LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 05:51:33 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2
  Stampa  
Autore Discussione: VELTRONI riapre la piaga di BOLZANETO: «Accertare le responsabilità politiche»  (Letto 12917 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Giugno 15, 2007, 12:09:04 am »

La «macelleria messicana» alla scuola Diaz era agli atti dal novembre 2002

G8: il funzionario «buono» mette nei guai il «duro» Canterini

Michelangelo Fournier, il primo «pentito» della polizia, è un funzionario che gode di grande reputazione 

 
 
La macelleria messicana era agli atti dal novembre 2002. Il vice questore aggiunto Michelangelo Fournier usò questa definizione nel suo primo interrogatorio, e fu un'immagine che colpì, al punto che nella loro richiesta di rinvio a giudizio, datata settembre 2004, i magistrati genovesi la evocarono per contrapporla alle versioni ufficiali seguite all'irruzione nella scuola che ospitava i no global. «Quale valutazione — scrivevano — aveva portato a trasformare la scena da "macelleria messicana" descritta dal dottor Fournier nelle "evidenti e pregresse contusioni e ferite" del comunicato ufficiale diramato dalla Questura di Genova?» È anche una questione di scelta dei vocaboli, evidentemente. Perché, ripetute in aula, le parole di Fournier hanno sollevato un putiferio. E l'ammissione di aver mentito durante gli interrogatori per spirito di appartenenza, negando di aver mai visto aggressioni, inevitabilmente farà di lui il primo «pentito» di questa storia, anche se la definizione è forzata.

Michelangelo Fournier non è un ex poliziotto senza più nulla da perdere. È un funzionario che gode di grande reputazione nel suo settore, quello dell'ordine pubblico. Soltanto sabato scorso è stato lui a «gestire» gli agenti costretti a stare fermi sotto il diluvio di bottiglie e pietre lanciate contro di loro dagli anarchici nel centro di Roma. Il giorno dopo, era sinceramente felice nel leggere dei complimenti alla polizia giunti dalla sinistra radicale, compresi quelli di Paolo Cento, del quale è stato compagno di scuola. È un uomo piccolo, dallo sguardo vispo, che colleziona dischi di vinile e ha la vocazione dell'istruttore. Quattro anni fa si prese un elogio dai vertici della polizia per come guidò i suoi uomini durante gli scontri di un derby romano finito con cariche ripetute in tribuna Tevere, in una situazione classica da guerriglia da stadio. A Genova era il capo del Nucleo sperimentale antisommossa, un corpo creato apposta per il G8. Nei fatti, era il vice di Vincenzo Canterini, l'uomo che esce peggio dalla sua deposizione.

Fournier è il poliziotto che quella notte gridò «basta» agli agenti che ad irruzione ormai conclusa stavano infierendo su una no global. È accusato soltanto di lesioni e non di quel reato di falso (le molotov posticce) che costituisce il cuore del processo Diaz. Ha messo in difficoltà soprattutto la linea di difesa del del suo capo, il quale ha sempre sostenuto che alla Diaz hanno picchiato soltanto altri colleghi, ma non gli uomini del suo Reparto mobile. Le famose persone con casco e pettorina che nessuno è mai riuscito ad identificare. Disse Canterini: «Noi c'eravamo solo perché dovevamo mettere in sicurezza l'edificio, non possiamo aver fatto quelle cose perché siamo addestrati a controllare i nervi». Ieri Fournier, pur ribadendo l'intervento violento di altri agenti, ha ammesso «molti eccessi» commessi dagli uomini suoi e di Canterini. Due versioni inconciliabili, così come diversi sono gli uomini.

Calmo e riflessivo Fournier, piuttosto irruento Canterini. La deposizione di Fournier ha avuto l'effetto di riaccendere le luci sulla vicenda della Diaz, ma non incide sui temi più delicati del processo, i falsi e la composizione della catena di comando che gestì quella disastrosa irruzione. I magistrati potranno chiedersi, e lo faranno in aula, quanti altri funzionari abbiano mentito «per spirito di appartenenza». Ma le ammissioni del vice questore, che all'interno del Reparto mobile di Roma ricopre ancora gli stessi incarichi di sei anni fa, non portano rivelazioni clamorose. Si è solo aggravata la posizione di chi ha sempre negato che vi siano stati pestaggi alla Diaz. Con quell'esotico «macelleria messicana», Fournier ha semplicemente ricordato a tutti quel che accadde sei anni fa in una scuola di Genova. Chi c'era, chi arrivò subito dopo, sa che è una buona definizione.

Marco Imarisio
14 giugno 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 21, 2008, 10:22:49 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Luglio 08, 2007, 05:38:43 pm »

GENOVA / L'INCHIESTA SU UNA DELLE PAGINE PIÙ VERGOGNOSE DELLA POLIZIA DI STATO

Macelleria g8
di Peter Gomez

Le testimonianze pilotate. Le prove manomesse. Le molotov scomparse. Errori, menzogne e depistaggi del massacro alla Diaz  
Tutta colpa di due bottiglie di vino. Di quello buono, invecchiato a dovere. La prima era di un Gutturnio dei colli Piacentini. La seconda invece commemorava sull'etichetta la '69 adunata degli alpini' tenuta a Udine nel 1996. Erano la prova regina del processo per la 'macelleria messicana' della scuola Diaz. Erano la plastica dimostrazione di come qualcuno a Genova, in quella notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001, per giustificare l'arresto illegale di 93 manifestanti massacrati a colpi di manganello avesse imbrogliato le carte.

Subito dopo l'irruzione, quando si era trattato di redigere il verbale di sequestro, la Polizia aveva dato atto che le bottiglie "contenenti liquido infiammabile e innesco (cosiddette molotov)" erano state scoperte "nella sala d'ingresso ubicata al pian terreno". Ma non era vero. I due contenitori di vetro pieni di benzina erano invece stati trovati per terra nel pomeriggio in una zona completamente diversa della città ed erano arrivati alla Diaz su un blindato del primo reparto mobile di Roma.

Una truffa in piena regola che avrebbe spinto anche l'attuale numero uno del Viminale, Antonio Manganelli, a dire: "Io ne ho viste tante, ma quelle molotov sono come le bustine di cocaina messa in tasca allo spacciatore. Sono una cosa da film che non credevo potesse succedere". Di cose da film a Genova ne accadono però parecchie. E lo spettacolo non si è chiuso sei anni fa, con un G8 che ha lasciato sul campo un morto, una città devastata dalle incursioni di migliaia di black bloc e centinaia di feriti sia tra i no global (in gran parte pacifici) che tra le forze dell'ordine. Adesso non si parla più solo di prove artefatte. Come in un legal thriller è scoccata l'ora delle prove sparite e delle testimonianze pilotate. Addirittura, secondo l'ipotesi dell'accusa, per intervento di Gianni De Gennaro, l'ex capo della Polizia e attuale capo di gabinetto del ministro dell'Interno, Giuliano Amato.

Tutto comincia il 17 gennaio scorso, in un'aula sotterranea del Tribunale dove l'assenza del pubblico e della grande stampa nazionale testimonia la voglia tutta italiana di seppellire per sempre i fantasmi di Genova. Quel giorno il collegio incaricato di giudicare 28 imputati per i fatti della Diaz, tra i quali figurano alcuni tra i dirigenti più noti della Polizia di Stato, prende atto con disappunto della scomparsa delle due bottiglie molotov. In teoria avrebbe dovuto custodirle la questura, ma lì non si trovano più. La spiegazione ufficiale è che già nel settembre del 2001 le bottiglie potrebbero essere state distrutte assieme ad altro "materiale esplodente" come chiesto proprio dalla magistratura. Fatto sta che i difensori di due poliziotti accusati di aver materialmente portato le molotov alla Diaz esultano. Secondo loro, "senza il corpo del reato il processo è finito". Il pm Enrico Zucca invece è preoccupato. "Alcuni imputati potrebbero essere responsabili di questa sparizione", dice. Lui, del resto, della polizia non si fida. A torto o ragione pensa che durante l'indagine sull'irruzione gli uomini del Viminale abbiano sempre remato contro. E non tanto perché alla sbarra ci sono dirigenti di primo piano considerati fedelissimi di De Gennaro, come Francesco Gratteri, Gianni Luperi e Gilberto Calderozzi. Il dato che fa invece riflettere Zucca e il suo collega Francesco Cardona Albini è l'incompletezza e l'imprecisione degli elenchi che la polizia ha fornito quando ha dovuto spiegare chi avesse partecipato al violentissimo blitz. Per l'accusa, ad esempio, è inconcepibile che nessuno abbia saputo identificare un poliziotto che il giorno dell'irruzione portava "i capelli raccolti in una fluente coda di cavallo lunga fino alla cintola", filmato con chiarezza da una tv privata mentre colpiva uno degli occupanti della Diaz steso a terra. O che non sia stato possibile capire chi abbia apposto la quattordicesima firma su un verbale poi ritenuto falso.

Per questo la scomparsa delle molotov diventa un episodio da prendere sul serio. Molto sul serio. La procura chiede e ottiene dal gip il permesso di intercettare una serie di telefoni. Il risultato è che nel giro di poche settimane anche il capo della polizia De Gennaro finisce sul registro degli indagati per induzione alla falsa testimonianza. Con la sparizione delle bottiglie non c'entra nulla, ma secondo i pm potrebbe invece avere a che fare con l'inspiegabile correzione di rotta di uno dei testi chiave del processo: l'ex questore di Genova, ora passato al Cesis, Francesco Colucci.

Così, all'improvviso, la scomparsa delle bottiglie diventa l'ultimo capitolo di una storia nera, sempre più scivolosa, sporca e complicata, in cui gli errori (non ultimi quelli della politica), si sommano agli errori, le negligenze, gli atti criminali e la disorganizzazione. Oggi, a mente fredda, scorrendo con gli occhi le immagini di quel vertice internazionale, delle manifestazioni, delle cariche, dei nasi e delle ossa spezzate anche a chi con i no global violenti non aveva nulla a che fare, viene facile dire che lo sbaglio più grande è stato compiuto dai due governi che si sono succeduti nel 2001: quello di Amato e quello di Berlusconi. È l'esecutivo di centrosinistra infatti a scegliere Genova, una città dalle strade strette, densamente abitata, e virtualmente incontrollabile, per il primo G8 destinato a durare più giorni. È quello di centrodestra a confermare la riunione dei grandi della Terra in Liguria - nonostante che ormai da mesi in occasioni di ogni vertice internazionale le tute nere dei black bloc fossero protagoniste di violenze di tutti i generi - militarizzando il capoluogo e chiudendo con alte grate di metallo la zona rossa, per renderla inacessibile alle manifestazioni regolarmente autorizzate del Genoa Social Forum.

Sì, perché la genesi dei fatti della Diaz, come quella di tutti gli eccessi di quelle ore di sangue, va ricercata in ciò che accade venerdì 20 luglio, quando anche a causa dei difetti di comunicazione tra la sala operativa (vedi box a pag. 53) e i reparti delle forze dell'ordine, un contingente dei carabinieri che avrebbe dovuto cercare di fermare un gruppo di anarchici, incrocia invece il corteo delle tute bianche che stava percorrendo via Tolemaide. Il comandante del contingente, un capitano, decide di caricare i manifestanti. A quel punto la situazione precipita. I no global si disperdono nelle strade laterali mentre i militari sparano lacrimogeni ad altezza d'uomo. Auto e cassonetti vengono rovesciati, partono cariche e controcariche, finché in piazza Alimonda Carlo Giuliani muore ucciso da un colpo di pistola mentre sta lanciando un estintore contro una camionetta dell'Arma. In città scatta la caccia all'uomo e visto che le tute nere colpiscono e si dileguano, a essere manganellati, spesso con sbarre e pezzi di legno fuori ordinanza, sono vecchi, pacifisti della rete Lilliput con le mani alzate, donne, giornalisti.

Il giorno dopo, il giorno della Diaz, a pagare per quanto accaduto è in tempo reale il prefetto Ansoino Andreassi. Era il responsabile dell'ordine pubblico del G8, ma Andreassi non ha quasi nemmeno il tempo per decidere di lasciare i carabinieri nelle caserme per evitare di scaldare ulteriormente gli animi dei no global, che viene esautorato. Da Roma arriva l'ordine di arrestare più manifestanti possibile. "Allora percepii un cambio di strategia. Si voleva passare ad una linea più incisiva", dice Andreassi in aula il 23 maggio 2007, prima di spiegare che fu Gianni De Gennaro a impartire le relative disposizioni. Andreassi viene messo da parte e alle 4 del pomeriggio arriva in città al suo posto il prefetto Arnaldo La Barbera, uno dei grandi investigatori antimafia italiani, oggi scomparso. "Dovevamo reagire, la polizia sembrava essere rimasta inerte di fronte a migliaia di manifestanti che l'avevano messa a ferro e fuoco (Genova, ndr)", aggiunge Andreassi, chiarendo come il 21 luglio la situazione sul campo fosse stata presa in mano fin dalla mattinata dai funzionari dello Sco (il servizio centrale operativo) che secondo i piani iniziali avrebbero invece dovuto occuparsi solo della bonifica della zona rossa e delle attività d'indagine. Verso le 11 del mattino, dopo che un elicottero ha filmato un furgone da cui le tute nere scaricano dei bastoni, scatta un primo blitz. Vengono messi a segno una ventina di arresti sostanzialmente a caso, tanto che non verranno poi convalidati. E a poco a poco si fa spazio tra i funzionari la convinzione che black bloc e Genoa Social Forum siano quasi la stessa cosa, visto che le tute nere sembrano spesso essere inghiottite dalle fila dei manifestanti più moderati. È una tesi che piace anche ai parlamentari del centrodestra in quelle ore presenti in massa a Genova, persino nella sala operativa delle forze dell'ordine dove è passato anche il vicepremier Gianfranco Fini, ufficialmente solo per portare un saluto. Nel pomeriggio, quando ormai i cortei sono finiti, a Genova a comandare è di fatto La Barbera, mentre Andreassi "con scarsa convinzione" ordina al questore di organizzare dei "pattuglioni" per "rintracciare i black bloc", come richiesto da De Gennaro. Fosse stato per lui, il G8 si sarebbe chiuso lì: "La gente se ne stava andando, sazia di disordini, bisognava solo lasciarla andare via. Pensavo che quei pattuglioni potessero provocare grane e basta". Fatto sta che alle 9 di sera nei pressi della Diaz passano quattro auto della polizia. Fuori ci sono molti ragazzi anche perché quel plesso scolastico non è un posto qualsiasi: è il luogo che ospita il Genoa Social Forum e i computer del mediacenter, la sala stampa delle manifestazioni. Per qualche secondo c'è un po' di subbuglio: secondo la procura vengono tirate un paio di bottiglie, si urla e rumoreggia. Secondo la polizia, invece, la contestazione è una cosa più seria. Nei rapporti si parla "di un violento lancio di oggetti contundenti da parte di numerose persone, verosimilmente appartenenti alle tute nere". Un episodio grave, contro il quale, anche secondo Andreassi, bisogna reagire. Come? Perquisendo la Diaz, ritenuta il rifugio dei black bloc. Durante le due riunioni operative sono tutti d'accordo. L'unico che dice di aver avuto qualche perplessità è il capo della Digos di Genova, Spartaco Mortola. In istruttoria sosterrà di aver pensato che fare una perquisizione in una delle sedi del Genoa Social Forum, dove erano presenti anche dei parlamentari di Rifondazione comunista, fosse "inopportuno sotto il profilo politico" e anche "pericoloso" sia per i manifestanti che per gli agenti. Ma aggiungerà che di fronte alla sua valutazione "il questore ha allargato le braccia dicendo che ormai hanno deciso così".

Al di là degli interrogativi su cosa è esattamente accaduto nelle concitate riunioni pre irruzione è comunque certo che a quel punto la polizia sembra sicura di aver fatto bingo. Per i funzionari le tute nere sono davvero nascoste lì, tra i più pacifici no global. Tanto che vengono quasi subito avvertiti i giornalisti: varie fonti dicono di tenersi pronte perché di lì a due ore i black bloc finiranno in manette. In questura fervono i preparativi. Alla Diaz, come in cerca di gloria, ci vogliono andare un po' tutti. Gli uomini delle Digos, delle squadre Mobili dello Sco e dei reparti mobili, ovvero i vecchi celerini. I più eccitati sembrano gli agenti del VII reparto Mobile di Roma, comandati da Vincenzo Canterini e dal suo vice Michelangelo Fournier. In teoria si tratta di gente super addestrata, in perfette condizioni fisiche e psicologiche. Ma come spiegherà Pippo Micalizio, il prefetto poi incaricato proprio da De Gennaro di svolgere un'inchiesta interna, per tutto il giorno quelli del settimo erano rimasti in piazza senza mai scontrarsi con i manifestanti: "Non c'era quasi mai stata la possibilità di un ingaggio. Per questo è ipotizzabile che un reparto di questo genere sia diventato come una sorta di molla (pronta a scattare)", dirà Micalizio. E le cose vanno proprio così. Sono loro a fare irruzione alla Diaz, seguiti dagli uomini degli altri contingenti, manganellando tutto e tutti. Il risultato sono 71 feriti , di cui tre gravissimi (uno in coma), su 93 presenti. Tutta gente massacrata mentre si trovava distesa per terra o stava scappando. Lo dimostrano le ferite sempre al cranio o sulle braccia alzate nell'atto di difendersi. La Diaz diventa così 'una macelleria messicana', come dirà da subito Fournier, indicato da molti testimoni come il funzionario che a un certo punto si sarebbe messo a urlare agli uomini "basta, basta". Nel corso dell'inchiesta Fournier, imputato con Canterini e altri otto capisquadra di concorso in lesioni personali, affermerà però di non aver visto nessuno picchiare. Dirà di essere entrato nella Diaz a cose fatte e di aver gridato così, come per disperazione. In aula invece cambierà versione. Sosterrà di aver mentito "per spirito di corpo", perché lui durante il raid era presente, aggiungendo però di aver fermato degli agenti che non ha riconosciuto perché non facevano parte del suo reparto. È un po' la tesi di tutti. Che si può riassumere così: i colpevoli ci sono, sono altri, ma non sappiamo chi. Chi era presente, del resto, ha capito subito di averla fatta grossa. Al di là di ogni evidenza, ai giornalisti è stato detto immediatamente che le decine di barelle che uscivano dalla scuola erano dovute al fatto che gli occupanti "presentavano ferite pregresse". Poi quando si è trattato di redarre i verbali sull'accaduto è stato attestato falsamente che i no global della Diaz si erano asserragliati nella scuola, avevano fatto resistenza accogliendo gli agenti con un fitto lancio di oggetti e di pietre. Una bugia bella e buona cui se ne sarebbero aggiunte molte altre per giustificare 93 arresti in flagranza poi non convalidati. Un esempio su tutti. Quando i magistrati cercano di capire come mai nessuno degli zaini sequestrati abbia un padrone, la polizia sostiene che le sacche sono state lanciate qua e là dagli occupanti. Ma la verità è un'altra. I bagagli sono stati svuotati alla rinfusa senza verbalizzare niente. Si cercava qualcosa per provare la presenza di black bloc, ma dalle borse erano usciti solo coltellini svizzeri e qualche indumento scuro. Insomma, anche se le tute nere fossero davvero state lì, procedendo in quel modo era impossibile provarlo. Unico indizio concreto, mostrato il giorno dopo ai giornalisti, le due famose molotov. Peccato che, come ha testimoniato un funzionario di polizia ed è stato confermato da due imputati per questo accusati di calunnia e falso, fossero state trovate per strada nel pomeriggio. Quella sera, come mostra un filmato dell'emittente genovese Primocanale (vedi foto di pag. 51), il sacchetto azzurro con le bottiglie viene osservato da un po' tutti i più alti funzionari in grado presenti alla Diaz, che sembrano discutere animatamente tra loro. Ma nessuno di essi ammetterà di aver saputo che le molotov arrivavano da fuori.

In questo quadro diventano quasi naturali le reticenze e le inverosimiglianze di buona parte dei poliziotti ascoltati come testimoni al processo e la decisione degli imputati di avvalersi (Canterini e Fournier a parte) della facoltà di non rispondere. Un atteggiamento quasi generalizzato che tocca il suo apice con la deposizione di Colucci, l'ex questore di Genova. Lui è solo un teste. Deve parlare per forza. Balbetta, fa marcia indietro. Dice che a ordinargli di telefonare al portavoce del capo della polizia per chiedergli di andare alla Diaz quella notte, non fu De Gennaro, come aveva già sostenuto in istruttoria, ma fu una sua iniziativa (De Gennaro allora aveva ribattuto: "Colucci ricorda male"). Poi sostiene che a coordinare il blitz era stato Lorenzo Murgolo, il capo della Digos di Bologna, da quattro anni passato al Sismi. Dunque, aggiunge confusione alla confusione. E per la procura non lo fa per caso. Al telefono con uno dei colleghi sotto inchiesta Colucci, parla infatti, "del capo" e di "un'altra versione" da raccontare. L'ennesima.
 
segue...
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Luglio 08, 2007, 05:40:22 pm »

segue..



La notte dei lunghi manganelli
 
Ecco le testimonianze di alcune persone maltrattate dalle forze dell'ordine nella scuola Diaz di Genova.

Sara Gallo Bartesaghi: "Mi sono rifugiata in un bagnetto rannicchiandomi. A un certo punto è stata spalancata una porta, una persona in divisa ha acceso la luce e mi ha tirato una manganellata sulla testa. Siamo stati fatti uscire dal bagnetto, un agente mi ha preso sotto braccio accompagnandomi. Costui disse agli altri agenti di lasciarmi stare. Ciononostante gli altri agenti mi colpirono con manganellate alle gambe, alla spalla sinistra e al braccio sinistro e mi sputarono in faccia".

Katherine Hager Morgan: "Ho visto che un gruppo di persone si era inginocchiata a terra con le mani alzate e ho capito che era entrata la polizia. I poliziotti che ho visto saranno stati circa dieci, ho potuto vedere solo un gruppo di persone che veniva colpito con calci e manganellate. Subito dopo un poliziotto mi ha raggiunta e mi ha dato un calcio alla testa facendomi cadere a terra dalla parte opposta. Subito dopo sono sopraggiunti altri poliziotti, uno o più, edhanno cominciato a colpirmi".

Lorenzo Pancioli Guadagnucci: "Si vedevano questi agenti che continuavano a picchiare alcune delle persone che erano ancora nella palestra, che erano sedute insomma nei dintorni, nei paraggi, che io riuscivo a vedere e comunque anche per me non è finita perché poi è venuto un altro agente con la camicia bianca e ha cominciato a colpirmi dietro, quindi io ho cambiato posizione e ho cercato di ripararmi la testa da dietro. con il manganello sempre e quindi mi ha dato una nuova razione di colpi".

Michel Ronald Gieser: "Ero quasi in fondo al corridoio e alzando un poco la testa potevo vedere bene chi arrivava. Sono apparsi all'inizio due o tre poliziotti che hanno cominciato a colpire con manganelli la prima persona che si trovava distesa e via via hanno proseguito colpendo fino a me. Colpivano soprattutto alla testa con i manganelli e usavano anche calci. Sapendo cosa mi aspettava, ho cercato di proteggermi il capo riparandomi con le braccia. Mentre mi colpivano ho sentito che lo facevano con accanimento pronunciando insulti del tipo 'bastardo'".

Simon Schmiederer: "Potei osservare come (Melanie Jonasch) ricevette dai poliziotti che passavano diversi colpi di manganello in testa e come fu colpita anche da calci sul corpo. Durante questo tempo, penso che Melanie già non fosse più completamente cosciente, lei tentò di alzarsi lentamente. Nel momento in cui i poliziotti in divisa lo notarono, due di loro la colpirono fino a farla crollare totalmente. Potei vedere poi che teneva gli occhi spalancati ma distorti e come il corpo fosse scosso da contrazioni spastiche. I poliziotti continuarono a colpirla con calci e a causa di uno di questi calci la sua testa venne sbattuta contro un armadio che era in corridoio".

Federico Primosig: "Non ho opposto alcun tipo di resistenza ed ero seduto per terra insieme alle altre due persone, sono stato immediatamente aggredito a manganellate e a calci; quindi sono stato trascinato all'esterno dell'aula dove sono stato nuovamente picchiato, scaraventato per terra dove hanno continuato a picchiarmi, poi sono stato trascinato sulla rampa delle scale e letteralmente scaraventato di sotto; sono arrivato rotolando al piano di sotto e qui mi hanno accolto altri poliziotti (erano tanti) che mi hanno nuovamente fatto oggetto di manganellate e calci; sono stato trascinato lungo il corridoio e a ogni sosta nuovamente picchiato e sottoposto a insulti del tipo: ' Frocio, comunista, avete voluto scherzare con la polizia adesso vi facciamo vedere noi, vi ammazziamo'".
 
**************


Processati e promossi
Antonio Sansonetti
 
Sono 28 gli uomini delle forze dell'ordine rinviati a giudizio per il blitz alla scuola Diaz, nei giorni del G8 a Genova. Fra loro agenti, funzionari, ed anche importanti dirigenti della Polizia di Stato. Primo fra tutti, Francesco Gratteri, capo nazionale dell'Anticrimine dal dicembre scorso, dopo essere stato questore di Bari e numero uno del nucleo Antiterrorismo. Giovanni Luperi, già insieme a Gratteri alla direzione dell'Antiterrorismo, dal luglio 2005 è consigliere ministeriale e dirigente generale di Pubblica Sicurezza. Gilberto Caldarozzi, direttore del Servizio centrale operativo (Sco), è stato promosso a dirigente superiore per 'meriti straordinari' grazie al ruolo rivestito in una delle maggiori operazioni di polizia degli ultimi anni: l'arresto di Bernardo Provenzano. Il questore Vincenzo Canterini è in Romania per l'Interpol, a dare la caccia ai trafficanti di organi e di esseri umani. Michelangelo Fournier è vicequestore a Roma; esperto di ordine pubblico, ha ricevuto elogi da sinistra per la calma mantenuta dalle forze dell'ordine durante la recente manifestazione anti-Bush. Numero due della questura di Torino, dopo esserlo stato ad Alessandria, è Spartaco Mortola. Fabio Ciccimarra è vicequestore a Latina. Nando Dominici è vicequestore vicario a Brescia. Filippo Ferri, figlio dell'ex ministro Enrico, è capo della Mobile di Firenze. Alla guida della Mobile di L'Aquila c'è invece Salvatore Gava. Alfredo Fabbrocini è commissario capo a Bari.

Gli altri imputati sono Fabrizio Basili, Michele Burgio, Angelo Cenni, Renzo Cerchi, Vincenzo Compagnone, Davide Di Novi, Carlo Di Sarro, Luigi Fazio, Fabrizio Ledoti, Carlo Lucaroni, Massimo Mazzoni, Massimo Nucera, Maurizio Panzieri, Pietro Stranieri, Pietro Troiani, Ciro Tucci ed Emiliano Zaccaria.
 

Disordine pubblico

 
Si chiama 'Op', e il suo titolo non fa riferimento all''Osservatorio politico', il giornale di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso in circostanze misteriose nel 1979. 'Op' sta invece per 'Ordine pubblico Genova 2001' ed è un dvd realizzato dalla segreteria del Genova Legal Forum, il gruppo di consulenti e avvocati che assiste 25 manifestanti sotto processo per "devastazione e saccheggio". Si tratta di un video dichiaratamente di parte che vuole dimostrare come gli scontri più gravi tra forze dell'ordine e manifestanti siano nati per errori e disorganizzazione dei funzionari chiamati a gestire l'ordine pubblico. Se l'obiettivo è stato raggiunto lo stabilirà il tribunale a cui questa ricostruzione, in gran parte basata sulle straordinarie registrazioni delle comunicazioni tra la sala operativa della questura e i vari contingenti presenti sul campo, è stata di fatto riversata. Già ora però il documentario (in vendita per sette euro) appare freddo e 'inglese' nella realizzazione e permette di capire le fasi precedenti agli scontri che hanno portato alla morte di Carlo Giuliani. Dopo le 11 del mattino, quando gli attivisti del blocco nero cominciano a mettere a ferro e fuoco ampie zone della città, la situazione precipita. Alle 14,30 via radio viene suggerito a un gruppo di circa 200 carabinieri di raggiungere piazza Giusti, dove "gli anarchici stanno sfasciando tutto". Loro però procedono troppo lentamente e incrociano il corteo autorizzato di almeno 10 mila disubbidienti che viene caricato mentre la sala operativa chiede invece il ritiro, senza che l'ordine arrivi a destinazione. Intanto un altro contingente (polizia) insegue dei black bloc segnalati a Marassi. Non li trova e quando giunge in piazza Manin, dove ci sono i pacifisti della rete Lilliput, spara lacrimogeni e carica.

da espressonline
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Luglio 09, 2007, 09:42:46 am »

CRONACA

La Procura ha dimostrato che quei rapporti non erano originali

Sarà richiesta l'audizione del perito che ha smascherato la bugia "G8, quei falsi documenti di Bolzaneto"

I pm: precompilati i modelli degli arrestati

di MASSIMO CALANDRI

 
GENOVA - Massacrata a calci e manganellate nell'inferno della scuola Diaz. Arrestata illegalmente con prove false. Trascinata via per i capelli, il volto ridotto ad una maschera di sangue. Ma Anna Nicola Doherty, cittadina inglese di 27 anni, quella notte maledetta entrando nella caserma di Bolzaneto dichiarava di "non temere per la propria incolumità fisica". Di non voler parlare con i propri familiari, con un legale, tantomeno con l'ambasciata britannica. E come lei tutti gli altri no-global stranieri, 66 delle 93 vittime del blitz poliziesco durante il G8.

Secondo i verbali ufficiali del ministero della Giustizia - redatti nel centro di prima detenzione - i ragazzi non avevano paura e non volevano parlare con nessuno. Sei anni più tardi la Procura di Genova è riuscita a dimostrare la falsità di quei documenti, e stamani chiederà che venga ascoltato in aula il perito che ha smascherato la bugia delle forze dell'ordine. I rapporti erano stati compilati in anticipo.

Per evitare rogne e differire quanto più possibile i contatti tra le persone fermati nella scuola e l'esterno, circostanza che getta ombre ancora più cupe sulla sciagurata irruzione del 21 luglio 2001. Se oggi il presidente del tribunale non dovesse accettare l'inserimento della nuova indagine nel processo per i soprusi e le violenze di Bolzaneto - 47 imputati tra funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri e della polizia penitenziaria, guardie carcerarie e medici - , i pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati apriranno l'ennesimo fascicolo per falso nei confronti delle persone allora responsabili della caserma.

Ancora un falso, ancora uno scandalo per coloro che durante il vertice internazionale dovevano garantire l'ordine pubblico. La perizia calligrafica dimostra che nel centro di prima detenzione furono preparati due modelli precompilati. In entrambi era scritto in anticipo che il detenuto sosteneva di "non" appartenere ad alcun clan criminale, ma soprattutto che "non" temeva per la propria incolumità personale o fisica e che "non" voleva che del proprio stato di detenzione venisse data comunicazione al consolato o all'ambasciata del suo paese.

La cosiddetta "dichiarazione di primo ingresso" recava l'intestazione Ministero della Giustizia - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, e in calce il timbro del magistrato Alfonso Sabella, allora capo del servizio ispettivo del Dap (la sua posizione è stata archiviata nel gennaio scorso). All'arrivo a Bolzaneto, ciascun detenuto si vedeva intestare il relativo verbale. E via, chiuso in cella, costretto a restare per ore con le mani alzate. Insultato, minacciato, ancora picchiato. Accecato con i gas lacrimogeni gettati tra le sbarre. Spogliato, deriso, con gli agenti che mimavano atti sessuali. Senza distinzione tra detenuti maschi o femmine.

Ad uno di loro, un poliziotto divaricò le dita di una mano fino a strappare letteralmente la pelle.
Ma ufficialmente, secondo i verbali, i fermati non avevano paura e preferivano non parlare con l'esterno. Il falso, certificato dal perito Laura Parodi, è oggettivamente distinguibile anche ad occhio nudo. In 49 casi è stato usato un modello pre-compilato, in 17 un altro. In questi che i pm ricordano essere atti redatti da pubblici ufficiali, ci sono poi alcuni strafalcioni grotteschi. In calce a quello di Anne Nicola Doherty c'è scritto che "il dichiarante si rifiuta di firmare".

La dichiarazione di Achim Nathrath, di Monaco di Baviera, non porta neppure la firma.
Quella di stamani è l'ultima udienza dei processi genovesi per i fatti del G8, prima della pausa estiva. Sabato è in programma l'interrogatorio dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, indagato recentemente per aver istigato il questore Francesco Colucci a testimoniare il falso.

(9 luglio 2007) 

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Ottobre 10, 2007, 12:49:42 pm »

G8, al processo il pm giustifica la polizia violenta


Nessuna caccia all´uomo. Per le strade ed i vicoli di Genova, nei giorni del G8 la polizia non ha cercato lo scontro, non aveva prede designate. Motivo? Non certo perché si è limitata a garantire l´ordine pubblico, il motivo è che «il corteo di Via Tolemaide non era composto da pacifisti». Quindi, le violenze e gli abusi furono conseguenti alla deliberata scelta dei manifestanti di cercare lo scontro con le forze dell´ordine. È la versione dei fatti del pubblico ministero Andrea Canciani, esposta nel corso dell´udienza di martedì del processo genovese che vede tra gli imputati 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio. Secondo Canciani, i manifestanti in corteo erano «persone che hanno scelto deliberatamente di contrapporsi alle forze dell'ordine, non si stavano difendendo né erano in pericolo di vita». Nessuna giustificazione, tiene a precisare Canciani, ma «un conto è manganellare un passante inerme, un altro è lo sfondamento degli scudi».

Ma non è la sola novità del processo in corso a Genova. Il pm Canciani sostiene anche la tesi secondo cui «la responsabilità operativa è del funzionario che si trova in piazza». Quindi nessun attacco alla polizia e ai suoi vertici, non c´entrano nulla. «Non è compito di questo processo – rivela Canciani – appurare se ci sono stati errori da parte delle forze dell'ordine nel gestire le piazze durante il G8. Noi – ha prseguito – dobbiamo analizzare il comportamento dei singoli imputati, arrestati durante i disordini di piazza e nell'assalto al Defender dei carabinieri in piazza Alimonda dove morì Carlo Giuliani». Insomma poliziotti come singoli cittadini, nessuna rilevanza per l´ordine a cui appartengono. E azzarda un improbabile paragone con il V-day di Beppe Grillo: quello, «non è niente in confronto alla gente che protestava durante i giorni del G8, che urlava, piangeva e telefonava alla polizia per sapere cosa stesse succedendo in città, colpita da devastazioni e saccheggi».

Tutto rinviato a mercoledì, quando sarà il turno dell´accusa per 39 dirigenti, funzionari e agenti di polizia. Verranno nuovamente interrogati in merito alla famigerata irruzione alla scuola Diaz, dove si compirono pestaggi più sanguinosi. Ma l´udienza di mercoledì, che prevedeva tra vl´altro la testimonianza dell´europarlamentare Vittorio Agnolotto, all´epoca portavoce del Genova Social Forum, probabilmente salterà. Manca infatti il difensore per due dei principali imputati, i funzionari di polizia Spartaco Mortola e Nando Dominaci. Il loro legale, l´avvocato Maurizio Mascia ha deciso infatti di lasciare l´incarico. Ancora non sono chiare le ragioni dell´abbandono – Mascia ha fatto sapere che le spiegherà davanti alla Corte – ma alcune indiscrezioni parlano di un esposto depositato quasi un anno fa in Procura da Mascia, dove si denunciava «una gravissima iniziativa a creare una pressione e un condizionamento nei confronti di un difensore impegnato nel processo».

Prima della sentenza, il processo vedrà ancora almeno 3 o 4 udienze, che saranno dedicate alla requisitoria dell'accusa e alle richieste finali di pena. Il rischio, visti anche i probabili ritardi dovuti alla rinuncia dell´avvocato Mascia, è che molti reati cadano in prescrizione, lasciando così senza risposta una delle pagine più tristi e controverse della recente storia d´Italia.

Pubblicato il: 09.10.07
Modificato il: 09.10.07 alle ore 20.04   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Novembre 17, 2007, 07:43:18 pm »

17/11/2007 (13:22)

Caso Sandri, Manganelli: "Una pietra non cambia le colpe"
 
Morte di Sandri, gli sviluppi dell'inchiesta

Il capo della polizia parla di imperdonabile leggerezza


BOLOGNA
Il fatto che Gabriele Sandri avesse o meno in tasca una pietra «non cambia assolutamente le colpe della polizia». Il prefetto Antonio Manganelli ha risposto così a una domanda a margine dell’ inaugurazione di un centro della polizia a Bologna. «Quello della pietra, in questo momento mi sembra davvero l’ultimo dei problemi - ha detto ancora il capo della polizia - la morte di Gabriele Sandri è il frutto di un errore che è stato commesso da un poliziotto e di questo errore noi ci assumiamo la responsabilità». «È una ferita che ci portiamo dietro - ha aggiunto Manganelli - non in un modo formale. Ho detto e ripeto che c’è stata una imperdonabile leggerezza. Ho detto che Gabriele Sandri è una vittima involontaria e che la polizia porta il peso di quello che è successo. E voglio condividere con la famiglia di Gabriele una vera sofferenza per quello che è accaduto».

Come è possibile rimediare a questo errore? È stato chiesto al Prefetto: «Da parte nostra in due modi. Da un lato dando una risposta completa, trasparente e rapida alla domanda di verità che ci viene da tutto il paese. Dall’altro, comportandoci bene sulle strade, facendo il nostro dovere, come ha fatto Emanuele Petri. Noi cerchiamo di fare il meglio anche nel momento della formazione e dell’aggiornamento professionale, anche se quello che è accaduto nell’area di servizio di Arezzo non ha nulla a che fare con la formazione, perchè sono quegli eventi assolutamente imprevedibili, quegli errori inescusabili che non si scongiurano con la prevenzione anche in termini di formazione. Il peso è insopportabile».

Il legale della famiglia: «Siamo lieti per le parole di Manganelli»
La famiglia di Gabriele Sandri è molto soddisfatta delle parole pronunciate a Bologna dal prefetto Antonio Manganelli. «È bello che le istituzioni si stringano alle parti offese». Lo ha detto l’avvocato Michele Monaco, legale della famiglia del giovane laziale ucciso domenica scorsa ad Arezzo commentando le dichiarazioni del capo della Polizia. «Si tratta - ha aggiunto - di affermazioni in linea con quanto detto dal capo dello Stato ai familiari di Gabriele. Il presidente Giorgio Napolitano ha dato certezze di trasparenza e l’intervento di oggi di Manganelli dimostra che si intende seguire quella strada. Tutto ciò è molto bello e positivo».

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Novembre 26, 2007, 06:45:26 pm »

CRONACA

Agli atti i colloqui fra l'ex questore Colucci e il funzionario Mortola

L'ex capo della polizia De Gennaro verso il rinvio a giudizio

"Ho parlato con il capo devo fare marcia indietro"

di MASSIMO CALANDRI


GENOVA - "Ho parlato con il capo. Devo fare marcia indietro". Siamo alla fine dell'aprile scorso. Francesco Colucci, già questore di Genova, tra poco testimonierà nel processo per il blitz della polizia nella scuola Diaz, durante il G8. Il "capo" cui fa riferimento sarebbe Gianni De Gennaro, allora numero uno della polizia italiana: che la procura di Genova vuole processare per "induzione alla falsa testimonianza". Di Colucci, appunto.

Il funzionario è al cellulare con Spartaco Mortola, imputato nello stesso procedimento. I due non sanno di essere intercettati: i magistrati hanno infatti aperto un'altra inchiesta, dopo la misteriosa sparizione delle bottiglie molotov che erano state falsamente attribuite ai no-global arrestati.

Colucci viene registrato in almeno due occasioni: nell'altra ammette di aver letto le dichiarazioni che a suo tempo De Gennaro aveva reso sulla sciagurata operazione del luglio 2001. "Devo modificare quello che avevo già detto", spiega il questore al suo interlocutore. Tutto ruota intorno alla presenza nella scuola, al termine dell'intervento, di Roberto Sgalla, responsabile delle pubbliche relazioni per la Polizia di Stato. Colucci aveva in precedenza giurato che De Gennaro gli aveva detto di avvertire Sgalla e inviarlo alla Diaz.

Secondo gli inquirenti, questo dimostrerebbe che anche i massimi vertici dell'Interno erano perfettamente a conoscenza di quanto era accaduto nell'istituto (per quel blitz sono sotto processo 29 tra agenti e super-poliziotti). Ma chiamato a testimoniare in aula - e dopo la telefonata intercettata -, il questore cambierà versione: "Sono stato io, di mia iniziativa, a chiamare Sgalla". Per gli inquirenti sarebbe stato lo stesso De Gennaro ad indurlo al "ripensamento".

Le intercettazioni telefoniche fanno parte del fascicolo aperto dalla procura genovese nei confronti di De Gennaro, Colucci e Mortola. In questi giorni ai tre sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari. Hanno venti giorni di tempo per presentare memorie difensive, nuovi elementi o farsi interrogare. trascorso questo periodo la procura potrà chiederne il rinvio a giudizio.

(26 novembre 2007)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Novembre 26, 2007, 06:52:26 pm »

«Giuliani? 1 a zero», trovati i poliziotti degli insulti al G8

Una poliziotta in servizio a Genova e un agente toscano. Sono loro le due persone che, nelle concitate ore dei disordini a Genova durante il vertice G8 del luglio 2001 inneggiarono alla morte di Carlo Giuliani, autori delle telefonate choc (tra la sala operativa e gli agenti in strada) emerse con la pubblicazione delle registrazioni di alcuni scambi di battute dalla sala radio della questura alla strada. Lo ha scoperto l'indagine interna avviata per volere del capo della polizia Antonio Manganelli.

La notizia è stata anticipata dal quotidiano genovese «Il secolo XIX». Tra le frasi pronunciate dai due agenti: «Speriamo che muoiano tutte quelle zecche» e «Tanto è già uno a zero per noi» in riferimento all'uccisione di Giuliani.

L'agente donna è in questo momento è in congedo per motivi personali, il poliziotto, invece, era a Genova come “rinforzo” ai colleghi liguri. Entrambi saranno sottoposti all’indagine della questura genovese, per la quale in quei giorni prestavano servizio: si occuperà della vicenda il questore di Genova Salvatore Presenti che richiederà alla procura della Repubblica le registrazioni delle telefonate.

A portare alla luce i responsabili di quelle frasi vergognose, un’indagine interna voluta dal capo della polizia Antonio Manganelli che, spiega, aveva sentito «la necessità di una verifica urgente e accurata su quelle telefonate». Si riconferma così, la posizione di Manganelli su quanto avvenne in quei giorni del 2001, per nulla innocentista. Nella sua deposizione come testimone nel 2002, l’attuale capo della polizia aveva raccontato di aver risposto così a un De Gennaro soddisfatto di come si era svolta l’irruzione alla scuola Diaz: «Io credo che tu abbia visto un altro G8, gli dissi... Noi ne usciamo male e insomma, a me non sembrano pregresse, quelle ferite. Io ne ho viste tante – aveva detto – mi spiace dirlo al registratore, ma ne ho anche fatte tante... ma la bustina in tasca allo spacciatore... insomma, l’avevo vista nei film, ma non credevo potesse succedere».

Pubblicato il: 26.11.07
Modificato il: 26.11.07 alle ore 13.51   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Marzo 14, 2008, 09:17:54 am »

Parla Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura

Caso Bolzaneto, «non solo mele marce»

«Alcuni operatori imputati hanno continuato le loro carriere: così si lancia un messaggio di impunità»


«La mancanza di una legge sulla tortura ci pone agli ultimi posti in Europa» dice Mauro Palma, che per lavoro gira e ispeziona le carceri del Vecchio Continente. Fondatore di Antigone (l'associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale) è stato appena rieletto presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura.
Dopo la requisitoria dei pm al processo sul G8 sulle condizioni inumane e degradanti tenute alla caserma di Bolzaneto in Italia si torna a parlare di tortura. Si tratta di un fatto circoscritto o diffuso?
«Tutt'è due. E' circoscritto perché si riferisce a una ben determinata situazione, quella di Bolzaneto nel 2001. E' però anche diffuso perché non riguarda un singolo operatore che può avere esagerato, e nemmeno di tre o quattro che hanno sbagliato, ma tutta una struttura detentiva in cui si è collettivamente degenerato. La questione non può quindi essere liquidata con il solito paradigma delle mele marce. Dietro c'è una cultura di un certo tipo, un'impreparazione, una carenza formativa, una sottovalutazione del problema, ci sono responsabilità omissive e un'investigazione tardiva anche interna. Mi preoccupa che alcune persone imputate abbiano continuato le loro carriere: questo è un modo per lanciare al singolo operatore un messaggio di impunità».
Un malcostume limitato alla caserma di Bolzaneto o diffuso anche altrove?
«Fortunatamente non ho trovato negli anni delle grandi situazioni che confermassero una tendenza culturale ampiamente diffusa. Però cito tre fatti gravi:nel 2000 il pestaggio avvenuto a Sassari nel carcere di san Sebastiano e nel 2001 gli episodi a Napoli a marzo e a Genova a luglio. Tre fatti gravi in due anni con condotte che verranno quasi sicuramente prescritte».
Anche perché in Italia la tortura non è reato. L’Italia ha ratificato la convenzione Onu che vieta la tortura oltre vent’anni fa, nel 1987, ma da allora non è ancora stata tradotta in una legge penale. Perché secondo lei?
«All'inizio le autorità italiane sostenevano che non c'era bisogno di una traduzione di uno specifico reato perché le condotte che costituivano quel reato erano perseguite attraverso altre forme (violenza personale, abuso d'ufficio). Questa è una posizione debole: lo vediamo ora con Genova: i tempi di prescrizione per un abuso d'ufficio sono ben diversi che quelli della tortura. Ora tutte le forze politiche almeno in teoria sono favorevoli a una legge sulla tortura. Ma non è stata una priorità di questo Parlamento».
Questo buco legislativo come ci colloca in Europa?
«A uno degli ultimi posti per l'attenzione delle forze politiche al problema. Questo vuoto legislativo penso sia più grave delle condotte dei singoli operatori. La ratifica Onu è avvenuta nel 1987, siamo nel 2008 e ancora ci stiamo a intrerrogare su dove sia il reato. Del resto i magistrati a Genova hanno dovuto ammettere: non abbiamo una norma che ci permetta di perseguire adeguatamente i comportamenti che sono stati messi in atto».


Alessandra Muglia
12 marzo 2008 (ultima modifica: 13 marzo 2008)

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Marzo 19, 2008, 02:44:27 pm »

CRONACA

Genova, il dossier dei pm: nella caserma tutti sapevano e tollerarono violenze disumane

"Torture e impunità nell'inferno di Bolzaneto"

di MASSIMO CALANDRI


 GENOVA - Nella memoria dei pubblici ministeri di Bolzaneto, il termine Duce compare 48 volte. Mussolini, 8 volte. E 28 Pinochet, 9 Hitler, una Francisco Franco. Nelle 791 pagine consegnate ieri durante il processo al carcere speciale del G8, si ripetono all'infinito quattro sostantivi: rispetto, legalità, difesa, pietà. Ma queste sono parole, scrivono i pm, "cancellate dalla semplice crudeltà dei fatti".

Parole annullate da "comportamenti inumani, degradanti, crudeli", dalla "sistematica violazione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Dalle violenze, dagli abusi psicologici, dalle minacce, dalle privazioni, dalle offese: tutte accompagnate da un costante richiamo fascista, con i detenuti costretti ad urlare "Viva il Duce!" e ad esibirsi in umilianti sfilate con il braccio teso in un grottesco saluto romano, mentre un telefonino rimanda sinistra la musica di Faccetta Nera. "Bastardi rossi!". "Voi, dei centri sociali!". "Ebrei di merda!". "Zecche comuniste!". "Bombaroli!". "Popolo di Seattle, fate schifo!".

Luglio 2001, tortura
Tre giorni e tre notti che "non potranno essere dimenticati", spiegano i pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, ben sapendo che da sette anni c'è chi gioca col calendario e fa spallucce, contando sulla prescrizione. E però resta questo sofferto documento, di sette capitoli. Che risponde a due istanze fondamentali. La prima è di ordine tecnico-giuridico: fornire le prove inconfutabili di ciò che è accaduto, usando le parole delle vittime e chiarendo perché sono attendibili dalla prima all'ultima parola. La seconda è lasciare un documento storico. Esemplare. Una memoria, appunto, proprio perché nessuno dimentichi. Con l'augurio che il reato di tortura - "questo fu, a Bolzaneto" - venga un giorno disciplinato dal nostro codice penale.

"Con Berlusconi facciamo quello che vogliamo"
Un capitolo, il terzo, è dedicato alle deposizioni dei 209 fermati. Indicati uno per uno. Nome, cognome, scheda segnaletica, fotografia, impronte. È un lungo racconto dell'orrore, basta pescare a caso. Nicola N., Siena, 1981: "Nel corridoio già dall'arrivo deve camminare a testa bassa. Prima di farlo entrare in cella lo fanno inginocchiare davanti alla cella e gli danno due pugni in faccia ed un calcio. Deve stare in piedi con le mani legate dietro alla schiena, ad un certo punto in ginocchio. Ad ogni spostamento viene colpito con calci, pugni, schiaffi colpi a mano aperta nella schiena e ginocchiate nello stomaco. Gli agenti gli dicono di tenere la testa bassa perché è un essere inferiore e non degno di guardarli in faccia, che è una merda e che con Berlusconi possono fare quello che vogliono".

"Ti piace il manganello?"
Ester P., Pinerolo, 1980: "Durante il passaggio nel corridoio riceve calci e sberle al passaggio, e insulti. "Puttana, troia". In bagno l'agente-donna le schiaccia la testa verso il basso sino a quasi toccare la turca mentre dal corridoio gli agenti la insultano con parole: "Puttana, troia, ti piace il manganello?". Dalla cella vede un ragazzo nel corridoio colpito con manganellate ai testicoli. In infermeria deve spogliarsi completamente e la fanno uscire nel corridoio in mutande e reggiseno. Prima della traduzione degli agenti con divisa grigia la fanno mettere in fila con gli altri e fanno fare loro il saluto romano, cantare "Faccetta Nera" e dire "Viva il Duce"".

Il taglio del codino
Adolfo S., spagnolo, Reicon de Olivedo, 1970: "Nel corridoio lo mettono in piedi contro il muro e mentre è in questa posizione descritta, gli agenti gli tagliano il codino. In bagno viene nuovamente percosso con la porta dello stanzino e dove gli agenti buttano nella tazza il codino tagliato e lo obbligano ad urinarvi sopra. Mentre è in corridoio viene riconosciuto da un agente che lo aveva identificato per strada che chiama un collega; lo portano poi in bagno, gli danno due forti colpi, lo chiudono nello stanzino e continuano a colpirlo; poi un agente, che a lui pare indossare la divisa dei carabinieri, gli mostra un distintivo e gli dice: "Avete ucciso un mio collega". Trascorre la notte al freddo, senza cibo e senza acqua e continua a ricevere colpi sino a che al mattino viene portato via".

"Non rivedrai i tuoi figli"
Valerie V., francese, Perpignan, 1966: "Fanno pressione per farle firmare un documento, le danno colpi a mano aperta sulla nuca, le mostrano le foto dei figli sul passaporto e le dicono che se non firma non li avrebbe più rivisti. Riceve anche insulti del tipo: "Comunisti, rossi". Sente urla dal corridoio e da altre celle, e supplicare. Sente che gli agenti fanno versi gutturali come di animali. Ricorda in cella chiazze di sangue e di vomito, e sente odore di urina. Non le danno da bere né da mangiare. Riesce a bere solo un po' d'acqua da un lavandino, prima di essere picchiata. Ricorda una ragazza americana in cella con lei, Teresa. Viene ammanettata con lei. La rivede nel carcere di Alessandria, e questa volta ha lividi su tutto il corpo".

L'impunità
Non ci furono casi isolati, scatti improvvisi di rabbia. I pm spiegano che "l'istruttoria dibattimentale ha dimostrato una pluralità di comportamenti vessatori perduranti nell'arco di tutti i giorni di presenza degli arrestati". "Vi è stata una volontà diretta a vessare le persone ristrette nel sito, a lederle nei loro diritti fondamentali proprio per quello che rappresentavano: tutti appartenenti all'area no global e partecipanti alle manifestazioni ed ai cortei contro il vertice G8".

"Non crediamo ad esplosioni improvvise di violenze. Il processo ha provato che i capi ed i vertici di quella caserma hanno permesso e consentito, con il loro comportamento e con la gravità delle loro consapevoli omissioni, che in quei tristi giorni si verificasse una grave compromissione dei diritti delle persone. Perché è questo ciò che il processo ha provato essere accaduto. Troppo grave è stato il concorso morale in tutte le sue forme, troppo grave la tolleranza, troppo grave ogni mancato dissenso da comportamenti violenti e scorretti, troppo grave anche solo il loro silenzio e la loro inerzia, troppo grave il rafforzamento del diffuso senso d'impunità che ne è conseguito".

La giustizia frustrata
La frustrazione dei magistrati è evidente. Citano Cesare Beccaria, Pietro Verri e Antonio Cassese, già presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti. "A Bolzaneto fu tortura", ripetono. E per dare forza alle loro argomentazioni, rimandano ad una serie di precedenti internazionali. Ricordano il caso Irlanda contro Regno Unito del gennaio di trent'anni fa, in cui si dà conto delle "torture" subìte dai simpatizzanti irlandesi da parte dell'esercito britannico.

Ma a differenza di tutti gli altri paesi, sottolineano, l'Italia non si è mai adeguata alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo. L'ha sottoscritta nell'89, però il codice penale quel reato non lo ha mai disciplinato. Tortura. "Altrimenti, gli imputati avrebbero dovuto essere condannati a pene comprese tra i due e i cinque anni di reclusione". Invece di anni ne hanno potuti chiedere 76, suddivisi tra 46 persone. Che "avrebbero dovuto comportarsi come caschi blu dell'Onu". E invece trasformarono quella caserma in "un inferno".

(19 marzo 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Marzo 20, 2008, 12:41:34 am »

Il leader del Pd chiede di ratificare la convenzione internazionale sui diritti umani

Veltroni riapre la piaga di Bolzaneto: «Accertare le responsabilità politiche»

«Uno Stato democratico non si può rendere responsabile di quanto accadde a Genova durante il G8»

 
LODI - Walter Veltroni chiede di «accertare» se vi sono state «responsabilità politiche nel dare gli indirizzi che poi sono stati applicati» alla caserma Bolzaneto durante il G8 del luglio 2001 a Genova, dopo che i pm hanno chiesto un totale di oltre 76 anni di reclusione per 44 imputati. «Uno Stato democratico non si può rendere responsabile di quello che è accaduto al G8 di Genova», ha detto il candidato premier del Pd durante un comizio a Lodi.

INTOLLERABILE - «L'Italia deve riconoscenza alle forze dell'ordine, che in questi anni si sono sacrificate per garantire la sicurezza a tutti, e questo giudizio non può essere scalfito. Ma quanto è accaduto a Bolzaneto è intollerabile, non è accettabile», ha aggiunto il segretario del Partito democratico. «Inoltre a garanzia di tutti, a tutela della legalità, occorre ratificare la convenzione internazionale sui diritti umani che include la tortura, perché in alcuni casi si è arrivati a tanto».


19 marzo 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Marzo 21, 2008, 12:13:41 am »

G8, cronache dal mattatoio di Bolzaneto


Sette udienze, una mole di lavoro impressionante.

È la requisitoria dei pm di Genova su Bolzaneto (la trascrizione anche su www.supportolegale.org) che ricostruisce passo passo quei giorni: «Abbiamo 200 e rotte deposizioni, tutte precise, dettagliate, univoche e reiterate, gli avvenimenti sono descritti con precisione, in maniera dettagliata e con espressioni chiare e non equivocabili».

Il comitato d'accoglienza: «Facciamo come in Kosovo» «Le persone offese ci hanno raccontato che all'uscita dai mezzi c'era un trattamento vessatorio: sputi, spintoni, insulti, insulti politici, e anche minacce, particolarmente gravi quando indirizzate verso donne e a sfondo sessuale «entro stasera vi facciamo tutte», «bisogna fare come in Kosovo». Noi lo abbiamo chiamato il «comitato di accoglienza», era la ricezione di chi arrivava. Ci sono descrizioni di calci, sputi, e altro. Sono state descritte situazioni di attesa in questo piazzale, o contro il muro della palazzina, o contro la rete del campetto da tennis. Ad es. tutto il gruppo degli arrestati alla Paul Klee vengono tenuti in piedi sotto il sole contro questa rete. Altri ancora, ed è il caso di due arrestati della Diaz, contro un albero che era - lo abbiamo visto - nel piazzalino. E dobbiamo cominciare a parlare della posizione in cui venivano spesso tenuti: in piedi, gambe divaricate, braccia alzate o lungo il corpo, faccia al muro. Questa posizione è evidente che se imposta per un certo tipo di tempo comporta una sofferenza fisica, ed è evidentemente umiliante per chi la subisce. L'abbiamo chiamata «posizione vessatoria di stazionamento o di attesa», per distinguerla dalla «posizione vessatoria di transito». Abbiamo la testimonianza dell'infermiere Poggi che ci ha ricordato questa posizione, che ci hanno descritto anche molti arrestati, e ci ha detto che nel gergo della polizia penitenziaria veniva chiamata «la posizione del cigno». (Ranieri Miniati)

«1-2-3 viva Pinochet, 4-5-6 a morte gli ebrei» «Nelle celle sono riferite percosse di vario tipo: manganelli, schiaffi, pugni, pugni guantati, calci, colpo sulla nuca per far sbattere la fronte contro il muro, tanto è vero che parecchi testimoni hanno ricordato di avere visto macchie di sangue sui muri della cella più o meno all'altezza delle teste. Poi abbiamo i lanci... gli spruzzi di spray, sia il venerdì che il sabato, caso emblematico perché è ricordato da tutti, con lo spruzzo su LK, che si sente male, vomita, l'intervento di Toccafondi (medico responsabile della polizia penitenziaria), e poi di Perugini (ex numero due della Digos genovese) chiamato dai carabinieri. Ma non è l'unico caso.

Oltre alle percosse abbiamo poi il riferimento a offese verbali, sia insulti che minacce: si va dalle frasi volgari che a una serie di insulti a sfondo sessuale che a sfondo politico: riferimenti allo stupro, per fortuna limitati alla minaccia, grazie a dio; riferimenti al Kosovo, alla spartizione delle prede; ingiurie politiche varie, l'obbligo di riferire frasi contro personaggi di sinistra, prese in giro su D'Alema, Bertinotti, Manu Chao, che farebbero ridere se non in quel contesto; alcune brutte se non insopportabili, come i continui riferimenti alla morte di Carlo Giuliani, il riferimento agli episodi di piazza ovvero alla morte di un membro delle ffoo e la necessità di pareggiare il conto, per fortuna non vero. Addirittura il teste Giovannetti, che è stato citato dalla difesa, e certamente non è una persona vicina ai no-global, ci ha ricordato che mentre lui era a bolzaneto si era sparsa la voce della morte di un poliziotto tanto che lui si adoperò per tranquillizzare la persona. E ancora altri tipi di minacce politiche: filastrocche come quella di Pinochet "1-2-3 viva Pinochet, 4-5-6 a morte gli ebrei", la suoneria con Faccetta Nera, abbiamo riferimenti continui al fascismo "viva il duce" "viva Mussolini". B. ricorda che mentre era al muro ricorda che era venuto un poliziotto che faceva il giochino: "Chi è lo Stato?" "La polizia" "Chi è il capo?" "Mussolini". Ancora peggio i riferimenti a Hitler, ai nazisti e agli ebrei. F. ci ricorda un dialogo: "Per queste persone ci vorrebbe Mussolini" "Ma no, che Mussolini, ci vorrebbe Adolf e i suoi forni". I "benvenuti ad Auschwitz"».

«Vuoi rivedere i tuoi figli? Allora firma» «All'interno dell'ufficio trattazione atti, le stanze nell'atrio, dove gli arrestati avrebbero dovuto firmare gli atti relativi al loro arresto. Ci hanno ricordato, anche gli stessi appartenenti dell'ufficio, che alcune volte erano gli agenti che andavano nelle celle, ma quasi sempre viceversa. Le persone hanno ricordato pressioni e atti violenti per firmare gli atti. Il caso tipico è della testimonianza di una ragazza a cui viene mostrata la foto dei suoi figli con la minaccia che se non firmava non li avrebbe visti tanto presto... minaccia assai vile, tra l'altro».

Il piercing vaginale fatto rimuovere davanti a tutti «Poi due perquisizioni, una della polizia e una della polizia penitenziaria, una nell'atrio e una in infermeria. Anche qui ricordo di oggetti gettati via a casaccio, piercing giustamente rimossi ma in maniera brutale e con minacce, oppure davanti ad altre persone. È il caso della ragazza con il piercing vaginale, obbligata a rimuoverlo con le mestruazioni davanti a 4-5 persone».

AK, buttata a terra con una mascella rotta «Ma c'è di peggio: ci sono ricordati più episodi di violenza e percosse nel bagno. Tra cui AK che aveva una mascella rotta e che mentre sta facendo i suoi bisogni viene spinta a terra. Poi abbiamo la mancanza di assorbenti per le donne, cosa ampiamente umiliante e vessatoria: viene ricordato il lancio di pallottole di giornale; addirittura la M. una persona con una certa età, madre, che ha dovuto strappare una maglietta e si è dovuta arrangiare».

I manganelli e la minaccia di sodomizzazione «Fortunatamente non abbiamo avuto casi di violenza sessuale, grazie a Dio, ma ci sono state minacce di violenza sessuale sia per le donne che per gli uomini, in molti casi allusivi con l'uso di bastoni o manganelli. Ad es P. è in infermeria nudo e cominciano battute legate all'aspetto del suo membro, del suo aspetto fisico "carino il comunista, ce lo facciamo?", fino alla minaccia di sodomizzazione».

La «testa rasata» entra in cella e prende tutti a calci «Iniziando dal venerdì 20 luglio abbiamo individuato BM, che ha deposto il 30.01.2006: abbiamo la data di arresto sul verbale, anche se non è segnata l'ora di arrivo a Bolzaneto, e l'ora di immatricolazione e di traduzione. BM è arrestato il 20 luglio alle 16.40 ca, preso in carico alla 1.15 dalla matricola, e arriva al carcere alle 3.15. Riferisce di essere arrivato a Bolzaneto e che di essere dovuto passare nel comitato di accoglienza in corridoio dove viene colpito con manganelli. Viene messo in punta di piedi, fronte al muro, mani legate con laccetti dietro la schiena. Ricorda che gli facevano sbattere la testa contro il muro. Ricorda che arrivò una persona rasata con accento emiliano in cella e picchiò un po' tutti con calci. Ricorda di aver chiesto ma di non essere stato lasciato andare in bagno, ricorda la puzza di urina in cella e le macchie di sangue. Era ferito, ricorda che gli viene dato un sacchetto bianco con del ghiaccio per metterla sull'occhio ferito, e dato che non poteva usare le mani doveva premere la testa contro il muro. Sente rumore di accendino e le urla di un ragazzo. Poi ricorda nella fase finale il passaggio in corridoio dove è preso a calci ed è costretto a dire "duce duce"».

In ginocchio, sputi addosso e versi di animali Passiamo a un'altra arrestata del venerdì ET: è arrestata il venerdì verso le 17.30, fa parte del gruppo del carrello di generi alimentari. Ricorda di essere arrivata a Bolzaneto, ricorda i laccetti e le mani dietro la schiena, l'arrivo nel piazzale, gli sgambetti nel corridoio, ricorda una posizione in ginocchio in cella faccia al muro. Ricorda di aver visto EP e FD in cella. Ricorda sputi e versi di animali, espressioni in lingua italiana che non capisce. EP traduce per lei dal francese in italiano. Chiede di andare in bagno e un agente le dice di farsela addosso. Viene accompagnata in bagno e viene percossa nel corridoio. Riconosce l'agente che l'accompagna in bagno come una di quelle che la traduce, le fa sbattere la testa contro il muro. Un agente uomo le dice di lavarsi le mani e quando si avvicina al lavabo viene colpita a calci».

Spray in faccia due volte e poi bastonate «Ultimo arrestato del venerdì che esaminiamo è RA, quello che subisce lo spruzzo di spray e che deve essere decontaminato con una doccia e deve stare con una cappa. Ricorda i lacci, di lamentarsi per i lacci. Ricorda il passaggio all'ufficio trattazione atti dove chiede di fare una telefonata e riceve schiaffi. Ricorda che qualcuno in ufficio trattazione atti si mette dei guanti e lo costringono percuotendolo a dire "sono una merda". Viene riportato in cella e deve rimettersi contro il muro. Entra un agente e gli spruzza in faccia per due volte il gas urticante, lui sta male, ricorda la doccia di decontaminazione e mentre la fa viene colpito a manganellate. Ricorda il camice verde ospedaliero che deve mettere sotto la doccia. Poi viene riportato in cella».

All'operaio di Brescia: «Compagno, io t'ammazzo» «PB operaio di Brescia che subisce quella vicenda in infermeria di minacce di sodomizzazione. Indossa una maglietta nera con falce e martello gialla e con una scritta di Mao Tse Tung. Questa maglietta fu l'inizio di una serie di guai, perché fu bersagliato per essa. Ricorda nel cortile il primo commento "questo sì è un comunista con le palle". Ricorda peraltro anche cose positive: in tutti i suoi spostamenti viene accompagnato dal solito agente che cerca di ripararlo un po'. Ricorda vari insulti, ricorda il trasferimento a testa china, minacce, percosse nei corridoi, chiede di andare in bagno ma non l'ottiene, ricorda l'odore di urina, ricorda che durante la perquisizione alcuni oggetti vengono buttati via, ricorda di essere stato colpito con colpi di manganello e di essere stato oggetto di una minaccia "compagno io ti ammazzo" e al suo girarsi di essere stato spruzzato con lo spray». Saluti romani, «viva Mussolini» e «Heil Hitler»

«Passiamo proprio a HJ, citato da IMT: arrestato alla Diaz, ricorda uno spagnolo di nome J con delle fasciature, lui viene dall'ospedale e arriva a ponte x la domenica, e ricorda all'ingresso nel piazzale l'imposizione ad altri di fare il saluto romano e di dire "Heil hitler". Ha riferito del suo disagio per l'inconveniente di cui sopra, e di questa sua esigenza di lavarsi, e ricorda che gli agenti lo indicavano facendo il gesto di turarsi il naso. Ricorda gli insulti e la stessa cosa che ricorda anche B., un inglese che non ha rapporti con HJ: tra i vari insulti ricorda l'imposizione del giochino "Chi è lo Stato?" "La polizia" "Chi è il capo?" "Mussolini". Ricorda il trasporto camminando chino, gli insulti alla morte di Carlo Giuliani, di essere andato in bagno con la porta aperta, ricorda AK con la bocca rotta, ricorda un'altra ragazza che aveva dei figli. Ricorda perquisizione e situazione in infermeria: viene portato insieme a un altro, che lo riscontra, ricorda che all'altro viene tolta la cintura e lui viene minacciato con la cintura».

«Stai zitto, non sei un cittadina ma una merda» «T. è uno dei pochi italiani transitati domenica, e ricorda di essere arrivato insieme a un inglese che aveva una gamba rotta, RM. Ricorda che mentre era nel piazzale è stato irriso, e minacciato "comunisti per voi è finita". In cella doveva stare contro il muro e ricorda un'altra cella con le persone con le mani dietro la nuca. Ricorda in cella un tedesco di nome T., uno spagnolo, e ricorda questi appelli che continuano a fare gli agenti, cosa riscontratissima, anche da parecchi appartenenti dell'ufficio trattazione atti che ricorda di aver dovuto fare l'appello degli arrestati più volte. Ricorda di essere stato più volte insultato e paragonato a una capra. Lui disse che fece un intervento dicendo "io sono un cittadino italiano e voglio essere rispettato", e un agente alla presenza del medico disse "stai zitto non sei un cittadino, ma una merda"».

«Ne dovevamo ammazzare cento, te gusta el manganello?» «Arriviamo a BSG, arrestata alla Diaz, arriva a Bolzaneto e ricorda una lunga attesa prima di essere introdotta in cella, ricorda l'etichettatura con il pennarello rosso sul viso, e che altri vennero etichettati in verde. Al momento della perquisizione le sue cose vengono buttate a terra, insulti tipo "troia" e "puttana", calci durante il transito in corridoio. In cella ricorda alcune espressioni: "Ne abbiamo ammazzato uno, ma ne dovevamo ammazzare cento", "faccetta nera", "puttane", "fate schifo", "vediamo se Bertinotti e Manu Chao vengono a salvarvi" e poi la canzoncina di Pinochet, e anche una canzona di Manu Chao parafrasata in "te gusta il manganello". Altri ricordano "te gusta la galera"».

Gli agenti, le «garanzie» e il senso di impunibilità «Una osservazione sui livelli di vertice: sicuramente loro non hanno materialmente svolto l'attività di vigilanza davanti alle celle, che è stato svolto da altri che noi abbiamo ascritto ad altro livello di responsabilità. Ma a nostro avviso siccome i livelli di vertice di Bolzaneto erano ufficiali di PG e avevano il dovere di impedire la commissione di reato, erano anche responsabili dell'incolumità delle persone in stato di custodia: avevano l'obbligo di impedire che si verificassero o che continuassero a verificarsi una volta verificatesi. Si è verificato un mancato doveroso intervento per impedire le azioni criminose. Vi è stato ben oltre l'omissione di denuncia: in alcuni casi vi è stata anche quella, ed è sintomatico dell'atteggiamento doloso, ma vi è stato di più, con questa tolleranza delle condotte, che ha di fatto rafforzato la determinazione nello svolgere queste condotte nella convinzione dell'impunibilità».

«Brutto nano pedofilo buono per il circo» «Poi arriviamo ad A. molto basso, ricordato da molti. Cosa dice A.: ricorda alcuni, come una persona più matura con nome tipo Dalla; ricorda di aver dovuto attendere alla rete del campo da tennis in piedi sotto il sole; ricorda l'ingresso; ricorda di aver dovuto stare in cella nella solita posizione; ricorda una serie di insulti che vengono ricordati da molti tipo "nano buono per il circo". Ripeto su questo punto i riscontri sono innumerevoli, dato che moltissime persone si ricordano di questi insulti. Ricorda che a un certo punto si spruzzò del gas e una ragazza stette male. Ricorda una persona con una gamba artificiale, TM, che di notte non riesce a mantenere la posizione, si siede e viene picchiato per questo. Ricorda poi un episodio: lo accompagnano in bagno un po' all'ultimo momento, e che il tempo che gli misero a disposizione per fare i bisogni non fu sufficiente e dovette rimanere non proprio pulito, e maleodorante, e quindi ulteriori derisioni. Ricorda un altro episodio con decine di riscontri, e ce lo ricorda addirittura la deposizione dell'agente Astici: A. ricorda che a un certo punto fu accusato di essere un pedofilo, e questo fu fonte di preoccupazione e umiliazione; dal nano non profumato si passò al nano pedofilo».

«Farete la stessa fine di Maria "Sole"» «KL è la ragazza del vomito. Viene arrestata in via Maggio, ricorda l'attesa vicino alla rete, la posizione vessatoria in cella, ricorda gli insulti "vi facciamo fare la stessa fine di Sole" (Maria Soledad Rosas, l'attivista arrestata nel ‘98 durante un'irruzione al centro sociale di Collegno con l'accusa di ecoterrorismo e poi impiccatasi, ndr), ricorda il cellulare faccetta nera, ricorda lo spruzzo, e il suo vomito di sangue, perdendo quasi i sensi. Si riprende in infermeria dove c'è un dottore con la maschera che indossa una maglietta della polizia penitenziaria, robusto. Si riprende, il dottore chiede di preparare un'iniezione e lei vuole sapere di che cosa si tratta. Il dottore dice "non ti fidi di me?", lei dice che non vuole fare l'iniezione, e ricorda la risposta "vai pure a morire in cella"».

La stanza dei manganelli e delle canzoncine «Capo 93: Ingiurie contro AK per averla derisa puntandole contro la bocca ferita il manganello e dicendole "manganello, manganello". AK: "Sono stata tre volte in questa stanza, c'erano cinque o sei persone, e la porta era sempre aperta; non si è presentato come dottore ma dall'abbigliamento si riconosceva, non so se era verde chiaro o bianco. Mi sono sdraiato sulla barella e il medico mi ha chiesto cosa fosse successo. Io gli ho fatto capire che c'era una ferita per un colpo, lui ha preso un manganello e lo ha avvicinato velocemente fermandosi prima di colpirmi, ha cantato una canzoncina "manganello, manganello", gli altri intorno si sono messi a ridere con lui. Aveva una quarantina d'anni, lui cantava e gli altri ridevano molto forte".. Il diario clinico è firmato da Toccafondi (responsabile del servizio sanitario all'interno di Bolzaneto, per lui richiesti 3 mesi 6 giorni 25, ndr), che è presente e indossa un camice. L'identificazione è provata».

Il braccio rotto, ma nemmeno una lastra «Capo 97: contestazione di omissione d'atti d'ufficio a carico di Toccafondi. La contestazione riguarda il rifiuto del ricovero di OK, atto dovuto in ragione della gravità delle lesioni di OK, frattura scomposta dell'ulna. Esaminiamo il caso: arrestata alla Diaz, immatricolata alle 22.15 di domenica e posta in traduzione lunedì a mezzogiorno. OK aveva fatto querela il 18 ottobre 2001: aveva precisato che in infermeria le avevano buttato le lenti a contatto nell'immondizia. Ha testimoniato: «Avevo un braccio rotto, il gomito sinistro, colpi su entrambe le braccia, sulla schiena e sul collo, il braccio era in una posizione non normale, si vedeva che era rotto; credo che sul lato destro dell'infermeria vi fosse una scrivania, una donna e un uomo, l'uomo con i capelli grigi sul lungo con la faccia rossa e una cappa verde, la donna era bionda; io l'ho guardato e ho detto: "Frattura! frattura!"; la cosa è stata frettolosa, mi hanno dato una crema e una benda». Poi ricorda un secondo passaggio in infermeria: «Era lunedì mattina verso le 11.00, mi sono dovuta spogliare, era un altro medico, i capelli neri, non magro, una polo scura, gli occhiali; c'erano due donne, mi sono dovuta spogliare e girare su me stessa; l'uomo mi ha chiesto se mi drogavo e se avevo problemi di salute; io ho detto "sì, sì, frattura" mostrando il braccio, lui ha alzato le spalle e non ha detto niente; avevo un ematoma sul collo e non riuscivo quasi a parlare ed ematomi sulle braccia"». Chiedemmo se fosse stata rauca, e lei ha risposto di sì. Questo perché nel diario clinico di Voghera era diagnosticata anche la raucedine, oltre il ricovero d'urgenza in ospedale per una frattura all'ulna non diagnosticata a Bolzaneto. Il diario clinico è firmato da Bolzaneto. Abbiamo sentito il dr Caruso. Circa la mancata diagnosi: "Una frattura scomposta può determinare ecchimosi e dismorfismo rilevabile anche senza esami radiografici". Sappiamo che il 328 al primo comma punisce il pubblico ufficiale che non procede a un atto dovuto per ragioni di sanità: prevede quindi un rifiuto e un atto indilazionabile. Dal nostro prospetto delle presenze sappiamo che nella notte tra domenica e lunedì il dr. Toccafondi era l'unico presente».

Partono i pugni, e il medico non muove un dito «Capo 108: contestate ad Amenta (Aldo Amenta, medico in servizio a Bolzaneto, per lui chiesti 2 anni e 8 mesi, ndr) lesioni in concorso con Incoronato Alfredo (agente della polizia penitenziaria, ndr) in danno di LGLA. L'episodio è già stato esaminato dalla collega sulla posizione Incoronato. Sul pestaggio ha deposto anche Pratissoli (Ivano Pratissoli, infermiere quel giorno presente a Bolzaneto, ndr): "Ad un certo punto un agente è venuto dentro con un ragazzone, questo G. ero di fianco... Il dr. Amenta era seduto, ho visto questo agente che si è infilato i guanti, gli ha dato un pugno e il ragazzo si è appoggiato al tavolo. Io ho chiesto lumi ad Amenta che ha detto che aveva offeso qualcuno di grosso. Si è rialzato e lo continuavano a colpire. Non c'era Poggi (Marco Poggi, altro infermiere in servizio a Bolzaneto, ndr) e gli ho detto "Oh Marco ma dove siamo capitati?". Amenta è sicuramente presente, è in servizio venerdì dalle 20 fino alle 8 di sabato mattina, proprio nella fascia oraria in cui transita in infermeria LGLA. La condotta è in evidente concorso morale, confermando negli agenti la sensazione di impunità e che è una delle cause del trattamento inumano e degradante».


Pubblicato il: 19.03.08
Modificato il: 19.03.08 alle ore 20.03   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Marzo 25, 2008, 07:36:34 pm »

Bolzaneto, quando la prudenza è troppa

Giancarlo Ferrero


Le parole di un ministro dell´Interno nonchè docente di Diritto pubblico meritano un´adeguata riflessione prima di contestarle, anche solo in parte. La compostezza dimostrata da Amato è sempre un merito, soprattutto per chi esercita un alto ruolo pubblico, non deve però mai velare la realtà degli eventi e la valutazione giuridica dei fatti. In taluni casi limite poi la mitezza terminologica appare impropria, quando non offensiva; infatti l´indignazione, come dice la Zarri (una delle pochissime teologhe donne), «urla». I fatti di Genova scuotono anche le più rozze coscienze, ci pongono di fronte a una rappresentazione del male che pensavamo di poter vedere solo nei più brutti film dell´orrore. Ebbene, Amato ovviamente li condanna e con loro biasima l´indifferenza della classe politica, ma mantiene un tono distaccato e pone l´accento soprattutto sui singoli episodi, più che sul fenomeno di cui sono espressione e che va ben al di là degli squallidi protagonisti e delle loro audaci gesta. Con una visione un po´ deformata del giurista, ci invita a lasciare che i giudici facciano il loro lavoro, stabiliscano se vi sia la responsabilità degli imputati, demandando eventualmente ad un momento successivo una presa di posizione politica.

Il lavoro dei primi (che, come è noto si esplica in tempi assai brevi nei suoi tre gradi di giudizio!!) è, secondo il ministro, non solo sufficiente, ma esaustivo, tanto da rendere inutile una apposita commissione parlamentare di inchiesta! Una volta accertato che il "sig. x" ha strappato la mano del "sig. y" o violato la persona della malcapitata ragazza di turno, lo Stato ha fatto il suo dovere; con la condanna e le pene (che non verranno mai scontate), il diritto leso dal delitto, (come si legge nei vecchi manuali giuridici), viene sanato e la sua supremazia riaffermata. Per questo, come dice Amato, dobbiamo essere fieri dell´autonomia ed indipendenza della nostra giurisdizione. Peccato che accanto ai giudici vivano anche dei cittadini ed esista un´opinione pubblica che non si appaga di sentenze, ma vuole capire come sia potuto accadere un così clamoroso caso di oscuramento della cultura democratica del nostro Paese.

A questa domanda i giudici, anche se riempissero la loro sentenza di "obiter dictum" cioè di proposizioni altamente significative che vanno oltre alla stretta interpretazione di norme giuridiche, non potranno mai dare una risposta. Solo la politica può farlo spiegando le ragioni per cui il Sindaco di Genova è stato tagliato fuori dalla gestione sia pur eccezionale della sua città, perché la polizia ha operato con grave inadeguatezza professionale, non separando subito i facinorosi ed i violenti tranquillamente cinepresi da diversi, disarmati operatori, perché erano presenti in loco alcuni alti esponenti politici, come mai non hanno saputo esercitare alcuna influenza su questa banda di energumeni in divisa, come mai hanno scelto la via del silenzio, cosa e chi ha determinato un clima di violenza ed impunità inaccettabili per qualsisi Stato di diritto.

Ad una espressa, ineludibile domanda dell´intervistatore di «Repubblica», Amato risponde che in presenza di un procedimento penale per reati considerati dal nostro codice penale non particolarmente gravi (ammette che i fatti hanno la consistenza della tortura, ma non c´è l´apposita legge - un´enorme vergogna per il nostro Paese) non si poteva procedere alla sospensione dal servizio. Forse la frase è stata mal riportata perché i procedimenti disciplinari, ovviamente influenzati da eventuali sentenze penali di condanna, hanno una loro pacifica autonomia e possono essere iniziati anche prima o in pendenza di un processo penale, sempre che i fatti contestati siano degli illeciti.

Indipendentemente da quello che decideranno i giudici penali, i fatti compiuti e documentati a Genova sono di una gravità tale da esigere un immediato intervento dello Stato, a tutela dei cittadini e del buon nome della polizia, quella vera che previene e colpisce i reati, non li commette. Non è certo il caso di ricordare al ministro che le sanzioni disciplinari hanno una vasta gamma di estensione con una forte componente di motivata discrezionalità da parte della Pubblica Amministrazione; solo la più grave, la destituzione, diviene obbligatoria quando vi è una sentenza di condanna definitiva per reati gravissimi. Non crediamo che una persona dalla cultura democratica e competenza giuridica come Amato possa essere lieta (lasci questa gioia all´ing. Castelli) di mantenere in servizio gente che disonora lo Stato e la divisa che indossa. Ormai il coperchio, sciaguratamente schiacciata sulla pentola, è stato tolto per opera soprattutto di magistrati e giornalisti coraggiosi, il marcio che bolliva dentro è stato visto dai cittadini che hanno ora il sacrosanto diritto di sapere se, al di là dei singoli fatti criminosi, vi sia stata, in che misura e da parte di chi, una responsabilità politica del pericoloso e inammissibile fenomeno che li ha cagionati o resi possibili.

Pubblicato il: 25.03.08
Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.28   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Marzo 29, 2008, 06:53:04 pm »

Chiesto il rinvio a giudizio anche per l'ex questore Colucci e l'ex capo della Digos Mortola

«G8, De Gennaro va processato»

I pm contro l'ex capo della polizia: istigò alla falsa testimonianza sul blitz alla scuola Diaz

DAI NOSTRI INVIATI


GENOVA — «Io poi non capisco neppure come questa cosa possa aiutare i colleghi...». Il 26 aprile 2007 c'è la telefonata più importante. I magistrati la considerano una prova definitiva del fatto che l'ex questore di Genova Francesco Colucci non agiva per sé, e neppure per i colleghi, ma per conto dell'allora capo della Polizia. Il collegamento diretto.

La Procura di Genova chiede il rinvio a giudizio per Gianni De Gennaro, indagato dal giugno 2007 per aver istigato Colucci, (promosso prefetto dal 15 febbraio scorso) a rendere falsa testimonianza durante un'udienza del processo Diaz, che vede imputati alcuni dei principali funzionari della Polizia italiana. L'atto di accusa dei magistrati è stato depositato giovedì all'ufficio di presidenza dei Giudici per le indagini preliminari. Viene chiesto il processo anche per Spartaco Mortola, il funzionario che raccoglie le confidenze di un Colucci ignaro di essere intercettato in quanto indagato in una inchiesta sulla sparizione delle false bombe molotov che dovevano servire per «incastrare» i 93 manifestanti arrestati durante il blitz alla Diaz.

Ovviamente quest'ultimo è decisamente il più inguaiato. Per lui, l'accusa più grave, falsa testimonianza.

Il documento della procura — alcune decine di pagine — condensa i punti chiave di un'inchiesta che ha messo assieme un'enorme mole di materiale probatorio: intercettazioni, verbali di interrogatori, deposizioni, materiale di repertorio del processo Diaz, quasi 1.300 pagine. Nella loro ricostruzione, la tesi di un'unica regia impegnata a sviare e condizionare il processo per i reati commessi dalla Polizia durante l'irruzione alla scuola Diaz resta sullo sfondo.

Tutto è circoscritto alle lunghe chiacchierate (ne vengono citate sei) tra Colucci e il suo sparring partner Mortola, all'epoca capo della Digos di Genova, oggi vicequestore a Torino, che si prende la briga di rinfrescare la memoria al suo ex superiore. Grande risalto viene dato al colloquio del 26 aprile, quando l'ex questore racconta di essere stato a Roma: «Sono tornato ora, e praticamente il giorno 3 maggio devo venire a Genova... Il capo m'ha dato le sue dichiarazioni. Mi ha fatto leggere, poi dice... tu, devi, bisogna che aggiusti un po' il tiro». Colucci riferisce che il capo della Polizia gli chiede di farlo per i colleghi imputati nel processo, ma è perplesso. La richiesta principale riguarda infatti Roberto Sgalla, capo ufficio stampa del Viminale.

Interrogato nel 2001, e poi davanti alla commissione di indagine parlamentare, Colucci raccontò di non averlo avvisato affinché si presentasse alla Diaz.

Adesso dovrà cambiare versione, ma l'ex questore che dichiara più volte di non ricordarsi davvero nulla («C... sono passati sei anni!») non capisce cosa possa servire ai colleghi da aiutare questo dettaglio. Secondo i pm genovesi, serve soltanto a De Gennaro, per altro mai indagato nell'inchiesta sui fatti della scuola Diaz, per cancellare dalla propria immagine l'ombra di un pur minimo sospetto. Una questione che De Gennaro rischia di pagare cara se il Gip riterrà di accettare la richiesta di rinvio a giudizio. Il 16 novembre, l'ex capo della Polizia aveva scritto a Colucci, invitandolo a riflettere «sulle ragioni che ti hanno indotto a cambiare versione ». Era un invito a presentarsi davanti ai magistrati per chiarire. Ma — dopo molto tergiversare — non è stato accolto dall'ex questore.

Ma già così, per De Gennaro il prezzo da pagare è elevato. L'11 giugno 2007, quando ricevette l'avviso di garanzia, Gianni De Gennaro era ancora il capo della Polizia. Si dimise nove giorni più tardi, la novità sul suo conto era intanto diventata pubblica, per diventare capo di gabinetto del ministro dell'Interno, Giuliano Amato.

Con la benedizione dell'intero arco parlamentare, l'8 gennaio scorso ha assunto il ruolo di commissario straordinario per l'emergenza rifiuti in Campania, compito di difficoltà estrema. Da «licenziato», anche per la sinistra radicale divenne l'unica possibile risorsa per risolvere una situazione drammatica. A poco più di un mese alla scadenza del suo mandato, i risultati del suo lavoro — soprattutto a Napoli città — si vedono. Ma il passato, a volte, ritorna.

Giusi Fasano
Marco Imarisio
29 marzo 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Marzo 31, 2008, 12:48:55 am »

G8: PROCURATORE LALLA "PROCURA SPACCATA? UNA MENATA"
 

"Non so se ridere, mi riesce difficile mantenere un atteggiamento serio su certe cose. Posso dire solo una cosa: io non dovevo firmare niente, non mi hanno chiesto di firmare niente e non ho chiesto io di firmare niente. Di questa cosa non sapevo niente perche' avevo delegato il procuratore aggiunto Mario Morisani.

Gli avevo detto di occuparsi di tutto. Punto". Cosi' il procuratore Capo di Genova Francesco Lalla in un'intervista al'Agi, smentisce che dietro la richiesta di rinvio a giudizio dell'ex Capo della polizia, il prefetto Gianni De Gennaro per istigazione alla falsa testimonianza per i fatti del G8 di Genova, l'ufficio giudiziario si sia spaccato. "Non mi sono volutamente occupato della vicenda - sottolinea ancora Lalla - perche' ho delegato il mio vice che e' coassegnatario del procedimento e che doveva seguire quella fase li.

Questo significa che ho proprio delegato al procuratore vicario tutte le valutazioni che ha fatto a nome dell'ufficio. Io non mi posso occupare di tutto e quindi questa inchiesta e' stata seguita dal procuratore aggiunto e non da me". Lalla poi conclude con un pizzico di ironia: "La cosa piu' interessante sarebbe conoscere la fonte (giornalistica, ndr) di questa notizia, non si capisce come certe cose emergano in questo modo. Ma il mondo oggi e' cosi'. Che significa 'Il procuratore Lalla non firma' (titolo di un articolo del (Corsera, ndr)". In altre parole, per Lalla, la spaccatura nella procura di Genova e' tutta una "menata".

(AGI) - Roma, 29 mar. -
Registrato
Pagine: [1] 2
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!