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Autore Discussione: ENZO BETTIZA  (Letto 56796 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Maggio 20, 2012, 10:59:34 pm »

20/5/2012

Finalmente i medici si occupano del malato grave

ENZO BETTIZA

Se i mali non vengono solo per nuocere, si potrebbe ben dire che il disastro greco, giunto al suo atto finale, si manifesta proprio per questo come il momento della verità che finora tutti in Europa e in parte in America cercavano di evitare.

Offuscava il quadro della crisi, che era e resta soprattutto una crisi epocale dell’Occidente, una caterva di questioni economiche e finanziarie indubbiamente reali e credibili; ma spesso anche astruse, esagerate, teleguidate dalla mano invisibile dei mercati, dai giochi speculativi delle agenzie di rating, dalla disinformazione calcolatamente mirata alla diffusione del caos e del panico nelle Borse, nelle banche, nelle aziende, perfino nei governi e nelle masse e di nazioni periferiche più colpite dal grande dissesto.

L’unico fatto che in maniera incombente è apparso sospeso, come una spada di Damocle, sopra le teste dei partecipanti al G8 di Camp David, è stato il default ormai senza scampo della Grecia con tutto ciò che potrà conseguirne in tempi strettissimi: subito dopo, o anche prima, della prossime e reiterate elezioni del 17 giugno. La fuga di Atene dal tempio sconsacrato dell’Euro, il ritorno degli ateniesi alla mitica dracma d’argento che per primo protettore ebbe Apollo, insomma l’uscita non priva di paradosso storico e d’incubo dei greci da un’Unione che deriva l’appellativo di «europea» da una bellissima figlia del fenicio Agenore rapita dall’onnipotente Zeus.

Non sottovaluterei il senso simbolico, o se vogliamo il contraccolpo psicologico che non possiamo non avvertire all’idea di un’Europa già da anni travagliata, sempre più divisa, che ora sta per separarsi, in maniera caotica e forse definitiva, da una delle matrici più antiche e germinali della propria storia e cultura. Senza la lingua greca con tutti i suoi etimi sparpagliati fra le radici dei nostri idiomi indoeuropei, senza la Grecia classica, ellenica o ellenistica, o anche quella bizantina che durò dieci secoli cristianizzando slavi e asiatici, noi non saremmo ciò che siamo stati e che siamo ancora oggi.

Negli Anni 70, quando la Comunità europea d’allora inglobò nelle sue istituzioni la Grecia, fummo in molti a pensare, a sentire che il nuovo socio, accolto nell’impresa volta all’unità del continente, rappresentava per noi qualcosa di ben più significativo dell’acquisto di una semplice nazione balcanica. Avevamo la sensazione non solo di portare a termine un ineluttabile trattato politico ed economico; avevamo bensì la certezza di concludere, nel medesimo istante, con una tessera d’insostituibile rilievo ancestrale, il disegno di un mosaico culturale di cui noi stessi con la nostra attitudine all’arte, alla scienza, alla letteratura, alla filosofia, facevamo e facciamo geneticamente parte.

Tutto questo non va ovviamente confuso con una distorta visione parastorica basata su ricordi scolastici approssimativi, su facili stereotipi cinematografici e luoghi comuni da bassa letteratura. Non erano tutte rose quelle che fiorivano nella polis di Atene che «democraticamente» condannava Socrate alla cicuta, che avaramente conferiva il rango di legittimi «cittadini» a una minoranza oligarchica, periclea, riservando alle donne e agli schiavi un’esistenza umiliante di seconda mano. Non vanno poi dimenticate le guerre spesso inutili e suicide tra le varie polis, che faciliteranno la discesa imperialistica delle legioni macedoni, né gli intrighi levantini e le crudeltà spesso mostruose che molto più tardi perpetreranno i teocrati bizantini.

Ricorderemo certo con ammirazione lo scatto risorgimentale, che avverrà ancora più tardi, nel primo Ottocento, e avrà per protagonisti i combattivi patrioti greci cantati da Byron: greci autentici, non più «greculi», come si compiacevano di considerarli con sprezzo i diplomatici occidentali e i pascià ottomani.
Ma torniamo al presente. O, meglio, al passato prossimo e triste, segnato dagli Anni 90 in poi dall’avvento dell’euro, in cui tanti cittadini grandi e piccoli, ministri e uscieri, socialisti e conservatori dinastici, sono tornati a comportarsi da «greculi». Hanno cominciato a guardare alle casse di Bruxelles, troppo indulgenti o distratte, come a forzieri in libertà cui era possibile attingere presentando conti sfalsati; hanno preso a vivere al disopra delle loro possibilità e a giustificare la loro condotta con argomenti spesso indecenti.

Il caso della Olimpiadi ateniesi del 2004 ha fatto scuola come la più scandalosa esibizione di scialo collettivo: «Una perfetta lezione» - è stato scritto - «su come si possa tracciare e percorrere a gambe levate una via nazionale alla miseria». Il titolo di un recente bestseller di Stavros Lygeros, editorialista di punta del quotidiano Kathimerini, la dice tutta in quattro parole: «Dalla cleptocrazia alla bancarotta». Ma sarebbe eccessivo e subdolo sostenere, come si sostiene oggi a Berlino, che i greci indistintamente sono tutti cleptocrati o cleptomani.

La cura di rigore imposta dalla cancelliere Merkel ai debitori ha un aspetto, più che terapeutico, gelidamente punitivo: una sorta di ordalia gotica che impone ai falliti di Atene il suicidio e ai mezzi falliti della Spagna la lenta narcosi prima della morte. Incalza il censore Lygeros: «Ci si chiede di ridurre il settore pubblico, licenziare 150 mila statali, mentre il problema è di riorganizzarlo. Abbiamo una preoccupante ondata di criminalità e un’invasione di clandestini, eppure ci chiedono di diminuire i poliziotti. Quello che invece chiediamo noi all’Europa non è solo questione di danaro; le chiediamo di darci una mano anche per liberarci dal giogo dei truffatori e delle clientele. Purtroppo la troika (Bruxelles, Francoforte, Fondo monetario) si è impuntata a imporre l’abolizione delle professioni chiuse che in Grecia non esistono. Un delirio. Ora siamo nella fase del saccheggio pubblico». Nonostante tutto Lygeros, europeista convinto, sostiene che l’Europa non sarà in grado di reggere l’impatto dell’espulsione di Atene dall’Eurozona.

La stessa cosa l’ha sostenuta con fermezza l’ospite di Camp David, il presidente Obama, il quale domanda agli europei, anche tedeschi, meno austerità e più investimenti per la crescita. L’ultimo atto del dramma greco ha visto da una parte uniti l’americano Obama, l’italiano Monti, il francese Holland. Più che mai isolata e imbarazzata una Merkel, oltretutto segnata dai recenti lividi elettorali, con i socialdemocratici e gli stessi alleati liberali che ne contestano la durezza antiellenica. La brezza di svolta, di novità fra le sponde dell’Atlantico, è nell’aria. Forse ci voleva una malato grave nello sfondo. Non si sa quello che potranno fare i medici che si sono mossi: si sono comunque mobilitati e non è da escludere che, con un farmaco dolce, riescano a rimetterlo in piedi. Vedremo più chiaro dopo il 17 giugno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10125
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« Risposta #76 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:36:52 am »

3/6/2012

Anche Dublino si piega a Frau Angela

ENZO BETTIZA

Strano, stranissimo, questo gelido sì referendario di Dublino. Sino all’ultimo era stato difficile prevedere se gli elettori irlandesi, noti per i loro plebisciti contrari a regole e raccomandazioni della Commissione europea, avrebbero accettato o ripudiato il patto di austerità che i virtuosi notai di Berlino preferiscono connotare col termine «trattato di stabilità fiscale».

L’amara medicina, già imposta alla Grecia e sospesa ora anche sulla Spagna, è stata ingoiata a denti stretti dall’Irlanda per poter accedere ai fondi destinati da Bruxelles al salvataggio delle sue banche disastrate. Stavolta la «tigre celtica», che negli anni passati aveva goduto di un privilegiato status economico in seno all’Ue, non ha tirato fuori gli artigli: si è piegata al giogo di una crisi generalizzata.

Proprio venerdì, giorno del referendum, la crisi ha toccato il culmine con il crollo delle Borse europee, lo sconquasso di Wall Street, le statistiche sulla disoccupazione, l’ira del Presidente americano che rischierebbe di perdere la rielezione a causa del contagio che un’Europa malata e inane diffonde nel mondo.

Su questo sfondo generale, alterato dal panico, che ormai coinvolge l’intero Occidente, americani compresi, l’esito del sì di Dublino alla camicia di forza dell’austerità è apparso simile a una sconfitta piuttosto che alla «vittoria» solennemente declamata dal governo di Dublino.

La vera vincitrice è apparsa Angela Merkel, criticata da molti, ma non dal primo ministro dublinese Enda Kenny il quale, a urne appena chiuse, si è precipitato a comunicare per telefono alla cancelliera il consenso ottenuto dalla prova referendaria. Si potrebbe dire, esagerando ma non troppo, che una sostanziosa quota di sovranità irlandese è finita così in mani tedesche. Non si esagera invece sostenendo che il risultato del voto, nonostante la comparsa di un 60 per cento maggioritario, non è stato affatto nitido e men che meno entusiastico; l'Irlanda ne è uscita spaccata a metà; più che entusiasmo c'è stata rassegnazione per le strade. I quartieri operai e impoveriti dalla crisi hanno votato per il più solido partito d’opposizione, contrario alla politica del rigore, cioè lo storico Sinn Fein, un tempo braccio politico dell’Ira e guidato tuttora dal suo capo storico Gerry Adams.

«Il governo ossequiente a Bruxelles - ha commentato Adams - si è speso in termini impegnativi sul salvataggio delle banche, sulla crescita e la promessa di alleggerire la pressione delle politiche di austerità. Noi continueremo a batterci perché queste promesse siano puntualmente rispettate, non dimenticando che parte dei voti a favore sono stati dati con animo fiacco e molto riluttante». Il ceto medio avrebbe votato, non certo per la contabilità punitiva alla tedesca, ma essenzialmente per i fondi europei centellinati ai Paesi in dissesto.

In questo senso il referendum dell’Irlanda, Paese uso a sottoporre al voto popolare ogni importante decisione di Bruxelles, offre, più che mai oggi, una spia visibile o quanto meno uno spaccato trasversale su umori e travagli di altri Stati europei. Taluni in difficoltà catastrofica, come la Grecia, praticamente priva di un governo legittimo; altri assillati da minacciosi chiaroscuri come la Spagna del laconico Rajoy che non sa più che fare; altri ancora come la Francia del trapezista Hollande, che s’aggrappa con una mano incerta alla Germania e insieme tende una sinistra cooperativa all’Italia in faticosa risalita.

Fra un paio di settimane il voto di Atene ci dirà se l’esecutivo di sinistra, dominato dall’enigmatico partito Syriza, deciderà di soccombere con la vecchia dracma o sopravvivere con l’euro detestato. Fra pochi giorni, il 10 giugno, sapremo invece che tipo di esecutivo si darà la Francia dopo il voto per la nuova Assemblea nazionale. Non è da escludere che il partito socialista possa perdere la maggioranza, il che costringerebbe Hollande a scegliere tra due opzioni difficili per non dire egualmente insostenibili: o l’incubo di una coabitazione con l’Ump gollista, che finirebbe per paralizzare prima o poi il governo, oppure l’azzardo di una coalizione ambigua con il Front de Gauche, che porterebbe il governo a scontrarsi fatalmente con molte proposte di Bruxelles. Insomma, una Francia quasi impotente in un caso come nell’altro, e ciò proprio nel momento in cui Hollande starà cercando di riequilibrarne il peso e il prestigio rispetto al preponderante dinamismo della Germania.

Quale futuro, in definitiva, può aspettarsi una simile Europa disunita, dilaniata dagli strappi della moneta unica, incapace di considerare le potenzialità unitarie che nessuno, tranne alcuni personaggi di punta del mondo economico, sembra più in grado di scorgere? Rassegnarsi al peggio? Prendere sul serio il monito di un qualificato esponente della Commissione di Bruxelles, Olli Rehn, che agita lo spettro di una possibile «disintegrazione» dell’eurozona? Penso sarebbe meglio e saggio dare più ascolto alle parole di due banchieri colti quali Ignazio Visco e Mario Draghi. Nei loro ultimi interventi pubblici hanno voluto far capire che, nel suo insieme, la zona euro è ancora la più ricca del mondo con 300 milioni di abitanti e 20 milioni di imprese. Un’area che potrà riscattarsi dalla crisi solo se riuscirà a compattarsi in uno Stato vero. Uno Stato federale. Uno Stato alfine in grado di mutualizzare i debiti, superare i deficit, scarnificare la contabilità da Pil, capace di creare politiche fiscali comuni e non da codice penale. Lo ha detto bene Visco: «Dobbiamo definire un percorso che abbia nell’unione politica il suo traguardo finale».

È importante che a ribadirlo sia un uomo di banca, non un cantore dell’europeismo di maniera. Il percorso, se lo si farà, andrà fatto aggirando gli ostacoli che al suo svolgimento porrà la temporanea presenza a Berlino di una luterana complessata, proveniente dalla Germania dell’Est, euroscettica più o meno involontaria la quale, secondo l’ex ministro Fischer e l’ex cancelliere Schroeder, vorrebbe distruggere per la terza volta il vecchio continente: non più con le armi, ma con i callidi libri mastri e pentecostali della Bundesbank.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10180
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« Risposta #77 inserito:: Giugno 19, 2012, 11:18:32 pm »

19/6/2012

Il passaggio obbligato dell'Unione

ENZO BETTIZA

Certo, non sarà tutto oro quello che colerà dalle urne appena chiuse di Atene. Mentre si svolge il G20 nel Messico, dove il risultato non negativo delle elezioni elleniche verrà esaminato in tutte le sue possibili conseguenze e incognite, sarebbe tuttavia opportuno mettere da parte, una volta tanto, il consueto pessimismo di maniera che da alcuni anni accompagna le tensioni e le diatribe tra Paesi fortunati e sfortunati della zona euro. Spenta, almeno per il momento, la miccia della polveriera in Grecia, con la relativa sconfitta della sinistra antieuropea di Syriza e l’impegno di Antonis Samaras, leader conservatore di Nuova democrazia, di costituire in tre giorni un governo di coalizione, quale sarà l’Europa che si presenta a Los Cabos al giudizio dei grandi e diffidenti protagonisti della globalizzazione - Stati Uniti, Russia, Cina, India, Brasile? Una sorvegliata speciale? Una logora entità sovrannazionale prossima allo sfacelo? Una contagiosa malata, sottoposta ad una nefasta cura da cavallo da un gruppo di medici in parte germanici e in parte germanizzati?

Quanto meno così si diceva e soprattutto si pensava, da Washington a Pechino, fino a pochi giorni fa.

Tanti ritenevano, con un misto di panico e di «Schadenfreude», parola tedesca che significa compiacimento per i mali altrui, che la ghigliottina finanziaria stesse per vibrare sul collo degli europei «un colpo alla Lehman Brothers» mentre il Wall Street Journal evocava «derive e venti che soffiano dalla vecchia Europa». Quasi tutti s’aspettavano l’inizio della fine della declinante Unione Europea nel gran rifiuto elettorale di circa dieci milioni di greci. Li si considerava chiamati a esprimere dopo il 6 maggio, in una sorta di referendum ordalico, la loro desolata avversità alla moneta unica, all’austerità di Berlino, agli impegni di rigore e di bilancio contrattati in cambio di aiuti con l’Ue, con la Banca europea, col Fondo monetario internazionale.

È avvenuto invece il contrario. La maggioranza degli elettori greci, pur lasciando spazio all’altissimo quoziente della confusa coalizione di sinistra del giovane Alexis Tsipras, ha rafforzato e privilegiato il tradizionale partito dell’euro, Nuova democrazia, fautore da sempre del negoziato e non dello scontro con le regole della Commissione di Bruxelles. Non solo. In felice coincidenza con l’esito delle urne elleniche s’è verificato il ballottaggio delle urne francesi che, confermando la maggioranza assoluta al partito socialista, mette ora nelle mani del presidente Hollande un potere nitido, lineare, non ricattabile né da commistioni nazionali né da pressioni internazionali. La naturale e direi fisiologica alleata della Francia hollandaina, al G20 di Los Cabos, non potrà essere che l’Italia di Monti: un’Italia per ora immune da contagi ravvicinati, stimata dal presidente Obama, priva di vincoli creditizi con Bruxelles, intenta a rispettare le scadenze pattuite per il risanamento del debito. Non va dimenticato inoltre che le istituzioni europee hanno concesso, proprio alla vigilia del G20, un prestito di 100 miliardi alle banche spagnole in crisi, ma non al governo di Madrid che in quanto tale è sempre sotto osservazione, anche nell’ottica dei mercati. I venti cattivi, che spiravano dalla vecchia Europa, sembrano potersi placare. Si avverte nell’aria una svolta, al tempo stesso europea e globale, che non potrà lasciare indifferente la maggiore accusata o quantomeno indiziata al tavolo messicano: la ridente e serpeggiante signora del rigore tedesco. Le cui ali di falca non stanno però calando quanto americani ed europei avrebbero desiderato. Non a caso il suo ministro degli Esteri, Westerwelle, è stato in qualche modo sottilmente da lei corretto nell’aver concesso in queste ore delicate, di transizione e di novità, messaggi di rassicurazione ai greci.

Vedremo se il momento della verità politica, dopo quella emotiva elettorale e quella rudemente economica, riuscirà a scattare o prendere almeno una prima forma gestibile, in senso operativo, durante il vertice dei capi di stato e di governo di fine mese. La tregua intrisa d’imprevedibilità, anche se ottimistiche, resta pur sempre fragile come tutte le tregue. Oramai l’agenda europea, aggirato il baratro greco, non potrà esimersi dal puntare realisticamente su obiettivi e scadenze anticrisi: non potrà ignorare la richiesta, che si leva da più voci martellanti e competenti, favorevoli alla messa in opera di garanzie europee sui depositi bancari, il che presuppone una spinta al processo di unificazione fiscale. Si tratta di un processo che in definitiva, mediante gestioni condivise dei debiti sovrani dei singoli Paesi, implicano di fatto l’avvio di un meccanismo federativo con relative cessioni di sovranità nazionale. Sarà qui il punto in cui la tregua, se Merkel e Hollande saranno in grado di consolidarla nel loro stesso interesse, potrà darsi la stabilità di una pace sovrannazionale e sfociare, alfine, in un rinnovato «contratto sociale» europeo: in parole semplici in una vera Federazione con una sua adeguata Costituzione.

Ha ben detto in proposito, sul Sole 24 Ore, Guido Rossi: «Se l’alternativa di uno Stato federale sul modello americano può ancora essere lontana, per le diverse tradizioni istituzionali dei singoli Paesi dell’Unione, non v’è dubbio tuttavia che rimane pur aperta l’opportunità di una Costituzione europea di diritto internazionale». Credo anch’io che dopo tante risse futili, tenebrose, spesso determinate da calcoli di bottega circoscritta e meschina, riusciremo o magari riusciremmo a garantire, con la rinuncia a mummificati pregiudizi di sovranità, il futuro che dovrebbe starci più a cuore: «La sopravvivenza del popolo europeo e della sua grande civiltà che non può essere distrutta da fallaci apparenze di egoismi nazionali».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10243
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« Risposta #78 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:14:49 pm »

15/7/2012

I moderati e la casa introvabile

ENZO BETTIZA

Siamo in molti come in attesa dello scoppio di una bomba a orologeria. La politica, ammesso che in Italia ne esista ancora una degna di questo nome, dà ogni giorno di più l’impressione non di avanzare, bensì di retrocedere a sussulti verso i terreni incogniti e minati del 2013.

A prescindere dall’economia asfittica, mai il panorama della seconda repubblica, che con Monti già stinge nella terza, era apparso altrettanto confuso, ibrido, stremato e squilibrato. Squilibrato, in primo luogo, per la dissoluzione o meglio l’inesistenza di partiti credibili, seriamente contrapposti, simili per qualità e solidità a quelli che operano e competono per il potere nelle maggiori democrazie. In Italia la retrocessione e il degrado hanno prevalso sull’evoluzione. Le scomparse pressoché simultanee del dilagante partito comunista e dell’onnivora democrazia cristiana sono state seguite dalla nascita, non di autentici partiti moderni, d’impianto occidentale, il che sarebbe stato, oltreché auspicabile, idoneo a rafforzare la presenza dell’Italia in Europa. Il vuoto, prodotto dall’epopea giustizialista di «mani pulite», venne riempito alla rinfusa da uno sciame di movimenti che Benedetto Croce avrebbe senz’altro bollato come «ircocervi»: agglomerati di tipo aziendale e paternalistico, fusioni chiamate ulivi tra ex democristiani e postcomunisti, leghe populiste e regionalistiche, effimeri carriaggi d’appoggio con nomi e spostamenti mutevoli e così via.

Una fiera promiscua, somma, nella quale c’era e c’è ancora tutto e di più, tranne la preminenza delle due forze essenziali che caratterizzano una democrazia compiuta: cioè una vera destra moderata, liberale, e una sinistra autenticamente riformista. Al loro posto oggi abbiamo invece la «strana maggioranza», come la definisce Monti, formata dalla volatilità di un Pdl allo sbando, frastornato dalle sortite estemporanee di Berlusconi, e dall’ambiguità ondivaga di un Pd ricattato dai censori di ultrasinistra e intimorito dai successi del neoqualunquismo grillista.

Tutto questo mi spinge a scrivere, più che un semplice articolo, quasi una lettera personale al direttore e ai lettori, con qualche inevitabile considerazione autobiografica a mezza via tra l’opinione ideologica e il ricordo storico. Per scrupolo non posso fare a meno di avvertire che quello che dirò sarà, buona o cattiva, farina soltanto del mio sacco. Il tema centrale, cui ho già accennato sopra, sarà dedicato alla presenza spesso effimera, dispersiva, talvolta per breve tempo incisiva di un’area moderata e laica che in Italia, al contrario per esempio che in Francia, non è mai riuscita a darsi una veste politica e culturale omogenea.

Fermiamoci un attimo al primo dopoguerra. Si videro allora molte personalità di spicco dell’ambizioso e laicissimo partito d’azione, come La Malfa e Lombardi, emigrare verso altri partiti. Da quell’istante la grande anomalia italiana, contrassegnata dal peso esorbitante e già consociativo dei cattolici e dei comunisti, ha impedito la crescita di un’area moderata unitaria, occidentalista, liberale. Si è assistito, piuttosto che all’unione, alla frantumazione, alla trasformazione, alla contrapposizione di tanti laici democratici divenuti repubblicani, neoliberali, socialisti nenniani, socialdemocratici saragattiani, radicali pannelliani.

Ci fu un momento negli anni Sessanta in cui il partito repubblicano, che costituiva un piccolo partito di massa nella fortezza romagnola, vide espandersi nelle regioni centrosettentrionali un concorrente movimento di massa neoliberale e neoliberista sotto l’impulso autorevole e autoritario di Giovanni Malagodi. Affrontando le folle con i comizi in piazza gli era riuscito di mutare un club di notabili sedentari in un partito del ceto medio modernamente organizzato: una sessantina di deputati, un segretario generale, un comitato centrale chiamato consiglio nazionale. Ma né a Malagodi né a La Malfa, che pur in seguito avrebbero riunito i loro deputati nello stesso gruppo liberaldemocratico del Parlamento europeo, venne allora l’idea di congiungersi per dare all’Italia quello che più le mancava: un ampio spazio moderato di cui i liberali avrebbero, per così dire, potuto rappresentare la continuità con la destra storica postrisorgimentale, e i repubblicani la tradizione della sinistra mazziniana. Purtroppo i due uomini, entrambi di temperamento vanitoso, duro e irascibile, non si amavano, anzi si detestavano. Rammento un loro dibattito, ipocritamente civile, ospitato in quegli anni in via Solferino dalla direzione del «Corriere». Il tema era dei più delicati. Come costituire un’alleanza laica fra i prestigiosi repubblicani e i rinati liberali malagodiani e come contrapporla all’invadenza del bipartitismo «imperfetto» di una Dc di fondo confessionale e un Pci nell’essenza totalitario? I giornalisti e il pubblico ammirarono la gelida e ricca cultura di Malagodi, banchiere letterato, uomo di mondo poliglotta, che sapeva contornare numeri e statistiche con citazioni erudite e apodittiche. Quasi tutti però simpatizzarono per le battute affabili, cattivanti, che il più astuto La Malfa snocciolava con levità tra un sorriso e l’altro. Quanto al tema principale, la possibile federazione tra i due partiti simili e dissimili, non se ne cavò assolutamente nulla di concreto: sia gli ammiratori dell’algido liberale, sia i simpatizzanti del ridente e inafferrabile repubblicano capirono benissimo che, da quel loro incontro-scontro, non sarebbe emersa nessuna alleanza laica allargata. Fu Indro Montanelli a ritentare invano, soprattutto stringendosi all’amico La Malfa, la strada che avrebbe potuto tramutare i lettori del «Giornale nuovo» in elettori e promotori di una prestigiosa fusione tra repubblicani, liberali e socialdemocratici. Eravamo però già al 1974, al centro della grande deriva, ovvero alla metà del fatale decennio 1968-1978. Era l’epoca dei salti sul carro del vincitore. Il partito di Malagodi, passato alla direzione di Valerio Zanone, appariva con un misero due per cento ormai prossimo all’estinzione. Grandi giornali, timorosi editori, callidi industriali, intellettuali esaltati si sentivano attratti, come da un’implacabile calamita, dal canto delle sirene cattocomunista che invocavano il compromesso storico. Incantavano fabbriche, salotti e parrocchie i crescenti successi d’immagine e di voti del Pci di Berlinguer, successi cui lo stesso La Malfa, barcamenandosi tra Montanelli e detrattori di Montanelli, non era affatto insensibile. Indro, che lo sentiva incline alla resa, che gli telefonava spesso frenandolo e litigando, poi sbatteva la cornetta e continuava a fremere con le sue sottili gambe di locusta sotto il tavolo dirimpetto al mio. Di colpo mi fissava con gli occhi rotondi sbarrati nell’ira e nell’insofferenza. Mi diceva: «Certo, abbiamo arricchito il giornale di grandi firme laiche, da Abbagnano a Pampaloni, da Laurenzi e Cancogni, da Fejto ad Aron e Revel. Però è più facile vedere il demonio che un votante davvero laico pronto a sbarrare il passo ai fautori del compromesso storico». Si poteva già presentire nella frase la stoica disperazione di chi, deluso dal fallimento di mettere insieme una terza forza, inviterà a votare Dc col naso turato. L’invito scatterà nel 1976, dopo due anni spesi nel vano tentativo di creare l’increabile diga dei moderati. Nel frattempo le masse demenziali dei sabati rossi continuavano a inveire contro lo scismatico, che aveva osato spaccare il «Corriere» assembleare di Ottone, con una tetra frase evocante piazzale Loreto: «Ci piace di più Montanelli a testa in giù». L’opporsi con le idee ormai equivaleva all’esporsi con la pelle.

Non vorrei che le parole appena scritte venissero prese, maliziosamente ed esageratamente, solo dal lato gogoliano del «naso». La mia vera intenzione, nonostante il contenzioso che nel 1983 ci portò al divorzio, era e resta un’altra. Ho sempre cercato di spostare il busto di Montanelli dal piedestallo encomiastico, sul quale l’hanno elevato perfino i più accaniti calunniatori di ieri, per rimetterlo coi piedi sulla terra in tutta la sua persona in carne ed ossa. Finora, di lui, abbiamo avuto troppi marmi o caricature museali; insomma dei falsi. Al conservatore anarchico, al moderato spesso privo di moderazione, possiamo rendere piena giustizia restituendogli la grandezza naturale al chiaroscuro. La sua statura non è stata solo quella, ovvia, del giornalista sovrano, ma quella altresì del soldato di prima linea che, nel decennio della deriva, sfiorò la tomba difendendo perfino la libertà e la dignità dei liberticidi.

A questo punto non posso tacere l’amicizia personale che mi ha legato per anni a Bettino Craxi. Egli, a mio parere, staccando il Psi dai comunisti, limando le unghie ai democristiani, aveva incarnato e sostituito in versione socialista l’impalcatura di una terza forza moderata mancante al Paese. All’epoca in cui lo conobbi all’Hotel Raphaël, nessuno avrebbe potuto immaginare che quell’orco occhialuto, in jeans e maglietta, ruvido e zoologico, che camminava sempre con la testa un po’ voltata per scoprire l’ombra di qualche pedinatore sospetto, avrebbe un giorno collezionato una serie di strepitose e folgoranti vittorie politiche. Nessuno sarebbe stato in grado di scorgere in lui il futuro principe elettore di un presidente socialista al Quirinale, o il conquistatore corsaro del governo più duraturo della prima repubblica. Nessuno tranne Spartaco Vannoni: l’acuto ex comunista fiorentino, proprietario e animatore politico del Raphaël, ammaestratore dell’orso che nell’albergo aveva trovato il suo covo naturale. Vannoni non alzava mai la voce. Mi tirava ogni tanto in disparte sussurrando: «Teniamolo d’occhio. Ne vedremo delle belle. Le sue imprese non avranno eguali, così come non avrà fondo l’odio che attizzeranno nei comunisti e nei cattolici».

Penso di essere stato fra i pochi che in quegli anni remoti diedero un qualche credito alla profezia. Era fra l’altro, lì, il punto della mia rottura con Montanelli, il quale non voleva o non riusciva a vedere nella politica di Craxi la novità che vedevo io: cioè lo spostamento più in avanti, più a sinistra, della linea di resistenza al compromesso storico, linea che era stata la frontiera ideologica su cui avevamo fondato insieme il «Giornale». I miei articoli filosocialisti non andavano più a genio al direttore, che non poteva soffrire né i modi né le parole né i silenzi arroganti di Craxi. Divenni infine, nella veste di parlamentare liberale in Italia e in Europa, alleato esterno dei craxiani nella strategia del «lib-lab». Si trattava di una formula cifrata, di matrice britannica, che risaliva al tempo delle audaci riforme sociali forgiate da Lord Beveridge nell’incontro ravvicinato fra liberali e laburisti. Non a caso sarà il liberale Beveridge a dare vita all’ufficio progetti del partito laburista; non a caso il revisionista Bernstein definirà il socialismo come un «liberalismo organizzatore»; non a caso non si saprà mai con chiarezza se Keynes era un fabiano o un liberale oppure le due cose insieme. Nascerà di qui in Inghilterra, per paradossale impulso liberale, un famoso piano volto alla redistribuzione della ricchezza che resterà uno dei pilastri delle politiche sociali del Labour.

Il «lib-lab» avrà anche in Italia, sotto altri nomi, un suo nobile retroterra culturale: da Gobetti attraverso Rosselli fino a Bobbio e al liberalsocialista Calogero. Più del buon governo, giustamente caro ai liberali conservatori come Croce ed Einaudi, il momento sociale sembra prevalere nella complessa personalità culturale di Gobetti, stimolato dalla dirompente realtà industriale torinese e dall’«Ordine Nuovo» di Gramsci. Vedremo in seguito, a partire dagli anni Venti, il liberalismo di punta, il radicalismo di Giustizia e Libertà, l’avanguardismo azionista e il socialismo democratico confluire in un’eclettica sintesi derivata dal pensiero politico nazionale degli inizi di secolo. Tutto sembrava pronto per l’espansione, diciamo fisica, di una vasta e composita area laica la cui crescita fu purtroppo via via bloccata dal fascismo, ignorata dal comunismo e svalutata dal cattolicesimo politico. Craxi fu il solo dei cavalli di razza del dopoguerra a percepire appieno il significato sostitutivo del «lib-lab» - sigla di rottura e di anticipazione provocatrice – in un’Italia impoverita dall’assenza di una compatta area moderata, o se vogliamo di destra moderna e costruttiva. La confisca del gioco politico da parte di subculture intolleranti e dogmatiche lo sospingeva, in qualche modo obliquo, a trapiantare i germi dispersi di una tradizione laica dimenticata nel corpo di un partito socialista riformato e autonomo. Gli è riuscito, diceva bene Ronchey, di impedire ai due battenti del compromesso catto-comunista di chiudersi infilando nella commessura il suo «scarpone chiodato». Dopodiché, i comunisti e i democristiani, inviperiti, hanno impedito all’orco rompiscatole di andare oltre e se ne sono liberati per via giudiziaria.

Adesso il Paese è più che mai orfano di un centrodestra serio ma introvabile. Quel che resta sulla piazza è un Pdl sfasciato, muto di proposte, avvilito da rivalità personali, con un Berlusconi che seguita a tamponare con l’allegria di trovate improbabili il carisma consunto. Se avessimo una destra vera, coadiuvata nell’appoggio a Monti da una sinistra meno ambigua, allora sì che il governo dei tecnici si sentirebbe più protetto nelle perigliose manovre anticrisi e la situazione apparirebbe più aperta ad una uscita di sicurezza. La storia, come abbiamo visto, non ci ha dato né aiuto né conforto. La cronaca ci allarma e in certi casi disgusta. Non resta in definitiva che rimetterci a una speranza dura: cioè che gli urti persistenti della crisi economica sblocchino, prima o poi, la paralisi politica.

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« Risposta #79 inserito:: Settembre 19, 2012, 04:54:48 pm »

19/9/2012

Ora ci vuole un'Europa federale

ENZO BETTIZA

La visita di due giorni a Bruxelles di Enzo Moavero, ministro degli Affari Europei, è stata motivata dalla necessità di preparare l’esecutivo italiano al vertice dei capi di Stato e di governo che si terrà il 18 ottobre. Moavero ha tenuto a dichiarare di aver discusso a livello di Commissione e di Consiglio europeo il progetto di un’unione bancaria, sostenuto dall’Italia, aggiungendo nel linguaggio in uso negli ambienti eurocratici: «Ho sottolineato la grande importanza che il nostro governo attribuisce alla legittimità democratica del percorso in atto».

Come a dire che i colloqui, svolti all’interno di istituzioni transnazionali note per il loro «deficit di democrazia», si sono in realtà esauriti in dettagli soprattutto tecnici. Hanno girato cioè al largo delle più incandescenti questioni che agitano il mondo odierno, senza suscitare una risposta unanime da parte dell’Europa, una risposta decisa e degna, mi si perdoni la retorica, della gravità dell’ora. La questione che vorrei sollevare va al di là delle parole del ministro che, nei limiti impostigli da un dicastero considerato purtroppo «minore», ha fatto del suo meglio per rappresentare l’Italia negli incontri di Bruxelles.

La questione investe le indecisioni, le sterili rivalità, le perdite di tempo di un’Europa quasi apolitica, che bada più alle regole e ai vincoli di bilancio che al proprio rilancio politico e peso specifico sulla scena internazionale.

Eppure, potrebbe essere questo per i governi dell’Ue, in particolare per quelli irretiti nei lacci insidiosi della zona euro, il momento più opportuno per alzare lo sguardo dalle beghe intestine e volgerlo sulle tensioni che stanno esplodendo tutt’intorno. Anzi: dovrebbe essere proprio questo il momento giusto in cui renderci lucidamente conto della nostra estrema vulnerabilità al cospetto delle tensioni e violenze che percorrono «l’arco islamico» dai talebani afghani sino ai fondamentalisti salafiti della Tunisia.

Non s’era mai visto, prima, qualcosa del genere. Non s’era mai assistito ad una simile dilagante e devastante furia di jihadismo antiamericano, in senso lato antioccidentale, con morti e feriti sotto ambasciate e consolati presi d’assalto da masse infuriate a Kabul, Islamabad, Bengasi, Beirut, Cairo, Tunisi, per citare solo alcune delle capitali musulmane note o più vicine alle coste europee e italiane.

Le deludenti svolte «democratiche» delle cosiddette «primavere arabe» stanno rivelandosi nient’altro che veicoli di comodo per un’islamizzazione a tappe ora morbide ora forzate e, in definitiva, le une e le altre disordinate e distruttive. Mentre gli ajatollah iraniani aumentano il prezzo sulla vita in pericolo di Salman Rushdie, le folle integraliste tunisine gridano a ritmo di tamburo: «Obama, Obama, siamo tutti i nuovi Osama». Grido mirato a disturbare o turbare il risultato delle elezioni presidenziali che si terranno in America fra soli 48 giorni. Fra l’altro è qui un elemento d’attesa e di notevole incertezza per l’immediato futuro che i politici europei più responsabili, a cominciare dagli italiani, rappresentanti di una Penisola immersa nel Mediterraneo in fiamme, non possono non prendere in seria considerazione. Con Obama rieletto, l’Europa sa che potrà quasi sicuramente conservare o, se non altro, rinegoziare un suo posto di nobile secondo nell’universo atlantico; ma, con un Obama bocciato, non sa bene cosa potrà succederle: forse un ulteriore downgrading sul piano internazionale?

Frattanto, anziché pensare a tener botta all’incalzare degli eventi, una parte d’Europa e molti europei danno l’impressione di voler affogare nelle miserie di un presente senza gloria ed evadere da un futuro di imminenti e severe responsabilità. Danno la sensazione di lasciarsi vivere alla giornata in una clinica di risanamento staminale controllata, di volta in volta, da un primario tedesco, uno olandese o uno finlandese. Il decesso rinviato della Grecia, l’emiplegia mai risolta della Spagna, il crepuscolo nebuloso che avvolge il profilo oceanico del Portogallo, le incertezze incalzanti in un’Italia spesso lodata e mai accettata alla pari dalla Germania e dalla Francia, insomma il trauma di fiducia tra Paesi austeri e punitivi del Nord e Paesi indebitati del Sud ci fanno avvertire un’atmosfera di disagio e crisi d’ordine generale. Tanti mali, esorcizzati e cacciati una volta fuori dalla porta, sembrano rientrare oggi in casa dalla finestra. Non ci accorgiamo che stiamo ottenendo quello che dicevamo di non voler mai ottenere? L’Europa a più velocità, l’Europe à la carte, l’Europa delle sedie vuote, l’Europa a diarchia carolingia, eccetera, paiono infatti alternarsi di settimana in settimana negli uffici di Bruxelles rumorosi e rigurgitanti di parole vacue. Quest’Europa fragile con la sua Commissione ossequiosa delle regole e dei rigori vincolanti, con il suo Parlamento privo di poteri reali, i suoi vertici ripetitivi e fulminei di cui nessuno ricorda nulla, è un’Europa incapace di fare la sola cosa che dovrebbe fare in un momento d’emergenza come questo: darsi un colpo di reni, percepirsi come un’incompiuta ancorché latente superpotenza globale, puntare decisamente alla Federazione sostituendo i decrepiti stati nazione, di vecchissimo stampo francese, con un’entità politica pari alla sua forza economica e alla sua multiforme tradizione di civiltà.

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« Risposta #80 inserito:: Settembre 26, 2012, 02:19:40 pm »

26/9/2012

Helmut Kohl prigioniero della storia

ENZO BETTIZA

L’ultima volta che vidi Helmut Kohl fu in un nevoso pomeriggio del novembre 2009, nei giorni in cui Berlino in festa commemorava il ventennale del crollo del Muro. Mi trovavo in un punto della grande capitale riunificata che ai tempi della guerra fredda era stato ideologicamente e pericolosamente strategico.

L’area della Porta di Brandeburgo, area del confine occidentale del Muro, quella da cui Kennedy nel 1961 aveva lanciato ai tedeschi e al mondo il leggendario: «Ich bin ein Berliner!».

Ero penetrato quasi per caso, spinto da curiosità storica, all’interno di un bianchissimo edificio dedicato, proprio lì, alla memoria e al grido del presidente americano. Non m’aspettavo però di ritrovarmi, dopo una breve scalinata, in una saletta quasi in penombra riempita da uno sparuto pubblico di giornalisti, fotografi, operatori televisivi: tutti rivolti, con i loro strumenti tecnologici, verso un lungo tavolo basso, occupato da alcuni uomini in abito scuro fra i quali spiccava il busto di un ottuagenario corpulento, dallo sguardo mite e vago, costretto e come rassegnato con una certa rigida allegria all’infermità su una sedia a rotelle.

Nonostante la scarsa luminosità riconobbi quasi subito, in quel torso maestoso e in quella faccia carnosa, le sembianze di Helmut Kohl. Con una voce già afona e parole incespicate stava presentando ai giornalisti un paio di libri, tra cui una breve autobiografia, mentre con stupore io mi domandavo perché, oltre ai giornalisti e ad alcuni funzionari editoriali, non fosse presente in sala nessun qualificato esponente delle istituzioni governative. Pochi giorni prima lo stesso Michail Gorbaciov, che nell’89 negoziò personalmente con Kohl la fine del Muro e della Germania comunista, aveva dichiarato in un dibattito nell’ex settore Est di Berlino: «Noi abbiamo avuto con Helmut Kohl, cancelliere federale tedesco, l’uomo giusto al posto giusto nel momento storicamente giusto».

La verità è che già nei frastornanti giorni di festa del 2009 l’Altkanzler, «il vecchio cancelliere», il protagonista della riunificazione, il presidente e leader indiscusso della Cdu, era un grande assente, un grande innominato. Oserei dire un grande ripudiato. Come non pensare all’ingrato comportamento di Angela Merkel, proveniente dall’Est comunista, nei confronti di chi le aprì la strada nella Germania libera e riunita, la portò ai vertici del primo partito tedesco, e di fatto operò contro se stesso favorendone l’ascesa al cancellierato? Non a caso la protetta verrà accusata di «parricidio politico» allorché, nel momento più acuto della tangentopoli sul finanziamento dei partiti che colpì in pieno il suo protettore, sentenzierà calma e glaciale: «Basta, oramai deve andarsene».

Quando nel 2005 Merkel diventerà il primo cancelliere donna della storia tedesca, circonderà l’evento un obliquo sentore d’usurpazione e d’inganno. «Der Spiegel» la presenterà al pubblico come «una massaia conservatrice, di tradizione luterana, dal sorriso enigmatico di una Gioconda nordica». Chi mai poteva comunque immaginare, all’epoca diciamo del primo Muro e di Ulbricht, che la figlia di un pastore evangelico, nata quasi per caso in un oscuro villaggio della Germania orientale, avrebbe rappresentato un giorno sulla scena mondiale ottanta milioni di tedeschi riuniti?

Ma torniamo a Kohl che sicuramente, per tanti aspetti, ha incarnato un tipo di civiltà tedesca agli antipodi di quella più chiusa, o più «barbarica» della Merkel, per dirla con Goethe che non amava i prussiani né in generale i tedeschi dell’Est e del Nord. Si sente alle spalle di Kohl l’ampio respiro europeo della civiltà renana: si sentono Adenauer e Erhard. Non sapremo mai con precisione ciò che l’Altkanzler, il quale non riesce più a parlare, il quale vive ormai murato dentro se stesso, pensa della sua vicenda così straordinaria sul piano della storia e così sventurata sul piano personale e familiare. Nel momento in cui il Bundestag ne celebra gli esordi di cancelliere, che datano all’ottobre del 1982, lo «Spiegel», puntuale e spietatamente veritiero come sempre, c’informa che la tragedia anche familiare di Kohl s’è purtroppo compiuta fino in fondo. Dopo la prima moglie suicida, la seconda, Frau Maike Richter, non ancora cinquantenne, lo terrebbe di fatto prigioniero» in combutta con altri familiari privi di scrupoli. Il titolo di copertina, dedicato alla «tragedia» di uno dei più significativi e decisivi uomini della storia politica tedesca ed europea del Novecento, sostiene che egli ormai sopravviva a se stesso in uno stato d’inganno e d’isolamento programmato dal mondo.

Mai, dal 1945 ad oggi, s’era scritto e stampato qualcosa del genere in maniera così visibile e così perentoria su uno dei più importanti e più letti giornali liberali tedeschi.

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« Risposta #81 inserito:: Ottobre 14, 2012, 04:13:35 pm »

Editoriali
14/10/2012

Non basta un premio a fare l’Europa

Enzo Bettiza

L’Europa, in questi ultimi dieci giorni, ha dato l’impressione di essersi arenata al culmine di una crisi generale in cui abbiamo visto rincorrersi, contraddirsi e confondersi enigmatici dati negativi con complicati conati d’emergenza terapeutica. 

Sul piano mediatico ha acquistato fortissimo rilievo l’entrata in vigore del Fondo salva-Stati, il tanto atteso e mitizzato Esm, dotato d’una capacità di prestito da 500 miliardi. 

 

Ma tale macchinoso laboratorio di riparazione per banche e Paesi in panne, vantato come «storica barriera antincendio finanziario», dovrebbe raggiungere pieno regime operativo appena nel 2014, mentre s’alza già la voce di chi si domanda se l’euro riuscirà a vivere fino all’autunno 2013. 

Paradossalmente, proprio nelle «storiche» ore di nascita del Fondo, abbiamo potuto vedere la cancelliera Merkel precipitarsi affannosamente come un medico consolatore, privo di medicinali risolutivi, in un’Atene blindata sotto l’ondata di urlanti e violente turbe antitedesche. 

 

Visita, quella della Merkel, spettacolarmente emblematica al capezzale del grande malato, ma dilatoria nella sostanza e placebica dal punto di vista clinico. 

Accanto all’abisso greco si sta approfondendo, poi, quello spagnolo provocato da dissesti bancari e marcato da una disoccupazione che supera il venti per cento.

 

Incalzato fra l’altro dalla minaccia di una possibile e perfino ravvicinata secessione della Catalogna, soffocata dai debiti, il governo Rajoy non sa bene come rispondere alle offerte di credito che giungono da Bruxelles e dalla Banca europea. La Francia consiglia il rifiuto, la Germania l’accettazione. Mariano Rajoy seguita quindi a barcamenarsi agevolmente tra il sì di un giorno e il no del giorno dopo (i galiziani sono noti in Spagna come maestri nell’arte della «retranca» o tergiversazione).

 

Qui sarebbe errato sorvolare e non mettere a fuoco il critico distacco dell’Inghilterra dai disagi che incrinano la coesione dell’Ue. L’insieme di un panorama continentale così saturo di fatti e di contrasti, evidenziati con risalto dalle cronache, rischia infatti di velare e nascondere su un piano secondario l’intervento che invece è stato, più d’ogni altro, il più importante delle ultime ore. Mi riferisco al rifiuto britannico, annunciato da David Cameron, di considerare il bilancio comunitario come un blocco finanziario inalienabile, impegnativo per tutti gli Stati membri dell’Unione. In sostanza ha dichiarato che il suo governo si opporrà, anche col veto, al contributo britannico al budget unitario di mille miliardi per il settennio 2014-20. Ha precisato: il Regno Unito si ritiene «esterno» alle clausole in vigore fra i 17 Paesi dell’Eurozona. Decisione, se attuata, gravissima. Senza più un bilancio comune difficilmente potrebbe continuare a sopravvivere l’attuale mercato unico dell’Ue; alla lunga, difficilmente potrebbe sopravvivere la stessa Unione così come la conosciamo e concepiamo oggi. 

 

In un diluvio di interviste a giornali e televisioni, scatenato nel primo giorno del congresso conservatore a Birmingham, Cameron ha rinverdito con energici echi thatcheriani la vecchia minaccia anticontinentale cara agli euroscettici inglesi: l’uso del veto a sostegno di un contributo ridotto della Gran Bretagna nelle negoziazioni intergovernative sul budget comunitario. La Thatcher, da brava ma accorta populista insulare, usava agitare più che adoperare lo spettro del veto. La situazione odierna offre invece a Cameron l’appiglio giustificativo, che la Thatcher ai suoi tempi non aveva, di una realtà europea intimamente mutata, effettivamente duplice e perdipiù in crisi profonda: da un lato l’Europa dei Diciassette, malamente uniti attorno all’ostia avvelenata dell’euro, dall’altra l’Europa dei Dieci più che mai soddisfatti di trovarsi fuori dai miasmi inquinanti dell’Eurozona. 

 

Se ci mettiamo nella pelle di un inglese tradizionale come Cameron, tipico rappresentante elitario della cosiddetta «Eton mess», potremo o potremmo anche capire le ragioni che, giustamente dal suo punto di vista, lo inducono a profittare oggi delle divisioni europee per allargare lo stretto di mare che separa l’Inghilterra protetta dalla sterlina dal Continente inguaiato dall’euro. Non solo. Altri punti di separazione si vanno facendo, quasi senza che ce ne accorgiamo, sempre più numerosi e più insidiosi. L’europeista liberaldemocratico Nick Glegg si è di fatto eclissato dalla coalizione, dominata da un Cameron aggressivo che non lo nomina più e insiste a gonfiare l’acqua della Manica trasformata in un linea di disgiungimento e divorzio: già incombe l’assenza del visto di Sua Maestà sui passaporti dei migranti europei, mentre Londra, seconda piazza finanziaria al mondo, rifiuta di aderire alla Tobin Tax sui movimenti di capitale che proprio nella City dovrebbero trovare il loro capolinea fisiologico. 

 

Non si possono ignorare le ambiguità storiche che, da sempre, hanno caratterizzato il difficile e travagliato rapporto tra Gran Bretagna e costruzione di un’Europa unita. Benché patrocinata idealmente da Churchill già nel 1946, la Comunità europea, appena cominciò a prendere peso economica e forma istituzionale, non piacque agli inglesi che fecero di tutto per osteggiarne la crescita. Si ricorderà che Londra inventò nel 1960 in risposta alla Cee una sorta di pseudocomunità parallela, chiamata Efta, European Free Trade Association, che non ebbe grande fortuna e durò fino al 1973: anno in cui l’Inghilterra, con uno spettacolare salto della quaglia, decise di entrare essa stessa nella Cee nell’intento, certo non dichiarato, di continuare dall’interno le manovre di freno o disturbo che almeno in parte ci sono note. Non a caso aderirono all’Efta, e poi seguirono l’ammiraglia britannica nella Cee, alcuni Paesi come Danimarca, Svezia, Finlandia, che oggi costituiscono, con un piede a Berlino e mezzo a Londra, il nucleo duro dei falchi del Nord contrapposto a quello morbido e indebitato del Sud mediterraneo. Ora la sensazione è che
l’Inghilterra, prendendo le distanze da un’Europa che si autofrantuma da sola, cerchi di ricostituire con i falchi nordici un quasi doppione
dell’Efta fra le pieghe strinate della decadente Unione Europea.

 

Ma la Germania, a questo punto? Forse un utile ago della bilancia? In effetti la potente e autonoma Germania potrà al massimo tollerare, con molte cautele, nel reciproco rispetto delle regole del gioco, la sottile politica isolazionista e disfattista di Londra; ma non potrà mai assecondarla del tutto per mille ragioni non solo politiche. La riabilitazione etica della Germania nel mondo e la riunificazione tedesca nel cuore del continente hanno avuto il loro fondativo vincolo storico e culturale nell’idea d’Europa. La stabilità dell’Europa, la convivenza fra i diversi popoli d’Europa non sarebbero state immaginabili né possibili se all’origine non ci fosse stato il lavacro europeo della Germania, legittimato dal patto di cooperazione e di pace permanente con la Francia nemica. 

 

Il Nobel giunto inatteso da Oslo all’Europa avvalora qualcosa che riconosce questo e va al di là di tutto questo: ci dice che nonostante le crepe, i fallimenti, gli anacronistici sbandamenti nazionalisti, l’Unione Europea è considerata da un Paese che non ne fa ancora parte come un’entità unitaria e indivisibile della nostra epoca turbolenta.

da - http://lastampa.it/2012/10/14/cultura/opinioni/editoriali/non-basta-un-premio-a-fare-l-europa-KoqKKGQOLwiVODJC3iGihK/pagina.html
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« Risposta #82 inserito:: Ottobre 28, 2012, 10:44:08 am »

Editoriali
28/10/2012

La Cina al bivio del futuro

Enzo Bettiza

Fra poco più di una settimana si vota in America, dove verrà democraticamente eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti che resterà in carica per quattro anni. Due giorni dopo, 8 novembre, si aprirà a Pechino il diciottesimo Congresso del partito comunista che imporrà e legittimerà dall’alto il nuovo presidente Xi Jinping - successore e vice dell’attuale Hu Jintao - prescelto fin dal 2002 a governare la seconda potenza del pianeta per i prossimi dieci anni. Due eventi destinati a incidere in profondità sulle relazioni fra Stati Uniti e Cina, e quindi sugli assetti mondiali, che nel decennio che verrà vedranno le spinte della globalizzazione spostarsi sempre più dall’Atlantico al Pacifico. 

 

L’Europa da un pezzo non è più una priorità per Washington. Non è stata quasi nominata nel dibattito elettorale, che sta per chiudersi, tra il Presidente democratico e lo sfidante repubblicano: sia l’uno che l’altro hanno lasciato intendere, con il loro silenzio sprezzante, di considerare quantité négligeable l’Unione Europea, inaffidabile alleata in declino, irrilevante per gli interessi strategici di una superpotenza globale. 

 

Se il presidente Obama verrà rieletto, l’Asia in generale e la Cina in particolare, che ne ha criticato con asprezza l’incontro col Dalai Lama e la fornitura di missili a Taiwan, resteranno più di prima il suo principale quanto irto punto di riferimento diplomatico. Se invece vincerà Romney, il dialogo con i nuovi interlocutori cinesi, che in queste ore delicatissime tifano per lui, si svolgerà ancora più diretto e più scorrevole. Non a caso un noto americanista di Shanghai, l’accademico Dingli Shen, ha osservato recentemente: «Purtroppo il democratico Obama non ha capito che Pechino per Washington può essere un’opportunità più che un ostacolo o un concorrente. Del resto, dall’epoca di Nixon e Kissinger, la Cina si è trovata sempre meglio con i repubblicani alla Casa Bianca. Anch’essi, come noi oggi, sono da sempre a favore del libero commercio, di poche regolamentazioni negli scambi e della libertà d’impresa». Tutti princìpi che si ritrovano nella «filosofia dello sviluppo», filosofia che la Cina comunista ha attuato con strepitosi successi pratici e paradossi ideologici, sospesi da almeno un ventennio tra la libertà economica e la non libertà politica. 

 

L’Economist ha voluto ricordare in proposito certi saggi spregiudicati e capricciosi di Milton Friedman. Il patrono della scuola dei Nobel liberisti di Chicago, compiuto un primo viaggio in Cina nel 1980, al ritorno scrisse un articolo in cui osservava che la cosa che più l’aveva colpito era l’assenza o ignoranza del «diritto alla mancia» negli alberghi e nei ristoranti. Per lui il «tip», il «diritto di mancia», era la percentuale politica che per esempio in America, patria del liberismo anche spicciolo, s’aggiungeva agli scambi e ai prezzi correnti dell’economia quotidiana. Dal che dedusse una legge generale, che sembrava attagliarsi benissimo già ai prodromi del socialcapitalismo alla cinese: sentenziò che non sempre e non dovunque la libertà economica debba forzatamente apparentarsi al tip della sua «cugina politica». 

 

La sentenza doveva restare valida non solo per la Cina, ma per tutte le consimili economie di mercato «confuciane», da Singapore alla Taiwan del Kuomintang, dove capitalismo e autoritarismo seguitano a convivere da più di mezzo secolo in relativa e talora spinosa «armonia». Per accorgersi delle «disarmonie» non era necessario aspettare l’entrata in scena nel 2002 e l’uscita nel 2012 degli epigoni inguaiati del liberismo denghista. Ci basta spulciare la lista ogni giorno più lunga e più drammatica di coloro che, saliti ai vertici del partito e dello Stato, hanno o avrebbero profittato del prolungato miracolo economico per lucro personale e di clan. L’uscente capo di Stato Hu Jintao appare come congelato al centro di uno scenario da crepuscolo degli dèi, mentre il suo popolare primo ministro Wen Jiabao viene schiacciato dalla denuncia internazionale di uno scandalo di smisurata corruzione familistica, nello stesso momento in cui il leader della sinistra neomaoista Bo Xilai, defenestrato dal politburo, perduta l’immunità parlamentare, la moglie condannata all’ergastolo per assassinio dell’amante, rischia addirittura una condanna alla pena capitale.

 

La storia millenaria delle transizioni cinesi da una dinastia all’altra è stata quasi sempre costellata di crolli apocalittici, corruzioni capillari, omicidi enigmatici; i mutamenti epocali sono stati spesso accompagnati o assimilati, nelle narrazioni dei cronisti, a immani catastrofi naturali. Anche le vicende dell’impero comunista, da Mao fino a Deng e dopo Deng, si sono sviluppate a balzi e severi strappi dinastici. Ricordo il XXIV congresso comunista di vent’anni fa, il congresso dell’ottobre 1992, dedicato alla transizione e alla celebrazione del primo artefice del miracolo economico, dell’apertura della Cina al mondo, il «piccolo timoniere» Deng Xiaoping ormai quasi nonagenario. Anche allora, come in altra forma oggi, si chiudeva solennemente e duramente un’epoca e se ne spalancava una nuova: si chiudeva biologicamente la carriera degli ultimi veterani della Lunga Marcia che, dopo il massacro di Tienanmen, avevano invano sperato di bloccare la riforma economica da essi ritenuta in gran parte responsabile dei moti e tumulti studenteschi del 1989. Una «commissione dei consiglieri», nido dell’ostruzionismo gerontocratico, era stata disciolta. Fra i grandi vecchi costretti alle dimissioni v’era il capo dello Stato, Yang Shangun, 84 anni, il più insidioso degli antagonisti conservatori ostili al vecchissimo Deng. 

 

Spesso si dimentica che il «miracolo» aveva messo radici già profonde nella Cina del tempo, dove diversi dirigenti odierni, che si accingono a darsi il cambio, erano giovani e ambiziosi e forse smarriti funzionari di seconda fila. Quel congresso sanciva e legittimava una situazione di svolta storica. La vittoria di Deng s’incarnava già, al di là del comunismo, nelle cose reali: nel benessere diffuso, nei consumi crescenti, negli investimenti che affluivano in massa a Canton, a Shanghai, nella zona di sperimentazione capitalista di Shenzhen. Oggi si tende a dimenticare che l’economia era più che raddoppiata rispetto a quella del 1978, anno di rottura con la povertà e le carestie maoiste e d’avvio della rivoluzione liberista. Si dimentica che l’aumento del prodotto lordo aveva già raggiunto il tasso del 14 per cento, che Pechino aveva già un suo posto d’onore fra le maggiori entità commerciali del mondo, che la Cina in metamorfosi già si presentava sui mercati internazionali come un continente immenso finanziariamente sano e solvibile.

 

Ora assistiamo alla fine di questa prima e lunga fase del miracolo. Mentre dilaga la corruzione da ricchezza dei capi comunisti, divenuti manager miliardari, dilagano anche sulle reti iperinformate del web lo scontento popolare, lo smascheramento degli abusi di potere, la denuncia dei clan di partito e di parentela che hanno mandato in malora gli ultimi e falsi miti dell’ideologia comunista. Non si tributa più nei comunicati ufficiali la citazione d’obbligo al pensiero di Mao. Al tempo stesso l’autoritarismo comunista, sposato alla libertà spesso selvaggia della sola economia, non regge più; il cosiddetto «capitalismo confuciano», unito al burocratismo di regime, rischia di perdere i pezzi per strada. Verso quali riforme o controriforme ignote andrà la Cina, quasi destabilizzata da una ricchezza abnorme ma politicamente squilibrata, che si prepara ad essere governata per dieci anni da un alto quanto grigio funzionario del partito? Cosa farà, cosa dirà, quali vie di risanamento o di ritirata sceglierà il paffuto Xi Jinping, così somigliante a Mao, di cui sappiamo solo di non sapere nulla?

Una certa maggioranza avida, ruvida, formata da fasce di una nuova e cinica classe media, dice di preferire l’odore del danaro alla libertà d’opinione. Insomma meglio ricchi che liberi. Intanto i conservatori arricchiti del partito sostengono di voler privilegiare la stabilità del regime, rispondendo con parole vaghe e sfuggenti alla domanda di riforme che giungono sempre più urgenti e insistenti, via internet, alle stanze di un potere in parte ancora forte e in parte già traballante. 

 

L’unica cosa per ora certa è che una Cina forte, risanata, politicamente aperta agli innesti democratici, costituirà una garanzia per il mondo. Sarebbe invece assai più pericolosa per tutti una Cina debole, priva di contrappesi politici, dilaniata dalle lotte intestine per il potere e il possesso tribale delle abnormi piramidi economiche ereditate dal grande miracolo denghista.

da - http://lastampa.it/2012/10/28/cultura/opinioni/editoriali/il-bivio-che-attende-la-cina-AruaslCVAJyXf2WY9qHGFJ/pagina.html
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« Risposta #83 inserito:: Novembre 17, 2012, 09:19:15 pm »

Editoriali
17/11/2012

Il rebus cinese che aspetta la soluzione

Enzo Bettiza


Sono essenzialmente due i risultati emersi con notevole e già storica incisività politica dalle porte socchiuse, ma non dischiuse, del Diciottesimo Congresso, attraverso cui sono sgusciati i sette nuovi esponenti della quinta generazione del potere comunista cinese. Sembravano camminare a tentoni, come pinguini su vulnerabili uova d’anatra, a prima vista quasi tutti eguali negli abiti scuri, le camicie bianche, i capelli tinti di nero, la scriminatura a sinistra. Eguali perfino nel sorriso fisso, cauto e incoraggiante che esibivano, dopo mesi e settimane di feroci risse intestine, davanti ai 2268 delegati accorsi da ogni angolo dello sterminato Paese nella grandiosa Sala del Popolo di Pechino.

 

Primo dato da segnalare. L’organigramma ridotto da nove a sette membri del Comitato permanente del Politburo, che costituisce la misteriosa quanto tempestosa capsula di comando di una ristrettissima oligarchia su un partito unico di ottanta milioni di iscritti e un subcontinente, ormai seconda potenza mondiale, di quasi un miliardo e mezzo d’abitanti. Il secondo dato è più individuale, direi anzi individualissimo. Il personaggio, il cinquantanovenne Xi Jinping con cui Cina, America, Europa e il resto del mondo avranno a che fare per una diecina d’anni, è riuscito ad afferrare i quattro poteri che nessun altro capo postmaoista e postdenghista aveva mai concentrato in un colpo solo nelle proprie mani: segretario generale del partito, primus inter pares nel supercomitato dei sette, presidente della potente commissione militare, infine designato presidente per il marzo 2013 della Repubblica popolare. 

 

E’ apparsa così totale la sconfitta della fazione dell’uscente segretario e capo di Stato Hu Jintao, che sperava di mantenere almeno per altri due anni la guida della commissione militare. Tale sconfitta, per ora morbidamente confinata al solo piano gerarchico, si staglia comunque su uno sfondo di implacabili lotte per il potere che hanno portato alla cacciata dal partito, con infamanti implicazioni giudiziarie, del potentissimo Bo Xilai ras «neomaoista» di Chongqing. Non solo. Un grave crollo d’immagine, per corruttela e arricchimenti illeciti, denunciati da autorevoli giornali occidentali, sta mettendo in difficoltà perfino l’uscente primo ministro Wen Jiabao: dopo un decennio, apparentemente incensurabile, verrà sostituito nell’incarico dall’avvocato ed economista Li Keqiang destinato ad affiancare ai vertici il quasi coetaneo Xi Jinping. Dietro le quinte del cambio insieme istituzionale e generazionale si sarebbe insomma svolta, secondo l’opinione di tanti osservatori anche cinesi, una delle più spietate rese dei conti che la Cina abbia subito dai tempi della rivoluzione culturale maoista. Non a caso si attribuisce a un personaggio intramontabile, l’ex presidente Jiang Zemin, grande esperto di interventi censori e repressivi, il ruolo del burattinaio che opponendosi alla fazione di Hu e compagni avrebbe favorito la promozione e l’ascesa dei cinquantenni e sessantenni: quasi dei «giovani» nell’ottica gerontocratica della «vecchia guardia» di cui l’ottantaseienne Jiang è un tipico e vitale rappresentante.

 

A questo punto sono in molti a chiedersi cosa vorrà o potrà fare la nuova nomenclatura, ipnotizzata dal mito della «stabilità», e consapevole tuttavia che senza una serie di riforme politiche la Cina rischia il peggio: la rivolta civile dei derelitti, l’aumento dei suicidi incendiari nel Tibet, l’irrequietudine delle etnie islamiche nei territori del Nordovest confinanti con la Russia e la Mongolia. Sono in molti a domandarsi chi sia davvero il misterioso uomo che si chiama Xi Jinping, marito di una fascinosa cantante d’opera, nonché figlio di un dirigente comunista perseguitato da Mao, riabilitato da Deng Xiaoping, impegnato a suo tempo nelle prime sperimentazioni capitaliste nelle «zone speciali» istituite dallo spregiudicato Deng nella Cina costiera e meridionale. Xi sarà soltanto una sorridente marionetta fra le mani della vecchia guardia conservatrice? Oppure diventerà poco per volta un riformatore, una specie di Gorbaciov alla cinese, un guastatore liberaleggiante in fuga dal mito della coriacea «stabilità»? Darà corda ai falchi del socialcapitalismo autoritario, ostili allo spirito riformatore, o presterà invece ascolto alle idee del più flessibile membro del comitato permanente dei sette, Wang Qishan, attuale vice primo ministro, che col suo fluido inglese rappresenta degnamente la Cina nei colloqui economici con l’America e l’Europa?

 

La prudenza, la retorica, l’ovvietà demagogica hanno purtroppo caratterizzato il discorso inaugurale di Xi. Ha ripetuto le frasi ormai consuete sul bisogno di «avvicinarsi al popolo», di combattere la corruzione sempre più diffusa, di sanare le profonde diseguaglianze economiche; ma non ha detto nulla di preciso e di efficace sulle possibilità di uno slancio riformatore a breve termine. Silenzio assoluto sulle autoimmolazioni di protesta nel Tibet, nient’altro che le solite tirate convenzionali sul «successo cinese nel creare una nazione multietnica». Il tutto condito da un inquietante tocco nazionalistico, con reiterate allusioni alla «rinascita cinese», espressione destinata a intimorire i vicini del gigante che da qualche tempo si mostra sempre più minaccioso nei confronti del Giappone, delle Filippine, e diversi altri Paesi del Sudest asiatico.

 

Ma qui, proprio qui, nelle ambigue acque del Pacifico, si erge, al di là delle reciproche relazioni economiche, l’ombra dello scontro politico con gli Stati Uniti di Obama. In quell’oceano tormentato, spaventato dall’espansionismo geopolitico di una Cina irritabile, il Presidente americano desidera non solo rafforzare il sostegno agli alleati storici come Giappone, Taiwan, Corea del Sud; desidera anche incoraggiare, con gesti concreti e parole nuove, uno spirito d’apertura verso Paesi meno calorosi come Vietnam, Cambogia, Birmania. Non a caso Barack Obama ha scelto il Sudest asiatico come primo itinerario diplomatico del suo secondo mandato presidenziale. Dicono alla Casa Bianca che questo viaggio, a soli dieci giorni dopo la rielezione, «è qualcosa di più di un semplice tour celebrativo: andiamo a rafforzare i legami con una parte del mondo sulla quale il Presidente ha investito massicciamente». Washington ha già tolto le sanzioni e riallacciato i rapporti con Rangoon, dove Obama incontrerà, quale segnale di libertà per l’Asia intera, il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Ma ignorare la Cina, più che mai irritata, non sarà certo possibile: nell’agenda degli incontri è infatti previsto un vertice particolare, in margine ai lavori dell’East Asia Summit, tra Obama e il primo ministro di Pechino tuttora in carica Wen Jiabao. Sarà da vedere se il precario Wen, criticato con moglie compresa dal New York Times per il patrimonio miliardario accumulato all’ombra del potere, accetterà o meno di stringere la mano al Presidente tanto caro al libero e sferzante quotidiano americano.

da - http://lastampa.it/2012/11/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rebus-cinese-che-aspetta-la-soluzione-VtZOGXgjza9Hh0O0WPx2sL/pagina.html
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« Risposta #84 inserito:: Gennaio 25, 2013, 11:21:35 pm »

26/9/2012

Helmut Kohl prigioniero della storia

ENZO BETTIZA

L’ultima volta che vidi Helmut Kohl fu in un nevoso pomeriggio del novembre 2009, nei giorni in cui Berlino in festa commemorava il ventennale del crollo del Muro. Mi trovavo in un punto della grande capitale riunificata che ai tempi della guerra fredda era stato ideologicamente e pericolosamente strategico.

L’area della Porta di Brandeburgo, area del confine occidentale del Muro, quella da cui Kennedy nel 1961 aveva lanciato ai tedeschi e al mondo il leggendario: «Ich bin ein Berliner!».

Ero penetrato quasi per caso, spinto da curiosità storica, all’interno di un bianchissimo edificio dedicato, proprio lì, alla memoria e al grido del presidente americano. Non m’aspettavo però di ritrovarmi, dopo una breve scalinata, in una saletta quasi in penombra riempita da uno sparuto pubblico di giornalisti, fotografi, operatori televisivi: tutti rivolti, con i loro strumenti tecnologici, verso un lungo tavolo basso, occupato da alcuni uomini in abito scuro fra i quali spiccava il busto di un ottuagenario corpulento, dallo sguardo mite e vago, costretto e come rassegnato con una certa rigida allegria all’infermità su una sedia a rotelle.

Nonostante la scarsa luminosità riconobbi quasi subito, in quel torso maestoso e in quella faccia carnosa, le sembianze di Helmut Kohl. Con una voce già afona e parole incespicate stava presentando ai giornalisti un paio di libri, tra cui una breve autobiografia, mentre con stupore io mi domandavo perché, oltre ai giornalisti e ad alcuni funzionari editoriali, non fosse presente in sala nessun qualificato esponente delle istituzioni governative. Pochi giorni prima lo stesso Michail Gorbaciov, che nell’89 negoziò personalmente con Kohl la fine del Muro e della Germania comunista, aveva dichiarato in un dibattito nell’ex settore Est di Berlino: «Noi abbiamo avuto con Helmut Kohl, cancelliere federale tedesco, l’uomo giusto al posto giusto nel momento storicamente giusto».

La verità è che già nei frastornanti giorni di festa del 2009 l’Altkanzler, «il vecchio cancelliere», il protagonista della riunificazione, il presidente e leader indiscusso della Cdu, era un grande assente, un grande innominato. Oserei dire un grande ripudiato. Come non pensare all’ingrato comportamento di Angela Merkel, proveniente dall’Est comunista, nei confronti di chi le aprì la strada nella Germania libera e riunita, la portò ai vertici del primo partito tedesco, e di fatto operò contro se stesso favorendone l’ascesa al cancellierato? Non a caso la protetta verrà accusata di «parricidio politico» allorché, nel momento più acuto della tangentopoli sul finanziamento dei partiti che colpì in pieno il suo protettore, sentenzierà calma e glaciale: «Basta, oramai deve andarsene».

Quando nel 2005 Merkel diventerà il primo cancelliere donna della storia tedesca, circonderà l’evento un obliquo sentore d’usurpazione e d’inganno. «Der Spiegel» la presenterà al pubblico come «una massaia conservatrice, di tradizione luterana, dal sorriso enigmatico di una Gioconda nordica». Chi mai poteva comunque immaginare, all’epoca diciamo del primo Muro e di Ulbricht, che la figlia di un pastore evangelico, nata quasi per caso in un oscuro villaggio della Germania orientale, avrebbe rappresentato un giorno sulla scena mondiale ottanta milioni di tedeschi riuniti?

Ma torniamo a Kohl che sicuramente, per tanti aspetti, ha incarnato un tipo di civiltà tedesca agli antipodi di quella più chiusa, o più «barbarica» della Merkel, per dirla con Goethe che non amava i prussiani né in generale i tedeschi dell’Est e del Nord. Si sente alle spalle di Kohl l’ampio respiro europeo della civiltà renana: si sentono Adenauer e Erhard. Non sapremo mai con precisione ciò che l’Altkanzler, il quale non riesce più a parlare, il quale vive ormai murato dentro se stesso, pensa della sua vicenda così straordinaria sul piano della storia e così sventurata sul piano personale e familiare. Nel momento in cui il Bundestag ne celebra gli esordi di cancelliere, che datano all’ottobre del 1982, lo «Spiegel», puntuale e spietatamente veritiero come sempre, c’informa che la tragedia anche familiare di Kohl s’è purtroppo compiuta fino in fondo. Dopo la prima moglie suicida, la seconda, Frau Maike Richter, non ancora cinquantenne, lo terrebbe di fatto prigioniero» in combutta con altri familiari privi di scrupoli. Il titolo di copertina, dedicato alla «tragedia» di uno dei più significativi e decisivi uomini della storia politica tedesca ed europea del Novecento, sostiene che egli ormai sopravviva a se stesso in uno stato d’inganno e d’isolamento programmato dal mondo.

Mai, dal 1945 ad oggi, s’era scritto e stampato qualcosa del genere in maniera così visibile e così perentoria su uno dei più importanti e più letti giornali liberali tedeschi.


da - http://www1.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10569
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« Risposta #85 inserito:: Aprile 04, 2013, 06:14:24 pm »

Editoriali
04/04/2013

Il ricatto atomico del dittatore

Enzo Bettiza


L’ultima minaccia lanciata ieri sera agli Stati Uniti dalla Corea del Nord apre uno scenario imprevedibile. E dopo il test atomico, esploso con successo a febbraio dai guerrafondai di Pyongyang, il 38° parallelo è diventato più incandescente che mai. La Corea del Nord, che il parallelo separa dalla Corea del Sud, sembra aver deciso di dichiarare una guerra a risvolto nucleare non solo contro i fratelli nemici meridionali, ma proprio anche contro l’America che li arma e li protegge. Lo stravagante dittatore nordcoreano, il terzo Kim della monarchia comunista di Pyongyang, una specie di zombie in giubba maoista emerso dai bassifondi della guerra fredda, avrebbe dato addirittura ai soldati l’ordine di «non sparare il primo colpo» contro le forze sudcoreane e americane dispiegate lungo la frontiera.

 

Una frontiera, a prima vista, pronta all’esplosione. Su di essa preme infatti dal Nord uno dei più grandi eserciti del mondo, mentre centinaia di migliaia di militari si allineano, rafforzati da aerei e navi americane, lungo una striscia larga quattro e lunga 243 chilometri, che dal mar Giallo al mar del Giappone divide la penisola. 

L’ultimo colpo è stato tirato dai generali settentrionali che ieri hanno impedito ai dipendenti sudcoreani l’ingresso alla zona industriale mista di Kaesong, a ridosso del confine rovente, dove lavorano centinaia di operai del Sud e ben 53mila operai del Nord. Tale zona era fra l’altro un simbolo indirizzato ad una possibile riunificazione del Paese, squartato in due da una guerra di oltre mezzo secolo fa, che non è mai riuscita a trovare una pace vera e definitiva. Pyongyang ha fatto sapere che «se il gruppo di traditori di Seul continuerà a parlare della zona di Kaesong come di un fatto contrario alla nostra dignità, allora il distretto verrà irreparabilmente smantellato e chiuso». Anche qui, una delle tante contraddizioni dell’imprevedibile regime comandato oggi da un dittatore, neppure trentenne, che sta alzando la voce per rafforzare agli occhi dei propri sudditi e generali un prestigio personale non sufficientemente consolidato: basterà dire che dalle attività e dai salari di Kaesong fluiscono ogni anno nelle casse nordcoreane milioni e milioni di dollari. Si tratta con ogni evidenza di salari quasi confiscati dal regime.

 

La preoccupazione per un simile comportamento provocatorio sta suscitando reazioni in ogni parte del mondo. La Russia si dice preoccupata. «Non ci tranquillizza affatto una situazione così esplosiva nelle immediate vicinanze dei nostri confini in Estremo Oriente», ha detto il viceministro degli esteri Mogulov. Intanto il ministro della Difesa sudcoreano ha annunciato un piano speciale, che prevede un possibile ricorso alla forza per garantire la sicurezza e l’attività nel complesso industriale. La Francia addirittura non esclude che un tiranno inesperto e imprevedibile come Kim Jong-un possa ricorrere all’utilizzo di armi nucleari contro Seul. Il ministro degli Esteri Laurent Fabius, che si prepara a raggiungere Pechino, ha già fatto sapere che Parigi ha richiesto una riunione d’emergenza del ristretto Consiglio di Sicurezza dove la Cina conta quanto l’America. Appare chiaro che gli occidentali intendono premere, soprattutto sulla Cina, come su una forza autorevole e moderatrice nei confronti della Corea settentrionale. 

 

In una situazione così tesa, così confusa, dai rischi così incalcolabili, molti temono che l’errore umano o un banale disguido tecnico possa scatenare un’improvvisa catastrofe. Anche il segretario di Stato americano John Kerry, definendo gli atteggiamenti di Kim Jong-un «pericolosi e irresponsabili», ha lasciato intendere di contare su Pechino per il raffreddamento delle acque. La Cina, in effetti, è l’unico alleato di peso della Corea del Nord. Ma si tratta di un’alleanza che il comportamento di Pyongyang sta mettendo a dura prova: sui siti Internet cinesi la maggior parte dei commenti all’attuale tensione restano estremamente critici, mentre il confine tra Cina e Corea settentrionale è stato rafforzato da un ulteriore spiegamento militare. Si direbbe che Pechino non escluda la possibilità di un brusco crollo del regime nordcoreano e che tema, quindi, il pericolo di un’alluvione di profughi indesiderati.

 

La cosa più sconcertante del quadro ci rivela l’incredibile impatto e la forza di ricatto di cui sembra disporre un regime fra i più militarizzati e, nello stesso tempo, più poveri del mondo. Carestie omicide hanno falcidiato almeno 3 milioni di persone negli ultimi anni. Ma il regime monarchico-comunista, fondato da Kim Il Sung, nonno di Kim Jong-un, appare nonostante tutto ancora solido e immutabile. Le varie organizzazioni umanitarie, gli aiuti inviati a quelle disagiate popolazioni dalle istituzioni comunitarie d’Europa, finiscono quasi sempre nelle mani dei generali, preoccupati soprattutto della sussistenza alimentare delle loro truppe. 

 

Il ricatto finora ha pagato. E’ col ricatto atomico che Pyongyang è riuscita, paradossalmente, nonostante il livello di miseria in cui versa la società schiavizzata, a mantenere in piedi un esercito gigantesco, a promuovere il rafforzamento delle strutture nucleari e a tessere, di fatto, una strategia da guerra fredda nei confronti del «grande nemico di Seul» protetto dagli Stati Uniti. La perfezione dell’isolamento, con cui la dinastia dei Kim ha trasformato il Nord in una caserma sorda, disinformata, priva di contatti con l’esterno, ha conferito a quel sinistro regime una forza di resistenza e una durata pressoché inverosimili. 

 

Non a caso uno dei Paesi con cui, tramite la complicità nucleare, la Corea dei Kim intrattiene ottimi rapporti è proprio l’Iran, che investe gran parte del suo Pil nella ricerca atomica. La sacralizzazione della tirannide totalitaria dà oramai al regime di Pyongyang una fisionomia truce e senza precedenti di paragone nel mondo contemporaneo. Le sanzioni decretate dall’Onu sono servite a ben poco. Semmai, hanno contribuito a rendere ancora più profonda la povertà di una popolazione già stremata e immiserita da un regime stalinisticamente ispirato a un comunismo di guerra.

da - http://lastampa.it/2013/04/04/cultura/opinioni/editoriali/il-ricatto-atomico-del-dittatore-0P97uctsTCZF7ExQZd3LtO/pagina.html
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« Risposta #86 inserito:: Febbraio 22, 2014, 08:10:55 am »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 22/02/2014.
Gli inutili moniti al Cremlino

La tetra atmosfera da guerra civile che dopo i massacri grava sull’Ucraina, in particolare su Kiev dove i morti salgono ormai a centinaia, segnala agli europei l’ultima implosione del mondo slavo. 

L’ultima, cioè, dopo quella che negli Anni Novanta del secolo scorso travolse, frantumò e distrusse la rabbiosa Jugoslavia post-titoista. 

Definire l’Ucraina attuale non è facile. Molti se la cavano bollandola correntemente e, aggiungerei, corrivamente come «l’inferno di Putin». Già dal suo nome, che potremmo tradurre come «luogo di confine», sembrano emergere elementi assai complicati e intersecati fra loro: eccentricità geografica, dualità plurietnica e, in definitiva, ambiguità storica di una terra sfuggente e di un popolo centrifugo che racchiude in sé più di una identità. Tutto, qui, è fisiologicamente duplice, talora perfino triplice: vi si parla certo l’ucraino, ma in abbondanza anche il russo e, ai margini occidentali, anche il polacco o quello che una volta si definiva chissà perché «ruteno», una sorta di misteriosa lingua franca dei Carpazi. Questa molteplicità idiomatica e ovviamente etnica era stata, nei secoli, uno dei principali strumenti che doveva facilitare l’espansione territoriale e culturale del Granducato di Kiev soprattutto a oriente, verso la Russia. Si sarebbe portati a dire, paradossalmente, che senza l’Ucraina non vi sarebbe stata nemmeno la Russia.

Dunque, una di quelle nazioni generose destinate dalla storia a spargere semi tutto all’intorno: a spogliarsi delle proprie vesti arricchendo quelle altrui, a fondare nuove nazioni per diluirsi e specchiarvisi come in una infinita galleria di specchi. Qualcosa di simile, se vogliamo, capitava all’antica Grecia quando i suoi navigatori e mercanti creavano colonie, empori, porti d’appoggio e sbarchi di traffico lungo le cose del Mediterraneo e del Mar Nero. L’Ucraina, soprattutto quelle mobilissima e rinascimentale del Granducato kieviano, era stata alla sua maniera una specie di Grecia continentale per i Paesi baltici e orientali dell’Europa più nascosta. Ma è stata anche, dopo il Seicento, un tormentato lacerto di frontiera insanguinato da guerre, da brigantaggio cronico, da faide d’etnia e di religione: insomma un tipico territorio di sconto, o d’incontro burrascoso, tra Occidente e Oriente.

Oggi l’Ucraina sembra riaffondare nell’atmosfera dei suoi secoli più bui, diciamo più eurasiatici che europei. Mentre vediamo insorgere una folla alquanto numerosa, che vorrebbe più Europa e meno Putin e Yanukovich, scorgiamo altresì fra le quinte dei tumulti le ombre agitate di gruppi e gruppuscoli armati e di varia provenienza: schiera al soldo di Mosca, milizie nazionalpatriottiche, milizie armate di estrema destra e, per dirla all’ingrosso, chi più ne ha più ne metta. Yanukovich ora dà la sensazione di volersi tirare indietro. Forse sta paventando che il giocatore Putin, non sapendo bene quale asso tirare fuori dalla manica, possa abbandonarlo da un istante all’altro cambiando tavolo e rimescolando un nuovo mazzo di carte. Il caos, l’opacità, l’incertezza, purtroppo già causa di troppe vittime, sembrano prevalere anche in questo momento di tregua. Tregua apparente? Per ora sì: piuttosto apparente.

 

Non si intravede, al di là del fragile armistizio odierno, il traguardo di ricomposizione finale di una situazione ancora incontrollabile e difficilmente governabile. Non riusciamo a scorgere, con la necessaria chiarezza, il binario salvifico attraverso cui questa grande nazione europea potrebbe alfine sottrarsi al caos che l’ha sommersa e che minaccia di estinguerla. Speriamo che l’incerta Unione Europea possa allungare almeno una mano verso Kiev, al di là della linea della vecchia cortile di ferro che Putin, forse, vorrebbe ripristinare in forma rinnovate fra l’Europa dell’Est e dell’Ovest. Insomma. Almeno un cenno chiaro venga da Bruxelles, da Parigi o da Berlino, per citare quelli che contano ancora qualcosa in Europa: un cenno, se non altro di buona volontà, indirizzato ai patrioti nazionali di un antico Paese dell’Est che da anni aspetta invano l’arrivo di Godot.

Putin, in genere, parla, si muove e fa quel che deve fare. Monsieur Hollande e Frau Merkel danno invece l’impressione di parlare soltanto, di parlare senza muoversi, soprattutto quando indirizzano da lontano un vago e infruttuoso monito all’indirizzo del Cremlino.

Enzo Bettiza

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/22/cultura/opinioni/editoriali/gli-inutili-moniti-al-cremlino-CyWHsffMZxXmY9pZH1JPGN/premium.html
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« Risposta #87 inserito:: Marzo 02, 2014, 11:35:38 am »

Editoriali

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 28/02/2014.

Dai soldati di Cavour a Jalta Qui si intrecciano i destini del mondo
La Crimea terra in cui si decidevano, e si decidono ancora i destini dei popoli

La parola Crimea evoca subito la parola guerra. Il pensiero corre al conflitto che dal 1853 al ’56 vide la Russia scontrarsi con un malandato impero ottomano, sostenuto a fatica dalla Francia e dalla Gran Bretagna, al cui fianco il conte di Cavour aveva inviato un corpo di spedizione piemontese di quindicimila soldati al comando del generale La Marmora.  

Perno e simbolo dello scontro fu il lungo assedio di Sebastopoli, durato tre anni e descritto con toni ora mesti ora trionfali da Tolstoj in uno dei suoi più noti racconti. La guerra mietè un numero altissimo di vittime: almeno 250 mila furono i morti sui due fronti, dovuti anche al colera.

Quasi più isola che penisola del Mar Nero, con Sebastopoli caposaldo meridionale della flotta russa, la Crimea doveva diventare il campo di battaglia e l’oggetto di una trattativa di pace destinati a mutare il volto storico e politico dell’Europa ottocentesca. Quella guerra vide il decadente impero ottomano, sostenuto con straordinaria energia dagli anglo-francesi, impegnarsi in uno sforzo estremo di contenimento del proprio declino. Per le forze franco-britanniche che inflissero alla Russia il crollo di Sebastopoli fu un trionfo memorabile; ma per l’impero della Sublime Porta non fu altro che una vantaggiosa sosta militare lungo il suo inarrestabile tramonto. Per Cavour e il suo piccolo Stato l’occasione invece per sedersi al tavolo dei Grandi da vincitore.

Terra in cui si decidevano, e si decidono ancora i destini dei popoli, la Crimea evoca anche la Conferenza di Jalta che vide riuniti, mentre Hitler volgeva alla fine, uno Stalin trionfale, un Churchill gran mediatore e un Roosevelt vicinissimo alla morte. Quell’incontro fatale avrebbe marcato la spartizione dell’Europa postbellica in contrapposte sfere di influenza: fu proprio Jalta a segnare il preludio della guerra fredda, quindi la lacerazione del nostro continente e la nascita della cortina di ferro. Un’aureola tetra da allora la circonda. Fu a Jalta che Palmiro Togliatti morì durante una breve vacanza dopo la sua ultima missione a Mosca, lasciando un enigmatico «memoriale» che ha segnato per anni il dibattito interno al Pci.  

Enzo Bettiza

Da - http://lastampa.it/2014/02/28/cultura/opinioni/editoriali/dai-soldati-di-cavour-a-jalta-qui-si-intrecciano-i-destini-del-mondo-cKw9KrM5BaaB9P1G2qcyOI/premium.html
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« Risposta #88 inserito:: Marzo 10, 2014, 05:54:20 pm »

Editoriali
07/03/2014

Così torna di moda la sovranità limitata

Enzo Bettiza

Sembra tornare di moda l’anacronistico termine brezneviano di «sovranità limitata» già destinato a marcare, alla sua epoca, il perimetro di dipendenza da Mosca dei Paesi europei detti satelliti.

Era quella, nelle regioni oscure dietro il Muro ancora in piedi, un’epoca militarizzata, asfissiante, a tratti spietata come dovevano dimostrare le crisi tragiche di Budapest e di Praga.

Conosciamo quel brutto passato. Rammentiamo che sulle questioni di fondo, potere e comando, la Mosca comunista di allora non tollerava scherzi né a Praga, né a Budapest, e neppure a Varsavia. Ma che dire dei comportamenti e dei gradi di tolleranza riservati, oggi, dalla più disordinata e disinibita Mosca capitalista nelle sue relazioni con gli ex satelliti? Ecco. Si direbbe che, cambiati in senso democratico soprattutto i metodi del rapporto, non si sia però interrotta mai una certa continuità fisiologica, ancorché sommersa, fra il comunismo di potere d’una volta e il confuso postcomunismo neocapitalismo odierno. Lo Stato guida non c’è più. Non c’è soprattutto a parole. E’ fortemente diminuita, o resa meno visibile e meno sensibile, la sua infiltrazione poliziesca nelle amministrazioni dei Paesi ex satelliti. La Russia postcomunista dà spesso l’impressione, in parvenza non secondaria, di essere mutata nei gesti e nei moniti, divenuti consigli e bisbìgli, verso gli ex satelliti. 

Le mosse e le parole ambigue di Putin da un lato, la declamata e ostentata autonomia dell’Ucraina dall’altro, conferiscono qualche tinta non del tutto fosca al quadro d’insieme. Ma il punto è qui. Fin dove è possibile credere, dopo la fuga da Kiev dell’ex presidente ucraino, un servo disprezzato di Putin, che esista davvero la possibile rinascita di una Ucraina rappresentata da Julia Timoshenko? La quale, pur seguitando a parlare con la solita decisione, è apparsa fisicamente stanca, prostrata e come rassegnata dopo la prolungata prigionia. 

A questo punto, le domande realistiche che possiamo ancora azzardare non sembrano concedere molto spazio alle illusioni. Esiste davvero la possibilità o almeno la probabilità di un’alzata di testa contro la Russia di un’Ucraina, fra l’altro, intensamente popolata di russofoni inquieti e incolleriti? Come sorvolare poi sul fatto che la Russia postcomunista è lungi dal rassegnarsi a subire una vicinanza paritaria con repubbliche emerse indipendenti e alquanto esigenti dal crollo dell’Unione Sovietica? Come esimersi dal constatare che la Russia continua a considerare queste repubbliche, di cui l’Ucraina è la maggiore, un semplice prolungamento geografico, ma non geopolitico, della propria estensione matriarcale? Si direbbe quasi che la vecchia Urss sia divenuta la nuova Russia solo nei rapporti politici ed economici con l’Europa occidentale e con l’America; ma che nei suoi contatti con i Paesi ex sovietici essa sia rimasta sempre e soltanto l’Urss dei tempi ruggenti.

 
Si direbbe che, per la grande Russia, la prossima Bielorussia e i Paesi baltici quasi non esistano. Si direbbe infine che la cospicua Ucraina esista più che altro come un ingombro fastidioso, magari utilizzabile quale richiamo per aiuti materiali e miliardi di dollari da Washington e da Bruxelles. E’ questa la sostanza di una situazione in bilico permanente fra un europeismo velleitario e quello che, con un termine non troppo gradevole, potremmo definire come avventurismo «putiniano». 

Putiniano s’intende da Putin. Il nome dell’ormai quasi intramontabile presidente russo è diventato, per molti, sinonimo di qualcosa d’ambiguo, di inafferrabile e, al tempo stesso, quasi di perenne. Continuità o discontinuità dal sovietismo di vecchia memoria? Direi, paradossalmente, l’una e l’altra: continuità e discontinuità parallele. In definitiva Putin non ha incarnato, anzi non ha mai voluto incarnare la rottura, la scissura netta, il salto morfologico dal comunismo al postcomunismo. Ormai da anni, troppi anni, ha continuato a incarnare nella persona bifida, nelle parole duplici, nelle belle pose mediatiche di interlocutore e di ammonitore, un bicontinente eurasiatico che noi, al contrario di lui, stentiamo ad afferrare in tutta la paurosa e mutevole vastità del suo passato e del suo futuro.

Da - http://lastampa.it/2014/03/07/cultura/opinioni/editoriali/cos-torna-di-moda-la-sovranit-limitata-UL2flyD23liDtoAPE3oPEI/pagina.html
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« Risposta #89 inserito:: Aprile 28, 2014, 06:14:29 pm »

Cronache

27/04/2014 - Giovanni Paolo II Il pontefice venuto dal freddo che demolì il muro tra Est e Ovest
Non si arrese mai ai totalitarismi e ai nichilismi del XX secolo

Enzo Bettiza

La santificazione di oggi evocherà insieme la presenza terrestre e la sacra testimonianza della eccezionale figura pontificale di Karol Wojtyla. L’evento avrà indubbiamente un peso religioso di grande portata per i cristiani credenti. Tuttavia, una buona parte anche di non credenti, polacchi ed europei, ma altresì americani, non potrà che inchinarsi evocando l’incisività storica, non solo teologica, del grande papa polacco che per 27 anni ha guidato con rara potenza di polso e di pensiero la Chiesa e le comunità cristiane sia d’Oriente che d’Occidente. 

Per molti aspetti, anche autobiografici, egli fu tutt’altro che un papa banalmente “buono”; fu anzi un papa piuttosto duro: un maestro di fede, custode e dispensatore severo del culto cristiano, venuto dal freddo senza arrendersi o rassegnarsi mai alla sopraffazione degli “ismi” totalitari e nichilisti del XX secolo. 

Nessuna delle sirene d’epoca riuscì mai a incantarlo o ingannarlo. Da giovane prete patriota sprezzò il nazionalsocialismo tedesco, da cardinale in Polonia non cedette un palmo di terreno al comunismo, e infine da papa condannò con le sue encicliche le malversazioni e i paradisi perduti, falsificati o falsificanti, del capitalismo selvaggio. Nei giorni in cui i porporati si accingevano ad elevarlo al vertice della Santa Sede, i dirigenti comunisti russi e filorussi, conoscendone la tempra d’acciaio, s’inquietavano domandandosi preoccupati: cosa succederà in Polonia e negli altri Paesi dell’Europa centrorientale se non riusciremo a mettergli il bavaglio? Decisero perciò di calarlo anzitempo nella tomba affidando l’attentato alle mani di un funesto quanto maldestro estremista fascistoide turco. L’attentato si compì; però riuscì solo a metà, ferendo il papa senza ucciderlo; si riprodusse allora l’enigmatico paradosso di una solidale e alquanto anomala complicità tra il papa, vittima scampata, e il carnefice mancato. Quasi un classico da romanzo a tesi, un po’ dostoevskiano e un po’ conradiano. 

Di Wojtyla, oggi prepotentemente più vivo che mai, meno defunto che mai, si dovrebbe parlare come di un santo ancor sempre presente tra noi: un santo non sotterrato, appena scalfito dall’ombra di un decesso fisico tanto tormentato quanto glorioso. Qualcosa di misterioso, forse di sacro, ci costringe quasi a pensarlo e a nominarlo con verbi fissati al tempo presente e non dispersi nel passato remoto. Qui, per sceverare i paradossi che convivevano e convivono nella personalità di Wojtyla, bisognerebbe per modo di dire contarli, dispiegarli e sottrarli alla fuga verso il finito o, meglio, l’infinito di una morte che non muore perché beatificata dalla sacra famiglia che per lui era ed è la Chiesa. Bisognerebbe bloccarli, quei paradossi, simili a fulmini dispersi nei mobilissimi cieli di un Michelangelo trionfale e un po’ sinistro: bisognerebbe squarciarli, dispiegarli, decrittarli senza però distruggerne l’ultimo e nascosto senso esistenziale. Qui il mistero di chiama Wojtyla, Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II. Un santo, che in un certo senso sembra accettare con un sorriso leggero il cilicio della sua pesante santità.

DA - http://lastampa.it/2014/04/27/italia/cronache/il-pontefice-venuto-dal-freddo-che-demol-il-muro-tra-est-e-ovest-czXlTbtRwzbo7erPDgMHQO/pagina.html
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