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Autore Discussione: Claudio Sardo La responsabilità dello stallo  (Letto 2937 volte)
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« inserito:: Aprile 01, 2013, 05:51:36 pm »


La responsabilità dello stallo

31 marzo 2013

 Claudio Sardo

La Pasqua è per i cristiani la festa della liberazione e della speranza. Ci auguriamo che questi valori contagino la comunità civile, perché l’Italia è avvitata in una grave crisi economica e politica e ha bisogno di guardare oltre il presente, di tornare a progettare un futuro migliore. Ieri il Capo dello Stato ha deciso di congelare le procedure di formazione del governo: i veti impediscono di superare il blocco. E, per quanto grande sia la sua autorevolezza, i poteri limitati dal semestre bianco rendono anch’egli più debole. Di fronte allo stallo Giorgio Napolitano aveva pensato di dimettersi con qualche settimana d’anticipo. Ma il timore che una simile decisione fosse interpretata all’estero, o dai mercati, come un ulteriore segno di destabilizzazione delle istituzioni ha consigliato la dichiarazione di ieri. Il Capo dello Stato resta in carica fino alla conclusione del settennato, e intanto si affrettano le pratiche per la convocazione delle Camere in seduta comune. L’istituzione dei due comitati è irrituale nel mezzo di una crisi, comunque il lavoro è istruttorio. Il prolungamento del governo Monti (da notare che, ad esultare più di tutti, è stato Grillo, a riprova di una singolare miscela tra eversione e doroteismo) non è tale da restituire i pieni poteri ad un esecutivo ormai sfinito, tuttavia può essere sorretto da qualche «speciale» forma di sostegno parlamentare. E, benché sia difficile diradare tutti i dubbi sul quadro d’insieme, va sottolineata la cura del presidente a non limitare le prerogative del suo successore, la libertà delle forze politiche e la loro assunzione di responsabilità.
A seguire la crisi giorno dopo giorno, si rischia però di restare impigliati nei particolari. Ora ci si dovrà fermare per una ventina di giorni, a meno di clamorose sorprese. E soprattutto si dovrà cambiare l’agenda: la priorità diventa l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Le tattiche cambieranno perché la maggioranza presidenziale può anche essere diversa da quella politica. Ma, al fondo, restano una crisi e un passaggio di portata storica che riguarda il destino stesso dell’Italia e dell’Europa. E, accanto ad essi, una domanda di cambiamento politico, che, se delusa, rischia di travolgere la stessa democrazia costituzionale.
Per quanto il percorso sia diventato più tortuoso, insomma, non è venuta meno l’esigenza di imprimere una svolta nel governo, di uscire dalla seconda Repubblica, di cambiare la rotta delle politiche economiche, di riconciliare i cittadini con la sobrietà, la legalità, la trasparenza delle istituzioni. Il cambiamento è la sola opzione realistica. E le battute d’arresto che Berlusconi e Grillo hanno imposto in queste settimane alla proposta di Bersani non devono indurre il centrosinistra ad un compromesso di basso profilo. Perché tale sarebbe una riedizione del governo Monti, magari con un altro nome al posto di Monti. Siamo convinti che il Capo dello Stato non abbia voluto proporla ai partiti in queste ore, non solo per i veti reciproci, ma anche perché un grande settennato – che ha dato prestigio all’Italia – non poteva concludersi con la formazione di un governo debole, forse ancora più debole di quest’ultima versione del governo Monti.
Berlusconi ha detto no a Bersani perché Bersani non si è piegato ad un ricatto inaccettabile: lo scambio tra il via libera ad un governo di centrosinistra e una presidenza della Repubblica ipotecata dal Cavaliere. Il Pdl ha buon diritto a concorrere alla scelta di un presidente di garanzia per tutti. Ma, se il ricatto allude al salvacondotto di Berlusconi, accettarlo pregiudicherebbe la libertà di ogni governo e la dignità delle istituzioni. Grillo ha detto no a Bersani (anche ad una non-sfiducia) per controllare i suoi nel recinto dell’opposizione totale. I Cinque stelle hanno buon diritto di difendere la loro autonomia e nessuno ha in mente un’alleanza Pd-M5S: tuttavia anche a loro è chiesto di assumersi responsabilità conseguenti ai voti ottenuti. Mentre in questa partita hanno preferito giocare di sponda con Berlusconi, regalandogli un maggiore potere di interdizione.
Il risultato di tutto ciò è lo stallo di oggi. Ma non c’è un esito plausibile della crisi che non comporti forti novità nelle forme e nei contenuti. La proposta del Pd resterà comunque il punto di ripartenza della crisi, una volta eletto il nuovo presidente della Repubblica. Il cambio dell’ordine del giorno aiuterà ad eliminare il ricatto. Tuttavia, non sarà un compromesso qualunque a mettere l’Italia al riparo dai suoi rischi. Non si potrà tornare a parlare di larghe intese o di governo tecnici, come se non avessero già prodotto il quadro di sfiducia nel quale siamo precipitati. La proposta del centrosinistra resta il punto di partenza perché il cambiamento è possibile solo se una formazione politica gioca se stessa, e i suoi uomini migliori, attorno a un progetto innovativo di governo. Non è un’idea arrogante: governi cosiddetti di «minoranza» operano in molti Paesi europei. Il loro vantaggio è che consentono alle forze antagoniste di misurarsi con trasparenza e di proporre ai cittadini e in Parlamento tesi alternative. La politica smetterebbe di essere descritta come un corpo separato, assediato da forze anti-sistema. Nella proposta Pd c’è anche il secondo binario, quello delle riforme. Speriamo che il comitato istituito da Napolitano avvii il lavoro. In Parlamento le responsabilità di Pdl e Cinque Stelle possono diventare preponderanti. Se il problema del governo futuro fosse il nome di Bersani, siamo convinti che il problema non ci sarà. Ma se qualcuno ha in mente una mediazione senza cambiamenti, allora non ha capito cosa sta accadendo in Italia. I compromessi sono buoni quando consentono soluzioni all’altezza delle sfide.

DA - http://editoriale.comunita.unita.it/2013/03/31/la-responsabilita-dello-stallo/
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 28, 2014, 12:03:41 pm »

La grande occasione

Su L'editoriale
Autore: Claudio Sardo
Data:2014-05-27

Nessuno si aspettava un successo del Pd di queste dimensioni. In nessuno dei grandi Paesi europei il responso elettorale è stato così netto. Si dovrà riflettere ancora su quanto è avvenuto (anche perché i sondaggi sbagliano sempre, e sempre di più). Di certo, è un risultato di portata storica. Basti pensare che nessun partito italiano, dopo la Dc nel 1958, ha più superato la soglia del 40% in un’elezione generale. Il Pd è stato percepito – nel pieno di questa crisi sociale, morale, istituzionale – come il «partito della nazione», il solo in grado di difendere le istituzioni dal rischio di un’azione distruttrice e al tempo stesso di guidare il Paese verso il rinnovamento necessario. È certamente merito di Matteo Renzi aver creato un feeling con settori della società che guardavano alla sinistra con diffidenza. Ma ora sulla sua leadership, e sull’intero partito, c’è il carico di una grandissima responsabilità verso il Paese e verso l’Europa.

Suscitare aspettative è un merito di chi fa politica. L’aspettativa contiene dosi di speranza e di fiducia che non hanno solo un valore etico, ma anche economico e di coesione sociale. Però occorre darvi un seguito coerente: altrimenti è solo demagogia. Domenica sono stati i cittadini a voler stipulare un patto con il Pd, proprio mentre Grillo esibiva tutto il suo nichilismo, il suo desiderio di ridurre ogni cosa a macerie. Adesso quel patto va onorato. Con rigore e con apertura. Il voto di domenica – alle europee, ma anche alle regionali di Piemonte e Abruzzo e alle tante elezioni comunali, concluse con un vero e proprio «cappotto» del centrosinistra – ha dato al governo Renzi quella legittimazione piena, che qualcuno ancora contestava dopo il tormentato passaggio di testimone con Enrico Letta. Non ci sono elezioni politiche all’orizzonte. Semmai le elezioni a breve sono il retropensiero di chi vuole intrappolare Renzi. Nei prossimi due anni c’è solo quel patto da rispettare e rafforzare. L’obiettivo è far uscire l’Italia dal pantano, innovare recuperando tanto tempo perduto, riformare per aumentare l’inclusione sociale, non certo per favorire nuove fratture.

Quando nacque il Pd furono Alfredo Reichlin e Pietro Scoppola, due padri fondatori, a parlare di un nuovo «partito della nazione». Un partito che doveva portare il Paese fuori dalla crisi del berlusconismo e rilanciare, su basi nuove, la prospettiva europea. Questo non è avvenuto alla caduta di Berlusconi, anche perché il Pd ha sacrificato se stesso e la propria politica all’altare di una drammatica emergenza finanziaria. Il paradosso è che questo profilo sia emerso con tanta nettezza proprio oggi, di fronte al Grillo che gridava «tanto peggio tanto meglio», che puntava sulla paura e che faceva paura. Ovviamente, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la svolta personale impressa da Renzi, a partire dal rinnovamento generazionale e dalla sua comunicazione politica. Ma il Pd non avrebbe raggiunto quota 40, se nel Paese non fosse scattato un autentico allarme per la prospettiva meramente demolitrice dei Cinque stelle.

Di fronte a quella proposta sfascista, e di fronte a una destra divisa e disarticolata, il Pd è diventata la sola bussola. Lo è diventato anche per aree moderate e per ceti sociali che mai avevano votato a sinistra. Nei picchi storici del Pci, così come nelle prime elezioni del Pd, mai era stato toccato il 37% in Veneto o il 36 in Calabria. Domenica invece il Pd è stato ovunque sopra il 35%. Un partito anche sociologicamente «nazionale». Non più un partito a prevalente trazione delle Regioni rosse. E questo rafforza i termini della sfida, oltre che le responsabilità sulle spalle del Pd.

Fa molto discutere in queste ore il paragone «democristiano». L’idea del Pd come nuova Dc è spesso il pretesto per una polemica di carattere ideologico. È come dire che il Pd ha ormai compiuto una mutazione genetica, una trasformazione di segno moderato e centrista, e per questo è oggi il partito più votato dagli artigiani del Nordest o nelle città del Sud. Ma in questa polemica c’è un pregiudizio che impedisce di cogliere la sfida cruciale per la sinistra e per il Paese. Tutta l’Europa è chiamata a un cambio di paradigma: per questo sono in crisi anche le famiglie politiche più tradizionali e consolidate. Per ragioni storiche, legate alle nostre vicende interne, la sinistra (o se si vuole il centrosinistra) viene chiamata ad assumere un ruolo centrale, di cerniera tra le istituzioni esistenti e l’innovazione inevitabile. La sinistra è la sola possibilità del Paese. E cosa dovrebbe fare? Mettersi all’opposizione di se stessa? Oppure giocare le proprie carte, tentando di rinnovare se stessa, di ricucire gli strappi del Paese e di svolgere consapevolmente un ruolo di guida, come toccò alla Dc nel dopoguerra? Il problema semmai è come svolgere questo ruolo, con quale visione, con quale capacità di aiutare anche i competitori a un cambiamento e a una ricostruzione delle regole comuni. Il dna della sinistra italiana ha impresso i tratti e lo spirito della Costituente. Sono i valori radicali da non rottamare. Non è detto che capiterà ancora alla sinistra un’occasione così grande per servire questo Paese. Non capiterà neppure di avere una forza negoziale come quella che Renzi, dall’alto del suo straordinario risultato, avrà nel consiglio europeo di domani e poi nel semestre di presidenza italiana dell’Ue.

Da - http://editoriale.com.unita.it/politica/2014/05/27/la-grande-occasione/
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