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Autore Discussione: Danilo Taino. LONDRA E L'IDEA DI USCIRE DALLA UE. La secessione degli inglesi  (Letto 4317 volte)
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« inserito:: Maggio 14, 2013, 05:51:40 pm »

LONDRA E L'IDEA DI USCIRE DALLA UE

La secessione degli inglesi

C'è di nuovo parecchia foschia sulla Manica. Questa volta potrebbe però essere vero che isolato è un po' anche il continente, non solo la Gran Bretagna. La possibilità che Londra abbandoni l'Unione Europea è diventata concreta: certo, è innanzitutto un problema del Regno Unito, dopo che il primo ministro David Cameron ha promesso per il 2015 un referendum sul tema, il partito «indipendentista» ha conseguito una vittoria alle recenti elezioni locali e una serie di ministri e deputati conservatori si sono espressi per un abbandono in tempi rapidi. Al punto che il presidente americano Barack Obama ha invitato ieri Cameron a ricucire i rapporti con Bruxelles. È anche però un problema per l'Europa, che senza Londra non sarebbe necessariamente migliore. Alzare le spalle di fronte a un'ipotesi del genere non è una buona idea.

Una Brexit - come viene definita l'uscita britannica dalla Ue - avrebbe conseguenze di rilievo.

Innanzitutto, verrebbe meno la portata internazionale garantita da Londra: deterrente nucleare, esercito, diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu, legami d'amicizia con le ex colonie, una diplomazia esperta. L'ambizione di fare dell'Europa una potenza globale verrebbe ridimensionata.

Secondo, un'Unione Europea senza Regno Unito perderebbe uno dei maggiori sostenitori del mercato unico e delle politiche di liberalizzazione.
Se un ruolo positivo, tra i tanti negativi, Londra lo ha infatti giocato nella politica europea è stato nella spinta che i suoi governi hanno dato alle aperture in economia. Senza questa pressione, le posizioni più protezioniste avrebbero domani più spazio. Di riforme si parlerebbe meno, a Bruxelles: e l'Italia sa quanto le non molte innovazioni introdotte nei decenni passati siano state frutto esclusivo delle politiche imposte dall'Europa.

Terzo, l'allargamento della Ue cambierebbe di segno. In particolare, il processo che deve portare all'ingresso della Turchia - che ha trovato in Londra il suo maggiore sostenitore ma che è sempre stato voluto anche da Roma - finirebbe nella sabbia.

Quarto, l'uscita del Regno Unito renderebbe davvero più omogenea e più stabile l'Unione, come sostengono i politici e i funzionari europei che vedono bene il divorzio? Probabilmente, più che un compattamento, la perdita di Londra sarebbe vista come il segno di forze centrifughe al lavoro nella Ue. Vero che la Grecia non la si è voluta perdere soprattutto per difendere l'euro (del quale Londra non fa parte): ma, avendo pagato a caro prezzo il salvataggio di Atene, ha senso affrontare la possibile uscita dalla Ue di un Paese di ben maggiore peso con indifferenza o soddisfazione?
La risposta a questi argomenti è, di solito, che il Regno Unito accampa pretese ingiustificate per restare ed è un ostacolo nel processo verso «più Europa». Vero, come si è visto nel recente passaggio del bilancio europeo, nella discussione sull'Unione bancaria e in tante circostanze precedenti.
Non un buon motivo, però, per arrendersi a un'eventualità che potrebbe rivelarsi molto negativa. La strada di alcune concessioni reciproche, come indica Obama, può forse essere tentata. Meglio sollevare la nebbia che restare isolati su ambedue le sponde del Canale.

Danilo Taino

14 maggio 2013 | 7:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_14/secessione-inglesi-ue_b695da0c-bc4f-11e2-996b-28ba8ed4f514.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 22, 2014, 05:53:57 pm »

Uno spiraglio nel rigore europeo
Il ragionevole compromesso
Di DANILO TAINO

A Berlino, nei palazzi del governo, c’è una gran curiosità riguardo al viaggio di Matteo Renzi, oggi, a Parigi, per incontrare i leader della famiglia socialista europea. «Riuscirà a creare una sinistra merkeliana?», si domandava ieri un divertito politico cristiano-democratico. La battuta non è senza senso. Il presidente del Consiglio italiano non è visto, nelle Cancellerie del Vecchio continente, come un rappresentante dei socialisti. Piuttosto, come un innovatore nel metodo. In effetti, sotto la spinta italiana, una novità rilevante potrebbe emergere, forse già dal vertice parigino di oggi: un rimescolamento delle priorità su cui si discute, e quindi un cambio di passo.

Negli ambienti politici di Berlino e Bruxelles ci si aspetta che Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan svolgano un ruolo di leadership nel mettere in testa alla lista dei programmi le riforme strutturali nazionali. Non che prima non ci fossero. Ma ora diventerebbero l’impegno numero uno soprattutto per Italia e Francia, il passo da fare prima ancora di discutere di flessibilità nell’applicazione del patto di Stabilità europeo. Un approccio «merkeliano» che parte dalla necessità di «fare i compiti a casa» e toglie ai tedeschi la paura che, se si allentano i parametri del rigore, poi non si fanno più le riforme. Cambiare l’ordine delle priorità può diventare la chiave per mettere la fiducia al centro del tavolo europeo: il contrario di uno scontro destra-sinistra sui temi del rigore.

Frau Merkel sarebbe «attenta» al nuovo paradigma. E anche il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel, socialdemocratico, pare così orientato. Lunedì scorso, durante una visita a Parigi, sembrava essere entrato in rotta di collisione con la Cancelliera, aveva parlato di maggiore flessibilità di bilancio per i Paesi in difficoltà. In realtà, Gabriel è in sintonia con il nuovo approccio: «Un’idea - ha detto - potrebbe essere quella di non contare i costi delle politiche di riforma in alcuni Paesi in deficit; sarebbe una specie di scambio: riforme contro criteri del deficit». In altri termini, la probabilità di rimettere in discussione il patto di Stabilità è pari a zero, ma un nuovo metodo di collaborazione europea - riforme nazionali in cambio di tutta la flessibilità consentita nell’ambito delle regole in essere - potrebbe prendere piede se si creasse un nuovo clima di fiducia Nord-Sud. Tra l’altro, il governo tedesco è rimasto impressionato dalla vittoria elettorale dell’estrema destra in Francia, che rischia di seppellire definitivamente l’asse Parigi-Berlino su cui si è formata l’Europa. Aiutare la Francia a fare le riforme che rinvia da anni, restando politicamente stabile, non può non interessare la signora Merkel.

In questo quadro di «volonterosa novità», anche la nomina del prossimo presidente della Commissione Ue risulterebbe più facile. Se si sceglierà l’eurocrate Jean-Claude Juncker, però, in abbinamento a un ruolo di primo piano per il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, sarà ancora una volta una decisione per nulla innovativa, incomprensibile per molti cittadini. Il primo banco di prova del nuovo approccio collaborativo non sarebbe granché. Nemmeno Angela Merkel è entusiasta dell’idea che il posto vada a una figura gradita al Parlamento europeo, e che quindi si crei una commissione figlia del Parlamento stesso e non dei capi di governo. Juncker le sembra però il manovratore più affidabile per non stravolgere gli equilibri dei poteri nella Ue. Per questo vuole che gli altri leader di governo lo accettino. Una nomina mediocre proposta anche alla sinistra, «merkeliana» o non, riunita oggi a Parigi.

21 giugno 2014 | 07:55
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_21/ragionevole-compromesso-13b16d02-f906-11e3-b86c-bac0e6d7d70d.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 13, 2014, 06:29:03 pm »

VISTO DALL’ESTERO

Renzi e l’Europa, dal «vangelo di Matteo» alla «disillusione»
Caso Mogherini, flessibilità di bilancio e il peso sul semestre di presidenza italiano. I commenti dei leader e della stampa internazionale dopo le difficoltà degli ultimi giorni

Di Danilo Taino

Ieri, l’«Economist» ha ricordato a Matteo Renzi una frase che, inventata nella campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992, è diventata in sé un manuale di strategia politica. «It’s the economy, stupid»: è l’economia, sciocco. Se ti dimentichi dell’economia, se la lasci indietro, nel mondo d’oggi non vai lontano. Nel diventare presidente del Consiglio - dice il settimanale - Renzi invece «fece una scommessa: che l’economia si sarebbe ripresa senza bisogno di molta riforma strutturale», considerazione che gli lasciava spazio per dedicarsi alla riforma del Senato. L’economia si è però vendicata, è tornata in recessione. E, ora, l’uomo nuovo della politica europea, apprezzato dalla signora Merkel come dal presidente Obama, è nei guai: «La luna di miele è finita» - ha scritto giovedì il «Financial Times» - adesso si tratta di mettere i piedi per terra.

Da febbraio, quando è stato nominato capo del governo, Renzi non solo ha avuto una buona stampa a livello internazionale, non solo ha raccolto interesse per la sua giovane età (in contrasto con l’idea che si ha della politica italiana) e per la sua simpatia. Soprattutto, ha sollevato speranze non indifferenti: i leader internazionali sono preoccupati per la situazione italiana, molto preoccupati almeno dal 2011, e l’arrivo di un premier dinamico che prometteva cambiamento e riforme era la migliore notizia possibile. A maggior ragione se è uno che sa vincere le elezioni, come ha fatto alle Europee di fine maggio. Il capitale di credito internazionale con cui Renzi partiva era dunque cospicuo: lo erano anche le aspettative. Simon Nixon, un commentatore autorevole del «Wall Street Journal», in febbraio per esempio sottolineava «l’agenda coraggiosa» di Renzi per i primi cento giorni, «incluse riforme elettorale, del lavoro, delle tasse e la ristrutturazione dell’amministrazione pubblica».

Apprezzamenti arrivavano copiosi. Già in dicembre, il «New York Times» aveva sostenuto che l’emergere del giovane sindaco di Firenze segnalava «un mandato per il cambiamento politico in Italia». Il settimanale tedesco «Spiegel» analizzava «il vangelo di Matteo» e le sue promesse di riforma radicale. Dopo le elezioni europee del 25 maggio - Renzi unico capo di governo vincitore, assieme a Frau Merkel - e in vista dell’inizio del semestre di presidenza italiana della Ue, l’interesse cresceva. Diventerà il leader di un «asse del Sud» contro i Paesi nordici e austeri, si chiedeva il settimanale «Die Zeit»? A fine giugno, Wolfgang Münchau, commentatore del «Financial Times», scriveva che le questioni poste dal capo del governo italiano a Bruxelles - un ripensamento della politica di rigidità di bilancio e più spazi di spesa - erano «uno sviluppo importante».

Proprio a Bruxelles, però, sono iniziati i primi problemi. La teoria del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan era chiara: per avere voce nella Ue occorre ristabilire un clima di fiducia e ciò l’Italia lo può fare solo garantendo riforme strutturali della sua economia; unicamente a quel punto, sulla base di un piano credibile di cambiamento, potrà chiedere più flessibilità di bilancio.
Difficile dire se per mancanza di esperienza, se per eccesso di entusiasmo o se per calcolo, fatto sta che Renzi ha fatto il contrario: a Bruxelles riforme economiche non ne ha portate ma ha avanzato richieste, pubbliche e ripetute, di maggiore flessibilità di spesa. E ha raccolto appoggi tiepidi, anche da quei Paesi a economia debole ma che i «compiti a casa» li hanno fatti o li stanno facendo. L’approccio all’economia, insomma, è stato debole e l’incursione europea è finita nella sabbia. In Europa, si è preso nota.

In parallelo, la campagna per la nomina del ministro degli Esteri Federica Mogherini ad Alto rappresentante per la politica estera della Ue è stata piuttosto avventurosa: negli ambienti europei è sembrata la ricerca di un’affermazione di prestigio più che una proposta politica di chi ha la responsabilità della presidenza a rotazione della Ue e quindi dovrebbe cercare soluzioni non divisive, soprattutto di fronte alla crescente aggressività della Russia. La candidatura è ancora viva ma l’opposizione di alcuni Paesi, dell’Est ma non solo, a questo punto è netta. Non solo una mela avvelenata per Federica Mogherini: soprattutto, il rischio che il possibile flop della candidatura comprometta l’intero semestre di presidenza.
In un lungo articolo di due giorni fa sul ritorno della recessione, il quotidiano tedesco «Die Welt» ricordava quanto la signora Merkel fosse rimasta impressionata da Renzi. Per aggiungere che ora, «tuttavia, dopo quasi mezzo anno, la disillusione si fa largo». E concludere che il centometrista Renzi-Bolt «è dunque arrivato alla dura realtà». Quella dell’economia, direbbe Bill Clinton.

9 agosto 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_09/renzi-l-europa-vangelo-matteo-disillusione-6ad07ca8-1f86-11e4-bae3-3369389f55f4.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:57:35 pm »

LA CRISI NELL’EST EUROPA
Non solo l’Ucraina: la nuova leadership della Cancelliera

Di Danilo Taino

C’è una nuova storia, a Berlino. Una cancelliera che sta reinventando, anzi per molti versi ha già reinventato, se stessa. L’incontro di ieri alla Casa Bianca con Barack Obama ha confermato che Angela Merkel è decisa a esercitare una leadership. Una svolta rispetto a come era stata presentata dai commentatori e spesso sembrava rappresentarsi lei stessa: attendista, mai alla guida. Negli ultimi mesi ha alzato il profilo suo e della Germania su una serie di questioni, prima di tutto sulla crisi Ucraina e sulla posizione da tenere nei confronti della Russia di Vladimir Putin.

Con il presidente americano, ieri ha riaffermato l’unità completa sul principio dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Differenze tra la posizione della cancelliera e di buona parte dei Paesi europei da una parte e l’Amministrazione di Washington dall’altra ci sono: sulla questione dell’invio di armi «difensive letali» a Kiev. Ma il messaggio dell’incontro di ieri, destinato al Cremlino, è stato non solo che contro «l’aggressione» russa America e Germania sono unite ma che sulla stessa linea è tutta l’Europa. Frau Merkel era alla Casa Bianca in veste di presidente di turno del G7, ma tutti sanno, in primis Putin, che dietro di lei c’era l’intera Europa. Un’Europa che sulla crisi ucraina rischiava di dividersi ma che la cancelliera ha tenuto unita su una questione controversa come le sanzioni contro Mosca. Leadership nel tenere uniti i 28 della Ue e nell’andare con questa unità a Washington.

Negli ultimi mesi, il nuovo stile della cancelliera si è notato anche in due interventi forti su terreni che fino a ora l’avevano vista passeggiare con la consueta prudenza. Ha detto senza mezzi termini che Auschwitz è parte integrante dell’identità tedesca: in controtendenza rispetto ad alcuni settori della società, anche intellettuali, che vedono con fastidio crescente il regolare ricordo delle colpe nazionali nel Ventesimo Secolo. E, dopo i massacri dei terroristi a Parigi, ha sostenuto che «l’Islam appartiene alla Germania»: quando, qualche anno fa, la stessa cosa l’aveva detta l’allora presidente tedesco Christian Wulff, non aveva commentato; ora, davanti alle manifestazioni anti-islamiche in alcune città, guidate dal movimento Pegida, ha scelto di sostenerla e di ripeterla. Ieri, a Washington, ha fatto capire che la «cancelliera leader» la vedremo.
@danilotaino

10 febbraio 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_febbraio_10/non-solo-l-ucraina-nuova-leadership-cancelliera-aa286a42-b0fd-11e4-9c01-b887ba5f55e9.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:16:17 pm »

Più o meno
Usa, Cina e Russia
La verità sulle armi

Di Danilo Taino

Ci eravamo disabituati a parlare di armi e di arsenali militari, dopo la fine della Guerra fredda. L’abnorme parata militare di ieri sulla Piazza Rossa di Mosca ci riporta indietro, a farlo. Di fronte alla meraviglia (si fa per dire) del nuovo carro armato russo Armata T-14 e dei 140 aerei ed elicotteri da guerra, viene il dubbio che il Cremlino di Vladimir Putin abbia preso la strada di un riarmo sofisticato, forse massiccio. I numeri non dicono tutto, però raccontano cose interessanti. Secondo Sipri - lo Stockholm International Peace Research Institute, una delle fonti sulla sicurezza più autorevoli - nel 2014 la spesa militare mondiale è stata di 1.776 miliardi di dollari, il 2,3% del Prodotto mondiale. Di questi, 84,5 sono quelli che fanno capo a Mosca: il 4,5% del Pil russo.

Significa che sì, il Paese è il terzo del pianeta per spesa militare, dopo gli Stati Uniti e la Cina. Ma a una grande distanza: l’anno scorso, Washington ha destinato alla Difesa 610 miliardi di dollari, il 3,9% del Pil; Pechino 216 miliardi, il 2,06% (i dati cinesi vanno presi con precauzione, la loro trasparenza è minore anche di quella già non cristallina dei budget militari occidentali). Per dire: la spesa russa è di poco superiore agli 80,8 miliardi investiti nell’esercito dall’Arabia saudita (l’Italia è dodicesima al mondo, 30,9 miliardi di dollari). Il Cremlino, insomma, è ancora un grande protagonista sulla scena militare: tra l’altro, è il secondo esportatore mondiale di armi, il 27% di tutte quelle vendute nel mondo, contro il 31% degli Stati Uniti. Ma questi numeri indicano soprattutto che il gap che si è creato con l’America dopo il crollo dell’Unione Sovietica non si chiude ma continua ad allargarsi e che la nuova potenza emergente, la Cina, è ormai un attore più rilevante.

Sul piano delle armi nucleari, la Russia rimane in un certo senso testa a testa con gli Stati Uniti. Possiede circa 4.300 testate attive, 1.600 delle quali montate su missili balistici di lungo raggio di era sovietica, i quali nei prossimi dieci anni verranno tutti sostituiti da cinque tipi di SS27, assieme a una modernizzazione generale del settore. L’America, d’altra parte, ha 2.100 testate schierate e altre 2.660 di riserva e nel prossimo decennio spenderà 350 miliardi per l’ammodernamento del settore. Come spesso capita, lo sfoggio dei muscoli (la parata di ieri) fa più impressione della loro vera consistenza.
@danilotaino

10 maggio 2015 | 10:27
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_maggio_10/usa-cina-russia-verita-armi-08d55620-f6ec-11e4-bdc6-f010dce69e19.shtml
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