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Autore Discussione: Roberto TOSCANO.  (Letto 13393 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Marzo 02, 2014, 11:25:44 am »

Editoriali
28/02/2014

L’illusione chiamata Europa
Roberto Toscano

Nubi nerissime si addensano sulla parte orientale del continente europeo. La Russia preannuncia una vasta e oggettivamente intimidatoria esercitazione militare ai confini dell’Ucraina e concede al ricercato Yanukovich un’ospitalità che è un implicito appoggio alla sua pretesa di essere ancora l’unico Presidente legale. 

Nella capitale ucraina, intanto, l’euforia per la cacciata di un Presidente corrotto e autoritario deve fare i conti con una serie di interrogativi. Come passare dal potere della piazza ad un normale funzionamento delle istituzioni? In che misura è fattibile un’ipotesi di normalizzazione basata su personalità politiche - soprattutto Yulia Timoshenko, appena uscita dalla prigione - certamente anti-Yanukovich, ma anche parte di un vecchio sistema ritenuto inaccettabile da chi si è battuto sulla piazza Maidan? Come controllare i radicali, fra cui gli inquietanti estremisti nazional-socialisti? Come scongiurare un collasso economico che si avvicina rapidamente?

Ma il problema principale, quello che fa addirittura temere che le tensioni possano sfociare in un conflitto militare, ha a che vedere con la profonda divisione del Paese. Finora si era parlato soprattutto della spaccatura fra un Est russofono e un Ovest fortemente caratterizzato dalla cultura e dalla lingue ucraine, ma oggi la crisi trova il suo punto più delicato in Crimea. La Crimea, storicamente russa, passò all’Ucraina nel 1954 solo a seguito della decisione demagogica di Khrusciov. Oggi la maggioranza russofona – e russofila - della popolazione teme che gli eventi di Kiev, con il prevalere dei nazionalisti ucraini, abbiano rotto a loro sfavore il delicato equilibrio su cui si basava la convivenza. E in effetti una delle prime decisioni del nuovo vertice politico nella capitale è stata quella di togliere al russo il precedente status paritario di lingua ufficiale. A Simferopoli, capoluogo della Crimea, gli attivisti russi sono passati all’azione, occupando il Parlamento regionale e issando sull’edificio la bandiera russa in sostituzione di quella ucraina. 

Di fronte al vasto dispiego di unità militari russe ai confini, i vertici politici sia americani che europei fanno sfoggio di cautela e di nervi saldi, partendo evidentemente dal presupposto che Mosca pagherebbe un prezzo troppo alto se decidesse di trasformare l’esercitazione militare in un’invasione. Probabilmente la vera intenzione russa è solo quella di lanciare un pesante ammonimento ai governanti ucraini: no all’uso della forza contro i russi di Crimea e, soprattutto, che nessuno osi mettere in dubbio lo status della base navale russa di Simferopoli. Ma sarebbe forse bene ricordare che sono passati solo sei anni da quando la Russia usò la forza contro la Georgia, alla quale, come risultato di un breve ed impari scontro, vennero sottratte Abkhazia e Sud Ossezia, teoricamente indipendenti ma in realtà passate sotto il dominio russo.

Il fatto è che Putin si gioca moltissimo in questa crisi ucraina, i cui sviluppi stanno mettendo in dubbio quella legittimazione nazionalista su cui a Mosca si punta fin dalla caduta del comunismo e la fine dell’Unione Sovietica. Con un’Ucraina ostile la Russia verrebbe ancora più clamorosamente spinta verso una marginalità geopolitica certo non compensabile con il disegno «eurasiatico», che fra l’altro senza l’Ucraina diventerebbe inevitabilmente più asiatico che europeo. 

Pochi giorni fa si poteva leggere, sul New York Times, l’esortazione di un accademico polacco ad Europa e Stati Uniti a mettere in atto, lasciando da parte eccessive prudenze, «uno sforzo congiunto per includere l’Ucraina nel campo occidentale». E’ proprio questo l’incubo principale di Vladimir Putin, tanto più se si pensa che questa inclusione potrebbe, in prospettiva, prendere forma non tanto in un improbabile ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea quanto piuttosto nella Nato.

Gli ucraini, soprattutto i giovani, che hanno rovesciato Yanukovich sventolavano le bandiere dell’Europa, ma le loro aspettative non hanno alcuna base nella realtà, e sarebbe eticamente giusto per noi europei non essere prodighi più di illusioni che di effettivo sostegno. L’adesione all’Unione Europea non solo non è per domani, ma nemmeno per dopodomani, e per quanto riguarda la drammatica situazione economica del Paese, non si vede come l’Europa possa - in un momento di non superata crisi interna - far fronte all’urgente necessità di aiuti finanziari che sono stati quantificati in 35 miliardi di dollari su due anni. Paradossalmente non sembra esservi un futuro sostenibile, per l’Ucraina, che escluda un sostanziale rapporto con la Russia in campo finanziario, commerciale e soprattutto in tema di forniture energetiche. Quando si parla infatti della possibilità di un intervento del Fondo Monetario Internazionale in aiuto all’Ucraina non si può dimenticare che l’aiuto del Fmi verrebbe corredato di condizionalità che, si sa, includerebbero l’abrogazione del «prezzo politico» dell’energia, oggi inferiore a quello che l’Ucraina paga per il suo acquisto dalla Russia. Una prospettiva che i nuovi governanti di Kiev non potrebbero facilmente gestire, con un’opinione pubblica convinta che, con la cacciata del tiranno filorusso, non solo la libertà, ma anche il benessere, siano a portata di mano.

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/28/cultura/opinioni/editoriali/lillusione-chiamata-europa-gmFn1LcetGB5ZIoocSuorJ/pagina.html
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 04, 2014, 07:16:32 pm »

Editoriali
04/03/2014

Il forcing di Obama e il bivio italiano
Roberto Toscano

Ormai non ci sono più dubbi: la crisi ucraina segna il punto di maggiore pericolo registrato in Europa a partire dalla fine della Guerra Fredda. 

Anche se si spera che uno scontro militare fra Russia e Ucraina possa essere scongiurato, siamo di fronte a drammatici eventi che ci fanno capire che avevamo troppo frettolosamente archiviato la questione delle ripercussioni politiche e territoriali della fine dell’Unione Sovietica. Con troppo ottimismo ci eravamo compiaciuti del fatto che la dissoluzione dell’Urss fosse avvenuta in modo sostanzialmente pacifico, in totale contrasto con le drammatiche lacerazioni prodotte dalla fine della Jugoslavia. Oggi viene da pensare che si sia trattato soltanto di un rinvio di questioni non solo irrisolte, ma difficilmente risolvibili date le contraddizioni fra storia e politica, suddivisioni territoriali e appartenenze etnico-linguistiche. 

Alla radice dell’attuale crisi vi è in primo luogo la ferma intenzione di Vladimir Putin di affermare e difendere un ruolo sia regionale che globale della Russia sulla base di un’ideologia nazionalista che si ricollega, anche nella simbologia tradizionalista, a radici pre-sovietiche. Per giustificare il dispiegamento di reparti militari in Crimea in una sorta di invasione strisciante, Mosca non evoca infatti, come in Ungheria 1956 o Cecoslovacchia 1968, considerazioni sia ideologiche che strategiche, bensì il dovere di tutelare la popolazione russofona dalle paventate conseguenze del prevalere del nazionalismo ucraino. Viene in mente Milosevic, autonominatosi paladino dei serbi ovunque vivessero nel territorio della ex Jugoslavia, e soprattutto colpisce il parallelo con l’invasione turca di Cipro Nord nel 1974, motivata da Ankara dalla necessità di proteggere la popolazione turca dell’isola. Visto che la popolazione russofona della Crimea non sembra correre pericoli, le motivazioni di Putin risultano tuttavia anche più pretestuose di quelle serbe o turche. E se è vero che non mancano fra i vincitori della rivoluzione ucraina elementi di ultradestra, alcuni addirittura neonazisti, la campagna russa per denunciare il pericolo di una rinascita del fascismo ucraino sarebbe più convincente se non stessero per convergere sulla Crimea, a difesa della popolazione russa, volontari di non specchiate credenziali democratiche come il noto scrittore e attivista Eduard Limonov (che possiamo vedere sul web mentre, ospite di Karadzic, spara con una mitragliatrice su Sarajevo), squadracce di cosacchi (sì, quelli che a Sochi hanno preso a scudisciate le Pussy Riot) e persino gli Hell’s Angels russi (i «Lupi della notte», robusti patrioti con cui Putin una volta si è fatto fotografare).

Allora, lasciando stare l’antifascismo putiniano, sembra opportuno cercare in altre direzioni per capire le ragioni di un comportamento russo a così alto rischio. 

Gli eventi di Kiev hanno convinto Putin che l’alterazione, a netto sfavore della Russia, del precedente status quo in Ucraina non sia spontanea, bensì prodotto di una sistematica azione degli americani e degli europei. Gli si può certo ribattere che non servono complotti internazionali per spiegare la caduta a furor di popolo di un Presidente autoritario e cleptocratico come Yanukovich, ma prima di tacciarlo di paranoico forse dovremmo cercare di fare uno sforzo di obiettività e ammettere che l’incoraggiamento occidentale agli attivisti antigovernativi della Maidan non è stato certo né discreto né di basso livello, con la comparsa sulla piazza dei ministri degli Esteri di Francia e Germania e del senatore McCain. Così come non è un mistero che la prospettiva di un ingresso dell’Ucraina nella Nato non sia solo un incubo russo, ma un progetto palese di forze politiche e personalità non secondarie di Stati Uniti ed Europa. 

Chiederci come siamo arrivati alla situazione attuale è certo importante, soprattutto se riusciamo ad evitare un’interpretazione semplicistica di un quadro estremamente complesso, ma quello che è urgente è trovare una soluzione che eviti lo scontro militare e anche una frattura con la Russia che potrebbe avere ripercussioni pesanti su tutta una serie di fronti, a partire da quello medio-orientale.

I nostri nuovi responsabili governativi (sia il presidente del Consiglio che la ministra degli Esteri) si sono immediatamente trovati a dover far fronte a una crisi molto seria e a dilemmi di non facile soluzione.

Adottare con la Russia una linea dura, come quella delineata domenica da Kerry in un’intervista alla Abc, e condivisa da Francia e Regno Unito? C’è però da chiedersi che senso avrebbe imporre sanzioni economiche ad un Paese da cui dipendiamo significativamente per le forniture energetiche, e con cui abbiamo intensi rapporti economici. Non mancano poi quelli che traggono conclusioni molto scettiche dall’esempio del 2008, e dalla scarsa efficacia e breve durata delle misure occidentali nei confronti della Russia dopo il conflitto con la Georgia e la sottrazione a Tbilisi di Abkhazia e Ossezia del Sud.

L’altra alternativa, verso la quale sembra propendere la Germania, è uno sforzo politico teso a promuovere un dialogo fra Ucraina e Russia. Prospettiva assai tenue dal punto di vista diplomatico, dato che in questo momento la tensione sembra lasciare ben poco spazio al compromesso, ma che in realtà potrebbe corrispondere agli interessi non solo dei dirigenti ucraini, che ben sanno di non poter contare sull’Occidente per «sostituire la Russia» dal punto di vista economico, ma in fondo anche di Putin, al quale non può certo sfuggire che una Russia forte non può essere una Russia isolata.

In occasione della sua imminente visita in Italia non sarà per noi facile, tuttavia, dire di no a Obama che – bersaglio di serrate critiche per la sua cautela sulla Siria - vede nella crisi ucraina un ineludibile test di credibilità.

Da - http://lastampa.it/2014/03/04/cultura/opinioni/editoriali/il-forcing-di-obama-e-il-bivio-italiano-dxAv9mXX3uw7w4VfibEtXP/pagina.html
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:35:03 pm »

Editoriali
03/04/2014 - il caso india-italia
Il “fattore Sonia” contro i marò

Roberto Toscano

Sempre più cupe le prospettive di una soluzione del «caso maró», e questa volta non si tratta soltanto dell’andamento lento e contorto del procedimento giudiziario indiano. Come si era temuto, dietro le difficoltà sul piano legale vi è l’ipoteca politica, il pesante handicap delle origini italiane del Presidente del Partito del Congresso, Sonia Gandhi. Due giorni fa - nel corso di un’aspra campagna elettorale che dovrebbe cominciare il 7 aprile, ma di fatto è iniziata da tempo - l’ipoteca si è fatta clamorosamente esplicita.

Il candidato dell’opposizione, l’induista radicale Narendra Modi, ha attaccato in modo virulento Sonia Gandhi che in un discorso di domenica aveva denunciato «chi batte la grancassa del patriottismo» per sollecitare consensi elettorali.

Il sarcasmo di Modi si è scatenato, facendo sospettare che da tempo fosse pronto a cogliere la prima occasione per utilizzare il caso dei nostri militari contro «l’italiana». E’ forse patriottico - ha detto in un comizio nello stato dell’Assam - permettere a militari italiani che hanno ucciso due pescatori indiani di ritornare in Italia, da dove non avrebbero fatto ritorno in India se non fosse stato per la dura reazione della Corte Suprema? (Qui Modi faceva evidentemente riferimento al provvedimento con cui, per ritorsione, i movimenti dell’ambasciatore italiano a Delhi erano stati ristretti, con palese violazione delle norme internazionali). Modi non ha inoltre limitato il suo attacco alla gestione passata della questione, ma anche a quella presente, chiedendo polemicamente: ma in quale prigione si trovano i due militari italiani?

In questo momento la strategia del governo italiano sembra essere passata da una «difesa nel processo» ad una «difesa dal processo», nel senso che ad essere contestate non sono più le modalità e il contesto del suo svolgimento (l’applicazione o meno del Sua Act, la competenza dell’ente investigativo federale preposto ai delitti di terrorismo) bensì la stessa legittimazione indiana a giudicare. Affermiamo la competenza a giudicare del nostro sistema giudiziario - a nostro avviso con fondamento piuttosto debole, visto che la nave su cui si trovavano gli imputati era italiana, ma l’imbarcazione su cui sono morti i pescatori era indiana e quindi (per la determinazione del locus commissi delicti) ci troviamo di fronte quanto meno a una competenza concorrente. Più solida invece, proprio per l’incertezza di cui sopra relativa ad un episodio verificatosi in acque internazionali, ci sembra la richiesta di internazionalizzare la questione sulla base delle norme relative al diritto del mare. Ancora più convincente, anche sulla base del caso Calipari (quando, con nostro rammarico, il militare americano che lo aveva ucciso a Baghdad venne considerato non giudicabile dalla nostra Corte di Cassazione), avrebbe dovuto essere il richiamo alla immunità funzionale di militari in servizio.

 
Dopo la dura presa di posizione di Narendra Modi, tuttavia, appare evidente che sia l’internazionalizzazione che l’immunità verrebbero considerati come una rinuncia alla sovranità indiana - un’abdicazione che sarebbe anche troppo facile attribuire ad un «occhio di riguardo» per l’Italia. Dopo tutto l’impegno, anzi la dedizione, per il suo Paese d’adozione e le tragedie personali vissute (l’uccisione della suocera Indira, cui la legava un forte rapporto affettivo, e poi del marito Rajiv), Sonia Gandhi non può certo, soprattutto in una problematica fase elettorale, scoprire il fianco a questo genere di critiche.

Ben vengano quindi i rinvii (il più recente ha fissato la prossima udienza al 31 luglio) se permetteranno di arrivare al dopo-elezioni, un periodo in cui il caso marò tornerà ad occupare nella vicenda politica indiana quel ruolo marginale che lo aveva finora caratterizzato. Solo allora sarà forse possibile, per la giustizia e la politica indiane, affrontarlo senza i toni esasperati della polemica e del nazionalismo.

Se è vero, come sembra sempre più probabile, che il vincitore delle elezioni sarà il Bjp, e il nuovo primo ministro Narendra Modi, paradossalmente potrebbe risultare meno difficile trovare una soluzione politica al caso. Diciamo che il governo di Sonia Gandhi non può permettersi alcuna flessibilità, quello di Narendra Modi invece sì.

Se vogliamo essere ottimisti, non è infatti escluso che un Primo Ministro politicamente nato nei ranghi dell’Rsss, inquietante movimento fondamentalista indù, ritenga di doversi presentare sulla scena internazionale facendo sfoggio di una disponibilità al dialogo e alla moderazione, tanto più se si tiene presente che Modi, nell’attuale campagna elettorale, sta mettendo l’accento piuttosto sull’economia che non sull’induismo radicale.

Facile comunque non sarà. Da noi si è molto insistito, certo non senza fondamento, sugli errori commessi nella gestione del caso a partire dalle sue origini (non si sa ancora, ad esempio, chi ha dato l’ordine alla petroliera di entrare nel porto indiano), e anche al negativissimo «fattore Sonia». Ma per capire che un caso come quello dei marò sarebbe stato comunque difficile, per qualsiasi Paese e con qualsiasi strategia, basta dare un’occhiata ai rapporti fra India e Stati Uniti in relazione al «caso Khobregade» (la diplomatica arrestata a New York per violazioni delle regole sull’immigrazione in relazione ad una collaboratrice domestica) e alle durissime rappresaglie indiane, ancora in corso, soprattutto nei confronti della scuola americana. Rappresaglie che hanno portato addirittura alle dimissioni dall’incarico e dalla carriera del Capo Missione americano, Nancy Powell.

Constatare gli altrui problemi non è certo una consolazione, ma sarebbe giusto che l’opinione pubblica italiana, pur esercitando un legittimo diritto di critica verso l’operato sia della diplomazia che della politica, tenesse in considerazione la difficoltà obiettiva di trattare con un interlocutore particolarmente difficile, scarsamente aperto al multilateralismo, rigido nella difesa di un’ombrosa sovranità.

Da - http://lastampa.it/2014/04/03/cultura/opinioni/editoriali/il-fattore-sonia-contro-i-mar-h6zjb12vs74GU8uhSMHmSN/pagina.html
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« Risposta #18 inserito:: Maggio 30, 2014, 07:36:46 pm »

Editoriali
30/05/2014 - la piaga degli stupri
India, la foto che scuote il mondo

Roberto Toscano

Non è stato facile decidere di pubblicare la foto che vedete qui a lato, terribile testimonianza di disumanità e di una ferocia indicibile contro le donne. Se l’abbiamo fatto è perché ci è sembrato di dover cogliere il messaggio di quei contadini della casta dalit, gli «intoccabili», e la loro disperata volontà di rompere, attirando l’attenzione dei media, il silenzio che altrimenti coprirebbe le atrocità che ancora si compiono nei loro confronti. 

Sono stati questi umili – e umiliati – abitanti di un villaggio dell’Uttar Pradesh, lo stato più popoloso dell’India, a ottenere, circondando l’albero da cui pendevano, che i corpi delle due adolescenti, vittime di uno stupro collettivo e poi impiccate, rimanessero appesi in modo da poter essere ripresi dalle televisioni e dai fotografi.

Negli ultimi tempi la sensibilità dell’opinione pubblica indiana nei confronti delle violenze sessuali contro le donne è cresciuta in modo esponenziale dopo l’episodio della morte di una studentessa di Delhi per mano di due brutali stupratori. E di questa sensibilità hanno preso atto sia i politici che i magistrati, che ultimamente perseguono i casi di molestie sessuali con una durezza indiscriminata senza troppe distinzioni dai delitti di vera e propria violenza carnale. 

Ma non è un caso che questa sensibilità dell’opinione pubblica, questa asprezza sul piano della repressione, abbiano avuto origine da un episodio in cui la vittima, brutalmente violentata e poi uccisa, era una studentessa, e che si era svolto nella stessa capitale. Chi conosce la società indiana sa benissimo che nei villaggi indiani la piaga della violenza contro le donne è un fenomeno drammatico e antico, e che riveste una persistente dimensione castale. I dalit, fuori casta trattati da untermenschen, non sono ancora riusciti - nonostante le promesse della democrazia indiana e il messaggio del mahatma Gandhi – a ottenere nei fatti il riconoscimento non diciamo dell’uguaglianza, ma della stessa dignità umana. La violenza carnale è ovviamente criminalizzata dal codice penale indiano, ma è risaputo (e non manca di essere denunciato da giornalisti e attivisti) che nei villaggi le donne dalit sono spesso considerate «a disposizione» dei maschi appartenenti alle innumerevoli caste indiane – dagli aristocratici bramini agli shudra, lavoratori manuali. Ed è anche risaputo che a livello locale la polizia tende ad ignorare le angherie e i crimini compiuti nei confronti dei «fuori casta». È stato così anche in questo caso, e infatti risulta che alcuni agenti locali siano stati messi sotto inchiesta perché non avevano fatto niente quando i parenti avevano denunciato la scomparsa delle due ragazze. 

Il Primo Ministro pachistano Sharif ha preso pubblicamente posizione per condannare la lapidazione di una donna da parte dei suoi familiari di fronte ad un tribunale di Lahore. Sarebbe importante che il Primo Ministro indiano Narendra Modi reagisse a questo orrendo crimine, che grazie a quei disperati e coraggiosi «intoccabili» non è rimasto sotto silenzio, con una presa di posizione altrettanto pubblica ed energica.

Sarebbe il modo migliore, all’inizio del suo governo, per affermare che l’India è di tutti gli indiani, al di là del genere, delle appartenenze religiose e del sistema castale. E che la piaga della violenza contro le donne, che non appartiene a una sola cultura, deve essere stroncata ovunque.

DA - http://lastampa.it/2014/05/30/cultura/opinioni/editoriali/india-la-foto-che-scuote-il-mondo-Z6c186BTIOXjyWm4JKgpDP/pagina.html
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« Risposta #19 inserito:: Agosto 02, 2014, 11:13:54 pm »

Editoriali
27/07/2014

Gli antisemiti e il pretesto del conflitto
Roberto Toscano

Basterebbe lo stillicidio di perdite umane per considerare la crisi di Gaza come una calamità sia politica che morale. Ma non basta. Non solo la cosiddetta comunità internazionale non sembra in grado di farsi carico di una strategia capace di contribuire a mettere fine a un conflitto palesemente senza sbocchi per nessuna delle parti coinvolte, ma nello stesso tempo le tossine messe in circolazione dal conflitto si trasmettono inevitabilmente ben al di là dei territori dove esso si svolge. 

In Francia le manifestazioni anti-israeliane sono in qualche caso degenerate in attacchi antisemiti, mentre i genitori dei bambini nelle scuole ebraiche esprimono preoccupazioni per la loro sicurezza. In Germania – il Paese che, con buona pace di un buontempone nostrano, non solo non ha mai negato l’esistenza dei campi di sterminio, ma ha assunto su di sé l’onere della colpa storica della Shoah – un gruppo di manifestanti ha marciato scandendo l’osceno slogan: «Hamas, Hamas, Juden ins gas» (gli ebrei al gas). 

In Europa sta forse crescendo l’antisemitismo? E che legame esiste fra l’antisemitismo e il conflitto israeliano-palestinese?

Si potrebbe rispondere che l’antisemitismo in Europa non è mai del tutto morto, nonostante la tragica lezione della storia. Anzi, come dimostra il caso di alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale, ci può essere antisemitismo anche laddove non ci sono più ebrei. 

Anche l’aberrante miscela fra un certo radicalismo anti-imperialista e antisemitismo filonazi non è nuova. Viene da ricordare uno dei fondatori della Rote Armee Fraktion, l’avvocato Horst Mahler, passato dal terrorismo di ultrasinistra all’antisemitismo negazionista e alla iscrizione al Npd, partito neonazi, e un altro avvocato, Jacques Vergès, fra i cui clienti (non sembra difesi solo in chiave professionale) vi erano tanto il terrorista filopalestinese Carlos che il boia nazista Klaus Barbie.

Proprio perché la bestia dell’antisemitismo non è mai scomparsa, ma è invece sopravvissuta annidata nelle fogne dell’incultura e della violenza, è urgente tracciare senza ambiguità un confine invalicabile fra antisemitismo e critiche alla politica e alle azioni di Israele. 

Sono tante le voci, in Israele, che esprimono dubbi, critiche, condanne: i giornalisti di Haaretz, che denunciano il bombardamento indiscriminato di Gaza: i movimenti pacifisti e per i diritti umani; Avraham Burg, ex presidente dell’Agenzia Ebraica e per alcuni mesi addirittura presidente della Repubblica, secondo cui il sionismo – nato per fornire agli ebrei, con la creazione di uno Stato ebraico, una protezione contro le secolari persecuzioni cui sono stati sottoposti – oggi ha finito ingiustamente e paradossalmente per far ricadere sugli ebrei ovunque le conseguenze della politica seguita dallo Stato di Israele nei confronti dei palestinesi. 

E questo non è vero solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti e in Europa, dove non mancano certo gli ebrei che esprimono critiche anche dure in relazione al dramma di Gaza e in generale alla questione palestinese. Tante voci ebraiche, che risulta ridicolo cercare di squalificare con la contorta definizione, inventata dalla destra ebraica negli Stati Uniti, di «self-hating Jews», ebrei che odiano se stessi. A noi invece viene il sospetto che siano proprio loro che hanno più a cuore il destino dell’ebraismo e degli ebrei in Israele e nel mondo.

Nel momento in cui senza indulgenze dichiariamo inammissibile passare dalla critica, e anche dalla condanna, a quanto sta accadendo a Gaza all’antisemitismo, dobbiamo però condannare con altrettanta chiarezza l’operazione disonesta di chi cancella quell’invalicabile confine partendo dalla parte opposta. 

È logicamente insostenibile e politicamente indecente definire antisemita chiunque osi opporsi ad un’occupazione che dura dal 1967, chi ritiene che l’espansione dei settlements renda del tutto fraudolenta la proposta dei due Stati, chi fa notare che quando a Gaza le morti fra la popolazione civile sono l’80 per cento del totale delle perdite umane diventa assurdo definirle «danno collaterale», chi si preoccupa che sul piano politico l’unico risultato di questa operazione, presentata come anti-Hamas, finisca inevitabilmente per produrre non solo a Gaza ma anche nel West Bank il rafforzamento dei fondamentalisti di Hamas e in parallelo l’indebolimento di Abu Mazen. 

Le critiche a Israele, infatti, non dovrebbero certo farci dimenticare l’oltranzismo di Hamas, che insiste nei suoi insensati lanci di razzi, che continua a negare il diritto di esistenza di Israele anche nel momento in cui accetta un compromesso con i moderati dell’Autorità Palestinese, che prefigura nel suo esercizio del potere a Gaza un regime che non auguriamo certo al popolo palestinese. E allora dovremmo ricordare che non sono certo i moderati che prevalgono quando si combatte, soprattutto in presenza di una macroscopica asimmetria di potenza militare e di un conflitto con strazianti perdite di civili. Per questo motivo, se non si è sensibili a considerazioni umanitarie, si dovrebbe almeno essere sensibili al realismo: l’operazione militare contro Gaza si concluderà probabilmente con una vittoria tattica di Israele, ma con una sua sconfitta strategica, fra l’altro con una perdita di appoggio e consensi anche da parte di chi, in Europa ma anche in America, sarebbe difficile definire come «nemico di Israele», se non addirittura antisemita. Il problema va oltre Gaza e la dimensione militare dello scontro e anche oltre la problematica umanitaria. Lo conferma il fatto che il segretario di Stato Kerry ha detto ieri che se non si troverà uno sbocco politico al conflitto israelo-palestinese Israele diventerà uno «Stato di apartheid». La sua, e la nostra, è una preoccupazione per Israele, non contro Israele.

Andrebbe anche riletto quello che Hannah Arendt scrisse, nel momento della fondazione dello Stato di Israele: che senza un accordo con gli arabi Israele sarebbe stato destinato a dipendere per la sua sopravvivenza dalla protezione, inevitabilmente aleatoria, degli Stati Uniti, e a convertirsi in «una Sparta» obbligata a dare assoluta priorità alle esigenze di autodifesa. 

E’ vero che una soluzione politica è estremamente problematica, e non esclusivamente per responsabilità di Israele, ma sulla base dei fatti sembra difficile negare che l’idea di una soluzione militare sia del tutto illusoria.

Da - http://lastampa.it/2014/07/27/cultura/opinioni/editoriali/gli-antisemiti-e-il-pretesto-del-conflitto-fwvADM9Q2o5KGP9ceUXZPI/pagina.html
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:49:01 pm »

La trappola della paura

01/09/2014
Roberto Toscano

In un suo intervento di venerdì scorso, Obama – mai come oggi oggetto di critiche sia interne che internazionali – ha cercato di difendere il proprio operato. 

Il presidente Usa ha contestato l’opinione, oggi prevalente, di un peggioramento generalizzato della situazione sia in America che a livello mondiale. E’ certamente giusto, come ha fatto ieri Paolo Mastrolilli su queste pagine, rilevare come il fatto stesso che Obama abbia ritenuto necessario effettuare questo intervento confermi le pesanti difficoltà, e anche le evidenti sconfitte, che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la sua amministrazione.

Faremmo però male a non prendere in considerazione il messaggio di Obama, seppure al netto dello scoperto intento politico.

Quando dice che in questi giorni «hai la sensazione che il mondo stia cadendo a pezzi» il Presidente americano dice infatti una cosa verissima su cui sarebbe opportuno riflettere, anche se non si può evitare di rilevare la fragilità dell’argomentazione secondo cui il prevalere di visioni negative sarebbe in gran parte il prodotto del modo in cui i media descrivono la realtà dei nostri giorni.

Non si tratta certo di contestare la gravità di quello che sta succedendo dall’Ucraina all’Iraq. Si parla del «cancro» dello Stato Islamico, che secondo i critici repubblicani di Obama andrebbe senza indugi eliminato con una radicale operazione (naturalmente militare), e certo qualcuno finirà per ricorrere al parallelo di un altro flagello che ci preoccupa in questi giorni, l’ebola. Volendo indulgere al vezzo dei paralleli medici, forse quello che sta avvenendo è invece che una serie di crisi, di infezioni di per sé limitate e non necessariamente collegate fra loro, minaccia di produrre una sorta di micidiale setticemia del sistema internazionale, sempre più ingovernabile. 

Non è sempre vero che, per citare Franklin Roosevelt, l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa. Le crisi sono vere, le minacce serie e molteplici, e tuttavia in questi giorni viene da pensare che il diffondersi di certe visioni apocalittiche finisca per paralizzare la volontà di agire in risposta alle sfide. In un suo blog dal titolo «Archetipi», un professore dell’Università di Pennsylvania, Michael Brenner, scrive che l’opinione pubblica americana – formata dalle versioni hollywoodiane della storia piuttosto che da una sua diretta conoscenza – vede l’avanzata dei jihadisti dello Stato Islamico come il travolgente attacco di Aqaba in Lawrence d’Arabia (Peter O’Toole) o quello delle orde beduine del Mahdi (Laurence Olivier) del film Khartoum. Ma il timore più profondo è la combinazione della violenza fanatica di stampo premoderno insieme ad, come nel caso dell’11 settembre, una capacità di colpire ovunque utilizzando i più sofisticati strumenti tecnologici: qui sia Al-Qaeda che lo Stato Islamico sollevano l’immagine bondiana della Spectre.

Un nemico travolgente, demoniaco, forse inarrestabile. 

E’ proprio qui che la percezione, quando diventa apocalittica, si ripercuote sulla capacità di reagire, e non solo militarmente.

In uno dei suoi brillanti interventi satirici, Jon Stewart ha mostrato un «blob» delle notizie diffuse dalle televisioni americane – in una sorta di gara di catastrofismo – sull’avanzata dei jihadisti, e ha commentato: «Ma se davvero le cose stanno così, se questi sono davvero inarrestabili, che senso ha discutere su come reagire? Arrendiamoci!».

Sembra purtroppo che non si sia in grado, e non solo in America, di sfuggire alla disastrosa alternativa fra silenzio e toni drammatici. Ci concentriamo sulla «crisi del giorno» in modo spasmodico e sovreccitato, per poi dimenticarla una volta superata la fase più acuta, dimenticando che le ragioni che hanno prodotto lo scoppio della crisi rimangono da affrontare, non con le bombe ma con la politica. Per fare un solo esempio, si può stare certi che, se la tregua terrà, Gaza scomparirà dagli schermi. Soffriamo tutti della sindrome della «soglia di attenzione limitata», e dico «tutti» perché sarebbe scorretto attribuire le responsabilità esclusivamente ai media, dimenticando il ruolo dei politici e dello stesso pubblico, uniti nel gusto per la facilità e l’immediatezza e dall’avversione per la riflessione approfondita sui problemi e le opzioni politiche. 

Non si chiede certo a politici, ai media e ai «consumatori» delle notizie di concentrarsi solo su dettagliate – e pesanti – analisi ed approfondimenti, o peggio ancora sulle notizie positive ed edificanti, ma per una conoscenza non episodica ed epidermica della realtà sarebbe quanto meno importante seguire con più serietà e continuità il filo delle crisi, e riflettere anche su come in molti casi si sia riusciti ad uscirne. 

Perché l’America Latina si è liberata dall’alternativa dittatura/guerriglia che tanto a lungo ne aveva caratterizzato la storia politica? Come si è stabilizzata l’Albania, che solo pochi anni fa sembrava destinata all’instabilità e a riversare sull’Italia migliaia di migranti? Come mai in Indonesia, il più popoloso Paese islamico, non prevale il fondamentalismo? Come si è passati da dittatura a democrazia a Taiwan e in Sud Corea?

Riflessioni ed approfondimenti di questo tipo potrebbero essere utili per fornirci indicazioni su come affrontare le crisi presenti, e nello stesso tempo per contribuire a smentire le profezie apocalittiche, pericolose perché tendono ad auto-realizzarsi. 

Da -http://www.lastampa.it/2014/09/01/cultura/opinioni/editoriali/la-trappola-della-paura-DnAsu9i7MDxdRII1MddSxL/pagina.html?ult=1
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 13, 2014, 03:04:04 pm »

L’importanza di un Iran “normale”

12/10/2014
Roberto toscano

Visitare Teheran quando si avvicina la scadenza, il 24 novembre, dell’«Interim Agreement» sulla questione nucleare iraniana concluso nel novembre dello scorso anno (e prorogato in luglio) è fonte di non poche sorprese. 

Per prima cosa, la città non sembra certo la capitale di un Paese in ginocchio, e nemmeno messo veramente alle strette dalle conseguenze delle sanzioni. Colpisce poi un evidente calo della tensione psicologica prodotta dalla drammaticità degli scenari che prima dell’elezione di Rohani e della svolta nel negoziato nucleare facevano temere un attacco americano o israeliano. Non solo a Teheran si è convinti che l’irrompere sulla scena regionale della sfida dello Stato Islamico non permetta a Washington di aprire un altro fronte di scontro militare, ma si spera che finalmente gli americani prendano atto del fatto che, come ha scritto pochi giorni fa Roger Cohen sul New York Times, l’Iran è «un Paese serio e stabile in una regione instabile». Questa speranza di una normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, passaggio obbligato verso una normalizzazione dei rapporti dell’Iran con il mondo, accomuna la stragrande maggioranza degli iraniani. 

Proprio per questo motivo, anche se a Teheran sono diminuiti i timori che un eventuale fallimento abbia come conseguenza la deriva verso un attacco militare, rimane per tutti molto evidente l’importanza di una conclusione positiva del negoziato. Un negoziato che presenta certo una sua complessità sul piano tecnico, ma le cui sorti verranno determinate da considerazioni politiche più che da questioni quali il numero delle centrifughe, il grado di arricchimento dell’uranio o il «breakout time» (il tempo che sarebbe richiesto per passare dal nucleare civile al nucleare militare). 

A Teheran si fa notare che la vera garanzia contro un simile passaggio non sarebbe certo di natura tecnica ma politica, come dimostra il caso del Giappone, che - date le capacità avanzate raggiunte dalla sua industria nucleare - sarebbe in grado di costruire armi nucleari con un ridotto «breakout time», ma che nessuno pensa potrebbe farlo dato il costo che questa opzione comporterebbe per il Giappone dato il suo inserimento sia economico che politico nella comunità internazionale. In effetti, appare evidente che non solo l’Iran non è la Corea del Nord, ma che nessuno in Iran, nemmeno i più oltranzisti di regime, pensa che il Paese potrebbe permetterselo.

Ma è appunto la questione di un pieno inserimento dell’Iran nella comunità internazionale, piuttosto che la questione nucleare, ad essere la posta in gioco più importante. Lo è certamente per Israele, ma anche per i Paesi del Golfo, in primo luogo l’Arabia Saudita.

Quando israeliani e sauditi chiedono agli americani di essere intransigenti sulla questione nucleare non è perché temano davvero di poter diventare un giorno oggetto di un attacco atomico, ma piuttosto per il timore che un rientro a pieno titolo di Teheran sulla scena internazionale, con la rimozione dell’handicap nucleare, possa aprire la strada ad un’egemonia regionale dell’Iran. Ma se è vero che l’egemonia dell’Iran è inaccettabile, una sua esclusione è impossibile, se non a prezzo di conseguenze molto negative sia per il popolo iraniano che per la stabilità regionale.

Nel valutare l’impatto di un successo o insuccesso del negoziato nucleare, non ci si dovrebbe tuttavia limitare alla dimensione internazionale. A Teheran, anzi, ci si rende subito conto del fatto che la vera posta in gioco è di natura interna. Quello che si deciderà entro il 24 novembre – o forse anche oltre, visto che non è da escludere un’ulteriore proroga – è il futuro della presidenza Rohani, e di quello che essa significa come prospettiva di una graduale apertura del sistema politico iraniano verso crescenti doti di pluralismo e modernizzazione non solo economica. Rohani infatti ha ottenuto dal Leader Supremo l’autorizzazione a condurre un serio negoziato nucleare, ma Khamenei ha accompagnato questa autorizzazione con ostentate espressioni di sfiducia nei confronti della buona volontà americana, evitando così di dare un avallo incondizionato. Va ricordato che il sistema iraniano, nonostante le apparenze, non è ideologico, ma è piuttosto caratterizzato dalla capacità di «cambiare registro» a seconda delle circostanze. 

Rohani ha finora messo in sordina quelle che sono le sue priorità (non certo misteriose) su questioni come le sorti di Moussavi e Karroubi, dal 2009 agli arresti domiciliari, o gli spazi per la società civile, ma solo un successo nel negoziato nucleare gli permetterebbe di consolidare il governo e affrontare in chiave di cambiamento una più ampia gamma di questioni politiche. 

E’ quindi legittimo da parte dei negoziatori americani ed europei esigere dall’Iran tutte le garanzie possibili per far sì che un accordo sia sostanziale e credibile («Trust but verify», come diceva Ronald Reagan ai tempi del negoziato strategico con i sovietici). Non andrebbe però dimenticato che un eventuale fallimento del negoziato comporterebbe una fine prematura del tentativo, sostenuto dalla maggioranza degli iraniani, di conseguire l’obiettivo di un «Paese normale» – sia sotto il profilo internazionale che sul piano interno - e darebbe invece respiro e forza politica a quelle correnti che, pur minoritarie, hanno mantenuto un peso non trascurabile all’interno del regime, e che attendono un fallimento del negoziato per tornare alla chiusura militante e al rigore ideologico.

L’Iran non è un dossier nucleare, è un Paese. Un Paese importante. Sarebbe opportuno che non lo si dimenticasse, e che prevalessero, giunti a questa fase cruciale del negoziato, sia il realismo politico che un’etica della responsabilità. A Washington, ma non solo: l’Europa non può certo accodarsi, sia per il proprio interesse nel rispetto dei propri principi, all’oltranzismo di chi fa finta di non capire il senso politico, e le vaste implicazioni, della questione nucleare iraniana. Un oltranzismo che finisce per far convergere chi, a Washington e a Teheran, spera in un fallimento per conseguire finalità che non hanno molto a che vedere con le armi nucleari o la sicurezza.

DA - http://www.lastampa.it/2014/10/12/cultura/opinioni/editoriali/limportanza-di-un-iran-normale-nfyqjrLS6b1jvKz2FsxRWJ/pagina.html
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 08, 2015, 05:25:02 pm »

Un bivio storico per la Turchia

04/06/2015
Roberto Toscano

La Turchia si avvicina alle elezioni politiche del 7 giugno in un clima di straordinaria tensione. 

Recep Tayyip Erdogan - eletto Presidente lo scorso anno - punta alla conquista da parte del suo partito, l’Akp, dei 300 seggi (su un totale di 550).

Un risultato che gli permetterebbe di indire un referendum per una revisione della Costituzione che introduca il passaggio dall’attuale sistema parlamentare ad un sistema presidenziale, un ulteriore passo avanti verso un regime sempre più dittatoriale nella sostanza, pur nell’apparente rispetto dei meccanismi elettorali di una democrazia. 

Che la Turchia si trovi di fronte a una drammatica svolta e non a una normale ipotesi di modifica di forme istituzionali lo dimostra la violenza, tanto del linguaggio che delle azioni, di un uomo politico che sembra avere perso ogni controllo e superato ogni limite.

Due giorni fa l’avvocato di Erdogan ha presentato alla Procura una denuncia contro il Direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, chiedendo che venga condannato (a due ergastoli più 42 anni!) per avere trasmesso sulla rete televisiva del giornale un video, dello scorso gennaio, in cui si vedono agenti dei servizi turchi caricare armi su un camion destinato ai ribelli siriani. Erdogan aveva subito definito questo scoop giornalistico «una montatura» e «un atto di spionaggio»: una maldestra ammissione, dato che lo spionaggio, che per definizione rivela fatti reali che dovrebbero rimanere segreti, è l’opposto di una montatura.

Il fatto è che il Presidente turco sembra ormai ambire, in una regione dove impazzano le teorie cospirative, al titolo di campione assoluto del complottismo. Anche in questa circostanza, infatti, è tornato a denunciare le manovre della «organizzazione parallela», ovvero della rete di poteri occulti che sarebbe manovrata dagli Stati Uniti, dove risiede, da parte di Fethullah Gulen, suo ex alleato islamista e ora acerrimo nemico: per Erdogan, un sinistro e potentissimo «Grande Vecchio». Ma non basta. Infine, secondo Erdogan esisterebbe una cospirazione mondiale che mira «a dividere, disintegrare e fagocitare» la Turchia - una cospirazione di cui sono strumenti New York Times, Cnn e Bbc, che operano «seguendo le istruzioni di una mente suprema». 

 

Sembrerebbe ridicolo se la situazione non fosse drammatica, e non solo per le sorti del popolo turco, che solo pochi anni fa si affacciava all’Unione Europea sulla base di una riconquistata democrazia e di uno straordinario sviluppo tanto economico quanto culturale. La deriva autoritaria interna si combina infatti con un’inquietante politica avventurista che ha portato la Turchia ad un allineamento non dichiarato, ma evidente, con il jihadismo più estremo. Fallito, soprattutto in Egitto, il progetto dei Fratelli Musulmani, che Ankara aveva fortemente ed apertamente appoggiato, il governo turco sembra non avere più remore nel sostenere le tendenze islamiste più radicali, un continuum (con il frequente passaggio di armi e combattenti) che va da Al Nusra, una «franchise» di Al Qaeda, allo Stato Islamico. Il ruolo della Turchia, assieme a quello dell’Arabia Saudita e dell’Iran, sarebbe essenziale per mettere fine all’atroce conflitto siriano e per isolare lo Stato Islamico, ma sembra che la politica di Erdogan si stia muovendo in tutt’altra direzione. Forse non esagera il leader del partito curdo Demirtaš quando sostiene che il Presidente turco aspira in realtà ad essere «il nuovo Califfo»: in altri termini, a stabilire un ruolo di egemonia «pan-sunnita» della Turchia sulla base di un modello politico autoritario islamista combinato con un’economia sviluppata. Un «modello turco» ben diverso da quello di cui tanti parlavano al tempo, che oggi ci sembra già molto lontano, di quella «Primavera araba» che aveva fatto sperare che potesse emergere una versione moderata, e compatibile con la democrazia, dell’islamismo politico.

Ma chi potrà fermare il disegno politico di Erdogan? I sondaggi fanno prevedere al massimo una flessione dei consensi del partito di governo, ma non una sua sconfitta. Il punto fondamentale, comunque, consiste nella possibilità o meno per Erdogan di fare approvare dal nuovo Parlamento il suo disegno di svolta costituzionale presidenzialista. A questo punto vale la pena cercare di capire quali siano le forze politiche che si oppongono all’Akp, e quali siano i loro limiti e le loro prospettive. 

Il principale partito di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo - Chp, si presenta come un partito socialdemocratico e progressista, ma rappresenta nello stesso tempo i nostalgici del kemalismo e gli strati sociali più «occidentali» e urbani, ed ha difficoltà ad incidere sulla base di consenso popolare, tradizionalista nella religione e nei costumi, che ha permesso all’Akp di vincere ben tre elezioni parlamentari oltre a quella presidenziale. 

L’unica possibilità di contrastare il disegno autoritario di Erdogan potrebbe essere la presenza in Parlamento - qualora riuscisse a superare l’alta soglia minima, il 10 per cento, fissata dalla attuale legge elettorale - dell’Hdp, il Partito Democratico del Popolo, un partito nato come curdo ma che ultimamente si presenta come partito nazionale, al punto che nei suoi ultimi comizi elettorali sono persino comparse bandiere turche. Una sua presenza in Parlamento potrebbe rendere impossibile il raggiungimento della soglia necessaria per l’approvazione della riforma presidenzialista, e addirittura - nel caso peraltro poco probabile di una forte flessione dell’Akp - permettere la formazione di una coalizione alternativa con il Chp.

Vale la pena di prestare molta attenzione alle elezioni turche di domenica prossima.

Quello che è in gioco è il futuro stesso di un grande ed importante Paese, e nello stesso tempo gli equilibri di una regione che sprofonda sempre più drammaticamente nella violenza e nella frammentazione territoriale. Una regione che avrebbe bisogno di poter contare sul ruolo di moderazione svolto da una Turchia stabile, prospera, democratica.

Da -
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 04, 2015, 06:49:31 pm »

Turchia, la Russia accusa: "Erdogan e la sua famiglia coinvolti nel traffico di petrolio dell'Isis"

Redazione, L'Huffington Post
Pubblicato: 02/12/2015 13:52 CET Aggiornato: 34 minuti fa

Recep Tayyip Erdogan aveva sfidato la Russia a trovare la prove degli affari turchi con lo Stato Islamico. Aveva addirittura messo sul tavolo le sue dimissioni davanti alla dimostrazione delle accuse mosse da Mosca. E la Russia alza il tiro, presenza le evidenze su tre rotte del trasporto di petrolio fra Turchia e Isis, e tira in ballo perfino la famiglia del "sultano". Non solo, ma promette nuove prove sull'addestramento dei terroristi sul suolo turco.

Il presidente turco Erdogan "e la sua famiglia" nonché "le più alte autorità politiche" della Turchia "sono coinvolti" nel "business criminale" del traffico illecito di petrolio proveniente dai territori occupati dall'Isis in Siria e in Iraq: lo ha dichiarato il vice ministro della Difesa russo, Anatoli Antonov. Antonov ha quindi definito la Turchia "il consumatore principale di questo petrolio rubato ai proprietari legittimi della Siria e dell'Iraq".

Non solo. La Russia sostiene di aver individuato tre percorsi attraverso i quali il petrolio dell'Isis giunge in Turchia. "Sono state individuate - ha detto il vice capo di Stato maggiore russo, Serghiei Rudskoi, durante un vertice delle autorità militari - tre rotte principali per il trasporto del petrolio verso il territorio turco dalle zone controllate dalle formazioni dei banditi in Siria e in Iraq".

E la prossima settimana Mosca presenterà ai giornalisti le informazioni in suo possesso sui quantitativi e le rotte usate dalla Turchia per inviare all'Isis armi, munizioni, componenti di esplosivi, sistemi di comunicazione. Lo riferisce il capo del Centro nazionale per la difesa, Mikhail Mizintsev, aggiungendo che ai giornalisti saranno presentate anche informazioni di addestramento di militanti in territorio turco.

"Nessuno ha il diritto di calunniare la Turchia accusandola di comprare petrolio dall'Isis" replica il presidente turco Erdogan, ribadendo che è pronto a dimettersi nel caso in cui la Russia provi le sue accuse. "Non ho perso i miei valori a tal punto di comprare petrolio da una organizzazione terroristica", ha aggiunto il leader turco.

Accuse che non aiutano a stemperare la tensione tra i due Paesi, anche se proprio oggi il capo della diplomazia russa, Serghiei Lavrov, si è detto disponibile a un incontro con il suo omologo turco alla fine di questa settimana a Belgrado al Consiglio dei ministri dei Paesi Ocse. La riapertura ad Ankara arriva dopo l’ultimo ‘schiaffo’ di Putin a Erdogan: il rifiuto di incontrarlo lunedì scorso a margine della Conferenza Onu sul clima a Parigi.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/12/02/turchia-mosca-erdogan_n_8696910.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #24 inserito:: Febbraio 05, 2016, 12:51:57 pm »

Un Paese nella violenza
L'analisi.
È legittimo spostare l'attenzione dal caso al contesto all'Egitto del Generale Sisi

Di ROBERTO TOSCANO
05 febbraio 2016

NO, non è stato un incidente stradale a stroncare, al Cairo, la giovane vita di Giulio Regeni. Lo sosteneva fino a poche ore fa la versione ufficiale della polizia, ben presto confutata dalla magistratura locale e dagli atroci particolari di quello che è un barbaro delitto.

Giulio è morto a seguito di ferite da arma da taglio, bruciature, contusioni e il suo corpo è stato buttato in un fossato. Sarebbe azzardato tentare una ricostruzione di quello che può essere avvenuto, ma va detto subito che le modalità del crimine permettono di escludere che si tratti di un episodio di criminalità comune, come una rapina trasformatasi in omicidio. Da quella ferocia traspare invece l'odio, la volontà - che può essere solo politica - di punire una trasgressione o una intromissione in spazi proibiti. Giulio conosceva bene l'Egitto, lo amava, aveva molti amici, uno dei quali avrebbe dovuto incontrare su Piazza Tahrir, il luogo emblematico della protesta del 2011.

Vogliamo saperne di più: lo chiede una famiglia devastata dal dolore, ma lo chiede anche un Paese che si occupa, e si preoccupa, della sorte dei propri cittadini ovunque essi si trovino. Ci vorrà tempo, e speriamo che le contraddizioni immediatamente emerse fra le versioni delle autorità egiziane non siano il presagio di un insabbiamento, di una confusione in cui l'inefficienza burocratica potrebbe intrecciarsi con la volontà di non arrivare a una risposta. Ma già è possibile fare qualche riflessione.

In Egitto la violenza contro gli stranieri è drammaticamente nota, dagli attacchi con bombe e kalashnikov a gruppi di turisti al recente attentato che ha portato all'esplosione in volo di un aereo russo in partenza da Sharm el-Sheikh. Azioni il cui scopo è quello di chiudere un flusso di visitatori da tutto il mondo che per l'Egitto riveste un'importanza vitale. Sono stati certamente dei terroristi a mettere non molto tempo fa la bomba al consolato italiano al Cairo, ma i terroristi non se la prendono con uno straniero isolato, a meno che non si tratti di rapirlo e chiedere un riscatto.

Ripetute denunce di Ong per i diritti umani sia egiziane che internazionali permettono di formulare un'ipotesi più credibile. Vi si parla di numerosi episodi di sequestro, da parte di forze di sicurezza, di persone che vengono torturate per poi essere in alcuni casi rinviate a giudizio, di solito con l'accusa di terrorismo, mentre in altri casi le detenzioni rimangono clandestine e gli arrestati rimangono a lungo nella condizione di "desaparecidos" o vengono ritrovati morti.

L'Italia ha legittimamente chiesto di potere affiancare gli investigatori egiziani per dare risposte credibili a questi angosciosi interrogativi, ma in attesa di chiarimenti che purtroppo potrebbero tardare, è legittimo spostare la nostra attenzione dal caso al contesto in cui questa atroce morte si è verificata: l'Egitto del presidente Sisi. Dopo la delusione delle speranze suscitate dalla Primavera Araba, che proprio in Egitto aveva prodotto gli effetti politici più significativi, con la caduta di Hosni Mubarak, il timore del caos - un caos in cui trova spazio e alimento l'offensiva del jihadismo radicale - ha portato un po' tutti, americani ed europei (compresi noi italiani) a decidere che tutto sommato era meglio tornare a un passato antidemocratico e repressivo capace di garantire, con l'avvento di un regime stabile, la nostra sicurezza e i nostri interessi economici. Lo chiamiamo realismo, ma lo è davvero?

In Egitto si reprimono nello stesso tempo i sostenitori dei Fratelli Musulmani e i giovani liberali che cercano di preservare spazi di libertà e di pluralismo. Ci si deve però chiedere quanto a lungo sarà sostenibile un potere che non è nemmeno una riedizione dell'autoritarismo di Mubarak, spesso mediato da forme di consenso e inclusione, ma è ormai un regime di militarismo puro. Stabilità regionale, sicurezza e interessi economici sono certamente fattori da tenere presenti nel quadro della nostra politica internazionale, ma si dovrebbe evitare di definire le nostre politiche sulla base del breve termine e della rimozione di un ragionamento serio sulle prospettive anche a medio termine. È giusto essere realisti e incoraggiare, in Medio Oriente e Nord Africa, governi che sono ancora largamente autoritari, ma che non sono costretti, per mantenersi, a puntare su una feroce e indiscriminata repressione - governi che dovremmo cercare di accompagnare in un percorso graduale che dovrebbe tendere a rendere stabilità e democrazia finalmente compatibili. Governi, per intenderci, come quelli di Marocco e Giordania.

Dopo il colpo di Stato del Generale Sisi, all'inizio salutato da molti che constatavano l'inettitudine del governo dei Fratelli Musulmani e ne temevano le intenzioni, l'Egitto
si è invece incamminato senza mediazioni su una strada radicalmente diversa in cui la violenza tende sempre più a costituire l'unico terreno della politica creando un contesto in cui aumenta il rischio per tutti - egiziani e stranieri - di diventare vittime.

© Riproduzione riservata
05 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/05/news/un_paese_nella_violenza-132752142/?ref=HREA-1
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 16, 2016, 04:30:26 pm »

Turchia, il giornale 'Zaman' torna in edicola stravolto in versione pro-Erdogan
All'indomani del commissariamento con l'accusa di complotto contro le istituzioni, il principale quotidiano del paese è ricomparso in versione drammaticamente filogovernativa.
Il servizio d'apertura è dedicato alla visita del presidente al cantiere del terzo ponte sul Bosforo, a Istanbul. I giornalisti: "Non l'abbiamo fatto noi"

06 marzo 2016
   
I suoi lettori potevano aspettarselo, ma sono rimasti sbalorditi comunque dalla prima pagina odierna di 'Zaman'. Il primo giornale del paese, commissariato due giorni fa dalla magistratura, tra le proteste di piazza, con l'accusa di complottare contro le istituzioni legittime e il presidente, è tornato stamattina in edicola con una linea totalmente ribaltata e drammaticamente filogovernativa: la storia di apertura è dedicata alla partecipazione del presidente Recep Tayyip Erdogan a una cerimonia per la costruzione del faraonico terzo ponte sul Bosforo a Istanbul.

La foto del presidente campeggia in alto a sinistra, mentre stringe la mano a un'anziana e annuncia che l'8 marzo celebrerà adeguatamente la festa della donna. In prima pagina è trattato anche un altro tema caro a Erdogan, la guerra interna ai curdi, raccontata con le foto dei funerali dei soldati "martiri" uccisi dai ribelli nel sud-est del paese.

Il principale giornale dell'opposizione, che ha una tiratura media di 650 mila copie, è stato commissariato dalle autorità con l'accusa di "propaganda terroristica" a favore del presunto "stato parallelo" creato dal magnate e imam Fethullah Gulen, alleato storico diventato poi nemico giurato di Erdogan. Ieri la polizia aveva occupato la redazione e insediato i commissari del tribunale che hanno proceduto al licenziamento del direttore e di uno dei giornalisti di punta del quotidiano. Nel corso della giornata, la protesta di lettori e cittadini è stata stroncata dalle cariche della polizia che ha usato idranti e manganelli. Alcuni manifestanti sono rimasti feriti.

Ieri l'ultima prima pagina decisa dalla redazione prima del sequestro della testata parlava di "giorni bui" per la libertà di stampa in Turchia. I siti internet di Zaman e della versione inglese, come gli account sui social sono stati chiusi e svuotati e sulla homepage compare solo un annuncio che sa di beffa: "Presto torneremo con notizie di qualità e neutrali". L'accesso al web dalla sede del giornale invece è stato totalmente bloccato: "Internet è chiuso, non possiamo utilizzare il nostro sistema - ha riferito un giornalista all'agenzia Afp - e l'edizione odierna non è stata fatta da personale di Zaman". L'ennesimo atto di compressione della libertà di stampa in Turchia è stato duramente criticato sia dalla Casa Bianca che dall'Unione europea. Anche ieri Bruxelles ha ricordato ad Ankara che chi aspira a far parte della Comunità europea deve assicurare al suo interno i diritti fondamentali e tra questi la libertà di stampa.

© Riproduzione riservata
06 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/06/news/turchia_giornale_zaman_torna_in_edicola_in_versione_pro-erdogan-134876586/
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« Risposta #26 inserito:: Marzo 19, 2016, 04:48:44 pm »

Migranti, si cerca l’intesa con la Turchia. Erdogan irrompe: ‘Ue li tiene in condizioni vergognose, non dica a noi cosa fare’
In mattinata vertice ristretto tra il premier turco Davutoglu, il presidente del Consiglio Ue Tusk, il presidente della Commissione Juncker e il premier olandese Rutte il cui Paese ha la presidenza semestrale dell’Ue. Poi la ripresa delle trattative. Tra le principali questioni in sospeso l’apertura di nuovi capitoli negoziali per l'adesione di Ankara all'Unione, il meccanismo per riportare in Turchia i rifugiati entrati in Grecia, la protezione che le autorità dovrebbe offrire anche a iracheni e afghani e non solo ai siriani

Di F. Q. | 18 marzo 2016

“L’Ue guardi ai suoi limiti prima di dire alla Turchia cosa fare con i migranti “. Mentre a Bruxelles i 28 tentano un difficile accordo con Ankara per decongestionare la Grecia delle 40mila persone bloccate dalla chiusura della rotta dei Balcani, il presidente turco punta il dito contro l’Unione Europea. “In un momento in cui la Turchia ospita tre milioni di migranti, quelli che non trovano spazio per una manciata di rifugiati, che nel mezzo dell’Europa tengono questi innocenti in condizioni vergognose, dovrebbero prima guardare a se stessi”, ha detto Erdogan in un discorso trasmesso in tv, accusando l’Europa di avere un atteggiamento ambiguo sul terrorismo: “Nonostante la realtà degli attacchi contro la Turchia – ha scandito il capo dello stato turco in riferimento ai recenti attacchi terroristici che hanno colpito la Turchia, ultimo quello che il 13 marzo ad Ankara ha causato 37 vittime – gli Stati dell’Ue non danno peso a questi fatti”.

Dopo la prima giornata del vertice in cui i 28 hanno preparato con difficoltà una posizione comune sulla controproposta da fare alla Turchia per bloccare il flusso di migranti e rifugiati verso l’Europa, il negoziato con Ankara è ripreso stamani poco prima delle 9 con la riunione ristretta tra il premier turco Ahmet Davutoglu ed i responsabili europei (il presidente del Consiglio Donald Tusk, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ed il premier olandese Mark Rutte, detentore della presidenza di turno). Uno schema già visto un mese fa nel summit dedicato alla Brexit. Terminato il vertice a quattro, è ripartito il lavoro a un “lavoro tecnico” in cui le trattative proseguono e si lavora alla definizione del testo.

Principali questioni in sospeso, l’apertura di nuovi capitoli negoziali nel processo di adesione della Turchia all’Unione su cui grava il veto di Cipro, l’accelerazione della liberalizzazione dei visti per i turchi (che la Ue conferma, a patto che entro giugno Ankara attui ben 72 riforme), il meccanismo per riportare in Turchia i rifugiati entrati in Europa affidandosi ai trafficanti (e la garanzia che ogni posizione sarà trattata individualmente, garantendo anche il diritto di appello), la protezione che la Turchia dovrebbe offrire anche a iracheni e afghani e non solo ai siriani, la quantificazione della effettiva riduzione dei flussi e le condizioni per il raddoppio del finanziamento da tre a sei miliardi di euro.

La questione legale, è forse la più complessa, essendo piuttosto complicato conciliare decine di migliaia di rimpatri forzosi con il rispetto dei diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra. Il meccanismo perciò è stato trasformato. Se inizialmente, al vertice del 7 marzo scorso, si era ipotizzato un rimpatrio di massa in Turchia per poi provvedere da lì a stabilire chi doveva tornare in Europa e chi no, il meccanismo ora si è di molto ammorbidito: l’idea è quella di rimpatriare i “migranti irregolari” dalla Grecia verso la Turchia ma le domande di asilo per quelli che arrivano sulle isole greche saranno valutate dalle autorità europee e ad essere rimpatriati saranno solo quelli che non faranno domanda o che riceveranno una risposta negativa.

Per rendere il testo ancora più digeribile ai puntigliosi giuristi internazionali, è stata inserita nel testo anche la parola “individuali” in relazione ai rimpatri, per specificare che ogni caso sarà valutato singolarmente e allontanare l’idea di operazioni di massa. Tutto questo impianto richiederà una struttura imponente: decine di giudici, centinaia di pubblici ufficiali con relative strutture Easo (il sistema di asilo europeo) per raccogliere le domande di asilo, e tutto il personale Frontex necessario per i rimpatri. Oltre a strutture per ospitare o trattenere, a seconda dei casi, migranti e richiedenti asilo. Per metterla in piedi, spiegano fonti della Commissione Ue, ci vorrà del tempo ma non possono passare mesi. E per finanziarla ci sono già i 700 milioni messi a disposizione dalla settimana scorsa per la Grecia.

Resta in piedi invece immutato il meccanismo dell’” uno contro uno “: cioè per ogni siriano rimandato in Turchia, un rifugiato sarà inviato dalla Turchia in Europa. Il tutto fino a un massimo di 72mila persone. Soglia oltre la quale sarà necessario rivedere le intese. Una volta definito un meccanismo che risponda a tutte le norme del dritto umanitario, resta il problema di Cipro: Nicosia ha annunciato di voler porre il veto per bloccare l’accordo se Ankara non aprirà i suoi porti e aeroporti ai collegamenti con l’isola. Su questo Davutoglu potrebbe non cedere facilmente.

Come potrebbe rappresentare un ostacolo importante la questione dell’adesione: la formula individuata finora sostanzialmente rimanda l’apertura di nuovi capitoli negoziali a data da destinarsi ed è presumibile che proprio questo rappresenterà il maggiore elemento di contrasto tra Ue e governo turco. C’è poi la questione dei 3 miliardi di euro aggiuntivi richiesti dalla Turchia per il 2018, oltre ai tre già accordati per il biennio 2016-2017: si discute, spiegano le fonti, “non il se ma il come”.

Al termine della prima giornata i lavori del summit la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva sottolineato che oggi le trattative saranno “tutto tranne che facili”. E il presidente francese François Hollande aveva evidenziato che “c’è ancora molta strada da fare e non è possibile garantire una conclusione felice”. Anche perché l’inquilino dell’Eliseo rimarca la questione diritti civili, presente fino a qualche giorno fa nella bozza dell’accordo ma di cui si sono perse le tracce: “Anche se capiamo la volontà della Turchia di difendersi dal terrorismo, non accetteremo alcun compromesso sui diritti umani e sulla libertà di stampa “.

Oggi il premier turco Ahmet Davutoglu è tornato sull’argomento: “Stiamo lavorando come nei precedenti summit su temi umanitari. Il tema dei rifugiati non è un tema sul quale fare contrattazioni ma è un tema di valori, valori umanitari e valori europei”. “La Turchia – ha aggiunto – ha ricevuto 2,7 milioni di rifugiati senza alcuna significativa assistenza da nessuno. Voglio enfatizzare ancora che la Turchia manterrà la sua attitudine umanitaria “.

Giovedì il premier britannico David Cameron aveva lanciato un allarme: nelle prossime settimane ripartirà il flusso di migranti nel Mediterraneo verso l’Europa, in particolare dalla Libia. Mentre il premier Matteo Renzi aveva avvertito: “Va bene fare l’accordo con la Turchia ma sia chiaro che se ci sarà, farà da precedente. Le regole che saranno valide” per Ankara “dovranno essere valide anche per gli altri Paesi da cui ci attendiamo” numeri massicci di sbarchi.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/18/migranti-si-cerca-intesa-con-turchia-erdogan-irrompe-ue-guardi-ai-suoi-limiti-non-dica-noi-cosa-fare/2557828/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2016-03-18
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