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Autore Discussione: ENZO BETTIZA  (Letto 56945 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 12, 2009, 05:47:55 pm »

12/10/2009 - IDEE
 
La borghesia milanese, mito e realtà
 
 
ENZO BETTIZA
 
Il mito, rispuntato nelle recenti critiche rivolte da Silvio Berlusconi a Ferruccio de Bortoli, di un Corriere della Sera non più difensore e rappresentante di una scomparsa borghesia «buona» e «conservatrice» è per l’appunto, oggi, più mito che credibile verità sociologica.

Neppure si capisce bene a quale Corriere d’antan il Cavaliere intendesse alludere.

A quello carismatico dei tempi di Albertini che schierò le batterie della storica testata prima a favore di Mussolini e poi contro? A quello democristianeggiante e filogovernativo di Missiroli che usciva negli anni in cui il giovane Berlusconi, più che giornali, leggeva spartiti musicali su navi da crociera? O quello grintoso di Alfio Russo, che non risparmiava né borghesi né proletari, oppure quello paludato di Spadolini, il quale oscillando tra Moro e Saragat attendeva di spiccare il gran volo da Via Solferino a Palazzo Chigi? Non credo infine che Berlusconi, già fortunato impresario appoggiato da Craxi e già in procinto di idolatrare Montanelli, potesse rimpiangere la virata a sinistra del Corriere di Piero Ottone sostenuto dalla borghesia cosiddetta «illuminata», incline al compromesso con i comunisti in piena avanzata ovunque. Anche in tanti giornali apparentemente legati al mondo borghese.

Di Corrieri con relativi suggeritori e in seguito editori puri e impuri ce ne sono stati tanti e diversi almeno dal 1923, anno in cui Mussolini, con il consenso o quantomeno l’omertà della grande borghesia, milanese e non, abolì la libertà di stampa che verrà riconquistata dagli italiani appena nel 1945. La data della grande svolta, che mette a soqquadro la piazza giornalistica di Milano, sarà il 1974. Segneranno l’anno fatale da un lato il declino della dinastia Crespi, proprietaria del maggiore quotidiano nazionale, e dall’altro lo scisma di Via Solferino che mi vide insieme con Montanelli e con Guido Piovene tra i fondatori del Giornale nuovo.

Da che parte stava la grande e più influente borghesia milanese di allora? Certo non con gli scismatici liberali, circa una quarantina, che avevano deciso di dissociarsi, dopo la direzione Spadolini, dalla deriva zodiacale e sessantottina del «Soviet Solferino» secondo la definizione dell’ex redattore Eugenio Montale. Se di una borghesia si poteva ancora parlare in termini di casta e di danaro, essa appariva schierata al fianco dell’affabulatore Ottone, che si dava toni demiurgici nei salotti, e dell’ultima Crespi, Giulia Maria, che di quei salotti era diventata una sorta d’icona ispiratrice e imperiosa. In realtà, non si trattava nemmeno di veri salotti, improntati alla civiltà mondana del Settecento e Ottocento parigini, aperti come l’antica agorà al confronto di idee e opinioni diverse. Nulla di simile, fra gli Anni 60 e 70 del secolo scorso, in certe sontuose dimore della borghesia milanese à la page. Più che salotti erano clan esoterici, confraternite quasi tribali chiuse intorno allo scettro del padrone o, meglio, della padrona.

In quei luoghi intellettualmente settari e asfittici, che si pretendevano ariosi e liberi, era d’obbligo pensare, parlare, vestire, talvolta perfino mangiare alla stessa maniera. Vi erano rappresentati l’imprenditore sociale e progressista, l’ecologo preoccupato, il sociologo d’assalto, la giornalista di costume, lo scrittore wildiano, lo psichiatra spregiudicato e antipunitivo. Il conformismo che vi regnava era monotono come lo sono le mode, e come le mode era esigente, esclusivo, di fondo autoritario; chi non accettava le convenzioni del gruppo, o le trasgrediva, si poneva automaticamente al bando da solo. Si depositava qui l’essenza ossimorica, insieme rigida e molle, della grande borghesia che si richiamava a valori inventati di sana pianta ma disponibili e utili al baratto politico col partito vincente o ritenuto tale. È qui che si facevano e disfacevano, tra lazzi ideologizzanti e talora scampagnate ecologiche, i direttori del Corriere nonché i cambi di proprietà. È qui che si faceva e disfaceva una certa Italia stampata. O, più semplicemente, si disfaceva una certa Italia. È infatti da qui, da questi intrecci d’azzardo tra politica e affari, nobilitati dalla magniloquenza sulla completezza d’informazione e la libertà di pensiero, che il Corriere dalla gestione ideologica di Ottone sarebbe precipitato nelle follie di Tassan Din e nello scandalo travolgente della P2.

È però doveroso fare una netta distinzione tra le velleità progressiste e spesso strumentali di una certa borghesia e i valori civili borghesi, i valori di libertà e di civiltà senza aggettivi. La distinzione tra chi firmava e chi non firmava petizioni assassine durante gli anni di piombo. Andrebbe detto e alfine riconosciuto in sede storica (si veda, in proposito, il documentatissimo libro L’anarchico borghese di Gerbi e Liucci pubblicato da Einaudi) che gli scismatici minoritari di Via Solferino, rispettati dall’editore Berlusconi che per anni non osò contraddire d’una virgola Montanelli, erano riusciti, nonostante attacchi terroristi non solo cartacei, a raccogliere nelle pagine vilipese del Giornale nuovo il meglio della cultura di dissenso liberale italiana, francese, russa, centroeuropea. Da Rosario Romeo a Renzo De Felice, da Fejtö a Sacharov, da Aron a Ionesco. Andrebbe anche ricordato che sono stati dedicati tanti scritti e persino un film all’«eroe borghese» Giorgio Ambrosoli, l’avvocato milanese ucciso da un killer di mafia, ignorando, però, ch’egli non fu soltanto l’irreprensibile commissario liquidatore della banca Sindona: fu anche il legale amico del gruppo del Giornale, sempre presente al loro tavolo, coi suoi pareri e consigli giuridici, nei giorni lunghi e febbrili della fondazione.

Ma fino a che punto è lecito dire che un quotidiano è «borghese» o non «borghese», espressione o non espressione della «borghesia»? E poi quale «borghesia»? Di quale epoca, quale orientamento politico, o quale smarrimento ideologico? Credo che spesso si esageri nel voler tracciare un rapporto di stretta e meccanica interdipendenza tra un quotidiano d’informazione e un determinato ceto sociale. Certo, come abbiamo visto, possono esserci sbandamenti d’epoca, casi d’inquinamento sociologico temporaneo di un quotidiano tradizionalmente destinato alla vastità del pubblico e non asservito a una parte di esso. Il giornalismo vero, in regime di democrazia, deve o dovrebbe rappresentare un sistema di valori autonomi dagli interessi immanenti dell’editore o della categoria cui l’editore appartiene. Quando Montanelli, dopo il fallimento della Voce, si ricongiunse alla matrice del vecchio Corriere, lo fece più per censurare che per favorire il politico che fino al 1993 era stato suo rispettoso editore. Il diritto all’autonomia giornalistica prevalse una volta di più in lui, così come oggi prevale nell’equanimità e pluralità di voci del Corriere di Ferruccio de Bortoli, attaccato simultaneamente da Berlusconi borghese di destra e da Scalfari borghese di sinistra.
 
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« Risposta #31 inserito:: Novembre 06, 2009, 09:34:31 am »

6/11/2009 (7:19)  - REPORTAGE - VENT'ANNI DOPO

Gorbaciov e Kohl portano a teatro la storia del Muro

Un'immagine del 13 agosto 1961 mostra l'inizio della costruzione del Muro di Berlino, simbolo della Guerra Fredda e della divisione della Germania.

Fu demolito il 9 novembre 1989.
   
Berlino in festa per il grande show della memoria. I protagonisti del crollo ricordano la frenesia di quei giorni


ENZO BETTIZA
BERLINO

Mi ritrovo dopo anni in una Berlino frastornata dalla vigilia del 20° anniversario della caduta del Muro. La città sta rievocando in manifestazioni, nelle televisioni, nei giornali, il duplice mistero dell’inatteso crollo del 9 novembre 1989 e della fulminea riunificazione del 3 ottobre 1990 fra le due Germanie fino a quel giorno separate.

Tutto quel che vedo, rivedo, ascolto, che stento a riconoscere, che in certi momenti fatico perfino a capire e decifrare, mi comunica un senso di angoscia festosa e di surrealtà scenografica. La storia e la cronaca che due decenni orsono l'hanno impastata si confondono, in questi giorni d'attesa e di turbamenti oscuri, davanti agli occhi dello spettatore ipnotizzato e insieme quasi imbarazzato.

Per esempio, si è potuto assistere sabato, 31 ottobre, a un passo dall’austero Berliner Ensemble di Brecht, nel vecchio settore orientale della megalopoli ricongiunta, alla più strana delle recite allestita chissà perché in un frivolo teatro d'operetta e di cancan: circa duemila persone vi hanno ascoltato in religioso silenzio tre protagonisti di punta dell’Evento Ottantanove, un disinibito Michail Gorbaciov, un divertito George Bush senior, un ex cancelliere Helmut Kohl in sedia a rotelle, i quali, attori alacri di se stessi, hanno replicato parole e mimato gesti con cui 20 anni prima avevano o avrebbero preparato il terreno per l'abbattimento del Muro e l'integrazione tedesca. In disparte si poteva notare un'Angela Merkel muta, pensierosa, forse un po’seccata dall’eccessiva enfasi della rievocazione storica; all'epoca la futura cancelliera della Germania riunita era una giovane signora ignota che, nelle ore fatali in cui la Ddr stava evaporando, faceva la sauna in uno stabilimento dell’Est.

Non è cosa consueta assistere all'anniversario di una svolta epocale d'un secolo passato a nutrirsi ancora di cronaca per il tramite di ex protagonisti viventi e parlanti. Dà un certo brivido alla memoria rivedere in una sala pubblica, o in video, coloro che hanno sostenuto con fermezza il terremoto come Bush padre, che l'hanno subìto con rassegnato realismo come Gorbaciov, che l'hanno agguantato con scaltra prontezza come Kohl; oppure coloro che l'hanno ostacolato come Andreotti e la Thatcher; o infine coloro, come certi personaggi governativi di secondo piano di Berlino Est, che lo hanno involontariamente accelerato con errori d'interpretazione degli ordini superiori.

Nella ricorrenza della data, la stampa tedesca continua a farsi un esame di memoria, più che di coscienza, seguitando giorno dopo giorno a domandarsi: il Muro, nella sera del 9 novembre, cominciò a crollare per l'errore di comunicazione mediatica di un portavoce delle autorità comuniste, Günther Schwabowski, che nel corso di un'agitata conferenza stampa dichiarò forse prematuramente che i cittadini della Ddr potevano recarsi «da sùbito» all'estero: cioè a Berlino Ovest. O crollò invece per caso, o calcolo, o addirittura per un tacito accordo triangolare fra il segretario del Pcus Gorbaciov, il presidente americano Bush e il cancelliere tedesco Kohl?

Interrogarsi minuziosamente e senza requie sul proprio passato è una specialità analitica molto tedesca. L'ultima risposta che si fa strada fra tante domande è anche la più romantica e la più eroica: fu l'istinto insieme libertario e umiliato delle masse tedesche che, in quelle ore decisive, contò più della volontà politica di alcuni singoli capi di Stato. Tutte le grandi rivoluzioni sono germinate dal basso, dal popolo, trovando la loro saldatura esplosiva nel momento in cui i soldati e i poliziotti, anziché reprimere il sollevamento dei ribelli, si alleavano a questi. Così, hanno concluso diversi autorevoli rievocatori, è avvenuto nel 1989 anche nella Germania comunista e in particolare a Berlino. La strana rivoluzione passiva degli «Ossis», o tedeschi orientali, si è realizzata non tanto nello scontro di una minoranza agguerrita con il potere quanto, piuttosto, nella fuga in massa di un popolo intero da uno Stato totalitario. Un fenomeno, fino allora mai visto, di dissociazione massiccia, di disobbedienza civile, di fuggitivo sciopero generale di una quasi nazione nei confronti di uno Stato ormai considerato dai più oppressivo, artificiale e illegittimo. In estate, la grande fuga verso l'Austria attraverso l'Ungheria e la Cecoslovacchia; nel tardo autunno, dopo il «via» forse erroneo di Schwabowski, la valanga umana dei berlinesi a ridosso del Checkpoint Charlie. Un tempo per i Vopos, le guardie di frontiera comuniste, era doveroso e facile sparare su isolati fuggiaschi. Ma che dovevano o potevano fare una cinquantina o anche un centinaio di poliziotti esterrefatti al cospetto di quell'oceanico esodo biblico? Provocare, dopo la sanguinosa insurrezione del 1953, un altro massacro in una Berlino che si andava d'altronde sfaldando e desovietizzando sotto i loro occhi? Si saldava in quel momento, sul filo del rasoio di una carneficina evitata quasi per miracolo, una sorta di alleanza passiva tra i Vopos in stato di paralisi e un popolo in fuga. Uno scatto rivoluzionario alla rovescia, se vogliamo alla tedesca, ma pur sempre rivoluzionario. In questi giorni appare spesso sui teleschermi berlinesi la faccia bonaria di un pensionato che dice agli intervistatori e agli spettatori: «Potevo forse dare ai miei uomini tedeschi l'ordine di sparare contro tutti quei tedeschi? Certamente no». Il pensionato, che vive a Berlino occidentale, era a quel tempo un colonnello della Stasi da cui, nei pressi del leggendario checkpoint americano, oggi ridotto a malinconica attrazione folcloristica, dipendeva il più importante dispositivo di sicurezza intorno al Muro.

Dalla grandiosa capitale, sfiorata da raffiche di nevischio, urbanisticamente unita ma psicologicamente meno, mi dicono che spiri già da qualche tempo un'aria di struggente curiosità turistica. Nella mia vita, prima del Muro e subito dopo, ho visto e visitato molte Berlino, ogni volta una città nuova, ogni volta diversa. Mai però come in questo viaggio, dopo un'assenza prolungata, ho avuto l'impressione di ritrovarmi in una città irriconoscibile. Camminando non so più in quale settore delle due Berlino mi trovo. Se sto nei pressi della Porta di Brandeburgo so quel che devo fare. Devo alzare lo sguardo in alto, fino alla famosa quadriga verde muschio che ne sovrasta il colonnato; se ho i cavalli di fronte, vuol dire che sono nel settore Est; se li ho di coda significa che sono a Ovest. Ambedue i settori infliggono una sublime e arcana indigestione architettonica. Nei lenti anni di trasloco politico e amministrativo da Bonn a Berlino, è stata data mano libera, come in nessuna parte del mondo, alla più sfrenata fantasia creativa dei maggiori architetti internazionali, fra cui spiccano le firme di Renzo Piano, Helmut Jahn, Norman Foster, Richard Rogers, Arata Isozaki. Gli innesti, gli accostamenti, talora violenti, che rimbalzano dal trionfale edificio ocra prussiano ai più stupefacenti illusionismi ottici della Potsdamer Platz, suscitano in chi guarda sensazioni di ubiquità e di rincorse dal passato al futuro con effetti da vertigine atemporale. Immense gru arancione ruotano e incombono su terreni in costruzione perenne. Squarci da Disneyland costeggiano i grigi e luttuosi parallelepipedi del monumento alle vittime dell'Olocausto, mentre brandelli di muro, volutamente non abbattuto, esibiscono i graffiti più arditi e sfacciati, autentici affreschi pop a cielo aperto. Il lugubre, l'allegro, l'infantile si rimescolano ad ogni passo, e può capitare che, andando e girando, non sappiamo di aver appena calpestato la spianata che seppellisce il bunker di Hitler. Infine, quella che le insegne designano come la «Topografia dell'Orrore», cioè il perimetro che conteneva le sedi della Gestapo e delle SS, ultima ed estrema attrazione turistica di una metropoli in balìa delle sue contraddizioni storiche.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 19, 2009, 11:32:34 am »

19/12/2009

Gattopardi d'Europa
   
ENZO BETTIZA


Ha perfettamente ragione il presidente Napolitano quando dice, come ha detto due giorni fa, che l'Europa in quanto tale «è destinata all’irrilevanza e al declino se non riesce ad operare come soggetto unitario nello scenario internazionale». Egli certamente non si riferiva soltanto ai crampi di violenza che nelle ultime settimane hanno sconvolto l’Italia e la Grecia, matrici millenarie della civiltà europea e oggi traballanti pilastri mediterranei dell’Unione continentale. Si riferiva, indubbiamente, anche ai disordini di Copenhagen che hanno fatto da sfondo all’irrilevanza del «soggetto Europa» nella grande e confusa conferenza mondiale sul clima: conferenza gestita in maniera caotica dai padroni di casa e dominata, di fatto, dal dialogo sordo e rivale tra le due maggiori potenze inquinanti, America e Cina, che insieme producono il 50 percento delle emissioni planetarie. Si potrebbe dire che la minacciosa formula CO2 si sia quasi convertita in una sorta di disarmonico e tuttavia egemonico G2 tra Wahington e Pechino. Neppure l’intervento tanto atteso del Nobel Obama è riuscito a diradare il senso di fallimento, che gravava fin dall’inizio sul tumultuoso consesso, ma lo ha semmai accentuato.

Tante nobili parole e belle promesse in dollari ai Paesi più bisognosi d’aiuto, riuniti in una sorta di G77 dei poveri, demagogicamente appoggiato dalla Cina; sennonché gli impegni per ora verbali del presidente americano dovranno passare poi, chissà quando e come, al vaglio e all’approvazione del Congresso già messo a durissima prova dalla catena di crisi domestiche, automobili, banche, sanità, spese militari in Iraq e Afghanistan. All’Europa sono stati chiesti soltanto sacrifici, somme esorbitanti di euro e scadenze ecologiche quasi punitive. Ma nessuna delle sparpagliate proposte europee sul taglio alle emissioni, sul riequilibrio razionale mediante tecnologie pulite tra sviluppo e inquinamento, è stata presa molto sul serio: si è avuta la netta impressione che a Copenhagen l’Europa venisse presa in considerazione tutt’al più come un istituto di credito, non certo come una coesa e dirimente entità politica. La Russia s’è tenuta con prudenza in disparte, con un presidente incerto se rappresentare un Paese emergente o un impero decaduto. La passerella è stata confiscata, più che dalle parole, dall’immagine di Obama a tutto scapito del grigio Gordon Brown, dell’irrequieto Nicolas Sarkozy, dell’imbarazzata Angela Merkel che ha dovuto sobbarcarsi anche il ruolo di rappresentare l’assente Silvio Berlusconi. L’Europa, titubante su una grandiosa scena internazionale, dove non poteva presentarsi unita nella persona di un presidente ignoto come Herman Van Rompuy, è apparsa più che mai frantumata, ferita, poco attrezzata a misurarsi con le sfide della globalizzazione di cui, piaccia o non piaccia, lo scontro vero o verosimile con i gas da ipersviluppo è divenuto un simbolo onnipervasivo. Dietro il simbolo climatico si nasconde, in realtà, una competizione ai ferri corti che non ha molto a che vedere col clima, ma con l’esito da cui dipenderà in gran parte il comando dell’economia mondiale nel XXI secolo. L’America resiste per mantenere i ritmi del suo sviluppo industriale, la Cina per promuoverli a velocità travolgente; l’una e l’altra si guardano bene dall’aderire alle raccomandazioni di Kyoto, d’altronde già accantonate e considerate obsolete anche da chi le aveva controfirmate.

È l’Europa nel suo insieme a fare le spese del comprimario debole. L’impatto con l’assediato supersummit in Danimarca, in cui si sono visti tanti Amleti europei oscillanti tra l’essere e il non essere al rimorchio dell’America, che neppure li vede impegnata com’è a negoziare la pace fredda con la Cina, è stato il primo negativo banco di prova delle scadenti e invisibili promozioni ai vertici di rappresentanza dell’Unione Europea. La paralisi di fatto della conferenza sul clima mondiale ha coinciso con l’offuscamento dell’immagine internazionale dell’Europa, peraltro in crisi di piazza in Italia e sul ciglio della bancarotta nazionale in Grecia. Copenhagen ha aggiunto il resto. Poco prima che tutto ciò accadesse l’Economist, in un saggio mordente e quasi coincidente con il monito di Napolitano, ha paragonato il declino dell’Europa a quello sia pure minore e più remoto della Sicilia del Gattopardo: il famoso romanzo insegna che vivere nel declino può essere una scelta suggestiva. Non è poi così terribile essere un continente vecchio, pacifico e prospero. Però, non è da dimenticare che i rivali dell’Europa sono giovani e affamati. Saprà il vecchio continente resistere al fascino di una resa gentile?

da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 07, 2010, 05:02:13 pm »

7/1/2010
 
Obama, sogni e realtà
 
ENZO BETTIZA
 
Con la fine dei cosiddetti «anni zero» il primo decennio del XXI secolo ci appare segnato in profondità, quasi dall’inizio alla fine, dall’incubo e timor panico scatenati dal terrorismo islamico principalmente in America e poi nel mondo che, in ampio senso storico, potremmo definire occidentale o cristiano. Ma vorrei circoscrivere il discorso ai fatti incalzanti che, dagli ultimi giorni di dicembre, irretiscono il governo e la società degli Stati Uniti.

La grande paura, che paralizzò l’America nel fatidico 11 settembre, spingendo l’amministrazione Bush alla guerra di ritorsione in Afghanistan e alla disastrata guerra preventiva in Iraq, è tornata a flagellare il Natale del 2009 provocando, all’incirca, lo stesso scenario di psicosi che seguì il tragico e riuscito attentato del 2001. Paralisi e blocchi degli aeroporti, fuorvianti allarmi bomba dalla East Coast e perfino dalla California, panico negli stati maggiori dell’amministrazione Obama, messa in cantiere di misure straordinarie di sicurezza e di controllo tecnologico, come i «full body scanners», mai adottati fino ad oggi. Le immagini arrivate da Newark, le riunioni d’emergenza nella Situation Room della Casa Bianca, il linguaggio eccezionalmente alterato e incupito del presidente, ci hanno trasmesso l’atmosfera di un Paese spaventato. Un Paese non si sa se in stato d’assedio o di guerra.

Per di più, non tanto sullo sfondo, il fantasma di un possibile coinvolgimento bellico nei deserti rocciosi dello Yemen, santuari inviolati di Al Qaeda, non più guidata dal guerrafondaio Bush ma minacciata addirittura da un Nobel per la pace. Nel frattempo, indicati dalle allusioni dello stesso Obama o dalle parole dei suoi consiglieri e ministri, la lista dei Paesi «in sospetto», i cui cittadini in volo per gli Usa verranno sottoposti a controlli rigidissmi, si è allungata dall’Iran al Sudan, dalla Siria allo Yemen, dal Pakistan alla Nigeria.
Tutte queste contromisure sono state inoltre appesantite, sul piano psicologico, dal fatto di essere state prese dopo un attentato virtuale, non consumato, che avrebbe potuto provocare la tragedia se il marchingegno distruttivo, nascosto negli indumenti intimi del mancato suicida nigeriano, fosse effettivamente esploso. Niente di lontanamente simile a quanto accadde con il crollo delle due torri di New York. Ma il temibile disvalore aggiunto, se vogliamo chiamarlo così, delle guerre asimmetriche escogitate dalla strategia nichilista di Al Qaeda, è che esse funzionano anche nei casi in cui materialmente falliscono: non producono strage, ma, rasentandola, provocano la ripetizione di una nevrosi di massa evocante stragi già patite e mai dimenticate. Nel recentissimo caso, come vediamo, non s’è ripetuta per fortuna sull’aereo in discesa sul suolo americano una replica minore dell’11 settembre; si è ripetuto, invece, un rilancio maggiore e più esteso delle difese immunitarie di una superpotenza che si sente in guerra con un nemico inafferrabile.

È iniziata così la giostra delle opinioni, fra coloro che approvano le misure più dure dell’amministrazione democratica e quelli che le disapprovano perché lesive dei diritti civili e, quindi, contrarie alle speranze suscitate dallo stesso Obama al principio del mandato presidenziale. Sia gli uni che gli altri hanno cominciato a domandarsi se già esista o non esista ancora, dopo un anno di politica estera ondivaga, piena di colpi alterni o simultanei al cerchio e alla botte, una credibile «dottrina Obama» in campo internazionale. Per molti, la prova del nove delle intenzioni del neopresidente avrebbe dovuto essere Guantanamo. Obama non ha soddisfatto né i sostenitori liberal, che ne aspettavano la chiusura definitiva, né tanto meno i critici conservatori che non hanno approvato le sporadiche liberazioni, con il contagocce, dei prigionieri qaedisti. Oramai Guantanamo, chiusa per due terzi e semiaperta per un terzo, resta una spina nel fianco della diplomazia ammiccante di Obama e quasi un simbolo tangibile delle incertezze della sua poco efficace politica estera. Quando egli afferma: «Colpiremo al Qaeda ovunque, ma anche svuoteremo Guantanamo», fa venire a mente, per modo di dire, la nota circonlocuzione veltroniana elevata all’ennesima potenza. Fatto è che ora, meno che mai, Obama sarà in grado di poter mantenere, entro la scadenza annunciata del 22 gennaio, la più diffusa e proclamata delle sue promesse: i qaedisti yemeniti, liberati dal carcere e rientrati in patria, si sono rimessi subito al servizio delle piazze d’armi terroristiche proliferanti in basi che sfuggono alla presa di un governo «filoamericano» nepotistico e corrotto. Gli stessi che forse hanno addestrato, senza molto profitto, il kamikaze in volo da Amsterdam a Detroit.

La verità è che la forza ostinata e insieme imprevedibile degli eventi, a cominciare dalle nevrosi che la guerra asimmetrica produce nelle nazioni più esposte all’odio dei fondamentalisti, sta imponendo a Obama una graduale revisione delle sue buone ma spesso semplicistiche opinioni sulla complessità del mondo contemporaneo. Egli non può essere più quello che avrebbe desiderato essere: un riformatore liberal della repubblica imperiale degli Stati Uniti. Ne è anche l’erede. Per ora una «dottrina Obama» non esiste. È in corso semmai, forzata dagli eventi, la ricerca da parte di Obama di un compromesso possibile tra sue idee originarie e le sue tremende responsabilità di curatore di una vulnerabile eredità imperiale.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 25, 2010, 09:53:59 am »

25/1/2010

I due volti dell'Europa slava
   
ENZO BETTIZA

Due Paesi chiave dell’Europa slava, Ucraina e Croazia, hanno cambiato volto attraverso un mutamento elettorale e politico svoltosi secondo incontestabili regole democratiche. Gli ucraini hanno di fatto destituito col voto il presidente Viktor Jushchenko, leader della deludente «rivoluzione arancione» del 2004, bocciato al primo turno con un magro 5,5 percento, lasciando in lizza per il ballottaggio del 7 febbraio due candidati assai noti: l’energica ex pasionaria dalla treccia bionda, Julia Timoshenko, attuale primo ministro, la quale rincorre con un sostanzioso 25 percento il capo dell’opposizione, Viktor Janukovic, appoggiato a suo tempo dal Cremlino, che ha raccolto un altissimo 35 percento nelle regioni dell’Est russe o russificate nella lingua, nella cultura e nella mentalità.

Il voto croato si è invece già concluso definitivamente il 10 gennaio, in un quadro di rinnovamento più lineare e meno drammatico di quello ucraino ancora in piena combustione. La terza presidenza della Croazia, dopo il nazionalista Franjo Tudjman e il moderato Stipe Mesic, è stata conquistata non a caso da un personaggio poco noto, del tutto sconosciuto all’estero, il giurista e compositore Ivo Josipovic che non aveva mai occupato una carica istituzionale di rilievo.

A Zagabria, al contrario che a Kiev, la grande novità non s’è palesata nello spessore carismatico dei contendenti, bensì nel significato squisitamente politico della contesa e del suo esito: è la socialdemocrazia, la sinistra europeista, rappresentata da un candidato laterale come Josipovic, quella che esce vincente dalla gara contro la storica e onnipervasiva Unione democratica croata (Hdz) fondata dal presidente soldato Tudjman e incarnata nella candidatura perdente del sindaco zagabrese Milan Bandic. Si spera che un simile cambio della guardia, anche emblematico, ai vertici dello Stato, potenzialmente il più ricco dei Balcani occidentali, ma ridotto in precarie condizioni da clan disonesti spesso collegati alle tresche della dominante Hdz, possa favorire e dare finalmente avvìo alle riforme di cui l’economia inceppata e la società frustrata della Croazia hanno urgente bisogno. Il traguardo europeo, dal quale tanti croati si sentono ingiustamente esclusi, dopo l’ingresso nell’Ue di Bucarest e di Sofia, si farà indubbiamente più vicino a Zagabria. Non solo. Ma più vicino, per la cosiddetta «legge del traino», anche a Belgrado, che cerca di uscire dall’isolamento dopo le guerre interjugoslave innescate dalla megalomania aggressiva di Milosevic.

È invece più problematico dire che cosa, in attesa del secondo turno, l’Ucraina possa sperare di ottenere dall’Europa e l’Europa dall’Ucraina. Qui, tutte le carte del gioco appaiono ribaltate, o addirittura sconvolte, rispetto a quelle esibite cinque anni fa dai vincitori «arancione» oggi duramente sconfitti come Yushenko o sorprendentemente modificati come la Timoshenko. Non solo la lotta condotta a colpi spietati, subito dopo la conquista del potere, dall’uno contro l’altra, cioé dal capo dello Stato contro il capo del governo, ha finito per dissolvere la coesione e distruggere la credibilità del gruppo dirigente antirusso, occidentalista e patriottico, emerso dalla rivoluzione morbida di Kiev. Non solo la corruzione è dilagata, non solo gli oligarchi del petrolio e dell’acciaio hanno alzato la voce e le pretese, non solo le casse dello Stato sono andate in malora svuotate da una spesa pubblica mirata ad alimentare nepotismi e favoritismi, non solo buona parte dei seggi parlamentari è stata svenduta al miglior offerente, non solo il Fondo monetario internazionale ha di colpo interrotto l’anno scorso i cospicui sussidi concessi a Kiev, in definitiva non solo la duplice nazione ucraina nel suo complesso, occidentalista o slavofila che fosse, si è trova sull’orlo della bancarotta all’inizio della campagna per la nomina del nuovo presidente.

Come se tutto ciò non bastasse, i due candidati rimasti sul campo, la Timoshenko ultranazionalista d’una volta e il Janukovich filorusso d’un tempo, hanno dato agli elettori confusi l’impressione di aver invertito le parti e scambiato le loro alleanze: lei non più avversaria ma interlocutrice di Putin, lui non più zimbello nelle mani di Putin ma interlocutore di influenti ambienti politici ed economici occidentali. Non si dimentichi la strategica posizione energetica dell’Ucraina tra Est e Ovest, l’enorme potenziale di mediazione petrolifera concentrato nelle pipelines che l’attraversano, e si capirà meglio perché la Russia putiniana cerchi oggi di favorire colei che, già chiamata «principessa del gas», molti sondaggi danno per vincente al prossimo ballottaggio. Si capirà altrettanto bene perché Janukovich, snobbato e quasi abbandonato dall’amico Putin, che nel 2004 gli stringeva la mano a Kiev, cerchi oggi di ricostituirsi agli occhi dell’Occidente una sorta di verginità neutrale e negoziabile. Ne vedremo di belle quando sapremo chi fra i due, ormai più concorrenti in affari che nemici in politica, sarà eletto presidente il 7 febbraio.

Scartata comunque non solo dai politici, ma dalla maggioranza degli ucraini, l’ipotesi di un ingresso nella Nato, resterà aperta la più commerciabile e più commestibile opzione europea. Dal suo canto Bruxelles non potrà ignorare che i futuri orientamenti dell’Ucraina, incapsulata con 46 milioni di abitanti fra l’Unione Europea e la Russia, eserciteranno una profonda influenza sul grande e irrequieto spazio postsovietico. L’associazione all’Europa della piccola Croazia di 6 milioni di abitanti, abituata da sempre agli usi e costumi europei, non oppressa né ricattata dalla Russia, sarà certamente più facile e scorrevole. Il nuovo uomo di Zagabria si sa come e dove guarderà. Non si sa invece chi sarà e dove guarderà il nuovo presidente di Kiev.

da lstampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:05:14 am »

8/2/2010

Grecia un malanno balcanico
   
ENZO BETTIZA

Finora la bancarotta greca è stata interpretata e spiegata soprattutto in termini economicistici, in chiave europeistica o europea, prescindendo dal quadro balcanico in cui la Grecia, con la sua turbolenta storia moderna, era e resta profondamente inserita almeno da un secolo e passa. Della sua doppia anima, occidentale e orientale, si è continuato in questi giorni a parlare della prima ignorando la seconda che, invece, è presentissima in una crisi assai più complessa del solo tracollo finanziario. Al tremendo deficit del Pil, che ormai sfiora il 13% e rischia di escludere Atene dai 16 dell’Eurozona, s’appaia già da tempo una tormenta d’ordine sociale, morale, psicoideologica mai vista in proporzioni così devastanti in altre nazioni dell’Ue.

La verità è che la Grecia è diventata non solo un Paese finanziariamente disastrato, ma anche truffaldino nei confronti della contabilità comunitaria oltreché aggressivo e violento con se stesso. Da una parte le falsificazioni ottimistiche su un deficit in fuga quadrupla dai parametri di Maastricht; dall’altra un’amministrazione pubblica clientelare, corrotta in profondità, tipicamente balcanica, che invece di sanare il disastro lo ha aggravato manipolandolo con statistiche alterate nell’interesse esclusivo della corporazione. A tutto ciò si aggiungono gli assegni scoperti per due miliardi di euro nella prima metà del 2009, le ininterrotte occupazioni di scuole, l’ondata di scioperi a catena nei settori dell’agricoltura, del terziario, della cantieristica, della sanità.

Infine lo scoppio di sommosse di studenti anarchici che, come si ricorderà, hanno messo a ferro e fuoco il cuore di Atene. Altri scontri durissimi tra manifestanti e agenti si sono verificati a Salonicco, Patrasso, Rodi, Creta, Ioannina. Ancora nel gennaio di quest’anno s’è visto uno schieramento di mille trattori bloccare, per tre settimane, in protesta ai tagli dei sussidi agricoli, strade e valichi di frontiera con Bulgaria e Turchia disertati dai doganieri anch’essi in sciopero.

Diversi osservatori, analizzando l’immane disagio che sta mettendo in ginocchio la Grecia e spingendola fuori dall’Europa, parlano già di una crisi talmente generalizzata da richiedere la «rifondazione dello Stato». Il morbo andrebbe, insomma, ben al di là dei buchi neri del Pil e del debito con l’estero per investire e intaccare alla radice la società greca nel suo insieme. Non ne escono bene, dal tutto, nemmeno le due storiche dinastie politiche dei Karamanlis (conservatori) e dei Papandreu (socialisti) che si sono alternati al potere democratico dopo la fine della dittatura dei colonnelli. Gli uni e gli altri hanno tollerato troppo a lungo nepotismi, corruttele, evasioni fiscali, sotterfugi e imbrogli con le casse comunitarie. Soltanto adesso, sotto la minaccia di una stringente sorveglianza contabile che la Commissione di Bruxelles inizierà il 16 marzo, l’ultimo dei Papandreu, odierno primo ministro, ha annunciato che la nazione potrà salvarsi dal baratro soltanto con una cura churchilliana di «lacrime e sudore». Speriamo non sia troppo tardi, rispetto alla gravità dei danni originari avviati già nei lontani Anni Ottanta, che videro la Grecia entrare nella Comunità europea, dalla finanza allegra di Papandreu padre definita «baldoria» dagli storici meno indulgenti.

L’alternativa che la crisi pone oggi a Bruxelles è drastica: trattenere la Grecia in Europa o restituirla ai Balcani? L’alternativa nonché drastica, e ovviamente costosa, è anche paradossale. I greci, all’epoca dell’ultima tragedia balcanica, davano l’impressione di gustare la vita su un’oasi occidentalizzata, pacifica e benestante ai margini dell’inferno jugoslavo. Grazie ai «fondi strutturali» elargiti dalla Comunità agli Stati più bisognosi, perdipiù grazie alle popolose stagioni turistiche che portavano denaro e benessere, essi certamente vivevano già al disopra dei loro mezzi; ma davano comunque l’impressione di vivere tranquilli in un Paese che stava uscendo, con risultati apprezzabili, dal sottosviluppo e dal brutto ricordo di una lunga guerra civile e di una nefasta tirannia militare. Il grande malato dei Balcani era allora l’ex Jugoslavia. Tuttavia, gli orrori che divampavano subito a ridosso del confine greco, in Macedonia, in Bosnia, in Croazia, alla fine nel Kosovo, sembravano distanti anni luce ai turisti che trascorrevano le vacanze sulle solari isole elleniche. Sembrava così agli stessi greci.

Poi, appena finite le crudeli e più visibili ostilità, che avevano decimato slavi e albanesi, tutti hanno cominciato a domandarsi quale santabarbara tornerà a scoppiare a breve termine dopo la «fragile» tregua imposta dai bombardamenti Nato alla Serbia. Domande rimaste non solo senza risposta, ma anche smentite dai fatti. Il Kosovo, proclamata l’indipendenza, non s’è trasformato in una nuova polveriera. Il Montenegro carezza l’idea di diventare con spiagge e casinò una Costa Azzurra adriatica. La Croazia, recente scoperta del turismo di massa, tesse la tela per associarsi all’Unione Europea. Sarajevo, cessati da tempo i massacri in Bosnia-Erzegovina, è rinata poco per volta. I governanti serbi, dimenticato Milosevic e sbarazzatisi di Karadzic, si apprestano a seguire i cugini croati sulla via che porta a Bruxelles. La Slovenia, prima della classe fra le nazioni postcomuniste entrate in Europa, è stata già accolta nell’Eurozona ed ha già esercitato una presidenza semestrale dell’Ue. La tregua, in altre parole, è diventata pace e speranza, a dispetto dei gufi che tra Bosnia e Kosovo vedevano fino a ieri solo bombe ad orologeria.

Nessuno invece intravedeva il pericolo nella lussuosa punta meridionale dei Balcani. Quasi nessuno, insomma, se l’aspettava che la Grecia comunitaria, proprio la Grecia, largamente beneficata dall’Europa fin dal 1981, sarebbe diventata oggi la grande malata della penisola balcanica.

da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Febbraio 20, 2010, 11:09:58 am »

20/2/2010

Per Obama il Tibet può aspettare
   
ENZO BETTIZA

Una lettura più attenta dell’incontro tra il presidente Obama e il Dalai Lama ci rivela in controluce, come una cartina al tornasole, quanto mutati siano oggi i rapporti di forza tra Stati Uniti e Cina e, in senso lato, tra un Occidente in crisi e un Oriente dominato dall’espansione economica e politica cinese.

Da quando Pechino ha conquistato lo status di seconda superpotenza mondiale, il leader spirituale del Tibet, con le sue visite che propalano più imbarazzo diplomatico che gaudio politico, viene ormai percepito dalla maggioranza dei governi occidentali come una carismatica mina vagante. Quasi nessuno osa respingerla, ma tutti, per non irritare gli irritabilissimi cinesi, trattano la prestigiosa mina sublimata dal Nobel in punta di dita, blandendola con cauti sorrisi e vaghe promesse di sostegno ai diritti civili e alla libertà religiosa e culturale del popolo tibetano. Più in là non ci si spinge. La questione politica più spinosa, l’autonomia del Tibet, quella che sta più a cuore al Dalai Lama, non viene mai affrontata di petto. Anzi, quasi tutti gli ospiti occidentali, improvvisandosi artificieri delicati e solerti, s’affrettano a disinnescare e concludere la visita esplosiva, che raramente dura più di tre quarti d’ora, con un auspicio sedativo: l’impegno dei tibetani buddisti, osservanti della non violenza, alla «ricerca del dialogo costruttivo con il governo della Repubblica popolare cinese».

E’ questo il copione da disinnesco che il Nobel della Casa Bianca, nel suo colloquio riservatissimo con il Nobel del Tibet, ha seguito accompagnandolo con una circospezione simbolica che è andata ben al di là di quelle riservate, fin dal 1991, al Dalai Lama dai precedenti capi di Stato americani. Il presidente Bush, per esempio, pur non ricevendolo ufficialmente nello Studio Ovale, era stato però presente nel 2007 alla solenne cerimonia della consegna al capo religioso tibetano della Medaglia del Congresso. Obama invece ha voluto dare all’incontro l’aspetto di una visita blindata. Il rituale simbolico, al cui formalismo i governanti cinesi sono sensibilissimi, è stato tenuto al minimo indispensabile. Niente riflettori, telecamere, giornalisti. L’evento, se così lo si può chiamare, si è svolto pudicamente dietro le porte chiuse di una saletta periferica della Casa Bianca. In pasto al pubblico è stata data soltanto una fotografia in cui si vedeva il primo monaco del Tibet, avvolto nella sua tonaca rossiccia di fronte al presidente americano, con una tazza di tè e un magro biscotto sotto gli occhi titubanti. Lo si è visto poi sbucare da un’uscita di sicurezza e sfiorare sorridente, con i sandali penitenziali, cumuli di rifiuti impacchettati in cerata nera.

Per placare l’animosità dei cinesi, che considerano il pontefice in esilio del Tibet «un lupo travestito da monaco», Obama non poteva fare di più. Il solo passo più grave, che l’America non gli avrebbe perdonato, era di non ricevere l’imbarazzante visitatore, smentendo totalmente le ardite e promettenti opinioni sulla libertà autonomistica del Tibet declamate in campagna elettorale. Blindando l’incontro e sminuendone così l’impatto politico il presidente ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte: da un lato ha inteso non alienarsi del tutto le simpatie in calo dei sostenitori liberal, che già lo accusano di eccessiva tiepidezza nella difesa dei diritti civili da Guantanamo al Tibet, dall’altro ha offerto alla Cina la visione di un incontro assai più cauto e perfino più avaro del previsto.

Naturalmente i signori di Pechino, per i quali ogni contatto con il vispo Dalai Lama è assimilato ad un atto d’ingerenza indebita negli affari cinesi, hanno seguitato in questi giorni a minacciare a vuoto il governo americano indebitato fino al collo con la Cina. Il ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatore statunitense ostentando indignazione e stupore, e parlando di «grossolana violazione delle norme che regolano i buoni e corretti rapporti internazionali». Ma, se si leggono con una certa attenzione le cronache da Pechino e da Washington, non si può sfuggire al dubbio o, meglio, al sospetto che, sotto sotto, ci sia stata fra le due capitali un’intesa diplomatica volta a ridurre al minimo il danno d’immagine inflitto alla Cina dalla stretta di mano fra il presidente americano e il «pericoloso secessionista» Dalai Lama. Si direbbe quasi che la strana sceneggiatura dell’incontro, così schivo, così chiuso al pubblico, così parco nelle dichiarazioni ufficiali, sia stata concepita e scritta non soltanto da mani americane. Come valutare, a proposito, la vistosa ospitalità concessa dalle autorità cinesi, un giorno prima dell’incontro incriminato, all’approdo a Hong Kong della portaerei Nimitz, considerata oggi tra le più grandi del mondo?

Tutto questo potrebbe autorizzarci a pensare che Obama, nei suoi difficili e altalenanti rapporti con la Cina, si stia sottoponendo a una severa dieta a base di Realpolitik. Certo è che governare è più duro e più complicato che promettere cose che, governando, non si possono mantenere. Il G2, con i suoi chiaroscuri tra Washington e Pechino, si dimostra più faticoso del G8 ormai accantonato se non superato. Con la Cina, in pieno dinamismo di potenza, l’America si vede costretta a trattare e negoziare al più presto, ad ogni passo, rischi e pericoli: la paralizzante dipendenza finanziaria, la bassa quota dello yuan che ne favorisce le esportazioni selvagge, Taiwan che chiede armi perché si sente minacciata, il veto al Consiglio di Sicurezza da cui dipende in buona parte l’enigma nucleare dell’Iran. Bastano questi pochi accenni per evidenziare quanto conflittuale è e sarà la diarchia globale prefigurata nella cifra semplificatrice G2. Il Tibet può aspettare. Se è una spina nel fianco imperiale della Cina, è una goccia nei marosi che assediano l’America.

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« Risposta #37 inserito:: Marzo 25, 2010, 11:02:30 am »

25/3/2010

Ma non sarà un bis francese
   
ENZO BETTIZA

Dalla Francia all’Italia non s’era ancora vista un’iperbole del genere. Era noto il tradizionale disinteresse giacobino dei francesi per il frazionamento e quindi per il voto regionalistico. Altrettanto nota la predisposizione degli italiani a considerare il voto regionale una specie di «optional», politicamente poco impegnativo, con cui, a prescindere dal partito del cuore, si poteva gratificare anche
l’avversario.

Avversario capace di gestire correttamente il bene provinciale: l’amministrazione dei municipi, la sanità, l’assistenza, il turismo, il tasso d’occupazione. L’Emilia perennemente rossa, ma benestante, era stata il prototipo di un voto trasversale che badava più ai fatti che all’ideologia. La storica tiepidezza in Francia, la calcolata neutralità in Italia, davano alle elezioni regionali in entrambi i paesi un diffuso timbro apolitico.

Questa volta invece, di qua e di là dalle Alpi, la gara per la conquista delle regioni ha assunto il carattere iperbolico di un’ordalìa plebiscitaria, a fortissima carica ideologica, pro o contro il leader carismatico al potere. Sarkozy è stato già condannato, in Francia, alla sconfitta se non alla disfatta, che ne mette ormai a rischio il ritorno all’Eliseo nel 2012. Non sappiamo né pretendiamo di anticipare, in termini numerici, quello che potrà accadere con Berlusconi tra domenica e lunedì. Possiamo tutt’al più ritenere che il premier italiano resisterà meglio del presidente francese all’urto plebiscitario; il pericolo vero per lui è la vittoria apparente, una vittoria di Pirro insidiata, più che dagli oppositori frontali, da alleati ambiziosi come Fini o ambigui come Bossi. Qui non sono più in gioco le Regioni. È in gioco, per così dire, il carapace biologico del Cavaliere in un referendum estremamente centrato, anche per volontà sua, sull’immagine personale, che non ha più nulla a che vedere con le finalità e i limiti gestionali di una consueta competizione provinciale.

Fino a che punto il risultato elettorale francese potrà riverberarsi su quello italiano? Non vedo, al di là della comune spinta referendaria, altre similitudini più concrete o probabili. L’affermazione delle tre sinistre parigine, in particolare quella socialista guidata da Martine Aubry, non credo riuscirà a influire in maniera diretta sul Pd, i cui tentativi di rilancio seguono logiche nazionali diverse dalle francesi. In Italia, dove da 20 anni s’ingorgano su se stessi sempre i medesimi vortici istituzionali, tutto appare oggi fermo e problematico sia per Berlusconi sia per Bersani. Per quanto stonata, la composizione del centrodestra italiano, grazie alla tenuta della Lega, unico partito autentico rimasto sulla scena, non potrà subire, in termini di percentuale, un tracollo paragonabile a quello subito in Francia dall’isolato e mutante Ump post-gollista: ovvero, dal fallimentare superattivismo di Sarkozy. Dire che lo hanno battuto i socialisti, riemersi dall’orrido 16% delle Europee, mi pare comunque esagerato se teniamo conto che metà dell’elettorato non è andata alle urne. La «sinistra solidale», non più «plurale», ha incassato una vittoria vistosa ma sostanzialmente passiva, dovuta in buona parte all’ondata astensionista e in parte alla riscossa anti-sarkozyana della destra estrema dei Le Pen (padre e figlia) che insieme hanno confiscato il 17%. In un’Italia generalmente parca con l’astensionismo, un esito del genere sarebbe difficilmente immaginabile.

Colpisce piuttosto, considerando in senso lato il quadro europeo, il più incredibile dei paradossi che oggi, anziché assimilare, distingue gli italiani dai francesi. L’Italia, sgovernata, sta assurdamente meglio nella sua rissosa impotenza della Francia fino a ieri supergovernata. Lo dicono dati e statistiche che hanno qualcosa di stravagante e quasi di misterioso. Il deficit di cassa francese in Europa sopravanza l’italiano, il tedesco e l’inglese. Il debito, per abitante, è superiore in Francia che nella Grecia sull’orlo del baratro. La disoccupazione, a livelli altissimi, sta creando una massa di poveri e disadattati che potrebbe provocare nuovi e indomabili incendi nelle banlieue multietniche. Si può capire che una situazione così esplosiva abbia finito con l’infliggere, di per sé, il disco rosso al Sarkozy demiurgo della «grande rottura» promessa nel 2007 e poi dimenticata negli anni successivi. Si capisce la durissima tendenza di un André Glucksmann che gli aveva dato il voto per l’Eliseo: «Il presidente non sa più cosa sta facendo, non sa più cosa fare, non sa più chi è».

Non si sa più, in definitiva, cosa sia peggio o meglio: sgovernare cronicamente o pretendere di governare troppo. Per carità di patria, una volta assodato ciò che in questi giorni avvicina l’Italia ai francesi e ciò che la separa da essi, sarà bene non spingerci più in là con i paragoni e con le previsioni.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 06, 2010, 11:03:02 am »

6/4/2010

Putin-Medvedev ha due teste l'enigma russo

ENZO BETTIZA

Alberto Ronchey aveva dedicato uno dei suoi ultimi editoriali sul Corriere della Sera al grande enigma del grandissimo Bicontinente che egli aveva amato e scavato, con pari intensità e competenza insuperata, durante una vita di viaggi e di studi in cui la «questione russa» occupava un posto d’onore. L’enigma in questione era ed è l'ambiguo contesto diarchico che la Russia, postsovietica da due decenni, esibisce al vertice del potere nelle persone di Vladimir Putin e Dmitri Medvedev.

Ronchey, sottilmente e cautamente, metteva a confronto i momenti in cui il liberaleggiante capo dello Stato, Medvedev, diceva una cosa con i momenti in cui l’autoritario capo del governo, Putin, ne diceva invece un’altra e contraria. Metteva altresì in evidenza i passaggi, più rari, in cui l’uno e l’altro sembravano dire la stessa cosa. La lunga esperienza del mondo aveva insegnato a Ronchey a diffidare dei giudizi perentori e definitivi. Egli chiudeva il suo articolo, misurato su osservazioni e dati millimetricamente esatti, con due domande implicite ma allusive. La diarchia, che guida la Federazione russa, è armoniosa nella strategia di fondo e disarmonica nella calcolata apparenza tattica? Oppure, col passare del tempo, con l’addensarsi dei problemi, la diarchia in quanto tale, sebbene programmata e varata da Putin, sarà comunque destinata a farsi per forza conflittuale? Insomma: le mosse divergenti e per ora indecifrabili dei due personaggi sono studiate a tavolino, o piuttosto sintomi di un dissidio fisiologico sempre meno latente?

La rincorsa dei fatti accaduti dalla fine di marzo ai giorni pre-pasquali (attentato nella metropolitana di Mosca, accordo telefonico tra Medvedev e Obama sul disarmo nucleare, incontro a Caracas tra Putin e Hugo Chávez) torna a metterci di colpo, sotto gli occhi, una sequela di contraddizioni «diarchiche» cui non è possibile dare un’interpretazione immediata e convincente. Più che spiegare i fatti, dovremo contentarci, per adesso, di analizzarne in breve i contrasti. Cosa prevede il clamoroso accordo concluso per telefono dai presidenti russo e americano? Essi, o chi per loro, dovranno firmare a Praga, l'8 aprile, un rinnovo del trattato Start sulla riduzione reciproca delle testate nucleari, portandole al limite di 1550 per gli arsenali tanto di Mosca quanto di Washington. Ma la vera sostanza politica, più che strategica, del nuovo compromesso tra le due superpotenze, dovrà o dovrebbe contenere un chiaro monito contro la proliferazione atomica che oggi ha il suo più allarmante trasgressore nell’Iran. Se l’uranio arricchito darà la bomba a Teheran sarà ben difficile arrestare l’ondata del nucleare bellico in tanti Paesi, non solo islamici, che ambiscono a impossessarsene. Medvedev dovrà o dovrebbe essere il garante russo dell’antiproliferazione garantita a sua volta, sul versante americano, da Obama.

Ma ecco la sorpresa che ha dell’inverosimile. Non molti giorni dopo l'attentato terroristico di Mosca, e pochissimi giorni prima della firma sul disarmo a Praga, vediamo il primo ministro Putin fare una mossa antiamericana in netto contrasto, per non dire netto disaccordo, con il clima di distensione favorito dal presidente Medvedev nei confronti dell’America mediante l'intesa telefonica con Obama. Putin approda come uno zio miliardario nella bollente capitale del dittatore Chávez. Qui stipula una trentina d’accordi privilegiati. Fonda una joint venture petrolifera, che assicurerà almeno sulla carta al Venezuela il 60 per cento degli utili ricavati, con l’aiuto di Gazprom e affini, dalla produzione di 450 mila barili giornalieri di greggio provenienti dal ricchissimo bacino dell’Orinoco. Se Chávez, unico capo di Stato al fianco di Mosca nel 2008 contro la Georgia, sembra aspirare alla successione ideologica ed emblematica di Castro, il suo amico Putin dà in questi giorni l’impressione di ripercorre le orme filocastriste di Kruscev nel temibile 1962. La frase più sintomatica, che non si ritrova nei documenti ufficiali, l’ha pronunciata Chávez nella conferenza stampa celebrativa dell'incontro: «Non faremo la bomba atomica, ma svilupperemo con l’ausilio di Mosca l’energia nucleare per fini pacifici». Parole che paiono tratte dal lessico capovolto del presidente iraniano Ahmadinejad, sodale antiamericano di Chávez, dove il «non faremo» e i «fini pacifici» significano l'esatto opposto. Così, via Chávez, Putin si congiunge incomprensibilmente, dopo l'attentato di Mosca, perfino ad Ahmadinejad prossimo alla bomba e non certo ostile ai martiri di matrice islamista.

Da che parte sta intanto Medvedev? E’ una colomba di carta oppure una tigre occulta anche lui? A questo punto, ammesso che Putin lo lasci andare a Praga, come potrà spiegare o giustificare i ribaltoni della politica russa al cospetto del candido e utopico Barack Obama?

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Aprile 11, 2010, 11:17:00 am »

11/4/2010

La maledizione di Katyn

ENZO BETTIZA

Secondo Lech Walesa questa tragedia equivale a una «seconda Katyn», una «seconda decapitazione», un «secondo annientamento delle élite polacche». Si potrebbe anche aggiungere che equivalga all’ennesima maledizione che l’antica e nobile nazione slava ha continuato a subire fin dal 1772, l’anno della prima spartizione fra Russia, Prussia e Austria. I tentativi, compiuti dai potenti vicini, di eliminare la Polonia dalla faccia dell’Europa sono stati permanenti e spesso atroci per oltre due secoli. La verità sull’eccidio perpetrato dai russi nel 1940, di cui le fosche foreste di Katyn sono diventate il simbolo estremo, è riemersa in un’eco esponenziale da un ambiguo silenzio attraverso il cortocircuito tra due fatti accaduti, questa settimana, l’uno dopo l’altro.

Giovedì: l’incontro clamoroso a Katyn fra il primo ministro Putin e quello polacco Tusk, in cui abbiamo visto l’erede dei carnefici e l’erede delle vittime rendere omaggio, insieme, alla memoria di ventiduemila polacchi trucidati soltanto perché polacchi. Sabato: il funesto disastro aereo che nei pressi di Katyn uccide il presidente polacco, Lech Kaczynski, insieme con la moglie e un seguito di 94 personaggi di forte rilievo, ministri, economisti, militari, prelati, figli e nipoti delle vittime. Insomma il bulbo o quasi dell’attuale classe dirigente di Varsavia. Ha detto il fondatore di Solidarnosc ed ex presidente Walesa: «Una pesante perdita per la nazione: è morta ancora una volta la sua élite». Ed è morta fatalmente, come in un magico paradigma d’eterno ritorno, nella stessa provincia russa in cui fu sterminata la prima.

Non a caso a Varsavia, a prescindere dal giudizio ideologico sui deceduti, l’impatto della sciagura sta provocando sulle masse una commozione viscerale profonda, da catastrofe nazionale, con assembramenti carichi di tensione psicologica attonita e nervosa. Appaiono qua e là cartelli segnati da un paragone disperato: «Katyn 1940 - Katyn 2010». Se dalle due tragedie polacche, dalla passata e dalla presente, si può trarre una qualche consolazione, essa soprattutto risiede nel fatto che il nome e la verità di Katin, di cui le ultime generazioni europee non sapevano nulla, stanno facendo in queste ore il giro del mondo. Su uno dei più malefici crimini del Grande Terrore dell’era staliniana, negato e mistificato per mezzo secolo dai russi, addossato alle truppe tedesche, rimosso ostinatamente dalle sinistre europee, il mondo e in particolare i giovani ignari non possono più chiudere gli occhi.

Fino alla caduta del comunismo, i sovietici avevano tentato di confondere le carte asserendo che il massacro era stato consumato dai nazisti in una località bielorussa chiamata Hatyn pressoché omonima di Katyn. No. Adesso, più che mai, anche quelli che non volevano sapere sanno che di Katyn ce n’è una sola. Su un piano strettamente politico, meno fatalistico ed emotivo, restano però in piedi alcune domande cui non si può fare a meno di tentare una prima risposta. Perché mai, per la commemorazione in territorio russo di un evento così grave, coinvolgente la memoria collettiva di un popolo perseguitato dalla storia, è stata presa a Varsavia la strana decisione di inviare sul luogo due separate delegazioni ufficiali e non una sola? Perché, in una circostanza storica così incisiva e dolente per la Polonia, il capo dello Stato e il capo del governo, con i rispettivi seguiti, non sono partiti insieme alla volta di Smolensk e di Katyn? Oppure, perché si sono incontrati per primi i capi dei due esecutivi, Tusk e Putin, e non i due presidenti Kaczynski e Medvedev? Le risposte che si possono dare sono multiple e tutt’altro che semplici.

Anzitutto, chi era il defunto Kaczynski? A suo tempo sindaco popolare di Varsavia, anticomunista di ferro, filoamericano profondamente ostile ai russi, gemello dell’ex primo ministro Jaroslaw, leader del partito populista di destra Diritto e Giustizia, egli non amava né il conservatore pragmatico Tusk né tanto meno il gelido «uomo della forza» Putin. Essi, a loro volta, non lo amavano per niente. La Piattaforma Civica di Donald Tusk, movimento di destra moderata, era, è e sarà nelle prossime anticipate elezioni presidenziali il principale rivale del partito estremista di Jaroslaw Kaczynski. È possibile che questi, assomigliando fra l’altro come un clone da laboratorio al defunto gemello, ponga la propria candidatura di successore biologico nonché ideologico alla suprema carica. Si sa, d’altronde, che alla destra più nazionalista non è mai andato a genio il pragmatismo con cui Tusk persegue una normalizzazione realistica nei rapporti con la Russia; molti, forse lo stesso presidente perito nel disastro, ne hanno criticato il cauto comportamento di giovedì a Katyn, al fianco di un Putin che non chiedeva perdono alla Polonia e metteva sullo stesso piano le vittime polacche e russe di Stalin.

Si sa anche che i russi, in particolare Putin che non desiderava incontrare Lech Kaczynski, avevano posto diversi ostacoli diplomatici alla sua richiesta di recarsi a Katyn, in quanto capo di Stato polacco. Alla fine avrebbero dato l’assenso a una visita separata e posteriore a quella del premier Tusk. Per fatalità il ritardo, causando la decimazione dell’establishment al potere in Polonia, ha sùbito rievocato fra i polacchi lo spettro quasi di un secondo genocidio d’élite. Putin ha fiutato i rischi, anche internazionali, di una situazione incandescente, ed è per questo probabilmente che ha voluto assumere la guida in persona della commissione d’inchiesta sulla sciagura. Cercherà ora di coronare il ruolo e l’immagine del pompiere rincontrando, sempre a Smolensk, l’omologo Tusk.

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« Risposta #40 inserito:: Aprile 26, 2010, 11:34:38 am »

Il personaggio - «Considerati a lungo dei buzzurri, ora sono un partito serio»

Lo scrittore: Bossi ha un grandissimo fiuto politico, il suo carisma si è molto rafforzato dopo la malattia

E Bettiza confessò: voto Lega L’eredità asburgica è sua


«Se sogno la mia balia Mare, sogno in serbocroato. Se sogno le Poljakove, madre e figlia, che mi ospitarono a Mosca quando Giulio De Benedetti mi licenziò dalla Stampa e mi tolse casa, sogno in russo. Se sogno Simone Veil, cui fui molto vicino all’Europarlamento, sogno in francese. Ma se sogno mio padre, sogno in dialetto veneto».

Enzo Bettiza ricorre a una metafora onirica per confidare al Corriere una cosa che non aveva mai detto: il giornalista più raffinato d’Italia, lo scrittore mitteleuropeo, vota Lega. La Lega di Bossi, con il Carroccio, Alberto da Giussano, lo spadone e tutto. «Ma Pontida è un mito immaginario, come i druidi, i celti e le bevute dell’acqua del Po. La Lega non è figlia della battaglia di Legnano, condotta dai lombardi contro un imperatore germanico. Al contrario: la Lega discende dal Lombardo-Veneto asburgico. Gli antenati di Bossi sono Maria Teresa, Giuseppe II, il lato umano di Radetzky. Il suo antecedente è la buona amministrazione austriaca».

«So che la Lega è stata considerata a lungo buzzurra e folkloristica. E in parte lo era, per necessità politica, per distanziarsi in maniera popolaresca e dialettale dal Sud, per marcare un’identità culturale e antropologica che, spinta all’iperbole, diventava differenziazione etnica. Ma eravamo ai primordi: Roma ladrona, la secessione, il separatismo. Una strada percorsa da altri gruppi regionali in Europa: baschi, catalani, irlandesi, prima ancora i sudtirolesi e anche i bavaresi, che si ritengono uno Stato nello Stato, come il Texas negli Usa. È in questa fase rozza, romantica, pittoresca che la Lega si balocca con riti inventati, zodiacali. Ora la Lega è un partito serio, solidificato. La sua grande forza è la correttezza amministrativa, la cura del Rathaus, il Comune. Detesto la parola "territorio", mi fa venire in mente la mafia. Non esistono partiti territoriali né partiti cosmici. Ora la Lega si insedia a Bologna, penetra negli Appennini, schiera in Toscana un’avanguardia che evoca il Granducato. È un partito nazionale, costruito su grandi temi come l’immigrazione e la difesa delle tasse lombarde, venete, piemontesi. Non a caso i duemigliori ministri sono Maroni, uomo della Lega, e Tremonti, che alla Lega è molto vicino. E presto nascerà anche la Lega del Sud».

Dice Bettiza di non essere spaventato dal rischio di una disgregazione del paese. «L’Italia era abituata a essere divisa. Una splendida divisione, da cui viene la sua grandezza. Ducati, comuni, persino un impero: Venezia era la Gran Bretagna del Mediterraneo. Se Mantova non fosse stata una capitale non avremmo Mantegna e la Camera degli Sposi, se non lo fosse stata Ferrara non ci sarebbe il Palazzo dei Diamanti».

«Il carisma di Bossi, sempre esistito per il suo popolo, si è molto rafforzato dopo la malattia. Ha assunto una ruvidezza un po’ immobile e statuaria, una loquela condensata e tagliata che fa delle sue apparizioni in pubblico un’icona popolare (Bettiza dice ìcona, con l’accento sulla “i”, alla greca). Non farà il sindaco di Milano, perché non ha la salute né l’interesse a sobbarcarsi il lavoro e le arrabbiature di un sindaco. Il piccolo de Gaulle popolaresco padano che diventa podestà: no, non lo vedo. Bossi ha un grandissimo fiuto politico. Sa bene dove va il boccino e fin dove lo può spingere. Non è certo lui che aizza Berlusconi, anzi, quando lui esagera con la sua attitudine megalomanica è Bossi a tirarlo per la manica, a esercitare una pressione sedativa. È evidente che il dopo- Cavaliere è la Lega».

Come finirà Berlusconi? «Berlusconi durerà. Non so se realizzerà il sogno di salire al Quirinale eletto dal popolo. Ma durerà, perché non c’è nessuno nel partito pronto a sostituirlo. Non vedo elezioni anticipate: tutti hanno paura, molti anche di perdere l’indennità. Non vedo grandi prospettive neppure per Fini, uomo di partito rimasto senza partito: resterà nel Pdl solo perché non ne ha un altro. Al centro non nascerà il "partito della nazione", ma un partitino cattolico con Casini, Rutelli e Pisanu, satellite ora del Pdl, in futuro della Lega che tanto contesta». E la sinistra? «Il vero leader, D’Alema, è offuscato. Vendola è fenomeno folkloristico e provinciale. Bersani mi pare all’ultimo giro. Rappresenta lo stadio finale del comunismo emiliano; e, come nota da vecchio animale comunista Giuliano Ferrara, nel Pci mai si sarebbero sognati di affidare la leadership agli emiliani. Bravi sindaci, generosi cassieri; ma i capi del Pci dovevano essere nati nel Regno di Sardegna, o nelle grandi famiglie liberali napoletane. La sinistra paga l’errore mortale di aver dato la caccia a un grande uomo di sinistra come Bettino Craxi. Berlusconi è la nemesi storica di Craxi». Che cos’hanno in comune? «Entrambi hanno fatto crescere alla loro ombra molti uomini da nulla, che a Craxi sono stati fatali. Berlusconi si è salvato perché ha armi che Craxi non aveva. Ha impresso una svolta storica a un’Italia terrorizzata da Mani Pulite; ma l’ha impressa con metodi stravaganti per un paese sottilmente articolato sul piano politico. Il suo carisma sta nel suo stile depoliticizzato: è quel che piace alla gente, ma è anche il suo limite. Le élites lo detestano, i radical-chic vedono in lui un radical-kitsch; ma è proprio per il kitsch, per il suo coté brianzolo, che l’Italia del week-end fuori porta si riconosce in lui».

Bettiza ha una vicenda in comune con Berlusconi, che nel dicembre 1996 gli offrì la direzione del Giornale: rifiutata. Perché? «Ho conosciuto Berlusconi negli anni in cui salvò il Giornale abbandonato da Cefis e da Petrilli. Aveva un’adorazione speciale per Montanelli e molta simpatia per me, una volta in tv raccontò di indossare un impermeabile copiato dai miei. Come uomo d’affari era di un dinamismo eccezionale, e non individuava mai con chiarezza i limiti tra dire il vero e il non vero: come adesso, quando dice che venderà il Giornale, mentre non ci pensa neppure. Quando mi offrì la direzione, per prima cosa mi consultai con Montanelli: avevamo appena fatto la pace dopo che non ci eravamo parlati per tredici anni, non volevo perderlo di nuovo. Indro mi consigliò di accettare. Con Berlusconi ne parlammo in una cena ad Arcore. C’erano Letta, Confalonieri, Massari che era l’amministratore, Biazzi Vergani e Belpietro, che avrebbe dovuto essere il mio condirettore o vicedirettore, a garanzia del lato popolaresco e digrignante: dopo l’innegabile successo della direzione Feltri, c’era il timore che io facessi un giornale troppo elitario. Proposi di far scrivere il primo fondo a Montanelli. Letta disse subito di sì.
Berlusconi rimase in silenzio, ma il suo istinto di venditore ambulante lo induceva ad accettare, per pure ragioni pubblicitarie. Tutti gli altri si opposero».

«Il giorno dopo ci vedemmo a pranzo con Belpietro da Savini. Gli esposi il mio programma, a cominciare dal ritorno di Francesco Damato e di François Fejto, che aveva portato al Giornale l’intellighentsia liberale parigina: Aron, Ionesco, Morin, Furet. Belpietro mi interruppe, spiegandomi che lui non sarebbe stato il mio vice ma direttore come me, sia pure non responsabile. A me le querele, a lui il potere, per conto di Berlusconi. Ovviamente, rinunciai. Il Cavaliere telefonò per rilanciare; e offriva davvero un sacco di soldi. Ma con Montanelli e Piovene avevo cofondato il Giornale nell’alveo del Mondo di Pannunzio e di Tempo presente di Chiaromonte. Non avrei mai potuto fare un foglio sotto padrone».

Aldo Cazzullo
26 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it
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« Risposta #41 inserito:: Giugno 02, 2010, 04:38:58 pm »

2/6/2010

La Turchia più lontana dall'Europa
   
ENZO BETTIZA

Non v’è dubbio che la flottiglia che puntava su Gaza era qualcosa di più d’una semplice spedizione destinata a portare soccorso umanitario ai civili palestinesi che vivono, in condizioni spesso disperate, nella soffocante striscia invasa e colpita dagli israeliani nel 2008. I pacifisti erano in realtà attivisti filopalestinesi, legati per tanti fili all’organizzazione terroristica di Hamas. Lo scopo vero della loro traversata era dichiaratamente provocatorio: forzare l’embargo e il severo blocco marittimo imposto da Israele lungo la striscia per ostacolare l’arrivo clandestino di armi e materiali balistici ai guerriglieri locali, sostenuti soprattutto dalla Siria e dall’Iran.

Non v’è dubbio, altresì, che la reazione delle forze navali israeliane è stata eccessiva, nevrastenica, mal guidata e mal controllata. La frettolosità tecnica con cui l’hanno eseguita ha provocato un eccidio di grave danno per l’immagine di Gerusalemme già logorata nel mondo.

In sostanza, le forze speciali d’Israele hanno risposto maldestramente alla provocazione, causando un disastro di proporzioni umane e politiche che daranno facile gioco propagandistico ai pacifici alleati di Teheran, di Hamas, di Hezbollah. Al tutto si aggiunge l’isolamento del governo di Netanyahu dall’amministrazione Obama e dai Paesi dell’Unione europea, in particola-re mediterranei, lambiti dal caos alle porte di casa.

Ma al centro della situazione, estremamente complessa dopo la catastrofe, non si trovano soltanto le mosse difensive intemperanti e sbagliate di un combattivo governo di destra israeliano. Al centro direi storico, più che contingentemente politico, si trova la Turchia, il più cospicuo e potente Paese islamico del Medio Oriente. La flottiglia degli attivisti era salpata in gran parte dalle coste turche e da Cipro. Era stata progettata e finanziata principalmente dall’Ong turca «Ihh», organizzazione radicale islamica fondata nel 1992 e legata al network dei Fratelli musulmani. La nave ammiraglia della spedizione, Mavi Marmara, batteva bandiera turca, erano turchi molte centinaia di attivisti, infine erano turche tutte o quasi le nove vittime uccise dalle truppe speciali israeliane.

Si è quindi detto che è scoppiato un esordio di guerra tra Israele e la Turchia dopo circa sessant’anni d’alleanza sul piano economico, politico e perfino militare. Ma, in realtà, non è stato un esordio. E’ stato piuttosto il culmine più visibile e più clamoroso, ancorché indiretto, di una parabola da tempo negativa nei rapporti generali di Ankara, non solo col vicino Stato israeliano, ma con l’Occidente nel suo complesso. Dallo scontro letale nelle acque internazionali intorno a Gaza s’è visto emergere e prendere quasi corpo uno spostamento massiccio, un rivolgimento geopolitico, un novum pericoloso perché dilagante in uno degli scacchieri più infiammabili del globo. In definitiva stiamo assistendo al distacco dal mondo atlantico di un Paese forte e vitale di 80 milioni che costituì, per decenni, il baluardo orientale della Nato con un esercito ritenuto secondo soltanto a quello americano.

La lenta metamorfosi e il ritorno all’islam della nazione turca, tecnicamente europeizzata e laicizzata da Kemal Ataturk dopo la Grande Guerra, sono iniziati nel 1989 con il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda. Lo scioglimento dei blocchi contrapposti hanno dato inattese e insieme ancestrali prospettive alla penetrazione egemonica di Ankara nel Caucaso, nell’Azerbaigian, nelle ex repubbliche islamiche dell’Urss. Il riavvicinamento alla Siria e i legami prima cauti, quindi palesi con l’Iran, hanno poi completato questa specie di anabasi psicologica, politica e religiosa dall’europeizzazione incompiuta alle ataviche radici dell’Asia. Il gioco si è fatto più stretto, anche se cauto e sommerso, con l’arrivo al potere nel 2002 del partito islamico moderato Akp (targato «Giustizia e Sviluppo») guidato dall’abile e arrogante Recep Tayyip Erdogan e dal suo sodale Abdullah Gül, rispettivamente capi in carica del governo e dello Stato.

Erdogan ha subito avviato una lunga e difficile trattativa per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea che gli americani, più di tanti europei, vedevano di buon occhio e favorivano come vincolo di continuità con la Nato. Ma qui iniziava un baratto quasi contabile e assai ambiguo fra il dare e l’avere. Non si capiva bene dove Erdogan e il suo partito volessero portare la Turchia pseudomoderna. Mentre le masse anatoliche, spesso fanatizzate, davano ascolto alle sirene anche fondamentaliste, il machiavellico Erdogan concedeva a Bruxelles alcuni punti e molte promesse sulle questioni dei diritti civili in contrasto con la tradizione nazionale e nazionalista: abolizione della pena di morte, sospensione del reato d’adulterio, mano ammorbidita nei confronti dei curdi, mano tesa ai cristiani armeni memori del genocidio.

L’impressione era che Erdogan e Gül, che esibivano in pubblico le loro mogli rigorosamente velate, più che desiderare l’avvicinamento all’Europa usassero l’Europa per stroncare, mediante clausole ed esigenze europee, l’incombenza dello storico potere parallelo kemalista presente fin dagli Anni Venti nelle istituzioni e nella società turche. Commissari e deputati di Bruxelles, spesso strabici esportatori di eccessivo democratismo moralistico, erano portati a scorgere soltanto una casta di golpisti nei militari e nei magistrati che nel 1960, 1971, 1980 avevano interrotto con colpi di Stato confuse e insidiose derive parlamentari istituendo governi militari di durata sempre breve e transeunte. Per Erdogan era indispensabile colpire e dimezzare con pugno di ferro il loro ruolo di garanti e custodi del lascito laico di Kemal per capovolgere e riasiatizzare, in parte, una Turchia ricollocata magari in prima fila tra i Paesi islamici della regione. Egli ha usato sovente con astuzia le regole europee per emasculare l’europeismo dalla giunta secolare. Non a caso ha fatto arrestare il 22 febbraio oltre 40 esponenti militari, fra cui 14 di altissimo rango.

A questo punto Erdogan non ha potuto che schierarsi dalla parte degli attivisti imbarcati sull’ammiraglia pacifista che esibiva soltanto due bandiere, la turca e la palestinese, condannando duramente l’attacco israeliano come «atto di pirateria» e come «terrorismo di Stato». Sarà Ankara a ricorrere per prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu per mettere una volta di più al bando dell’ordine internazionale le azioni di Israele. Ma il vero dramma della storia in atto va ben al di là della fine del tradizionale rapporto d’amicizia tra Ankara e Gerusalemme. La verità è che siamo in presenza della più profonda crisi nelle relazioni, un tempo solide e proficue, della Turchia con l’Occidente in quanto tale. Una Turchia riallineata con forza, e perfino con pulsioni egemoniche panislamiche, ai più militanti Paesi musulmani arabi e non arabi.

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« Risposta #42 inserito:: Giugno 27, 2010, 10:51:56 pm »

24/6/2010

L'Europa e il mito del riscatto

ENZO BETTIZA

Paolo Mastrolilli, commentando le sconfitte europee di Johannesburg, ha scritto efficacemente: vediamo una popolazione che «non cresce, non crea, non rischia», ma si riversa però in massa negli stadi veri o televisivi, come se il culto gladatorio del pallone potesse sostituire la vitalità in declino del Vecchio Continente.

Insomma, per noi, nemmeno il culto sostitutivo e visionario di calcistiche battaglie mondiali funziona più. Non fa che restituire dall’Africa a quattro grandi nazioni europee - Francia, Inghilterra, Germania, Italia in coda - la verità e l’immagine della loro improvvisa fragilità nello sport più popolare, lo sport assoluto per antonomasia, in cui fino a poco tempo fa eccellevano quasi alla pari con predominanti plotoni dell’America Latina.
Era con le vittorie negli stadi che francesi, inglesi, tedeschi, italiani riuscivano in qualche modo a compensare, almeno artificialmente, il calo del loro reale peso politico, economico, militare e culturale negli affari internazionali. Eccoci al punto. Al mito del calcio come elemento di riscatto simbolico, di recupero del perduto predominio nella storia per mezzo di guerre immaginarie, guidate per procura da comandanti in doppiopetto duri, grintosi, alla testa d’una dozzina di soldati in maglietta sostenuti da eserciti di tifosi con trombe, bandiere, talora armi improprie e striscioni inneggianti allo sterminio del nemico organizzato, per parte sua, con identici strumenti di combattimento mimetici ed emblematici. È su questo piano astorico, simile a una playstation abnorme, tutta immagine, tutta compensazione psicologica, alimentata dal tifo globalizzato come ultimo «oppio dei popoli», incrementata da un mastodontico e spesso scandaloso giro d’affari, che gli ex grandi occidentali d’Europa stanno perdendo la faccia e uno spicchio della Coppa del Mondo. Strapperà forse un tardivo pezzetto di gloria, nonostante le esclusioni finali, soltanto l’Europa minore degli sloveni, dei serbi, degli slovacchi.

Ma il vero crollo europeo si è identificato, purtroppo, nel vergognoso crollo della Francia, vicecampione mondiale, uscita come un paria per la porta di servizio del maggiore evento atletico dell’anno. Essere francesi e venire battuti sia pure sul piano della mimesi militare, della recita bellica inscenata su pochi metri quadrati di prato, non poteva non apparire a Parigi e addirittura all’Eliseo come un vero e proprio disastro nazionale. Osservatori d’alta classe intellettuale, non specializzati in cronache sportive, come lo storico Gallo biografo di Napoleone, hanno evocato la Beresina e perfino Waterloo. Si è gridato allo smacco dell’antipatico Domenech, agli insulti scagliati dal ribelle Anelka contro Domenech, all’ammutinamento della squadra in sciopero, alla diserzione nel pieno dei combattimenti. In realtà la compagnia multinazionale dei giocatori francesi, quasi una copia in sedicesimo della legione straniera, più che da quello nemico è stata duramente colpita dal fuoco amico: non una guerra frontale perduta, piuttosto una suicidaria guerra civile in miniatura. Il filosofo Finkielkraut ha bollato il gruppo francese come un’accolita di «teppisti», di «huligani», di «mascalzoni arricchiti». Non si vedeva da decenni un rovescio sportivo, per quanto increscioso e incredibile, paragonato a una calamità della storia nazionale.

Al confronto, le trame politiche che si sono mescolate ai modesti risultati in Sudafrica della nazionale italiana, appaiono non solo minori ma ridicole o tutt’al più bizzarre. Bossi poteva risparmiarsela la battuta sull’«Italia di Lippi che si comprerà la partita con la Slovacchia». Avrebbe potuto ripetere, senza spingersi in là, l’uscita per metà velenosa e per metà giusta del leghista Calderoli sugli azzurri, colpevoli d’incassare «stipendi troppo alti» e offensivi in tempi in cui troppi pensionati non raggiungono i mille euro mensili. Speriamo che i virtuali calciatori padani, se avranno un giorno una loro squadra super-regionale, terranno i cordoni della borsa dimostrativamente più stretti.

Un’ultima considerazione pittoresca, umanamente calorosa, l’ho potuta cogliere una di queste sere al piccolo cenacolo che l’amico Ottavio Missoni, uomo colto e a suo tempo notevolissimo atleta olimpico, usa radunare a metà settimana all’antico ristorante milanese Boecc. Sedeva al tavolo rotondo un interessante gruppo di tifosi moderati, un giurista ed ex ministro, un sociologo, un critico d’arte, un pittore, un sondaggista, un manager sportivo, tutti comunque molto più informati di me (non faccio nomi per discrezione e per non escludere, involontariamente, qualcuno dei convenuti). Non sono mancate le critiche sulla fiacchezza dei Mondiali in corso. Ma il punto di luce, che ha dominato e illuminato la serata, è stato il miracolo Maradona, il «pibe de oro» che ne sta lanciando un altro (Messi, come dire il Dio risorto e il suo Messia venturo) nell’empireo dei calciatori sudamericani. Missoni ha riassunto, così, il senso delle convergenti opinioni sul Maradona rinato nello stadio di Johannesburg: «Dalla morte alla resurrezione, dalla resurrezione all’ascensione».

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« Risposta #43 inserito:: Luglio 03, 2010, 04:28:24 pm »

3/7/2010

   Polonia al voto per rinascere

ENZO BETTIZA

Il primo round del 20 giugno delle presidenziali in Polonia è stato vinto per cinque punti risicati da Bronislaw Komorowski, l’aristocratico presidente della camera bassa del parlamento, candidato del partito moderato Piattaforma Civica, il cui vero leader è il pragmatico primo ministro Donald Tusk. Il rivale, l’ultraconservatore Jaroslaw Kaczynski, già capo del governo e fratello gemello del presidente della Repubblica perito nel tragico incidente aereo nei pressi di Katyn, ha ottenuto dalle urne un consenso personale più alto di quello che la maggioranza degli osservatori s’aspettavano. Katyn, cuore di tenebra pulsante da tre generazioni nei visceri della storia polacca, ha sicuramente influenzato tanti elettori che, in un contesto psicologico ulcerato dal ripetersi della maledizione, hanno finito col dare al loro voto uno sbocco emotivo più che ragionato.

L’immagine del gemello sopravvissuto è stata sostenuta ed elettoralmente alimentata dal ricordo del gemello caduto con la moglie e il seguito, in una sorta di fatale sacrificio collettivo, quasi a ridosso delle fosse dell’indimenticabile eccidio perpetrato nel 1940 dagli organi sovietici su ordine di Stalin. Il ballottaggio di domani, 4 luglio, di uno scrutinio drammaticamente anticipato dalla sventura, per non dire dal sortilegio, deciderà non solo della persona che occuperà il palazzo della vacante presidenza di Varsavia. Deciderà, almeno in parte, anche dei futuri orientamenti della più importante nazione emersa dai cambi di regime dei Paesi una volta colonizzati dall’Urss. E’ un’elezione che in definitiva tocca e interessa da vicino, sul piano politico oltreché economico, tutta l’Europa unita nella crisi e nello sforzo di superarla. Negli ultimi tempi sono avvenuti molti mutamenti, degni di nota, in quello che chiamerei il Centro europeo onde evitare l’ormai anacronistica e svalutativa definizione «Est» che ricorda muri, spie, prigioni, forche, deportazioni e invasioni militari.

Questo mobilissimo Centro del continente (Praga è più a Ovest di Vienna) è oggi percorso da un’ondata di novità, di metabolismi profondi del personale dirigente in politica, in economia, nelle istituzioni culturali; in molte capitali, scosse da sismi elettorali, vediamo salire ai posti di comando degli outsider, mentre vengono allontanati e puniti i candidati corrotti e incompetenti. In particolare gli elettori delle classi medie in ascesa paiono decisi a combattere l’apatia politica e a liberarsi dei troppi politicanti che, dopo la caduta del Muro, avevano dato grama vita a governi confusionari, rissosi e dispendiosi. La grande questione che ora si pone alla nazione polacca, la più cospicua per numero di abitanti e ambizioni legittime ma tuttora virtuali in seno all’Unione Europea, è di riuscire a sincronizzare il proprio passo con quello dei vicini che riemergono, rinnovandosi una seconda volta, da un medesimo passato di sciagure e frustrazioni storiche. La Polonia ha continuato a sopravvivere per anni nel labirinto di contrasti paradossali.

Da un lato l’impeto libertario, antitotalitario, venato di religiosità non bigotta, dei sindacalisti e degli intellettuali di Solidarnosc i quali, finito il comunismo, hanno favorito la nascita e la crescita di una classe media colta, laicizzante, abile negli affari, ancorché non apprezzata del tutto su scala internazionale. Ma dall’altro lato, purtroppo, la palla al piede di governi illiberali, inefficienti, ipernazionalisti, antieuropei, al limite reazionari e oscurantisti, dove un indiscriminato anticomunismo postumo si confondeva con venature di antisemitismo indigeno: in altre parole, malgoverni che dovevano raggiungere il colmo dell’assurdo e del ridicolo proprio nella gemellocrazia dei gemelli Kaczynski, l’uno clone dell’altro, al punto che non si riusciva a distinguere somaticamente il capo dello Stato Lech dal capo del governo Jaroslaw. Fu il punto più stravagante, per non dire più basso, toccato dalla Polonia postcomunista. Se il candidato Komorowski, guidato dall’equilibrato e cauto premier Tusk, uscirà vincente anche dal ballottaggio, l’Europa e la Polonia europeista trarranno senz’altro un respiro di sollievo.

Il Paese potrà avviare sia pure in ritardo le riforme sempre ostacolate o frenate dal defunto presidente: taglio alla demagogica spesa pubblica, snellimento dell’intasato mercato del lavoro, sfoltimento di una burocrazia asfissiante e onnipervasiva. In politica estera migliori rapporti con Bruxelles, con Berlino e, soprattutto, con Mosca. Ma se dovesse farcela il sopravvissuto gemello Kaczynski, con un risultato a sorpresa, Varsavia, già declassata dalla Banca Mondiale al 72° posto nell’affidabilità commerciale, potrebbe ritrovarsi per altri cinque anni incagliata in uno stallo pericoloso. Il vero rischio di domani sarà nell’affluenza alle urne. Jaroslaw Kaczynski otterrà di sicuro il voto populista dei vecchi, dei poveri e dei contadini che non si muovono da casa. Più rarefatte potrebbero risultare invece le schede dell’abbiente classe media, sostenitrice di Bronislaw Komorowski, ma sparpagliata in vacanza fra mari e monti. Gli imprevisti numerici della democrazia vanno messi nel conto ancora aperto fino a domani sera.

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« Risposta #44 inserito:: Luglio 08, 2010, 11:27:17 pm »

6/7/2010

Ora la Polonia aspetta il voto della Chiesa
   
ENZO BETTIZA

Il risicatissimo risultato emerso nelle prime ore del mattino dalle urne, che porterà al vertice della repubblica con uno stentato 52 percento il liberale Bronislaw Komorowski, sarà, nonostante tutto, rassicurante per l'Europa la quale nel 2011 vedrà la Polonia alla presidenza di turno dell'Unione. Sarà invece meno rassicurante e più insidioso per la Polonia in quanto tale.

Inutile fasciarsi gli occhi per non scorgere, fra una luce ancora scarsa, le ombre di un esito che sottolinea la spaccatura emotiva del Paese e non pone una fine chiara, netta, auspicata dallo stesso Komorowski, della «guerra polacco-polacca».

La sua è stata sotto ogni aspetto una vittoria promettente. Una vittoria, fra l'altro, del partito governativo Piattaforma civica, che rilegittima e dà una copertura all'esecutivo moderato e riformatore di Donald Tusk, già ostacolato dai veti del defunto presidente Kaczynski che, con ogni probabilità, si sarebbero ripetuti a scatto omozigotico se il gemello, Jaroslaw, fosse riuscito a mantenere il sottile vantaggio strappato nel cuore della notte.

Ma è pur sempre, e purtroppo, una vittoria che evoca Pirro. Jaroslaw Kaczynski non è stato sconfitto. E' stato superato sul filo di lana per due punti, incerti fino all'ultimo. Così ha conservato e forse rafforzato, col suo quoziente altissimo, l'immagine di un combattente coriaceo mediata anche dal fatto di somigliare in tutto, nel volto, nel gesto, nella parola sciolta e popolaresca al gemello perito in aprile nel fosco cielo di Katyn. Alla moltitudine degli elettori più rustici, legati alla terra, ai miti della Polonia nazionalcattolica, assuefatti a votare la coppia dei gemelli, s'è aggiunto anche il voto di elettori travolti dall'emozione dopo la sciagura di Katyn: ai loro occhi il Kaczynski vivo è apparso, al tempo stesso, quasi la reincarnazione parlante del Kaczynski morto e sepolto tra gli eroi nazionali della cattedrale di Wavel.

Un simile schieramento, alimentato dalla ferita storica che l'infausto nome di Katyn, dal massacro del 1940 a tutt'oggi, continua a tenere aperta nel corpo della Polonia, non poteva che favorire la rimonta del rivale di un candidato asciutto e privo di carisma piazzaiolo come Komorowski. Si dirà che il rivale aveva ammorbidito durante la campagna elettorale i toni solitamente aggressivi, eurofobici, ipernazionalisti; si aggiungerà che aveva cercato di rincorrere o neutralizzare, con allusioni progressiste, il voto della sinistra raccolta sotto le bandiere del partito postcomunista di Grzegorz Napieralski. Ma, a scrutinio ancora caldo, il gemello sopravvissuto ha fatto subito capire di considerare Komorowsi un vincitore effimero e se stesso un perdente solo temporaneo. Ha tirato fuori la grinta e, accennando alle elezioni politiche del prossimo anno, ha citato un personaggio leggendario, il maresciallo e padre della patria Jozef Pilsudski: «Essere sconfitti ma non cedere: questa è la vittoria».

La citazione, per quanto demagogica, al limite banale, non appare tuttavia basata sul vuoto, in un Paese di tormentata identità nazionale che oggi ci rivela due anime più che mai in contrasto. Jaroslaw Kaczynski sa di avere dietro di sé metà dell'elettorato polacco, sa come toccare le corde più ancestrali e misoneistiche del proprio popolo, sa di poter usufruire la lubrificata macchina organizzativa del partito di famiglia Legge e Giustizia. Ma sa, soprattutto, di poter contare sui settori fondamentalisti della Chiesa, radunati intorno a Radio Marija, un'istituzione propagandistica xenofoba, specializzata nella caccia alle streghe, un'arma d'appoggio influentissima nella lotta politica che non ha eguali in altre nazioni cattoliche.

Qui, veniamo al punto più delicato di una situazione per tanti aspetti enigmatica e indecifrabile. Da quale parte sta veramente la Chiesa, in un Paese monoreligioso come la Polonia, dove essa costituisce, anche sul piano politico e storico, l'unico potere costante che si autodetermina e non subisce traumi elettorali? Sappiamo dove stava ai tempi del cardinale e poi papa Wojtyla e della resistenza al comunismo. Ma, oggi, dove si colloca la Chiesa? Quante anime occulta? Come reagisce allo scontro fra partiti in un contesto democratico non più dominato da un partito unico e, per sua natura, anticlericale? Fino a che punto e in che modo la gerarchia cattolica, che indubbiamente non è tutta retriva, ha tenuto conto del fatto che i principali antagonisti della competizione presidenziale, contrapposti sul piano politico, si dichiarano però entrambi cattolici ferventi e praticanti? A quale cardinale fa capo l'ala più chiusa e oltranzista? A quale invece la corrente più consapevole o più favorevole al ruolo della Polonia in Europa? Fintanto che queste domande resteranno inevase, verrà a mancare, a tutte le opinioni sui dilemmi di Varsavia, l'elemento di giudizio essenziale e dirimente.

Per ora dobbiamo contentarci della risposta provvisoria e minore a cui induce la cronaca. L'elezione di Komorowski ai vertici dello Stato garantisce perlomeno una promessa di relativa continuità al tentativo del premier Tusk, l'autentico vincitore della difficile gara, di dare alla Polonia lo spazio che merita nell'arena europea. La politica del consenso istituzionale sostituirà quella del veto sistematico. In questo senso il no, sia pure blando, inflitto dai polacchi a Kaczynski, appare più decisivo e quasi più degno di nota del sì altrettanto blando riscosso da Komorowski.

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