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Autore Discussione: LIBERA: Beni confiscati: difendere un patrimonio sociale  (Letto 2066 volte)
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« inserito:: Agosto 27, 2013, 11:36:57 pm »

Beni confiscati: difendere un patrimonio sociale
 

La recente decisione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata di mettere in vendita l'azienda Agricola Suvignano, in provincia di Siena, ha riproposto all'attenzione pubblica la necessità di salvaguardare il principio del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie.
Questa vicenda, infatti, ha suscitato la reazione (una eventualità che può essere ancora scongiurata evitando quella che sarebbe - al di là delle intenzioni - a tutti gli effetti una sconfitta dello Stato) degli enti locali e dei rappresentanti del mondo dell'associazionismo, del sindacato e della cooperazione, confermando la tesi che i beni confiscati devono essere sempre considerati un'opportunità di coesione territoriale, di sviluppo di reti relazionali e di lavoro vero per i giovani.
Grazie all'uso sociale dei beni confiscati, infatti, pur tra limiti e difficoltà ancora da superare, sono tante le associazioni e le cooperative sociali che in questi anni hanno operato per restituire, concretamente, alla collettività ville, appartamenti e terreni agricoli sottratti ai patrimoni dei boss.
Valorizzare queste esperienze, sostenerle nei loro sforzi, significa affermare, nell'impegno quotidiano, che la legalità conviene. Per queste ragioni l'uso sociale dei beni immobili confiscati deve restare una priorità assoluta, risolvendo i problemi che esistono ed evitando pericolose scorciatoie, come quelle della vendita, che può essere prevista solo in situazioni eccezionali.
Sono stati numerosi in questi giorni gli appelli a non procedere alla vendita della più grande azienda agricola confiscata in Italia e a riprendere il percorso avviato dal tavolo istituzionale presso il Ministero dell'Interno, con la Prefettura di Siena, la Regione Toscana, la Provincia di Siena e il Comune di Monteroni D'Arbia, che andava nella direzione di una sua restituzione alla collettività, salvaguardandone i posti di lavoro presenti. A maggior ragione del fatto che si tratta di una delle poche aziende in Italia che, in seguito alla confisca, è riuscita a continuare la sua attività economica.
La quasi totalità delle aziende è destinata, invece, al fallimento e alla liquidazione.
Le cause di questo vero e proprio "spreco di legalità" sono diverse: tempi lunghi dal sequestro alla confisca definitiva; fornitori che chiedono di rientrare immediatamente dei loro crediti; banche che chiudono i "rubinetti"; amministratori giudiziari spesso senza strumenti, risorse e competenze specifiche. Il risultato è uno e inaccettabile: la chiusura delle aziende confiscate, con i relativi licenziamenti.
Il lavoro prezioso e importante fin qui svolto dalla magistratura, da quegli amministratori giudiziari che si dedicano al loro compito con passione e generosità, dall'Agenzia nazionale, non basta.
Trasformare ogni azienda sottratta alle mafie in una risorsa in grado di sostenere il Paese in un momento di grande difficoltà economica e sociale è un risultato che si può raggiungere con l'approvazione in tempi rapidi della proposta di legge di iniziativa popolare "Io riattivo il lavoro", depositata in Parlamento e la definizione di modifiche legislative finalizzate a:
a) introdurre agevolazioni contributive per il mantenimento dei dipendenti e per l'assunzione di nuova forza lavoro ove necessaria;
b) prevedere un sistema di welfare che consenta ai lavoratori di essere utilmente ricollocati sul mercato del lavoro nel caso di chiusura dell'azienda (ammortizzatori sociali in deroga);
c) sostenere con incentivi economici la nascita delle cooperative dei lavoratori dell'azienda;
d) istituire una quota del Fondo nazionale di garanzia per le Piccole e Medie Imprese per l'accesso al credito sia delle aziende sia dei soggetti - associazioni e cooperative sociali - che gestiscono beni confiscati e necessitano di effettuare investimenti.
Nel contempo bisognerebbe riprendere anche la proposta formulata dallo stesso Prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell'Agenzia nazionale, "di estendere alle aziende la disciplina oggi dettata per i beni immobili e consentire allo Stato e agli Enti territoriali di acquisire a titolo gratuito le aziende confiscate".
C'è, quindi, bisogno di un intervento serio e immediato del Governo e del Parlamento.
Va risolta in maniera definitiva la questione legata ai gravami ipotecari sui beni immobili ancora in gestione all'Agenzia nazionale.
Vanno utilizzate tutte le liquidità e i soldi confiscati alla criminalità organizzata e che confluiscono nel Fondo unico giustizia.
Vanno assegnate adeguate risorse alle sezioni Misure di prevenzione dei Tribunali. Non è possibile che a gestire milioni di euro sequestrati e confiscati ai boss a Palermo, Reggio Calabria, Caserta, Bari, Roma e Milano ci siamo pochissimi giudici e assistenti giudiziari.
La stessa Agenzia nazionale, istituita nel 2010, ha ancora le mani legate. Per essere in grado di lavorare con serenità ed efficacia, ha bisogno di risorse, di un organico superiore rispetto alle trenta persone di ruolo e alle cento persone a comando e distacco oggi previste. Il consiglio direttivo, inoltre, deve essere integrato con i due esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali.
Infine, i dati disponibili e l'esperienza maturata ci conducono ad un'importante considerazione: la tematica del riutilizzo dei beni confiscati non può essere più relegata ad un ruolo di semplice e simbolica testimonianza.
I beni e le aziende confiscate costituiscono ormai risorse diffuse sul territorio, utili a fungere da volano per interventi organici e strutturati di sviluppo locale.
     Fra le criticità riscontrate, infatti, vi è quella di addossare l'intera responsabilità dell'operazione di valorizzazione del bene confiscato al soggetto proprietario (il Comune) oppure al soggetto gestore (associazione o cooperativa sociale). Nella grande maggioranza dei casi i beni sono localizzati in Comuni di piccole dimensioni che non dispongono né delle risorse né delle competenze necessarie ad affrontare un impegno così gravoso. Inoltre, in molti casi nei piccoli comuni non è possibile avere quei margini di sicurezza e di protezione dalle pressioni criminali e mafiose. Numerosi sono, ancora oggi, gli atti di intimidazione delle mafie e i tentativi di inquinare le procedure di assegnazione tramite prestanomi.
     Sarebbe necessario, pertanto, ipotizzare soluzioni idonee ad offrire agli enti locali un supporto costante e qualificato in fase progettuale, implementare metodologie e strumenti di coinvolgimento di tutti gli attori economici e sociali, introdurre agevolazioni e incentivi specifici per l'imprenditorialità giovanile.
In questo senso va nella giusta direzione la destinazione - nel decreto lavoro approvato prima di ferragosto - di ottanta milioni di euro, nel triennio 2013-2015, finalizzati alla valorizzazione dei beni pubblici, in particolare i beni confiscati alle mafie, grazie al Piano di Azione e Coesione. Così come la destinazione dei fondi comunitari gestiti dallo Stato e dalle Regioni, prevista dalla bozza di accordo di partenariato per la programmazione 2014-2020, predisposta dal Ministero della coesione territoriale.
Solo in questo modo si potrà scongiurare il pericolo di una loro inutilizzazione e si potranno - a tutti gli effetti - considerare uno strumento di sviluppo comunitario in termini di antimafia sociale, di occupazione, di inclusione, di miglioramento della qualità della vita e di partecipazione attiva. Di generazione di fiducia e speranza per la sconfitta delle mafie e della corruzione nel nostro Paese.

Davide Pati - Responsabile settore beni confiscati di Libera
su L'Unità | 25 agosto 2013


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