la direttrice del Fmi Christine Lagarde ha usato un termine più duro: depressione. E ha citato gli anni Trenta del Novecento. E' un precedente terribile: in quel decennio la depressione portò in Germania al nazismo e poi all'inizio del conflitto mondiale. Oggi sta venendo meno l'Europa che è stata il senso della seconda parte del Novecento. Sta crollando la fiducia che il sistema funzioni. Stiamo vivendo una fase storica in cui si è spezzata l'ininterrotta crescita economica e sociale dal dopoguerra a oggi, un terremoto che cambia la percezione del mondo. Non si uscirà da questo tempo come una parentesi. Vorrei utilizzare un'espressione antica: dobbiamo pensare a un nuovo modello di sviluppo. Non si evita il pericolo degli anni Trenta con una manovra economica, serve un New Deal. O la politica riesce a dare qualche risposta oppure ci penseranno la tecnocrazia o il populismo. Tanto più che la recessione accelererà la pulsione già presente nella società a ridurre la complessità. E se non recupera agli occhi dei cittadini legittimità e capacità di decisione, la politica e, questo è il rischio, persino la democrazia sembreranno un peso e non una opportunità".

Lei parla di un cambio di mentalità, ma all'Italia sono richieste scelte dolorose e immediate, dopo le pensioni il mercato del lavoro. Fino a che punto siete disposti a sostenerle?
"Il nuovo modello di cui parlo richiede che si riveda la scala delle priorità: ci sono bisogni primari collettivi che vanno soddisfatti e bisogni secondari cui bisognerà rinunciare o che andranno rivisti, per estendere l'accesso ai primi in modo universale. E' una rivoluzione necessaria: fine di egoismo e individualismo esasperati e scoperta di un nuovo senso di comunità, di relazioni sociali e umane solidali. In Italia per decenni ci siamo retti su un patto che comprendeva le baby pensioni, una certa tolleranza per l'evasione fiscale, perfino la convivenza con la criminalità mafiosa, teorizzata anche da uomini di governo. Quel patto era per l'immobilismo, si è scaricato sul debito pubblico ed è diventato intollerabile. Ora serve un nuovo patto per il dinamismo. Un patto per le riforme, per la modernizzazione giusta del Paese".

Il governo tecnico serve a scrivere il nuovo patto?
"Vedo che c'è un eccesso di domanda nei confronti di Monti. Al premier viene chiesto di fare tutto: salvare l'Italia, evitare il tracollo, scrivere in pochi mesi riforme che attendono da decenni. La politica è molto esigente con Monti dopo essere stata pochissimo esigente con se stessa. Ma il compito di questo governo non è fare un Paese nuovo. Questo spetta ai partiti, ai sindacati, alle forze sociali. Se non si farà questo, non si staccherà la spina a Monti, si staccherà la spina al Paese".

Per Gustavo Zagrebelsky "i partiti, di fronte all'emergenza, hanno alzato bandiera bianca". Il governo Monti è una resa della politica?
"Aprendo la strada a Monti, in realtà, la politica si è portata all'altezza della situazione, come aveva chiesto il presidente Napolitano. E' stato un atto di responsabilità, di generosità e di intelligenza, tre virtù necessarie e non molto praticate. Chi ha compiuto questa scelta ha il diritto e anche il dovere di rivendicarla con orgoglio, non deve vergognarsi di averla fatta. L'anomalia non è Monti, sono stati i 17 anni in cui abbiamo avuto da una parte Berlusconi e sul fronte opposto gli anti-Berlusconi, cioè coalizioni costruite per mettere insieme tutti quelli che erano contro. Con un'eccezione: il governo Prodi del 1996-98. Considero quel governo di cui facevo parte il migliore della Repubblica. L'estremismo e poi il maldipancia dei partiti che il giorno dopo l'euro chiesero la fase due hanno provocato la sua caduta. E' stato come spalancare l'autostrada al ritorno di Berlusconi, il punto di svolta. E' in quel momento che tutto si è avvitato. Se fosse nato all'epoca il partito dell'Ulivo, il Partito democratico, la storia sarebbe cambiata...".

E invece ecco un'altra anomalia. Il Pd di fronte al fallimento di Berlusconi non ha chiesto il voto anticipato: sarebbe stato in grado di governare?
"Sa cosa non mi è piaciuto della foto di Vasto? Che è stata scattata prima che si discutesse di cosa fare dell'Italia. Lo schieramento prima dei contenuti. Comunque, la mia risposta è no. In questo momento non c'è uno schieramento così robusto e coeso da poter governare la tempesta in arrivo. Abbiamo bisogno di sgomberare il campo dalle macerie che il berlusconismo e il conservatorismo hanno prodotto. Ma per la politica, a saperli cogliere, ci sono spazi enormi".

La maggioranza che sostiene Monti, Pdl-Pd-Terzo Polo, può valere anche per il futuro?
"Escludo in modo categorico che questa maggioranza possa governare anche dopo la fine di questa legislatura. Dobbiamo approfittare di questo anno e mezzo per fare sul serio quello che abbiamo solo finto di aver fatto: la Seconda Repubblica e il bipolarismo. L'abbiamo chiamata per comodità Seconda Repubblica, ma è stata una Prima Repubblica bis, si è cambiata la legge elettorale e ci si è illusi di aver costruito così le nuove istituzioni. Non si potrà parlare di Seconda Repubblica finché non si metterà mano alla Costituzione. Così come non ci sarà un vero bipolarismo finché non ci saranno due schieramenti in competizione per governare e non per distruggere l'avversario".

Toccare la Costituzione è un tabù: in che direzione?
"Monocameralismo. Senato delle regioni. Rafforzamento dei poteri del premier e di quelli di controllo del Parlamento. Modifica dei regolamenti parlamentari, con il riconoscimento di una dialettica tra la maggioranza e l'opposizione, o più opposizioni. A questo dovremo aggiungere regole che tengano i partiti fuori dalla gestione delle aziende pubbliche di ogni ordine e grado. E tetti rigidi per le spese elettorali dei candidati. Perché la legalità e la questione morale per me fanno parte, nel disinteresse generale, dell'emergenza italiana".

Non manca qualcosa? Lei è sempre stato il più americano tra i politici italiani: le primarie, il "sindaco d'Italia"... ora è un presidenzialista pentito anche lei, come Fini?
"Considero i sistemi presidenziali, come quello americano o brasiliano, e semi-presidenziali alla francese, altamente democratici. Ma noi abbiamo alle spalle anni di berlusconismo. E finché ci saranno le scorie del populismo sarà difficile affrontare il tema come andrebbe fatto: con confini durissimi, sui conflitti di interesse, sui poteri di controllo del Parlamento. Rafforziamo i poteri del premier e l'autorevolezza delle Camere. Poi si potrà parlare del resto. Ora sarebbe sbagliato farlo".

La Consulta sta per decidere sui referendum elettorali. Cosa si aspetta?
"Mi auguro che sia riconosciuta la costituzionalità dei quesiti: il Parlamento sarebbe costretto in poche settimane a cancellare il Porcellum, la peggiore legge elettorale dell'universo. Ma anche se la sentenza della Consulta fosse negativa dobbiamo comunque cambiare sistema".

In che modo? Dario Franceschini evoca il ritorno alla proporzionale...
"Dobbiamo tenere insieme due elementi: i governi li decidono i cittadini, non si può tornare alla vecchia stagione in cui i governi erano il frutto di estenuanti mediazioni tra i partiti in Parlamento. E il sistema elettorale deve mettere i partiti nella condizione di poter evitare le alleanze coatte, le coalizioni "anti". Sul piano tecnico ci sono diverse proposte. Anche il Pd ha la sua, approvata mesi fa. Vedremo".

Il Pd appare diviso tra chi sta con Monti e chi con la Cgil, tra chi sta con la Bce (Enrico Letta) e chi contro (Stefano Fassina). E chi sta con entrambi: la maledizione del ma-anchismo ha colpito anche Bersani?
"Trovo normale che nel Pd si discuta e che ci siano posizioni diverse. Succede così in tutti i grandi partiti occidentali, a meno che non si pensi di tornare a modelli superati. E poi anche all'epoca del centralismo democratico si discuteva: Napolitano e Ingrao non sono mai stati la stessa cosa. Io al Lingotto ho proposto la patrimoniale e mi fu risposto che era una proposta troppo di sinistra. Il punto è dov'è la sintesi: lo si vede anche nei sondaggi, il Pd cresce nei consensi quando assume una posizione di responsabilità nazionale e di innovazione. Altrimenti si fa come il candidato democratico americano George McGovern che nel '72 scaldò i cuori della sua base ma svuotò le urne. A vincere sono stati Roosevelt e Kennedy, Clinton e Obama. Il Pd deve riuscire a scaldare i cuori e a conquistare nuovi elettori. Il riformismo non è pragmatismo sganciato da una visione. Non è moderatismo. Quando è così perde".

Ma lei con chi sta: con Monti o con Susanna Camusso?
"Mi hanno sorpreso i toni della Camusso contro Elsa Fornero, più duri perfino di quelli usati contro i ministri di Berlusconi. Non farò la sgradevolezza di mettermi a dire io cosa avrebbe fatto Bruno Trentin in questo caso. Tutti i sindacati, non solo la Cgil, sono chiamati a dare una risposta a dieci milioni di lavoratori senza contratto. Nella politica c'è qualcuno che se n'è occupato davvero? Nel 2008, lo rivendico, fu il cuore della nostra campagna elettorale. Oggi non è il tempo del muro contro muro. Il debito pubblico, la crescita zero, la demografia zero sono i segni del declino della nazione. Ora è venuto il momento di un patto tra produttori, smetterla di chiamare padroni i piccoli e medi imprenditori, rispettare il lavoro e dare stabilità ai milioni di precari: rimettere tutti insieme il Paese nelle condizioni di crescere. E' il tempo di una nuova grande unità di chi lavora e produce ricchezza".

Alla fine del 2012 cosa ci sarà? Nuovi partiti? Candidati premier come Corrado Passera? O un congresso del Pd per eleggere un nuovo segretario?
"Mi preoccupa di più se alla fine del percorso sarà integro il Paese. So solo una cosa: se il Pd è intelligente e ha coraggio, sosterrà questo governo. Il Pd deve stare con Monti con autonomia e convinzione. Anche correggendo e migliorando provvedimenti come ha fatto con la manovra. Deve essere una forza aperta, inclusiva, combattiva. Deve essere il partito che guida l'Italia fuori dal tunnel. E che restituisce fiducia e speranza. Se farà questo sarà premiato".

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/veltroni-occhio-crolla-tutto/2170215//2
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« Risposta #25 inserito:: Febbraio 21, 2012, 11:43:29 am »

IL CASO

Governo e articolo 18, Veltroni insiste "Ho posto problema del giudizio su Monti"

Dopo gli attacchi per l'intervista di ieri a Repubblica, l'ex segretario del Pd difende le sue posizioni: "Sul lavoro ho detto molto meno di quanto detto mille volte da Bersani"


ROMA - Dopo gli attacchi di ieri 1 per l'apertura sulla riforma dell'articolo 18, Walter Veltroni si difende su Twitter. "Il problema non è l'articolo 18, sul quale ho detto molto meno di quanto detto mille volte da Bersani. Il problema è il giudizio su Monti", ha spiegato l'ex segretario del Pd.

"Cito Bersani, per capirsi: 'Se vogliamo modificare l'articolo 18, va bene. Ma facciamolo in fondo. L'ha detto il 7 febbraio a Otto e mezzo", ha ricordato.

Poi, sempre attarverso Twitter, una freccita polemica: "Bisogna avere il coraggio di discuterne. E civilmente. Senza dire che una opinione diversa è una opinione del nemico. Teorie pericolose".

In un'intervista a Repubblica, l'ex sindaco di Roma aveva invitato ieri a mettere da parte i tabù sulla riforma dell'articolo 18 e a "non lasciare Monti alla destra". Parole che hanno continuato a suscitare dure reazioni anche oggi. Particolarmente sferzante il segretario della Cgil Susanna Camusso. "Ci sono code di investitori al confine che aspettano che scompaia quel numero...", commenta sarcastica la leader sindacale. Quella dell'articolo 18 quale strumento per la crescita, aggiunge, è una "ossessione". "Abbiano il coraggio di dire che si può licenziare in modo discriminatorio, così faremo una discussione vera. Questo è il tema", aggiunge.

Si scaglia contro Veltroni anche il leader di Sel Nichi Vendola. "Leggo le parole che dice Veltroni e sono trasecolato", afferma, perché "indica come un retaggio novecentesco tutto ciò che è appartenuto al campo delle conquiste sociali, dei risultati di decenni di lotte".
Ma "se si cancella il Novecento della giustizia sociale - prosegue Vendola - non si entra nel nuovo millennio ma si torna all'Ottocento".
"E' una curiosa modernità - sottolinea - quella che guarda con antipatia alla Fiom e con simpatia a Marchionne. E' una singolare idea di modernità e di riformismo".

(20 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/20/news/governo_e_articolo_18_veltroni_insiste_ho_posto_problema_del_giudizio_su_monti-30192379/
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« Risposta #26 inserito:: Settembre 14, 2015, 06:55:59 pm »

Il giorno della marmotta
Pd   

Walter Veltroni
I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità.
La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi



Gaber, genio irregolare e dunque genio, cantava «Cosa è la destra, cosa è la sinistra». Forse oggi è il giorno giusto per soffermarsi su questa storica, reale, profonda distinzione. Un confine da ritrovare non per ergere un muro ma per riconoscersi, per capire che un sistema di valori è diverso dall’altro. Rispettabili e legittimi entrambi, ma diversi.

Si oscilla spesso tra due estremi pericolosi: la demonizzazione dell’altro, in primo luogo. Se non sei di sinistra sei fascista, generalizzazione nella quale si è caduti spesso, salvo dover capire, in ritardo, quanto ci fosse di integralista e di autoritario in questo. Indro Montanelli non era certo di sinistra ma era un galantuomo che credeva in valori – quelli sì che dovrebbero essere universali – come la probità, come la piena libertà di impresa e di opinione. Renzo De Felice aveva le sue opinioni sul fascismo, la genesi del fenomeno e il consenso di cui ha goduto, e meritava di essere rispettato e considerato, non certo bollato come un revisionista, etichetta che ha una lunga e tragica storia. E che io ricordo essere stata spesso applicata, dagli estremisti di turno, persino a Enrico Berlinguer.

Ma, in verità, la sinistra si è affrancata nel tempo da questi difetti che pure talvolta, come in un riflesso pavloviano, tendono a riemergere.

La destra, regnante Berlusconi, ha invece tenuto in vita gli anni cinquanta fino a oggi. Chiunque era critico era comunista. Anche i liberali più socialmente moderati e magari legittimamente intransigenti sul piano della morale pubblica venivano equiparati a Stalin, Beria e se ne auspicava, ricordiamoci l’editto bulgaro, la defenestrazione. Enzo Biagi, certamente non un pericoloso esponente dell’Armata Rossa, è stato sovente inchiodato sul banco degli eversori dell’ordine costituito.

Il linguaggio politico ha così recuperato la truculenza degli anni peggiori, senza neanche l’alibi delle ideologie.

E il Paese è stato inchiodato così al suo eterno “giorno della marmotta”, quello che fa da pretesto ad un famoso film americano, “Ricomincio da capo”, in cui tutti gli eventi del giorno sono identici a quelli del giorno prima. Siamo scesi in tutti gli indici di competitività, compresi – come darsene pace? – quelli che riguardano la cultura, la formazione, la scuola. Cioè l’Italia e la sua storia. Però l’essere contro l’altro giustificava l’assenza di riforme e schieramenti eterogenei e stravaganti si paralizzavano a vicenda, in un surplace infinito ed estenuante.

Ho pensato, dopo la caduta del muro di Berlino, che potesse aprirsi, per l’Europa, un tempo storicamente unico. Che est e ovest potessero unirsi, che essere europei sarebbe diventato più naturale e che la politica di questo continente si sarebbe liberata dalle scorie ideologiche e avrebbe potuto mostrare, in termini di valori e di programmi, le nuove, splendide e profonde differenze tra destra e sinistra, tra conservatorismo e riformismo. C’ è stato un momento, l’Ulivo di Prodi, Clinton e la Terza via del primo Blair, in cui questo sembrò possibile. Almeno a sinistra. E ora?

Il mio timore è che si stia tornando nel “giorno della marmotta”. A destra non si è certo fatto strada un nuovo conservatorismo, moderno e liberale. Reagan sembra un miraggio di responsabilità, pensando all’impasto micidiale di Orban, Trump, Salvini, Le Pen e destra xenofoba del Nord Europa che si va affermando come modello ricostituivo del fronte opposto alla sinistra. Un micidiale cocktail di integralismi, di razzismo neanche tanto mascherato, di populismo esagitato, di spirito antieuropeo.

Seminagione costante di paura sociale, di diffidenza nei confronti dell’altro. La nuova ideologia di questa destra non è l’anticomunismo, ormai palesemente grottesco, ma purtroppo l’intolleranza. Il nuovo linguaggio di questa destra, qualcosa che tende a definirla, è il populismo più sfrenato.

Questo vale anche per il mondo conservatore italiano che deve decidere se scegliere la Merkel o Marine le Pen. Una sola scelta non è praticabile: essere le due cose insieme. Altrimenti si propone al Paese qualcosa di ambiguo e pericoloso.

Angela Merkel è sostanzialmente la guida, nello scacchiere europeo, dello schieramento dei popolari, in storico conflitto con quello socialista. In questi giorni, di fronte al tema dei migranti, ha mostrato coraggio politico e capacità di rifiutare la facile suggestione populista. Lo ha fatto in un momento in cui, se avesse preso la posizione opposta, tutto, compreso la costruzione europea, sarebbe andato in una crisi drammatica e irreversibile.

Conservatori da rispettare. Come lo furono Winston Churchill o Helmut Kohl, statisti il cui nome è scritto in modo indelebile nella storia del Novecento.

Due uomini politici, ruolo tra i più nobili possibili, specialismo di spessore intellettuale che, come tale, andrebbe rivalutato. Se vogliamo che non siano i peggiori a occuparsi di politica, i più spregiudicati o i più disonesti; se vogliamo che la gestione della cosa pubblica non sia in mano a incompetenti e ladri bisogna alzare l’asticella, alla ricerca, nelle persone, delle motivazioni profonde e dei talenti più puri.

Ma siamo sicuri che dal virus moderno del populismo sia al riparo anche la sinistra? Siamo certi che anch’essa non partecipi dell’“eterno ritorno” della politica , del suo ripararsi nei confini più sicuri, quelli dell’ideologia, quando tutto intorno si fa più complesso?

Voglio dirlo chiaramente: se la sinistra torna indietro, se riscopre nel passato non le sue radici migliori ma i suoi difetti peggiori, è destinata a sconfitte storiche. Tanto più gravi se consumate a fronte di quella destra.

La vittoria del nuovo leader laburista, al quale auguriamo buon lavoro, è secondo me il segno di questo rischio. Spaventata dalle nuove sfide e dai processi di globalizzazione, smarrita in un labirinto di nuove figure sociali e di inediti meccanismi di comunicazione e formazione del senso comune, la sinistra rischia di arroccarsi, di cercare indietro ciò che deve essere trovato davanti a noi, se siamo davvero figli di quella storia complessa e affascinante. È sinistra quella che, non rinunciando a sé, proietta il suo sistema di valori nel suo tempo. È sinistra un’idea di futuro, non una nostalgia di passato che non tornerà, ammesso che lo si debba auspicare.

Molte parole di Corbyn sarebbero state, diciamoci la verità, considerate datate anche nel dibattito della sinistra europea degli anni ottanta. La recente vicenda greca, le scelte arrischiate ma coraggiose di Tsipras, ieri idolo fuggevole di tutti i più “radicali”, hanno dimostrato che il passato e le ideologie non possono sfuggire alla sfida della realtà.

Ho già scritto qui, e ripeto, che non sopporto l’indistinto, l’idea che in fondo, ormai, esista un unico pensiero, parola grossa, che tutto dissolve e cancella, a cominciare dalle differenze tra destra e sinistra, ritenute ormai stupidi sbaffi a quadri contemporanei.

Il populismo e l’intolleranza per le diversità politiche e culturali sono gemelli. Ma chi la pensa diversamente da te non è mai un eretico, è una risorsa.

La sinistra che serve in questo momento è orgogliosa dei suoi valori, ma non è cultrice del vintage. È severa nel difendere le opportunità, i diritti, l’inclusione come la stessa ragione della sua esistenza. Non è un volto senza identità e cerca di stare immersa nel suo tempo per dare risposta alle sfide e alle diseguaglianze di oggi. Che non saranno affrontate, non dico vinte, tornando indietro.

E attenzione perché anche la sinistra può farsi populista, quando semplifica ideologicamente la complessità sociale ed umana di questi tempi complicati. L’ ideologia, nemica degli ideali, è stata spesso la forma di sinistra del populismo. Stretta tra il populismo di destra e quello ideologico di sinistra l’Europa rischia di essere travolta. I muri di Orban e le frontiere chiuse della civile Danimarca devono accendere segnali di allarme.

E devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi: la suggestione rassicurante delle vecchie coperte ideologiche o del camuffamento e il naturale istinto a farsi del male da sola, a non sapersi ascoltare, a dividersi. Tutto già visto, già subito, con dolore. Noioso, persino nel “giorno della marmotta”.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/walter-veltroni-il-giorno-della-marmotta/
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 14, 2015, 06:59:26 pm »

Il rischio dell’estremo


Walter VELTRONI
Viviamo una stagione in cui prevalgono le posizioni “contro” e l’opinione pubblica spaventata ha bisogno di trovare un nemico contro cui scagliarsi


Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto: l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte, e da una buona dose di antipolitica.

In nome del rifiuto dell’ormai usurato “politically correct” si fa strada un frasario della politica barbaro e violento, che parla alla pancia dell’elettorato e sollecita intolleranza e estremismo. In effetti candidati simili si sono già visti, nella storia del dopoguerra americano: Barry Goldwater per i repubblicani e George Wallace per i democratici. Quest’ultimo, partito da posizioni ultra liberal, approdò, per ottenere voti, a una linea di sostegno alle posizioni segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei neri. La motivazione che fornì per questo radicale cambiamento, cinica e spregiudicata, è riassunta in queste parole, terribilmente attuali, «Sa, ho cercato di parlare di buone letture e di buone scuole e di queste cose che sono state parte della mia carriera, e nessuno ascoltava. Poi ho cominciato a parlare di negri, e si sono messi a battere i piedi sul pavimento». Tutti e due questi candidati non ebbero successo e tutto fa dire agli osservatori che lo stesso sarebbe se davvero Trump ottenesse la nomination repubblicana. E che Hillary Clinton sarebbe la più felice se davvero si candidasse il miliardario americano perché, con le sue posizioni così estreme, libererebbe uno spazio politico enorme, come spesso è stato nelle elezioni americane. Può essere sia così. Così è stato, si pensi al trionfo di Nixon contro George Mc Govern. I prossimi mesi ci daranno il responso. Io però non ne sarei più tanto sicuro. Infatti si vanno affermando, in tutto l’Occidente, pulsioni del tutto nuove, fenomeni carsici che spingono fasce di elettorato all’impegno o al disimpegno a seconda del grado di mobilitazione che l’estremizzazione delle posizioni determina.

I n un sondaggio svolto in North Carolina, gli elettori hanno risposto che preferirebbero Trump, con il 40% dei voti, alla Clinton con il 38%. Ma la cosa più strana e interessante è che il 9% si pronuncia per un candidato, Deez Nuts, che in realtà non esiste. È infatti lo pseudonimo, preso da una canzone di un gruppo che ama, di un ragazzino di quindici anni che, per gioco, si è iscritto alla competizione e che, lavorando su Facebook, ha raggiunto un consenso singolare. Lo cito solo per dire quanto sia grande la confusione e per questo sia sbagliato guardare l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica solo con le lenti tradizionali della politica tradizionale.

E, d’altra parte, il partito Laburista inglese non sta per eleggere un suo leader che ha posizioni, sui temi sociali e politici, molto lontane dalla più recente tradizione laburista, quella di Kinnock, Blair, Brown e dello stesso Miliband? In Spagna e in altri paesi non si vanno affermando posizioni simili? Persino in Grecia non si sono sollecitate elettoralmente spinte estreme, fino al referendum, salvo poi virare su soluzioni meditate e su accordi che un tempo venivano bollati con il marchio dell’infamia? Prendere voti è un conto, governare un altro.

Ma come mai, nel tempo più complesso della storia, si vanno affermando posizioni così semplificate? Si potrebbe dire che viviamo una stagione in cui prevalgono, persino nelle primarie dei partiti, le posizioni “contro”, in cui un’opinione pubblica spaventata e preoccupata ha bisogno di trovare sempre un nemico contro cui scagliarsi. In cui la paura ha preso il posto della speranza e l’odio quello della ragione. È già successo, nella storia. A questo contribuiscono certamente più fattori. Il primo è l’estenuante prolungarsi della più lunga crisi economica dal dopoguerra che, a dispetto di annunci ottimistici, si estende in tutto il mondo e, lo vediamo in questi giorni, colpisce anche economie forti e paesi emergenti. La recessione si sposa poi con l’altrettanto infinita catena di attacchi e minacce terroristiche e con l’esplodere, anche in conseguenza delle decine di conflitti che devastano il mondo, di un fenomeno di migrazione di proporzioni enormi di cui vediamo non solo a Lampedusa ma in Macedonia, in Grecia, a Calais le dimensioni umanamente incalcolabili.

La politica si dibatte, ovunque, in una crisi devastante di autorevolezza e di prestigio, legata certamente ai due fattori strutturali prima richiamati. Una crisi che ha effetto persino sul significato della parola democrazia. Chiunque, agendo su questa debolezza, si sente autorizzato a dileggiare la politica, come in televisione ho ascoltato fare persino da partecipanti al funerale di Casamonica, un evento che ha ferito la città e il paese in modo molto profondo. Ma la perdita di stima e di consenso dipende anche dalla trasformazione dei partiti e dei luoghi istituzionali. L’ho richiamata varie volte e non ci torno, se non per dire che senza la riapertura di un grande dibattito politico, culturale, di valori tra le persone che militano in un partito, non importa quale, i criteri di selezione del personale politico saranno sempre più confusi: estremismo verbale (e disponibilità a compromessi deleteri), capacità di portare voti (spesso non importa in quale modo), fedeltà assoluta al leader di turno (in attesa di pugnalarlo alla prima difficoltà).

La politica, quella vera, o rinascerà o sarà travolta da questo impasto di populismo e furbizia di potere che costituisce per me, la miscela più pericolosa in questo tempo del tutto originale che siamo chiamati a vivere. Credo infatti che ci sia una pericolosa sottovalutazione degli effetti, persino antropologici, della rivoluzione tecnologica che ha cambiato il mondo con ancora maggiore velocità di quella industriale. Pochi si fermano a ragionare sugli effetti di lungo periodo, positivi e negativi, che si stanno determinando nel profondo della società. Cose importanti, che cambiano il nostro rapporto con gli altri, con le relazioni umane, con il sapere, con il formarsi del senso, con il mutare degli orientamenti dell’opinione pubblica. D’altra parte non fu così con la televisione? Non fu lo stesso Sessantotto, sul piano culturale, il prodotto dell’ingresso, nelle case dei cittadini di tutto il mondo di una scatola che mostrava universi, linguaggi, esperienze sconosciute e, nel momento stesso in cui lo faceva, le rendeva universali? La televisione e la cultura di massa hanno creato fenomeni collettivi, hanno modificato linguaggi pubblici. E hanno cambiato la stessa politica. È ormai straconosciuta l’analisi della barba lunga di Nixon e dell’aspetto fresco e giovanile di John Kennedy nel dibattito televisivo del 1960. E nel grande successo del Pci, in Italia, contò la semplicità di linguaggio e il carisma personale di Enrico Berlinguer veicolate, dalla tv, anche nelle case di chi era più lontano dalle sue idee.

Oggi la nuova rivoluzione culturale produce un effetto molto diverso. Intanto proprio per la velocità e la pervasività delle informazioni che in tempo reale giungono, a noi. Nicole Aubert ha scritto che «le strutture temporali della “ tarda modernità” sono oggetto di una triplice accelerazione: l’accelerazione tecnica, che rinvia al ritmo crescente dell’innovazione nel campo dei trasporti, della comunicazione, e della produzione; l’accelerazione del cambiamento sociale, che riguarda i mutamenti nelle istituzioni sociali, in particolare la famiglia e il lavoro, la cui stabilità appare sempre più minacciata; infine l’accelerazione del ritmo della vita, di cui risente l’esperienza quotidiana degli individui contemporanei che sentono in modo sempre più acuto che manca loro il tempo o che il loro tempo è contato». Di qui, dice il sociologo americano Richard Sennett, il fatto che «l’angoscia del tempo spinge le persone a sfiorare le cose, più che ad attardarsi su di esse» o, anche, che i new media determinano una condizione che si potrebbe definire di “soli, insieme” e cioè la sensazione di essere integrati in un sistema di relazioni esclusivamente virtuali, rapporti che vengono sperimentati dalla propria stanza, isolati dal mondo ma convinti di esserne il centro. D’altra parte solo chi ha un lavoro fisso, una famiglia solida, può forse permettersi il lusso di progettare lentamente. Chi vive in una dimensione di permanente precarietà che investe i rapporti personali e la sfera occupazionale ha come imperativo quello di sopravvivere e cerca nell’oggi, qui e subito, soluzioni. Tutta la società cambia così velocità. E la stessa politica viene investita da tsunami emotivi sotto i quali delibera in fretta e furia. Pronta però a decidere una cosa e/o il suo contrario se, ad esempio, un fatto di cronaca scuote l’opinione pubblica o attiva interessi di gruppi sociali specifici. A questa altezza di problemi la nuova politica è chiamata. Invece continua come ha sempre fatto, con i suoi riti, magari riverniciati, con le sue guerre di potere, con le sue parole che rischiano di sembrare vuote. Se non si vuole che questo diventi definitivamente il tempo dell’estremo, con i rischi che Papa Francesco e il Presidente Mattarella hanno correttamente indicato, spetta alla forza della ragione, alla sua capacità di suscitare emozioni e passioni di indicare una soluzione possibile. Gli esempi di bellezza, anche terribile, della propria missione civile e umana, non mancano. L’ ultimo, per me struggente, è quello di un intellettuale di ottantadue anni, Khaled Asaad, che ė stato torturato e poi decapitato per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto, per salvarli, alcuni dei reperti archeologici più preziosi di Palmira, testimonianza essenziale di storia e di civiltà. Asaad ha difeso con la sua vita qualcosa che apparteneva non a lui, ma alla umanità intera. Qualcosa che i massacratori dell’Isis vogliono distruggere, come facevano i nazisti con i libri. Noi siamo, con tutti i nostri difetti, i difensori di quel bene supremo che è la libertà del pensiero. Non dimentichiamolo mai, in questo tempo complesso e confuso.

DA - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-dellestremo/
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 15, 2015, 05:32:18 pm »

Il giorno della marmotta
Pd   
Walter Veltroni
I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi

Gaber, genio irregolare e dunque genio, cantava «Cosa è la destra, cosa è la sinistra». Forse oggi è il giorno giusto per soffermarsi su questa storica, reale, profonda distinzione. Un confine da ritrovare non per ergere un muro ma per riconoscersi, per capire che un sistema di valori è diverso dall’altro. Rispettabili e legittimi entrambi, ma diversi.

Si oscilla spesso tra due estremi pericolosi: la demonizzazione dell’altro, in primo luogo. Se non sei di sinistra sei fascista, generalizzazione nella quale si è caduti spesso, salvo dover capire, in ritardo, quanto ci fosse di integralista e di autoritario in questo. Indro Montanelli non era certo di sinistra ma era un galantuomo che credeva in valori – quelli sì che dovrebbero essere universali – come la probità, come la piena libertà di impresa e di opinione. Renzo De Felice aveva le sue opinioni sul fascismo, la genesi del fenomeno e il consenso di cui ha goduto, e meritava di essere rispettato e considerato, non certo bollato come un revisionista, etichetta che ha una lunga e tragica storia. E che io ricordo essere stata spesso applicata, dagli estremisti di turno, persino a Enrico Berlinguer.

Ma, in verità, la sinistra si è affrancata nel tempo da questi difetti che pure talvolta, come in un riflesso pavloviano, tendono a riemergere.

La destra, regnante Berlusconi, ha invece tenuto in vita gli anni cinquanta fino a oggi. Chiunque era critico era comunista. Anche i liberali più socialmente moderati e magari legittimamente intransigenti sul piano della morale pubblica venivano equiparati a Stalin, Beria e se ne auspicava, ricordiamoci l’editto bulgaro, la defenestrazione. Enzo Biagi, certamente non un pericoloso esponente dell’Armata Rossa, è stato sovente inchiodato sul banco degli eversori dell’ordine costituito.

Il linguaggio politico ha così recuperato la truculenza degli anni peggiori, senza neanche l’alibi delle ideologie.

E il Paese è stato inchiodato così al suo eterno “giorno della marmotta”, quello che fa da pretesto ad un famoso film americano, “Ricomincio da capo”, in cui tutti gli eventi del giorno sono identici a quelli del giorno prima. Siamo scesi in tutti gli indici di competitività, compresi – come darsene pace? – quelli che riguardano la cultura, la formazione, la scuola. Cioè l’Italia e la sua storia. Però l’essere contro l’altro giustificava l’assenza di riforme e schieramenti eterogenei e stravaganti si paralizzavano a vicenda, in un surplace infinito ed estenuante.

Ho pensato, dopo la caduta del muro di Berlino, che potesse aprirsi, per l’Europa, un tempo storicamente unico. Che est e ovest potessero unirsi, che essere europei sarebbe diventato più naturale e che la politica di questo continente si sarebbe liberata dalle scorie ideologiche e avrebbe potuto mostrare, in termini di valori e di programmi, le nuove, splendide e profonde differenze tra destra e sinistra, tra conservatorismo e riformismo. C’ è stato un momento, l’Ulivo di Prodi, Clinton e la Terza via del primo Blair, in cui questo sembrò possibile. Almeno a sinistra. E ora?

Il mio timore è che si stia tornando nel “giorno della marmotta”. A destra non si è certo fatto strada un nuovo conservatorismo, moderno e liberale. Reagan sembra un miraggio di responsabilità, pensando all’impasto micidiale di Orban, Trump, Salvini, Le Pen e destra xenofoba del Nord Europa che si va affermando come modello ricostituivo del fronte opposto alla sinistra. Un micidiale cocktail di integralismi, di razzismo neanche tanto mascherato, di populismo esagitato, di spirito antieuropeo.

Seminagione costante di paura sociale, di diffidenza nei confronti dell’altro. La nuova ideologia di questa destra non è l’anticomunismo, ormai palesemente grottesco, ma purtroppo l’intolleranza. Il nuovo linguaggio di questa destra, qualcosa che tende a definirla, è il populismo più sfrenato.

Questo vale anche per il mondo conservatore italiano che deve decidere se scegliere la Merkel o Marine le Pen. Una sola scelta non è praticabile: essere le due cose insieme. Altrimenti si propone al Paese qualcosa di ambiguo e pericoloso.

Angela Merkel è sostanzialmente la guida, nello scacchiere europeo, dello schieramento dei popolari, in storico conflitto con quello socialista. In questi giorni, di fronte al tema dei migranti, ha mostrato coraggio politico e capacità di rifiutare la facile suggestione populista. Lo ha fatto in un momento in cui, se avesse preso la posizione opposta, tutto, compreso la costruzione europea, sarebbe andato in una crisi drammatica e irreversibile.

Conservatori da rispettare. Come lo furono Winston Churchill o Helmut Kohl, statisti il cui nome è scritto in modo indelebile nella storia del Novecento.

Due uomini politici, ruolo tra i più nobili possibili, specialismo di spessore intellettuale che, come tale, andrebbe rivalutato. Se vogliamo che non siano i peggiori a occuparsi di politica, i più spregiudicati o i più disonesti; se vogliamo che la gestione della cosa pubblica non sia in mano a incompetenti e ladri bisogna alzare l’asticella, alla ricerca, nelle persone, delle motivazioni profonde e dei talenti più puri.

Ma siamo sicuri che dal virus moderno del populismo sia al riparo anche la sinistra? Siamo certi che anch’essa non partecipi dell’“eterno ritorno” della politica , del suo ripararsi nei confini più sicuri, quelli dell’ideologia, quando tutto intorno si fa più complesso?

Voglio dirlo chiaramente: se la sinistra torna indietro, se riscopre nel passato non le sue radici migliori ma i suoi difetti peggiori, è destinata a sconfitte storiche. Tanto più gravi se consumate a fronte di quella destra.

La vittoria del nuovo leader laburista, al quale auguriamo buon lavoro, è secondo me il segno di questo rischio. Spaventata dalle nuove sfide e dai processi di globalizzazione, smarrita in un labirinto di nuove figure sociali e di inediti meccanismi di comunicazione e formazione del senso comune, la sinistra rischia di arroccarsi, di cercare indietro ciò che deve essere trovato davanti a noi, se siamo davvero figli di quella storia complessa e affascinante. È sinistra quella che, non rinunciando a sé, proietta il suo sistema di valori nel suo tempo. È sinistra un’idea di futuro, non una nostalgia di passato che non tornerà, ammesso che lo si debba auspicare.

Molte parole di Corbyn sarebbero state, diciamoci la verità, considerate datate anche nel dibattito della sinistra europea degli anni ottanta. La recente vicenda greca, le scelte arrischiate ma coraggiose di Tsipras, ieri idolo fuggevole di tutti i più “radicali”, hanno dimostrato che il passato e le ideologie non possono sfuggire alla sfida della realtà.

Ho già scritto qui, e ripeto, che non sopporto l’indistinto, l’idea che in fondo, ormai, esista un unico pensiero, parola grossa, che tutto dissolve e cancella, a cominciare dalle differenze tra destra e sinistra, ritenute ormai stupidi sbaffi a quadri contemporanei.

Il populismo e l’intolleranza per le diversità politiche e culturali sono gemelli. Ma chi la pensa diversamente da te non è mai un eretico, è una risorsa.

La sinistra che serve in questo momento è orgogliosa dei suoi valori, ma non è cultrice del vintage. È severa nel difendere le opportunità, i diritti, l’inclusione come la stessa ragione della sua esistenza. Non è un volto senza identità e cerca di stare immersa nel suo tempo per dare risposta alle sfide e alle diseguaglianze di oggi. Che non saranno affrontate, non dico vinte, tornando indietro.

E attenzione perché anche la sinistra può farsi populista, quando semplifica ideologicamente la complessità sociale ed umana di questi tempi complicati. L’ ideologia, nemica degli ideali, è stata spesso la forma di sinistra del populismo. Stretta tra il populismo di destra e quello ideologico di sinistra l’Europa rischia di essere travolta. I muri di Orban e le frontiere chiuse della civile Danimarca devono accendere segnali di allarme.

E devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi: la suggestione rassicurante delle vecchie coperte ideologiche o del camuffamento e il naturale istinto a farsi del male da sola, a non sapersi ascoltare, a dividersi. Tutto già visto, già subito, con dolore. Noioso, persino nel “giorno della marmotta”.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/walter-veltroni-il-giorno-della-marmotta/
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« Risposta #29 inserito:: Settembre 15, 2015, 06:03:14 pm »

Il rischio dell’estremo
Dal giornale   
Walter VELTRONI
Viviamo una stagione in cui prevalgono le posizioni “contro” e l’opinione pubblica spaventata ha bisogno di trovare un nemico contro cui scagliarsi

Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto: l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte, e da una buona dose di antipolitica.

In nome del rifiuto dell’ormai usurato “politically correct” si fa strada un frasario della politica barbaro e violento, che parla alla pancia dell’elettorato e sollecita intolleranza e estremismo. In effetti candidati simili si sono già visti, nella storia del dopoguerra americano: Barry Goldwater per i repubblicani e George Wallace per i democratici. Quest’ultimo, partito da posizioni ultra liberal, approdò, per ottenere voti, a una linea di sostegno alle posizioni segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei neri. La motivazione che fornì per questo radicale cambiamento, cinica e spregiudicata, è riassunta in queste parole, terribilmente attuali, «Sa, ho cercato di parlare di buone letture e di buone scuole e di queste cose che sono state parte della mia carriera, e nessuno ascoltava. Poi ho cominciato a parlare di negri, e si sono messi a battere i piedi sul pavimento». Tutti e due questi candidati non ebbero successo e tutto fa dire agli osservatori che lo stesso sarebbe se davvero Trump ottenesse la nomination repubblicana. E che Hillary Clinton sarebbe la più felice se davvero si candidasse il miliardario americano perché, con le sue posizioni così estreme, libererebbe uno spazio politico enorme, come spesso è stato nelle elezioni americane. Può essere sia così. Così è stato, si pensi al trionfo di Nixon contro George Mc Govern. I prossimi mesi ci daranno il responso. Io però non ne sarei più tanto sicuro. Infatti si vanno affermando, in tutto l’Occidente, pulsioni del tutto nuove, fenomeni carsici che spingono fasce di elettorato all’impegno o al disimpegno a seconda del grado di mobilitazione che l’estremizzazione delle posizioni determina.

I n un sondaggio svolto in North Carolina, gli elettori hanno risposto che preferirebbero Trump, con il 40% dei voti, alla Clinton con il 38%. Ma la cosa più strana e interessante è che il 9% si pronuncia per un candidato, Deez Nuts, che in realtà non esiste. È infatti lo pseudonimo, preso da una canzone di un gruppo che ama, di un ragazzino di quindici anni che, per gioco, si è iscritto alla competizione e che, lavorando su Facebook, ha raggiunto un consenso singolare. Lo cito solo per dire quanto sia grande la confusione e per questo sia sbagliato guardare l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica solo con le lenti tradizionali della politica tradizionale.

E, d’altra parte, il partito Laburista inglese non sta per eleggere un suo leader che ha posizioni, sui temi sociali e politici, molto lontane dalla più recente tradizione laburista, quella di Kinnock, Blair, Brown e dello stesso Miliband? In Spagna e in altri paesi non si vanno affermando posizioni simili? Persino in Grecia non si sono sollecitate elettoralmente spinte estreme, fino al referendum, salvo poi virare su soluzioni meditate e su accordi che un tempo venivano bollati con il marchio dell’infamia? Prendere voti è un conto, governare un altro.

Ma come mai, nel tempo più complesso della storia, si vanno affermando posizioni così semplificate? Si potrebbe dire che viviamo una stagione in cui prevalgono, persino nelle primarie dei partiti, le posizioni “contro”, in cui un’opinione pubblica spaventata e preoccupata ha bisogno di trovare sempre un nemico contro cui scagliarsi. In cui la paura ha preso il posto della speranza e l’odio quello della ragione. È già successo, nella storia. A questo contribuiscono certamente più fattori. Il primo è l’estenuante prolungarsi della più lunga crisi economica dal dopoguerra che, a dispetto di annunci ottimistici, si estende in tutto il mondo e, lo vediamo in questi giorni, colpisce anche economie forti e paesi emergenti. La recessione si sposa poi con l’altrettanto infinita catena di attacchi e minacce terroristiche e con l’esplodere, anche in conseguenza delle decine di conflitti che devastano il mondo, di un fenomeno di migrazione di proporzioni enormi di cui vediamo non solo a Lampedusa ma in Macedonia, in Grecia, a Calais le dimensioni umanamente incalcolabili.

La politica si dibatte, ovunque, in una crisi devastante di autorevolezza e di prestigio, legata certamente ai due fattori strutturali prima richiamati. Una crisi che ha effetto persino sul significato della parola democrazia. Chiunque, agendo su questa debolezza, si sente autorizzato a dileggiare la politica, come in televisione ho ascoltato fare persino da partecipanti al funerale di Casamonica, un evento che ha ferito la città e il paese in modo molto profondo. Ma la perdita di stima e di consenso dipende anche dalla trasformazione dei partiti e dei luoghi istituzionali. L’ho richiamata varie volte e non ci torno, se non per dire che senza la riapertura di un grande dibattito politico, culturale, di valori tra le persone che militano in un partito, non importa quale, i criteri di selezione del personale politico saranno sempre più confusi: estremismo verbale (e disponibilità a compromessi deleteri), capacità di portare voti (spesso non importa in quale modo), fedeltà assoluta al leader di turno (in attesa di pugnalarlo alla prima difficoltà).

La politica, quella vera, o rinascerà o sarà travolta da questo impasto di populismo e furbizia di potere che costituisce per me, la miscela più pericolosa in questo tempo del tutto originale che siamo chiamati a vivere. Credo infatti che ci sia una pericolosa sottovalutazione degli effetti, persino antropologici, della rivoluzione tecnologica che ha cambiato il mondo con ancora maggiore velocità di quella industriale. Pochi si fermano a ragionare sugli effetti di lungo periodo, positivi e negativi, che si stanno determinando nel profondo della società. Cose importanti, che cambiano il nostro rapporto con gli altri, con le relazioni umane, con il sapere, con il formarsi del senso, con il mutare degli orientamenti dell’opinione pubblica. D’altra parte non fu così con la televisione? Non fu lo stesso Sessantotto, sul piano culturale, il prodotto dell’ingresso, nelle case dei cittadini di tutto il mondo di una scatola che mostrava universi, linguaggi, esperienze sconosciute e, nel momento stesso in cui lo faceva, le rendeva universali? La televisione e la cultura di massa hanno creato fenomeni collettivi, hanno modificato linguaggi pubblici. E hanno cambiato la stessa politica. È ormai straconosciuta l’analisi della barba lunga di Nixon e dell’aspetto fresco e giovanile di John Kennedy nel dibattito televisivo del 1960. E nel grande successo del Pci, in Italia, contò la semplicità di linguaggio e il carisma personale di Enrico Berlinguer veicolate, dalla tv, anche nelle case di chi era più lontano dalle sue idee.

Oggi la nuova rivoluzione culturale produce un effetto molto diverso. Intanto proprio per la velocità e la pervasività delle informazioni che in tempo reale giungono, a noi. Nicole Aubert ha scritto che «le strutture temporali della “ tarda modernità” sono oggetto di una triplice accelerazione: l’accelerazione tecnica, che rinvia al ritmo crescente dell’innovazione nel campo dei trasporti, della comunicazione, e della produzione; l’accelerazione del cambiamento sociale, che riguarda i mutamenti nelle istituzioni sociali, in particolare la famiglia e il lavoro, la cui stabilità appare sempre più minacciata; infine l’accelerazione del ritmo della vita, di cui risente l’esperienza quotidiana degli individui contemporanei che sentono in modo sempre più acuto che manca loro il tempo o che il loro tempo è contato». Di qui, dice il sociologo americano Richard Sennett, il fatto che «l’angoscia del tempo spinge le persone a sfiorare le cose, più che ad attardarsi su di esse» o, anche, che i new media determinano una condizione che si potrebbe definire di “soli, insieme” e cioè la sensazione di essere integrati in un sistema di relazioni esclusivamente virtuali, rapporti che vengono sperimentati dalla propria stanza, isolati dal mondo ma convinti di esserne il centro. D’altra parte solo chi ha un lavoro fisso, una famiglia solida, può forse permettersi il lusso di progettare lentamente. Chi vive in una dimensione di permanente precarietà che investe i rapporti personali e la sfera occupazionale ha come imperativo quello di sopravvivere e cerca nell’oggi, qui e subito, soluzioni. Tutta la società cambia così velocità. E la stessa politica viene investita da tsunami emotivi sotto i quali delibera in fretta e furia. Pronta però a decidere una cosa e/o il suo contrario se, ad esempio, un fatto di cronaca scuote l’opinione pubblica o attiva interessi di gruppi sociali specifici. A questa altezza di problemi la nuova politica è chiamata. Invece continua come ha sempre fatto, con i suoi riti, magari riverniciati, con le sue guerre di potere, con le sue parole che rischiano di sembrare vuote. Se non si vuole che questo diventi definitivamente il tempo dell’estremo, con i rischi che Papa Francesco e il Presidente Mattarella hanno correttamente indicato, spetta alla forza della ragione, alla sua capacità di suscitare emozioni e passioni di indicare una soluzione possibile. Gli esempi di bellezza, anche terribile, della propria missione civile e umana, non mancano. L’ ultimo, per me struggente, è quello di un intellettuale di ottantadue anni, Khaled Asaad, che ė stato torturato e poi decapitato per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto, per salvarli, alcuni dei reperti archeologici più preziosi di Palmira, testimonianza essenziale di storia e di civiltà. Asaad ha difeso con la sua vita qualcosa che apparteneva non a lui, ma alla umanità intera. Qualcosa che i massacratori dell’Isis vogliono distruggere, come facevano i nazisti con i libri. Noi siamo, con tutti i nostri difetti, i difensori di quel bene supremo che è la libertà del pensiero. Non dimentichiamolo mai, in questo tempo complesso e confuso.

DA - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-dellestremo/
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