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Autore Discussione: Angela MAURO.  (Letto 10614 volte)
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« inserito:: Marzo 23, 2013, 05:48:07 pm »

 Bersani torna da Napolitano a metà settimana.

Dopo Pasqua possibile voto di fiducia, prima alla Camera poi al Senato.

Il calcolo Pd-Sel: a Palazzo Madama Pdl fuori dall'aula

Angela MAURA

“Egli mi riferirà sull’esito della verifica compiuta appena possibile”. Giorgio Napolitano si congeda così dai giornalisti nello studio alla Vetrata del Quirinale dopo aver comunicato, con un nutrito e articolato discorso, la decisione di affidare un incarico per cercare una maggioranza di governo a Pier Luigi Bersani. Tradotto, quel vago riferimento temporale, “appena possibile”, vuol dire che a metà della settimana prossima, molto probabilmente mercoledì, il segretario del Pd salirà al Colle per sciogliere la riserva. E se dimostrerà di avere un “sostegno parlamentare certo”, come gli ha chiesto il capo dello Stato, verrà mandato in aula per un voto di fiducia. Secondo il timing immaginato al Quirinale, il voto potrebbe avvenire nella settimana dopo Pasqua: prima alla Camera e dopo al Senato.

La prospettiva di un voto in aula non è affatto esclusa al Colle. A patto che Bersani dimostri di avere i numeri per reggere la prova al Senato, a patto che porti a Napolitano qualcosa di più che una speranza. Ma allo stesso tempo dal Quirinale notano le dichiarazioni distensive del Pdl, disposto ad aprire al Pd sul governo. E registrano la disponibilità del leader Dem a trattare con il partito del Cavaliere sulle presidenze delle commissioni parlamentari, che dopo questori e vicepresidenze d’aula sarà il prossimo banco di trattativa a governo in carica. E più di tutte pesa la consapevolezza che nel nuovo Parlamento la maggioranza non vuole tornare al voto, questo è chiaro. A maggior ragione, un voto di fiducia che passi prima per la Camera, dove Italia Bene Comune ha la maggioranza assoluta, potrebbe trascinarsi facilmente un sì anche da parte del Senato.

Nessuno sa quanto potrebbe durare un governo del genere. Anche perché non è da sottovalutare che l’offerta di voti da parte del Pdl mette in imbarazzo Bersani e i suoi alleati di Sinistra e libertà. “Incontrerò i partiti con le mie idee”, ha detto il segretario del Pd dopo i 15 minuti di colloquio con Napolitano (era già tutto fatto, quello di oggi è stato più un incontro formale, si apprende). Una frase, quella di Bersani, che lascia intendere che non ci saranno concessioni che incrinino quella ricerca di cambiamento tanto invocata per il governo. Ma, considerato il niet grillino, il sentiero è strettissimo e questo spiegherebbe il volto teso di Bersani allo studio alla Vetrata. Rischia di farcela con i voti del Pdl e realizzare quelle larghe intese più volte auspicate dal capo dello Stato come segnale di stabilità verso gli interlocutori internazionali. Oppure rischia di fallire perché anche con il Pdl il passaggio è strettissimo, e non a caso Silvio Berlusconi alza la posta per ottenere garanzie sulla giustizia e una voce nel capitolo della successione al Colle.

Intanto il leader del Pd comincerà subito la sua 'via crucis' tra partiti e forze sociali, a partire da queste ultime. Sabato pomeriggio avvierà le sue consultazioni nella sala del Cavaliere di Montecitorio. Nell'attigua sala Aldo Moro si terranno le dichiarazioni alla stampa. Sarà una settimana di passione. L'idea di Bersani è di puntare sulle riforme istituzionali per conquistare un consenso largo in Parlamento. Il calcolo suo e degli alleati vendoliani è di arrivare a non dover accettare i sì del Pdl al Senato. Basterebbe infatti che i senatori pidiellini uscissero dall'aula al momento del voto e che i grillini in aula si astenessero. Sarebbe così possibile rispettare il numero legale di 160 senatori e ottenere un numero di sì maggiore della somma dei no e delle astensioni. Calcolo complicato, ma non impossibile. Al Nazareno lo ritengono a portata di mano, ma non sanno esattamente a quale prezzo potrà essere conquistato.

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/03/22/timing-del-quirinale-bersani-torna-da-napolitano-a-meta-settimana-dopo-pasqua-possibile-voto-di-fiducia-prima-alla-camera-poi-al-senato_n_2934107.html?1363976546&utm_hp_ref=italy
« Ultima modifica: Novembre 16, 2017, 09:04:09 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 15, 2013, 08:43:11 am »

 Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e oltre: nasce la lobby civile anti-presidenziale.

Stile referendum acqua

Pubblicato: 14/06/2013 16:33 CEST  |  Aggiornato: 14/06/2013 16:36 CEST

Angela MAURO

Non puntano a costituire un nuovo partito, i tempi sono cambiati. Ma di certo stanno lavorando a quella che chiamano “lobby civile” sul tema delle riforme. Sulla falsa riga del lavoro che tre anni fa portò al referendum sull’acqua pubblica, quando una miriade di sigle, associazioni, partiti e pezzi di partito si misero insieme per raccogliere le firme, ottenere la consultazione e vincere. Adesso, si tratta di tentare di bloccare la “deriva semi-presidenzialista” che ha preso piede in parlamento e nella commissione dei saggi del governo. Obiettivo più difficile, meno coinvolgente dell’acqua, in tempi forse più complicati. Ma personalità come Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, associazioni come Libertà e Giustizia, i Comitati Dossetti, Salviamo la costituzione, l’Anpi e altre sono al lavoro per costituire una tela utile per il referendum sulle riforme. Come dire: se non si riuscirà in Parlamento, la battaglia si sposterà nella società civile. E’ uno schema politico che per ora non conosce punto di approdo, ma si pone fuori da battaglie come può essere quella (filo-presidenziale) di Matteo Renzi nel Pd, per dire.

C’è questo dietro alla scelta di Rodotà di lasciarsi coinvolgere dal governo Letta sul tema delle riforme, pur rifiutando un posto nella commissione saggi e svolgendo invece un lavoro di mediazione dietro le quinte. La nuova rete prende spunto dalla manifestazione in difesa della Costituzione il 2 giugno a Bologna. Non a caso i protagonisti sono gli stessi scesi in piazza in quell’occasione. Non solo le associazioni, ma anche partiti, come Sel, la parte non presidenziale del Pd (all’iniziativa di Bologna avevano aderito Rosi Bindi, Sandra Zampa, Pippo Civati, Felice Casson, Laura Puppato…), e poi Maurizio Landini della Fiom. In questi giorni ci sono incontri, si sta tentando di organizzare un convegno a Roma entro la metà di luglio. I pilastri sono tre, quanto sono le criticità individuate nello schema del governo sulle riforme. Recita una nota di Libertà e Giustizia: “Il metodo scelto dal governo e dalle forze politiche che lo sostengono che non rispetta l’articolo 138 della Costituzione; Il semi presidenzialismo o il presidenzialismo che molti, anche fra i cosiddetti “saggi”, cercano di imporre; la legge elettorale che non è considerata la priorità assoluta”.

Alla base c’è la consapevolezza di fare una battaglia di minoranza, se davvero il cammino delle riforme proseguirà sui cardini individuati dal governo delle larghe intese. Ma l’idea è di preparare una tela che potrebbe entrare in gioco ai prossimi passaggi istituzionali. Una rete a sinistra, prateria che rischia di rimanere disabitata nei prossimi anni. Al di là del referendum. O forse per tentare di non ripetere gli errori della consultazione per l'acqua pubblica, vinta sì, ma dispersa e soprattutto inefficace, visto che in molte regioni vanno avanti progetti di privatizzazione delle risorse idriche. Proprio qualche giorno fa a Roma Rodotà ha partecipato a un dibattito organizzato in occasione del terzo anniversario del referendum sull'acqua. Titolo emblematico di come la battaglia non sia per niente finita: "Fuori i privati dall'acqua, verso la ripubblicizzazione".

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/06/14/stefano-rodota-gustavo-zagrebelsky-lobby-civile-anti-presidenziale_n_3441762.html
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:26:08 am »

   
Direzione Pd, Matteo Renzi prende atto dell'asse Epifani-Bersani-Franceschini-Letta: "Ma non vincono"

Pubblicato: 26/07/2013 18:54 CEST  |  Aggiornato: 27/07/2013 01:29 CEST

Angela MAURO

La direzione del Pd, riunita alla presenza del premier Enrico Letta, sembra un altro caso Shalabayeva. Solo che stavolta al posto di Angelino Alfano nel mirino c’è la vecchia dirigenza del partito e, sullo sfondo, le larghe intese con il Pdl. Vale a dire, l’ex segretario Pier Luigi Bersani, l’attuale Guglielmo Epifani e poi il ministro Dario Franceschini e indirettamente lo stesso Letta. Sulle barricate però non ci sono solo i renziani, a dir poco sbigottiti dalla proposta di restringere ai soli iscritti la platea congressuale per eleggere il segretario: se l’aspettavano da Bersani e Franceschini, cui imputano il “disastro” elettorale. Non se l’aspettavano da Epifani, che sospettano punti a una riconferma alla segreteria. Ma non sono soli. Con loro si schierano tutti gli altri candidati al congresso: da Gianni Cuperlo a Pippo Civati e Gianni Pittella. E l’elenco dei ‘fighetti’ (per dirla alla Letta-Franceschini) è lungo: Rosi Bindi, Matteo Orfini, pure Piero Fassino seppure con toni morbidi, persino il ‘si tav’ Stefano Esposito, i prodiani Sandra Zampa e Sandro Gozi, i veltroniani. Tanto che alla fine salta il voto finale sulla relazione di Epifani: la direzione viene aggiornata a data da convocare e chissà se si terrà la settimana prossima, quando è attesa la sentenza della Cassazione su Silvio Berlusconi e il processo Mediaset. Ma ad agitare il quadro c’è quella “fine del bipolarismo” riconosciuta da Franceschini nel suo intervento in direzione. “Vogliono fare un partito di moderati votati alle larghe intese”, sospetta il renziano Davide Faraone.

“Uno scenario da crollo dell’impero. Del resto, nessuna sorpresa: tutti i poteri oligarchici tentano di restare in piedi quando sono alla fine”, commenta David Ermini, pure di area Renzi. Invece però la sorpresa c’è stata. Perché Matteo Renzi, seduto lì in direzione ad ascoltare sbigottito gli interventi che di fatto lo invitano a non candidarsi alla segreteria, non se l’aspettava che lo stesso Epifani difendesse la scelta di far votare solo gli iscritti del partito. “Ci stanno provocando…”, riflette uno dei suoi. Eppure alcuni segnali dello scontro pomeridiano si erano palesati nella riunione mattutina della segreteria. Dove il renziano Luca Lotti si è scontrato con il bersaniano Davide Zoggia proprio sul tema della platea congressuale. “Le primarie devono essere per forza ristrette ai soli iscritti, altrimenti parteciperebbe anche il Pdl...”, avrebbe detto Zoggia. Lotti ha intuito l’antifona ma certo nemmeno lui si aspettava l’affondo in direzione. Perché i toni sono da ‘soluzione finale’ per Renzi. E gli uomini del sindaco lo intendono anche dal tono di Letta, quando prende la parola per chiudere i lavori: "C'è bisogno di un partito forte con un segretario che faccia il segretario".

Una riunione a porte chiuse, ma che però sembra in streaming, a giudicare dai tweet di protesta che la accompagnano dall’inizio alla fine, raccontandola minuto per minuto.

Civati la scrive sul suo blog: “La penso proprio al contrario di Franceschini, solo lontano parente di quel Franceschini che nel 2009 parlava di partito aperto contro il chiuso Bersani”. E su Letta che ha detto “il governo non è di routine, serve la legge elettorale altrimenti si vota e si torna alle larghe intese”, Civati ironizza: “Fare le larghe intese per non farle più, questa è la più bella di Letta”. Gozi si dice “soddisfatto” perché Epifani ha dato “una data”, proponendo le primarie per il segretario “entro la fine di novembre”. Ma la cosa passa in second’ordine quando scatta l’allarme sulla platea di soli iscritti, intesa dalla vecchia guardia come un’offerta di mediazione a Renzi, ma respinta al mittente dai renziani e gli altri ‘fighetti’, per chiamarli alla Letta-Franceschini. E quindi lo stesso Gozi: “La platea per la scelta del segretario deve essere assolutamente aperta, non riservata agli iscritti se vogliamo mantenere la missione originaria del Pd”.

Quando parla Bindi i renziani si scatenano con messaggi di “evviva, grande Rosi!”. Eppure anche lei è stata nel mirino di Renzi ai tempi della rottamazione. Ora dice che “per salvare il governo, non si può uccidere un partito”. E poi le parole di Cuperlo che dice no alla proposta di Epifani di “presentazione delle candidature nazionali soltanto dopo i congressi locali” e ufficialmente chiede di “non votare oggi visto che non c’è accordo”. “D’Alema è con noi”, ammettono i renziani, che comunque si sentono forti del fatto che “a settembre in assemblea non hanno i numeri sufficienti per cambiare le regole dello statuto: servono i due-terzi dei componenti”. E qui la minaccia sussurrata è di far mancare il numero legale per far saltare “il blitz dell’asse Bersani-Epifani-Franceschini-Letta”. “A noi interessa che ci abbiamo dato la data delle primarie, il 24 novembre: questa si decide in direzione”, sottolinea Faraone.

Sullo sfondo, resta il timore che il vero progetto dell’asse governativo sia di dichiarare morto il bipolarismo con una legge elettorale in senso proporzionale. Preoccupazioni che, nel fronte renzian-dalemiano, trovano conferme nel discorso di Franceschini in direzione, basato su una presa d’atto che “il sistema attuale non funzioni più” e che quindi non ha senso “mantenere un partito improntato al bipolarismo”. Da qui la proposta congressuale di Epifani, prima i congressi locali senza primarie e poi l’elezione del segretario nazionale, staccata dai territori. “Ma si stanno facendo male da soli. In un sol colpo sono riusciti a mobilitare la gente in nostra difesa sul web e a mettersi in cattiva luce, come quelli che vogliono cambiare le regole per escludere Matteo: gli è riuscita male”, conclude il renziano Dario Nardella a Montecitorio.


da - http://www.huffingtonpost.it/2013/07/26/direzione-pd-matteo-renzi-contro-epifani-bersani-franceschini-letta_n_3659579.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 23, 2014, 05:06:24 pm »

Angela Mauro

Da Landini a Rodotà, da Civati a Fassina: prove tecniche a sinistra contro il pareggio di bilancio in Costituzione (e Jobs Act)

Eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione si può e lo strumento può essere una legge di iniziativa popolare. Perché il Fiscal Compact siglato dai paesi europei nel 2012 ci obbliga al pareggio di bilancio, ma non prevede che la norma sia inserita nella Carta Costituzionale. E’ intorno a questa rivendicazione che in Italia si coagula uno strano schieramento. Alla testa, ci sono Maurizio Landini della Fiom e Stefano Rodotà, poi c’è Sel e il mondo della sinistra extraparlamentare, costituzionalisti come Gaetano Azzariti. E fin qui trattasi di un'alleanza ormai testata da tempo. Il punto è che con loro ci sono anche pezzi della minoranza Pd: quelli che in queste settimane si stanno opponendo al premier-segretario Matteo Renzi sulla riforma del lavoro. E così nella conferenza stampa a Montecitorio, dove viene presentata la proposta di legge che quest’autunno farà il giro di iniziative e manifestazioni per arrivare alle 50mila firme necessarie per raggiungere il Parlamento, ci sono Pippo Civati del Pd ma anche il bersaniano Stefano Fassina. Il primo non era in Parlamento quando la maggioranza di larghe intese Pd-Pdl inserì il pareggio di bilancio in Costituzione (articolo 81) con il governo Monti. Il secondo sì. Ma ora si unisce a chi ha sempre criticato la norma. Qualcosa sta cambiando e anche profondamente nel Pd.

Sono prove tecniche di una formazione di sinistra allargata, spronata dalla decisione del governo di rivedere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Si vedrà ma per il momento non ci sono avvisaglie di scissione nel Pd, solo scosse molto forti. Rodotà ci crede: “Si tratta di costruire attorno ai diritti uno schieramento politico che abbia la capacità di farsi valere”. Di certo c’è che gli stessi bersaniani, insieme a Gianni Cuperlo e Civati, già a giugno hanno chiesto di eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione nell’ambito della discussione sulla riforma costituzionale. Non è andata così, ma si sono mossi per tempo. Ora Fassina si avvicina ‘pericolosamente’ alla sinistra fuori dal Pd. A Landini, per dire, che in conferenza stampa sottolinea che “bisogna cambiare il paese ma partendo dai principi della Costituzione”, anche perché “se siamo rientrati in Fiat lo dobbiamo non alla politica ma alle decisioni della Corte Costituzionale”. Lo stesso Fassina ammette: “Questa iniziativa aiuta chi in Parlamento vuole cambiare rotta”. E aggiunge: “In questi anni ci hanno posto l’economia come tecnica da prendere o lasciare. Invece questa iniziativa serve a riportare la politica nel campo dell’economia”. E poi se ne va, alla riunione di minoranza sul Jobs Act, appunto.

Sono ‘movimenti a sinistra’ che non ci stanno a essere schiacciati dalla tenaglia tra “innovatori e conservatori”, dice Fassina. C’è tanto anti-renzismo ma pure molta diffidenza sulla possibilità concreta di reperire risorse per gli ammortizzatori sociali una volta eliminato l’articolo 18 dallo Statuto dei lavoratori: la prova del nove sarà nella legge di stabilità. Anche questo è un tratto che accomuna i variegati attori della nuova formazione, più culturale che politica. Sul pareggio di bilancio “non facciamoci illusioni: ci sono dei diritti giuridici che conoscono rapporti di forza sfavorevoli oggi”, avverte Fassina. “Se nessuno ci crede, se non si riusciranno a raccogliere le firme, questa proposta di legge finisce nel dimenticatoio”, precisa Azzariti. Ma al di là come andrà a finire, la proposta sul pareggio di bilancio e le critiche al Jobs Act saranno il filo conduttore delle mobilitazioni d’autunno.


La manifestazione indetta dalla Fiom per il 18 ottobre sarà uno degli appuntamenti utili per raccogliere le firme per la proposta di legge di iniziativa popolare. “Sarà una manifestazione propositiva per cambiare la politica del governo”, sottolinea Landini. “E per chiedersi cos’è l’Europa oggi, a quali interessi e poteri fa riferimento, a chi si sta rispondendo quando si fanno determinate scelte chieste dall’Europa”. Il collegamento è con il Jobs Act: “Il rischio è che cambino radicalmente i rapporti sindacali nel nostro paese...”. Come l’anno scorso, quando Landini e Rodotà lanciarono appelli contro la riforma costituzionale, col governo Letta e poi ancora con il governo Renzi (l’appello dei cosiddetti “professori”, come li chiamò il premier), anche quest’anno la bussola sta nella Carta del ’48.

“Oggi le regole economiche possono mettere in scacco la Costituzione – dice Rodotà – La politica ha allontanato da sé i diritti. L’articolo 81 non solo modifica la Costituzione ma è un vulnus nella Costituzione. Sono convinto che la nostra proposta di legge avrà il consenso dei cittadini e obbligherà la politica a prenderla in considerazione in Parlamento”. Si vedrà.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/09/23/landini-rodota-fassina_n_5867114.html?1411475346&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 05, 2015, 04:44:05 pm »

Matteo Renzi coach d'Italia: discorso di fine anno emotivo, niente politica.
Ma Al Pacino aveva la squadra per vincere
Pubblicato: 29/12/2014 20:26 CET Aggiornato: 29/12/2014 20:26 CET

Di Angela MAURO
La prima conferenza stampa di fine anno di Matteo Renzi premier non diventa primo titolo nei tg, non conquista le homepage dei siti, non fa notizia. Perché, mentre il presidente del Consiglio parla alla stampa in un’aula attigua a Montecitorio, al largo delle coste pugliesi sono ancora in corso le operazioni di soccorso sul traghetto Norman Atlantic. La triste odissea dell’imbarcazione partita dalla Grecia e mai arrivata ad Ancona per un guasto a bordo occupa lo spazio mediatico, assorbe anche le preoccupazioni del governo, riempie il discorso di Renzi, che più volte, nelle due ore abbondanti di conferenza stampa, si sofferma sulla tragedia in mare aperto per ringraziare chi sta prestando soccorso, fornire stime di volta in volta aggiornate sulle vittime, ricordare l’impegno dei ministri competenti: per gli sforzi della Marina militare e per il comparto Trasporti, Pinotti e Lupi. Il salvataggio dei passeggeri e dell’equipaggio della Norman Atlantic oscura la conferenza stampa del premier, ma al tempo stesso la esalta. Renzi può pregiarsi del risultato ottenuto (pur con vittime e dispersi) e fermarsi su un livello emotivo di discorso con il paese. Quasi che la tragedia del traghetto diventi metafora del suo impegno di salvataggio della nazione, come il coach Al Pacino nel film ‘Ogni maledetta domenica’, che non a caso Renzi, ‘allenatore italiano’, cita.

“Mi sento come Al Pacino in ‘Ogni maledetta domenica’ che cerca di dire ai suoi che ce la possiamo fare”, dice il premier all’inizio della conferenza stampa. Non è un caso che lo dica subito. Serve a chiarire che, per la conferenza stampa di fine anno, il menu prevede un discorso emotivo, assolutamente non politico, a dir poco prudente su tutte le questioni in agenda, anzi scientificamente costruito sui dribbling di tutti i nodi che verranno al pettine tra poche settimane. A cominciare dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo le dimissioni che lo stesso Giorgio Napolitano ha praticamente annunciato per la metà di gennaio. Su questo tema, il presidente del Consiglio non scuce nulla delle sue intenzioni. Si limita a dire che "i partiti si confronteranno sul metodo necessario e sicuramente troveremo tutti insieme la forza per eleggere un Presidente della Repubblica che rispetti non gli aggettivi dei media, spesso interessanti e intriganti ma che lasciano il tempo che trovano, ma che faccia quello che deve sulla base della Costituzione". Nulla di più, se non la convinzione che in Parlamento “non si sono 220 franchi tiratori” che possano gettare nel caos la prossima corsa quirinalizia.

Riluttante a scendere nel dettaglio, insofferente sulle domande dei giornalisti e per questo artatamente spiritoso. Come quando all’Huffington Post risponde che l’elezione del prossimo capo dello Stato “non è questione che appassiona gli italiani…”. O come quando a Sky chiede di cambiare il “sottopancia” che recita “Renzi, il mio è il governo che ha fatto meno leggi”. No, “siamo il governo che ha fatto meno leggi e più riforme”, ribatte. Oppure quando tenta di accorciare i tempi della conferenza stampa, “sfumatee...”, suggerisce al Tg1 delle 13.30, anche se in attesa ci sono ancora decine di interventi. Ma la scelta di saltare a piè pari le questioni cruciali, la scelta di dribblare la politica per agganciarsi all’antipolitica che lo ascolta in diretta tv non è casuale. E’ un po’ la mossa obbligata di chi non vuole o non può scoprire le carte sui prossimi appuntamenti, un po’ è la strategia di chi cerca ancora le carte da mettere sul tavolo.

L’unico tema sul quale il premier fornisce qualche precisazione in più riguarda la riforma del lavoro applicata agli statali. Chiarisce di essere stato lui stesso a stralciare dal Jobs Act la parte riguardante i dipendenti pubblici, sottolinea che la questione sarà contenuta nel disegno di legge Madia all’esame del Parlamento tra febbraio e marzo, accetta di dare qualche indicazione in più. Tipo questa: “Come tutti penso che chi lavora nella Pa, essendo per il 99% delle persone assolutamente perbene, abbia diritto di vedere punito chi sbaglia ma il Jobs Act e il ddl Madia sono due cose diverse, per questo ho chiesto di togliere il riferimento al pubblico impiego dal Jobs Act. Ma se è giusto che un impiegato pubblico che sbaglia, partendo dai furti e arrivando all'assenteismo a volte vergognoso, paghi, la risposta è sì. Su questo sono pronto al confronto in Parlamento”. Ma non specifica il motivo per cui sugli statali il governo ha deciso di agire per disegno di legge e non per decreto, che è la via più veloce usata per altri dossier urgenti.

Inutile chiedere delle ormai prossime elezioni in Grecia, la seconda notizia del giorno dopo il traghetto Norman Atlantic. Inutile chiedergli del tonfo delle borse, dovuto ai sondaggi che assegnano la vittoria al leader di Syriza, Alexis Tsipras, noto per la critica radicale all’impianto dell’euro e alle politiche europee di austerity. Renzi non si sbilancia. Esclude un “effetto contagio” della crisi greca in Italia e si limita: “Ho la buona abitudine di non mettere il naso negli affari degli altri Paesi: in bocca al lupo a tutti i candidati. Quando arriveremo a lavorare con nuovo governo discuteremo con loro. I leader che mettono il naso nelle altrui elezioni sbagliano. Altro è immaginare una campagna elettorale fatta nei partiti europei di appartenenza. Ma da presidente del Consiglio lavorerò con Samaras finché sarà premier, poi con lui o altri".

Resta il discorso emotivo. D’obbligo, se si pensa che la lettura dei giornali di oggi ha offerto al premier anche il sondaggio Demos commissionato da Repubblica: non proprio lusinghiero per il segretario del Pd e per tutti i politici. Lo studio dice che la sfiducia degli italiani nelle istituzioni, nei partiti, nella politica è calata ulteriormente e in maniera allarmante. L’unica personalità che ispira fiducia è Papa Francesco. Per il suo messaggio di fine anno, Renzi cita il sondaggio Demos. Ed è da qui che arriva ad Al Pacino ed ‘Ogni maledetta domenica’. Insiste che il suo 2014 ha segnato “un cambiamento che per me è una rivoluzione copernicana, per altri magari è molto meno: è cambiato il ritmo della politica”. Proprio "ritmo" è la parola scelta da Renzi per il 2015. Ribadisce l’obiettivo di ottenere l’ok del Senato alla legge elettorale entro fine gennaio, se necessario saltando le migliaia di emendamenti presentati con la tecnica del “canguro”, già usata per la riforma costituzionale quest’estate sempre a Palazzo Madama. Mostra una 'slide fatta in casa', praticamente un foglio A4, sulla scheda elettorale dell'Italicum: "E' un Mattarellum con le preferenze...". Sferza chi alimenta “un derby ideologico costante”, a partire dalla riforma del lavoro, ma “noi non ci stanchiamo, arriviamo dappertutto”.

La Norman Atlantic è stata evacuata. La maggior parte dei passeggeri è in salvo, ma ci sono vittime e dispersi. Cala il sipario sulla conferenza stampa di fine anno, si alza quello sull’Italia del 2015. Per la ‘pausa di riflessione’ di Capodanno, Renzi indica il famoso discorso che l’allenatore Al Pacino rivolge agli Sharks, squadra di football caduta in disgrazia: “…Tutto si decide oggi. Ora noi o risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l'altro, fino alla disfatta. Siamo all'inferno adesso signori miei. Credetemi. E possiamo rimanerci, farci prendere a schiaffi, oppure aprirci la strada lottando verso la luce…”. Certo, la versione di Renzi è più solipsistica. Nella conferenza stampa, il premier non cita né ringrazia i ministri, eccetto Pinotti e Lupi attivi sui soccorsi alla Norman. Non parla di squadra. Persino il ministro dell’Interno Alfano è costretto a mandargli un sms sui “reati calati del 7,7 per cento”. Della serie: ti prego, leggi. Renzi lo legge in diretta, ma il coach italiano continua a viaggiare in solitaria. Sperando che il 2015 non sia così arcigno come il clima che ha complicato le operazioni sulla Norman Atlantic.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/12/29/matteo-renzi-italia_n_6391110.html?1419881230&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 21, 2015, 06:13:36 pm »

Angela Mauro
Quirinale.
Domani sera Bersani riunisce i suoi alla sala Berlinguer della Camera.
Il sospetto: Renzi farà senza di noi

Pubblicato: 20/01/2015 21:09 CET Aggiornato: 2 ore fa

L’appuntamento è per domani sera alla sala Berlinguer del gruppo Pd alla Camera. Sala Berlinguer, quasi a voler ricordare altre stagioni, magari con un po’ di nostalgia. E’ lì che Pierluigi Bersani riunisce i suoi. Il messaggino inviato dal deputato Andrea Giorgis agli altri colleghi, anche ai senatori, dice che si farà il punto su riforme e legge elettorale. Ma il punto naturalmente sarà tutto politico, alla luce dei tribolati avvenimenti degli ultimi giorni. Nell’ordine: la tregua decisa mercoledì scorso, poi l’incontro andato male dello stesso Bersani con Renzi a ridosso del weekend, i fucili spianati di ieri sull’Italicum e la debacle di oggi per la minoranza. Renzi forza sulla legge elettorale sbaragliando la fronda bersaniana contro i capilista bloccati. E per di più, Renzi che riceve Berlusconi a Palazzo Chigi, si assicura i suoi voti sull’Italicum, pianifica un altro incontro con l’ex Cavaliere per martedì prossimo con focus sul Quirinale. La misura è colma. E il sospetto dei bersaniani, la fetta di minoranza Dem più consistente, è sempre più denso: Renzi non cura il suo partito, non pacifica il Pd, proporrà un nome frutto del Patto del Nazareno per il Quirinale.

C’è da dire che i Bersani e i suoi insistono nel separare le due partite. “Abbiamo sempre detto che la legge elettorale è cosa distinta dalla corsa quirinalizia”, dice Nico Stumpo in Transatlantico alla Camera. “Certo, c’è da vedere se sarà così anche per il premier…”. Ed è questo il punto che agita i sospetti. Che gioco fa Renzi? Bersani stesso non lo ha ancora capito. Ieri, ospite a ‘Otto e mezzo’, ha espresso quella che ha definito una “impressione”, e cioè che il premier “prepari una minestra con la destra e poi la si faccia mangiare a un pezzo del Pd”. Oggi questa impressione si è rafforzata tra i suoi. Per via della furia con cui Renzi ha forzato sui frondisti del Senato: nessun ascolto, avanti tutta con l’emendamento presentato da Stefano Esposito che ingoia tutti gli altri e avvia l’Italicum verso l’ok dell’aula. Gotor e i suoi non battono in ritirata, ma alcuni si sfilano. Più che altro, ci si chiede quale sarà il prossimo passo. Perché ci sono tutti gli elementi per pensare che la stessa tecnica verrà usata anche per l’elezione del capo dello Stato: in quarta votazione, con Berlusconi, per arrivare a 505 voti e chi c’è, c’è. "Renzi dovrebbe fidarsi un po' di più del suo partito e un po' meno di Verdini", dice il bersaniano Alfredo D’Attorre.

Perché in minoranza stentano a credere che Renzi non potesse proprio osare alcuna modifica della norma sui cento capilista bloccati previsti dall’Italicum. “Berlusconi arriva a votargli persino il premio alla lista!”, sbottano nella cerchia dei bersaniani alla Camera, “se Renzi avesse voluto, Berlusconi avrebbe anche accettato di ridurre i nominati in Parlamento…”. Però magari il premier non ha voluto. Magari vuole fare a meno di un pezzo di Pd per tenersi le mani libere sul Colle e scegliere il nome con Berlusconi, è ancora la riflessione che fanno in minoranza, leccandosi le ferite. E a quel punto che succederebbe? Nei conciliaboli torna a circolare il nome di Prodi: “Se Renzi lo proponesse, unirebbe tutto il Pd”. Ma a questo punto “vediamo che nome fa, magari ci piace”, è la battuta. Il pericolo del voto segreto sui primi tre scrutini continua ad aleggiare. “Il premier si comporta come uno che è sicuro dei voti: vediamo…”, è la sfida di questa fetta di minoranza che non pensa di lasciare il Pd, non pensa di seguire l’esempio di Sergio Cofferati ma ne subisce l’effetto che ha fatto presso la base. Però resta nel partito, guardato sempre più come una casa da presidiare affinché non venga occupata da altri “che si aggiungono e chissà da dove vengono…”, accenna Bersani.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/01/20/quirinale-bersani_n_6509556.html
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 21, 2015, 06:16:09 pm »

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Al Senato la resa dei conti nel Pd, ma la fronda dei 29 si sgretola. Ecco come Renzi ha scelto la linea Esposito

Pubblicato: 20/01/2015 18:33 CET Aggiornato: 5 ore fa

A Palazzo Madama ti raccontano che stranamente il clima in Sala Koch non era surriscaldato. Quasi che non si volesse sottolineare anche con toni accesi la sostanza già di per sé drammatica dell’assemblea del gruppo Pd con Matteo Renzi sull’Italicum. Nessuno scontro frontale, poche battutine e nessun sfottò nemmeno da parte del premier. Eppure oggi si è consumata la resa dei conti finale tra la minoranza Dem e il nuovo segretario. Oggi, in quelle tre ore scarse di assemblea in Sala Koch, è passata la linea del premier (con 71 sì) ed è stata certificata l’esistenza di una fronda di 29 irriducibili nel partito. Chissà se resteranno in 29: i renziani scommettono che in aula alla fine non saranno più di 20 al massimo, ma intanto la fronda esiste sull’Italicum e proietta le sue ombre sull’elezione del presidente della Repubblica. Quel che più risalta dall’assemblea in sala Koch è il timbro sul cambio di linea di Renzi: passato dalla strategia dello spacchettamento della legge elettorale per farla votare con maggioranze variabili, magari pure con il M5s, alla strategia dell’unico voto su un solo emendamento che spazza via tutti gli altri. E’ la nuova linea dura, concentrata nell’emendamento presentato dal Giovane Turco Stefano Esposito e praticamente adottato dal premier a ridosso del weekend, dopo il fallito incontro con Pierluigi Bersani. Anche questo cambio di linea si proietta sulla corsa quirinalizia.

La sorpresa di Corsini e Lo Moro. Quando in assemblea il bersaniano Paolo Corsini prende la parola per annunciare il documento politico del suo collega di corrente Miguel Gotor, firmato dai 29, al tavolo della presidenza c’è un attimo di soprassalto. Nessuno era a conoscenza del documento: né Renzi, né chi gli è seduto accanto, dal ministro Boschi al capogruppo Zanda, ai senatori Tonini e Lepri. Non lo sapeva nemmeno Claudio Martini, pure lui al tavolo della presidenza in quanto vicepresidente vicario del gruppo, lui che aveva firmato l’emendamento della discordia di Gotor ma che non ha aderito al documento politico anti-Renzi. E’ stato il primo shock, ben dissimulato dal premier che comunque già ieri aveva di fatto sposato la linea dura di Esposito, senatore noto per le sue posizioni tranchant. Il secondo shock arriva quando la senatrice Doris Lo Moro, ex magistrato, calabrese, bersaniana, firmataria del documento Gotor, prende la parola per annunciare la decisione di rimettere il mandato di capogruppo in commissione Affari Costituzionali. “Tra il ruolo e le mie convinzioni, preferisco le mie convinzioni per star bene con me stessa”, dice con molto pathos. E’ un’altra scossa elettrica per il tavolo della presidenza. Ma Renzi ha già scelto cosa fare dei 29. “Anch’io voglio star bene con me stesso ma, per il ruolo che abbiamo, la prima cosa è star bene con gli italiani”, replica alla Lo Moro.

Avanti tutta. Il premier si lecca i baffi quando il senatore Bruno Astorre interviene per spiegare il motivo per cui ieri ha ritirato la firma dall’emendamento Gotor contro i capilista bloccati. “Io non metto in discussione la fiducia al governo. La corda si tira per una battaglia ma non per spezzarla…”. E Renzi gongola quando prende la parola il senatore di Areadem Franco Mirabelli: “A favore delle riforme, per responsabilità verso il paese…”. Poi c’è l’ex dalemiano Nicola Latorre, da tempo ormai in maggioranza con Renzi. Però al premier fa bene sentirgli dire che è “stupito per la battaglia di gente che viene dalla mia cultura e tradizione, stupito perché nell’Italicum c’è una battaglia di sinistra!”. E non serve a nulla l’ultimo estremo tentativo di mediazione dell’ex tesoriere Ugo Sposetti, che non ha firmato il documento Gotor ma lancia una provocazione: “Per evitare che vengano eletti 100 nominati, basterebbe che il candidato premier si candidasse in cento collegi. A quel punto dovrebbe optare per un collegio, in tutti gli altri 99 scatterebbe l’eletto con la preferenza”. Insomma, per Sposetti basterebbe allargare il limite massimo di 10 pluricandidature previsto dall’Italicum. Troppo tardi, l’obiezione non riesce nemmeno a planare sul tavolo della presidenza.

Saranno proprio 29? Soprattutto però Renzi si prende la soddisfazione di rinfacciare ai bersaniani che "non sono io il primo che parla con Berlusconi", riferimento nemmeno troppo velato agli incontri di Maurizio Migliavacca e Denis Verdini nella passata stagione delle riforme. E stuzzica il suo conterraneo Vannino Chiti, alfiere della protesta in Senato contro la riforma costituzionale l'estate scorsa e contro i capilista bloccati dell'Italicum ora. Gli ricorda i bei tempi andati in Toscana, quando lavoravano insieme al "laboratorio democratico per l'Ulivo...", quando non c'era il governo dei rottamatori. E il premier prova sollievo quando fa il suo affondo contro Francesco Boccia, il lettiano che ad Affaritaliani ha parlato di “metodo Isis” da parte del governo. La sala Koch applaude, la minoranza è un po’ più gelida ma di fatto sembra in altre faccende affaccendata. Perché a quel punto manca poco al voto finale sulla relazione del segretario. Gotor, il protagonista di questa battaglia come lo fu Chiti sulla riforma costituzionale l’estate scorsa, è nervoso, siede in mezzo alla sala, ma spesso si alza, sente i suoi via sms. Dopo poco dirà: "Nessuna trattativa, siamo 29". E' Corsini ad annunciare che i 29 non partecipano al voto in assemblea. Renzi e i suoi si compiacciono del fatto che alla fine non si capisce in quanti davvero non partecipano alla votazione. L’anti-renziano Massimo Mucchetti, per dire, se n’è già andato per impegni in commissione.

Il cavallo di Troia di Esposito e la nuova linea. Di fatto i presenti al momento del voto sono 90. Settantuno sono i sì per Renzi, un astenuto. Di fatto sono solo 18 quelli che non partecipano al voto. E’ la ragione per cui i luogotenenti di Renzi al Senato non contano più di 20 dissidenze al momento del voto sull’ormai noto emendamento Esposito. Cioè il “cavallo di Troia” dell’Italicum, costruito per inglobare tutti gli altri 44mila emendamenti ed entrare subito, di forza, nel regno della nuova legge elettorale bipartitica. A poche ore dal voto sul suo emendamento, è proprio Esposito a portare la contabilità per il premier. Il suo pallottoliere dice che la maggioranza può contare su una 40ina di voti garantiti da Berlusconi nel suo partito e nel Gal. Più una 40ina di centristi, compreso Ncd. Dal Pd ne arriverebbero un’80ina su un totale di 108, ma potrebbero essere di più: dipende da quanto e se si sgretola il fronte dei 29. Per ora i renziani contano sullo smarcamento di: Cucca, Puppato, Broglia, Capacchione, Filippi, Guerrieri, Lai, Lo Giudice, Manassero, Albano, Manconi. E in effetti Laura Puppato, Donatella Alfano e anche Josefa Idem annunciano il loro sì all'emendamento Esposito, pur difendendo il documento dei 29. “La maggioranza c’è”, ci dice Esposito. Per un pelo, forse. Ad ogni modo, Renzi conta di portare a casa l’Italicum entro giovedì. Il sospetto dei renziani è che Gotor e i suoi abbiano deciso di presentare "un documento politico per nascondere la marcia indietro di molti firmatari dell'emendamento contro i capilista bloccati...", dicono dalla cerchia del premier.

Ormai linea dura: chi ci sta, ci sta, anche sul Colle. Il “cavallo di Troia” di Esposito è comunque ormai un simbolo della nuova linea che vale sull’Italicum e già guarda alla partita per il Colle. E’ la linea dura che ha mandato al macero il tentativo di spacchettare l’Italicum e lasciarlo votare a maggioranze variabili. Renzi ci ha lavorato fino a venerdì, quando ha scoperto l’emendamento del suo Giovane Turco in Senato: un solo voto e via ogni mediazione. Ieri sera una telefonata del ministro Boschi a Esposito ha messo il sigillo definitivo sulla nuova strategia. Fallite le altre strade, avanti così: chi ci sta, ci sta. E’ un test che guarda al Quirinale: dritto dritto verso la quarta votazione, quando, mettendo insieme voti di qua e di là, il premier conta di poter eleggere il successore di Napolitano. L’unità del Pd non è per niente scontata.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/01/20/senato-pd_n_6507856.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 30, 2015, 04:44:54 pm »

Angela Mauro
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Quirinale, Matteo Renzi fa il miracolo: Pd compatto su Mattarella.
E anche Bindi ammette: "E' stato bravo..."

Pubblicato: 29/01/2015 20:55 CET Aggiornato: 2 ore fa

 “Fatti dare un bacio!”. Il renzianissimo David Ermini esce dall’aula e si sbaciucchia la ‘assolutamente non renziana’ Rosi Bindi in Transatlantico. Succede anche questo nel ‘nuovo’ Pd miracolosamente unito sul nome di Sergio Mattarella per la presidenza della Repubblica. Entrambi, Ermini e Bindi, vengono dalla Dc. Ma non c’è solo la stima per il Democristiano di sinistra Mattarella nell’empatia che oggi sfoggiano in Transatlantico alla Camera, mentre in aula è già in corso lo spoglio sul primo scrutinio presidenziale. C’è che entrambi, pur da sponde opposte, riconoscono a Renzi il risultato di aver ricompattato il partito. Inaspettatamente. Lui, che sfonda tutto quello che può, stavolta ha unito. “Siamo stati bravi…”, ci dice Bindi, poi ammette: “E’ stato bravo, soprattutto perché ha messo in chiaro che se non passa Mattarella non c’è un altro candidato del Pd… Siccome tutti stavano lì a pensare: Mattarella non passa e poi c’è il ‘nostro’… Ecco tutto questo non c’è e non ci sarà”. E ride perché finalmente ha un motivo per essere contenta del segretario. “Se facesse così su tutto il resto…”.

Ma cosa è successo al Pd, magicamente felice, contento di esibire unità, tanto che lo vedi dalle risate, dal clima rilassato che tutti i delegati si portano dietro in Transatlantico arrivando alla Camera dall’assemblea dei grandi elettori riunita in un centro congressi vicino a Piazza di Spagna? “C’è stato un grande lavoro di tessitura in questi giorni…”, dice Bindi agitando la mano come per dire: un lavoro fino che nemmeno vi immaginate. Soprattutto, inaspettato che potesse compierlo Renzi, che fino a tre giorni fa nemmeno lo conosceva Mattarella, se non di nome. Pare che il premier abbia preso informazioni su di lui da Pierluigi Castagnetti, ex Popolare, anche lui come Mattarella alla guida della sinistra Dc che De Mita cercò di unificare. Informazioni sulla personalità di Mattarella, il carattere di questo uomo semi-sconosciuto nella moderna epoca dei social media, uomo della prima Repubblica, classe ’41, due generazioni prima di Renzi, una prima di Veltroni. Come ci è arrivato Renzi ad un uomo così lontano da sé?

Ci è arrivato a furia di scovare e schivare le trappole nascoste nel Pd. Primo, il rischio che il partito si ricompattasse senza di lui o contro di lui sul nome di Giuliano Amato, che paradossalmente era anche il candidato di Silvio Berlusconi. Secondo, il rischio altrettanto vivo che si dividesse nelle opposte tifoserie già schierate ognuna nel nome degli ex segretari: da Veltroni a Fassino a Bersani e poi le frange per Prodi, come Pippo Civati, unico rimasto fedele alla sua linea almeno sul primo voto: “Per Prodi, ma alla quarta voto Mattarella…”. Impraticabile la via degli ex segretari, troppo a rischio, troppo preziosa l’unità del Pd in questo momento. Come spiega in Transatlantico uno che di trattative in politica ne ha viste tante, Pino Pisicchio: “Con questa mossa Renzi è passato ad essere leader del centrosinistra e non più leader ‘nazariano’, almeno in pubblico…”. E ci voleva, ti dicono del Pd. Anche in vista di un possibile voto anticipato, aggiungono i renziani. Che non si sa mai, dovesse crollare tutto, pericolo sempre in agguato, “come ci si può presentare agli elettori dopo aver eletto Amato al Quirinale? Impopolare…”, dice un renziano doc dietro anonimato.

E invece su Mattarella, una volta capito che era l’uomo perfetto per il Colle nell’era del renzismo, il premier si è messo subito al lavoro per costruirne un’immagine pubblica ad effetto. Del resto, dicono i suoi, ha deciso di testarlo ieri sera, alla vigilia dell’assemblea dei grandi elettori Dem, lanciando il vicesegretario Lorenzo Guerini in avanscoperta a dire: “Partiamo e finiamo con Mattarella”. Per vedere l’effetto che fa. “E da ieri Mattarella si è solo rafforzato…”, ci dice il Giovane turco Fausto Raciti, segretario del Pd in Sicilia, non a caso accompagnato dal governatore siciliano Rosario Crocetta, sotto la pioggia, davanti alla sala convegni dell’assemblea dei grandi elettori Pd appena terminata. “Abbiamo votato all’unanimità, Mattarella è una personalità autorevole, ci riscatta tutti anche dalla mafia che gli ha ucciso il fratello…”, si scatena il siciliano Crocetta sul siciliano Mattarella.

In assemblea, Renzi, con solito piglio mediatico, ha già elencato “i sei motivi della scelta di Mattarella: è un uomo della legalità, è stato ministro dei rapporti con il Parlamento, e noi dobbiamo dare risposta alla domanda che viene da tutti i partiti di una centralità del Parlamento". E poi: "Pochi Dc hanno avuto come lui il coraggio di dimettersi, un tema vero per la politica italiana", riferimento a quando, nel 1990, Mattarella rassegnò le dimissioni da ministro dell’Istruzione del governo Andreotti in protesta contro la legge Mammì, quella fatta per le tv di Berlusconi. Ancora: “E’ il padre della legge elettorale che porta il suo nome, quella dei collegi", dice Renzi per solleticare la sensibilità del Pd sul Mattarellum. “Da ministro della Difesa, ha vissuto in prima linea la vicenda dei Balcani ed ha abolito la leva militare obbligatoria, è giudice costituzionale. Noi stiamo cambiando la costituzione, lui è un difensore della Costituzione, il che non significa essere intransigenti ma difenderla e gestire un momento di transizione nei rispetto del legislatore". Perfetto, anche per un’eventuale campagna elettorale. Chissà.

Di certo non è su questo che Renzi scommette al momento. Piuttosto, il premier scommette sul fatto che non ci saranno strappi che metteranno a rischio le riforme in Parlamento. Anche se Alfano strepita perché non è contento di Mattarella, al quartier generale del segretario Pd minimizzano. “Che fa? Fa cadere il governo?”. E infatti, poco dopo, il ministro dell’Interno corregge il tiro: i suoi voteranno scheda bianca alla quarta votazione e “Mattarella sarà il nostro presidente…”, dice Alfano. Con lui è fatta. E anche con Berlusconi, che deve domare il caos di Raffaele Fitto scatenato a chiedere le “dimissioni di tutti in Forza Italia” ma che alla fine decide anche lui per la scheda bianca al quarto scrutinio, quello che dovrebbe eleggere Mattarella con almeno 505 voti sabato mattina. “Saranno di più e non escluderei che i cinque stelle possano confluire – spiega il radical renziano Roberto Giachetti in Transatlantico – Un fattore che dovrebbe far riflettere Berlusconi: se lui si tira indietro sulle riforme, si fa avanti il M5s e a quel punto le preferenze tornano nell’Italicum in un battibaleno. Che fa? Si vuole suicidare, politicamente s’intende? Prego, si accomodi. Ma non gli conviene”.

E’ questa la scommessa di Renzi. “Ma alla fine Berlusconi non è in disaccordo su Mattarella e il patto del Nazareno non si strappa”, legge Pisicchio. Ad ogni modo, la costruzione messa in piedi per il Colle regge. E nel Pd, a dita incrociate, tutti scommettono che reggerà fino alla quarta sabato mattina, quando tutti avranno titolo per tirare un respiro di sollievo. In primis, i bersaniani. Che oggi camminano a dieci metri da terra, tanto si sentono di aver vinto. “Abbiamo lavorato per questo risultato. E per questo abbiamo alzato il tiro sulla legge elettorale al Senato”, ci dice Miguel Gotor, l’alfiere della battaglia contro i capilista bloccati dell’Italicum. “Con Mattarella si chiude la ferita dei 101 e ora i grandi elettori del Pd siano leali: lo devono anche a me”, dice Bersani, cui il miracolo non riuscì nel 2013.

Ma ora “è cambiato il clima”. E deve essere vero se ad ammetterlo è niente meno che Enrico Letta. L’ex premier sfrattato da Renzi è in Transatlantico, nello sguardo sembra un po’ provato da un anno non proprio felice, ma oggi si porta una mano sul cuore e sentenzia: “Sono molto contento”. Non senza una postilla, chi vuole intendere intenda: “Chi pensa che Mattarella sarà un presidente debole non lo conosce. Lui è uno di poche parole ma persona salda e forte…”.

“Un capolavoro”. Il renziano Angelo Rughetti si gusta il clima di unità Democratica costruita dal suo segretario. “C’è Mattarella e non ci sarà altro nome del Pd – continua Rughetti – così ha zittito le correnti. E poi quando in assemblea si è rivolto a Bersani: siamo partiti da dove ti sei fermato tu…”. Insomma, violini per Renzi, quasi troppo, in un clima che a tratti diventa quasi melenso in Transatlantico. Che poi “Mattarella sarà un garante per tutti anche per lo stesso presidente del Consiglio”, è fiduciosa Bindi che ci dice quale era la sua terna: “Nell’ordine: Prodi, Mattarella, Veltroni”. Di fianco Ermini: “La mia era la stessa! Ma al contrario…”. Ma va… I violini si fanno orchestra mai tanto intonata nel Pd da perderci la testa. “Però dopo l’assemblea Renzi mi si è avvicinato e mi ha detto: Rosi, tranquilla, nemmeno questa volta votiamo insieme”, ci racconta Bindi ridendo, divertita. Perché naturalmente il premier non vota per il presidente in quanto non è eletto in Parlamento e nemmeno grande elettore. Ecco, giusta distanza tra Rosi e Matteo: per ristabilire un po’ d’ordine nel Pd stranamente unito da insospettire anche i divani del Transatlantico.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/01/29/quirinale-matteo-renzi-pd_n_6572792.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 07, 2015, 12:31:03 pm »

Angela Mauro

Matteo Renzi comincia a ragionare senza Silvio.
Ministero del sud, un amo lanciato ai senatori del Gal vicini a Verdini

Pubblicato: 05/02/2015 20:04 CET Aggiornato: 05/02/2015 20:04 CET

Che l’emendamento tv presentato al decreto Milleproroghe sia o meno contro Silvio Berlusconi non è in cima ai pensieri del premier Matteo Renzi. E in questo senso non lo preoccupa nemmeno l’accordo raggiunto con il Nuovo Centrodestra sul falso in bilancio. Il punto è che il capo del governo è tutto concentrato a cominciare a ragionare oltre Berlusconi, oltre il Patto del Nazareno. Il che significa cercare modalità di assestamento della maggioranza che possano fare a meno dei voti di Forza Italia anche sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale. “I voti di Forza Italia sono stati necessari in passato ma non credo lo saranno ancora”, dice chiaro e tondo la vice di Renzi al Nazareno, Debora Serracchiani. Gli ami per agganciare nuovi numeri utili per la maggioranza sono stati lanciati. In questo senso, va letto anche l’annuncio del premier di voler istituire un nuovo ministero del Mezzogiorno, magari con la delega ai fondi europei.

E’ un segnale lanciato in direzione dei senatori del Gal, Gruppo autonomie e libertà, che conta 15 senatori in gran parte del sud, ma molto vicini al senatore di Forza Italia Denis Verdini. L’idea di un dicastero ad hoc per il Mezzogiorno è un boccone per loro, anche se non è destinato a uno di loro. Ma questo è il gruppo che Renzi sta cercando di avvicinare definitivamente alla maggioranza di governo. Anche perché ha capito che allargamenti a sinistra non sono possibili. Difficile sfondare la frontiera di Sel che tra l’altro sta attirando a sé anche diversi ex M5s. Complicata se non impossibile l’annessione, anche se dal quartier generale renziano non escludono intese ad hoc su singoli provvedimenti, come le unioni civili presto in discussione al Senato.

Per ora però il nuovo ministero resta un invito a collaborare, non è cosa fatta e non lo sarà fino a quando non si saranno calmate le acque nella nuova maggioranza dell’era di Mattarella al Colle, presidente condiviso ovunque tranne che dentro Forza Italia, dilaniata ormai al suo interno tra berlusconiani, fittiani, anti-patto del Nazareno, pro-patto. “Non è morto il Patto, è morta Forza Italia”, è la nuova linea sulla quale il premier sta cercando un nuovo assestamento. Con Alfano l’equilibrio pare ritrovato, dopo le tensioni per la scelta ‘Mattarella’. Tanto che oggi Pd e Ncd hanno trovato un’intesa niente meno che sul falso in bilancio e se la sbandierano per dire che: la maggioranza c’è indipendentemente dall’ex Cavaliere.

Ma Renzi non è interessato a gettare benzina sull’incendio che si è creato con Forza Italia. L’emendamento tv al Milleproroghe, che praticamente azzera lo sconto di 50 milioni di euro a Rai e Mediaset sul pagamento del canone delle frequenze, non è una norma ‘contro Berlusconi’, si sforzano di dire dall’inner circle del premier. Bensì il testo rispecchia da sempre la posizione del Pd sul tema. “Tutti ricorderanno le polemiche che accompagnarono la relativa delibera Agcom – spiega il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli - L'integrazione voluta dal ministero dell'Economia va letta come un giusto richiamo al rispetto degli equilibri del bilancio dello Stato: esplicita cioè un principio di finanza pubblica che è sempre presente e di cui sempre, nel complesso delle decisioni, occorre tenere conto". “Prima tutto quello che facevamo era con Berlusconi, ora tutto quello che facciamo è contro Berlusconi. Insomma, dobbiamo cominciare a vivere senza Berlusconi…”, dice David Ermini, responsabile Giustizia del Pd attivissimo oggi nella ricerca dell’intesa sul falso in bilancio.

Insomma, nell’era Mattarella, Berlusconi cessa di essere l’alfa e l’omega del governo Renzi, almeno così sembrerebbe al momento. Ma se la maggioranza assume altre forme, è difficile non trasferirle sul governo. Non a immagine e somiglianza, ma per farne una squadra più forte in grado di affrontare i mesi che restano fino alla fine della legislatura nel 2018. Quella del rimpasto di governo è un’idea che Renzi non ha mai abbandonato e sulla quale potrebbe agire nel medio-lungo periodo, non ora. Per ora, resta da riempire la tessera lasciata vacante dalle dimissioni di Maria Carmela Lanzetta, ex ministro degli Affari Regionali. In ballo, la possibilità che il suo dicastero diventi, appunto, il ministero del Mezzogiorno con la delega ai fondi europei che però ora è nelle mani del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/02/05/matteo-renzi_n_6623370.html?1423163109&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 11, 2015, 09:47:47 am »


Angela Mauro
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Italicum. Ora Matteo Renzi può minacciare il voto.
Ma non lo fa (per ora): stop governi tecnici e larghe intese
Pubblicato: 04/05/2015 21:34 CEST Aggiornato: 20 minuti fa

L’Italicum è legge. Matteo Renzi conquista la famosa pistola con cui minacciare le urne e la posa sul tavolo. Per ora l’argomento non lo interessa. Ma da oggi si può tornare alle urne in qualsiasi momento: se proprio dovesse servire, il modo per eliminare la clausola che fissa l’entrata in vigore dell’Italicum al primo luglio 2016 si trova. Il premier per ora non forza, “impegno mantenuto, promessa rispettata. L'Italia ha bisogno di chi non dice sempre no. Avanti, con umiltà e coraggio. È #lavoltabuona”, si limita a twittare. Ma è ben consapevole che da oggi nasce un mondo nuovo per la sua esperienza di governo, un mondo che lo vuole ancora più forte, senza rivali e con pochi contrappesi. “Finisce il capitalismo di relazione”, dice non a caso intervenendo alla borsa di Milano. Addio governo tecnici e di larghe intese: se si cade, si torna al voto. A sera i renziani fanno di calcolo al Nazareno. La caccia ai 61 no arrivati col voto segreto sull’Italicum (334 i sì) si conclude in meno di un’ora. Tra di loro, solo una “quarantina sono della minoranza Pd”, conclude Lorenzo Guerini senza baldanza, né sete di vendetta. Non ce n’è bisogno.

“Ho in mente i nomi, uno per uno, ma non ve li dico sennò sembrerebbe che abbiamo fatto una lista di proscrizione. E invece non c’è alcuna lista, nessuna rivalsa, anzi…”, aggiunge il vicesegretario del Pd. Anzi, nel Pd ora si lavora per ricomporre gli strappi. L’atteggiamento è proprio questo. E se poi in aula succederà l’irreparabile, se un giorno il governo non dovesse più avere la maggioranza, allora si tornerà al voto. Ormai la legge elettorale c’è. E con essa vengono spazzati via i vagheggiamenti sui governi tecnici, i sogni di ribaltone, i cambi di casacca che sono stati possibili nell’era del governo Letta e che hanno portato Renzi al governo. Ora, se il governo cade, si torna alle urne. Non a caso, proprio oggi in borsa a Milano, in vista del sicuro voto sull’Italicum in serata, il premier si porta avanti: “E’ finito il capitalismo di relazione, ora il mondo chiede dinamismo e trasparenza. Questo paese ha un problema di classe dirigente, non solo politica”. La polemica era con l’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, uscito dal giornale con un editoriale di fuoco contro il premier. Ma in realtà il bersaglio è più vasto, è “quel sistema di relazioni in cui giornali, banche, fondazioni e partiti politici hanno pensato di andare avanti tuti insieme discutendo tra loro”, dice Renzi e qui sì che trionfa: quel sistema con l’Italicum “è morto”.

E’ per questo che Renzi non nutre desideri di vendetta verso i dissidenti del Pd. Ha già stravinto. Nessuna epurazione, nessuna punizione. E lascia correre anche il fatto che la minoranza vada dicendo in giro che i loro ‘no’ sono stati più di 50. Tanto poi dal Nazareno diffondono ufficiosamente il risultato dei calcoli renziani. I 61 no sarebbero così composti: 9 di Alternativa libera (gli ex grillini). E poi: Massimo Corsaro, ex di Fratelli d’Italia; Luca Pastorino, il civatiano candidato in Liguria, ex Pd ora iscritto al gruppo Misto; Mauro Pili, ex Forza Italia, ora nel Misto; Enzo Lattuca, bersaniano del Pd che però aveva votato la fiducia sull’Italicum e che oggi invece si è aggiunto alla pattuglia dei 38 dissidenti. Fin qui fa 14. Cui però bisogna aggiungere altri 9 no sempre dal fronte della maggioranza: tra Ncd e Scelta Civica. E siamo a quota 23, sempre secondo i calcoli renziani. Messa così, la dissidenza Dem è esattamente ferma ai 38 che non hanno votato la fiducia, anche se da quel fronte oggi mancavano Davide Zoggia ed Eleonora Cimbro, assenti giustificati. Né più né meno di 38, “grasso che cola se arrivano a 40”, dice un renziano.

Ma oggi nessuno si intesta trionfalismi contro la minoranza, piegata e sfinita dalla partita sulla legge elettorale. Certo, Civati e Fassina vengono considerati persi: “Hanno praticamente annunciato l’addio al Pd in aula”, ricostruiscono nella cerchia del premier. Il primo, con quel “concludo in tutti i sensi” dato come riposta alla presidente della Camera Laura Boldrini che lo invitava a concludere l’intervento, non certo l’esperienza nel Pd. Il secondo, Fassina, che al contrario degli altri dissidenti ha allargato la sua dissidenza alle “politiche del governo”, così ha detto in aula. Ma se loro vanno, il grosso resta. Anche se Roberto Speranza, ex capogruppo, è stra-convinto del suo no: “E’ stata approvata una legge con meno della maggioranza, che in genere conta 405 persone…”, ci dice. E Gianni Cuperlo nota che l’applauso dei renziani dopo il voto finale in aula non è stato di gioia, bensì “sofferto… E’ come quando ti dicono ‘è benigno…’”, aggiunge, citando “Woody Allen che diceva: ‘le parole più belle non sono ti amo, ma è benigno’. Geniale”, e sorride con l’unico sorriso della giornata. Ma Renzi lavora alla ricomposizione, sempre per quello che gli permette il suo stile politico. Tranne Fassina e Civati, “tutti gli interventi della minoranza in aula sono stati rotondi – dice Guerini – hanno circoscritto il dissenso alla sola legge elettorale… Anch’io ho fatto un intervento apposta ‘rotondo’”.

In vista, ci sono le modifiche al ddl scuola, con cui il premier pianifica di smontare l’opposizione interna e quella sindacale. Poi quelle al ddl Boschi, in arrivo in Senato tra giugno e luglio. E le unioni civili, da approvare in Senato prima delle amministrative, in via non definitiva però. E inoltre il nuovo capogruppo alla Camera sarà uno dei 50 ‘responsabili’ di Area Riformista che si sono smarcati dai 38 che non hanno votato la fiducia al governo sull’Italicum (sul capogruppo si decide la settimana prossima). La Ditta è ancora una e questo è un valore a Palazzo Chigi. Tanto, alle brutte, c’è l’Italicum: il bazooka della legislatura.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/05/04/matteo-renzi-italicum_n_7206114.html?1430768500&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 11, 2015, 09:48:31 am »

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La base del Pd contro Renzi: in piazza il mondo della scuola. E il premier corre ai ripari...
Pubblicato: 05/05/2015 20:54 CEST Aggiornato: 3 ore fa

Roma, Milano, Firenze, Bologna, Aosta, Napoli, Cagliari e altre ancora. Studenti e professori insieme in piazza. “La buona scuola siamo noi”, scrivono sui cartelli nella capitale. Qualcuno rispolvera anche Alessandro Manzoni, ovvio: è il 5 maggio. “Ei fu…”, recita un cartello con un Renzi vestito da Napoleone. Macabro. Napoli si spinge anche più in là, dove le aule scolastiche si trasformano in urne per le elezioni: “Renzi a casa, bruciamo le schede elettorali…”. Il mondo della scuola sciopera contro la riforma del governo Renzi. E’ la più grossa protesta da quando l’ex sindaco di Firenze è al governo. Più pesante dello sciopero generale contro il Jobs Act, che cadeva in un periodo più ‘sereno’ per il presidente del Consiglio che infatti allora rispose: “Rispetto lo sciopero ma non mi impressiono”. No, la scuola è altra storia. Oggi, contro il premier, si è mosso un gran pezzo della base del Pd, la sua base. Per giunta, alla vigilia del primo test elettorale di Renzi dalle europee dell’anno: le amministrative di fine maggio.

Lo sciopero contro la scuola fa male al quartier generale renziano, dove in mattinata si raccolgono le notizie in arrivo dai cortei, quanto grandi sono e quanto rumorosi. Ma soprattutto notano e ammettono con la stampa, che, al di là della partecipazione di piazza, stavolta lo sciopero è ultra-riuscito: sono tantissimi gli istituti con le porte chiuse in questo 5 maggio. E infatti la risposta del premier questa volta è diversa. “Siamo pronti ad ascoltare e condividere" approfondendo "nel merito le ragioni di questa manifestazione”, dice Renzi dal suo tour elettorale in Trentino (lì per le comunali si vota domenica prossima), dove pure viene accolto da contestazioni, come accade spesso nei suoi giri per l’Italia, almeno dallo scorso autunno in poi.

La parola d’ordine al governo è “dialoghiamo” sulla riforma della ‘Buona scuola’. Non a caso Renzi non si associa al ministro dell’Istruzione Stefania Giannini che parla di “sciopero politico”. Stavolta, non c’è bastone, bensì carota. Dal Nazareno agiscono a colpi di slide su twitter: è la contraerea comunicativa per smontare lo sciopero.

In commissione si lavora anche nel giorno dello sciopero, anzi a maggior ragione. Proprio per poter dire, come fa il renzianissimo Dario Parrini, che “lo sciopero contro la riforma della scuola non tiene conto dei contenuti effettivi del provvedimento e combatte un testo già superato dalle modifiche promosse dal Pd e votate in commissione alla Camera”. Da settimane ormai il premier ha annunciato modifiche per ridimensionare il ruolo del preside, che lui avrebbe voluto effettivo ‘capo azienda’ in ogni istituto e che invece verrà affiancato dal collegio dei docenti e dai consigli di istituto nell’elaborazione del piano formativo. E poi le novità sui precari per fare in modo che chi abbia maturato 36 mesi di anzianità rientri in quota riservata al concorso che sarà bandito l’anno prossimo.

Basteranno le modifiche per smontare sciopero, contestazioni e possibili fronde della minoranza Pd ancora sul piede di guerra dopo la sconfitta subita sull’Italicum? La scommessa è aperta. Da Palazzo Chigi i riflettori sono puntati sul Senato, oltre che sui cortei del giorno. Perché quando il 19 maggio la ‘Buona scuola’ verrà licenziata da Montecitorio, si aprirà il fronte di Palazzo Madama, con la sua maggioranza risicata. L’appuntamento è per i primi di giugno, subito dopo le amministrative. E va da sé che la prova sarebbe ancora più difficile qualora il test elettorale presentasse anche solo una piccola défaillance per Renzi. Anche perché il tempo stringe: la ‘Buona scuola’ deve essere approvata in via definitiva (e quindi con l’ultima lettura alla Camera, dopo il Senato) entro il 15 giugno. Altrimenti i precari che verranno assunti (secondo la sentenza della corte di giustizia europea che ce lo impone) non potranno entrare in servizio dal primo settembre.

E’ già corsa contro il tempo. E contro le trappole. Dalla minoranza Pd continuano a chiedere che si proceda per decreto sull’assunzione dei precari, per avere il tempo di riflettere sulla riforma della scuola. Niet di Renzi, che consente modifiche al suo ddl anche in Senato ma che non lo molla: “altrimenti finisce in palude”. E i renziani notano con soddisfazione alla Camera che al corteo di Roma Stefano Fassina “è stato contestato…”. “Perché ormai la gente ce l’ha col Pd”, giustifica Fassina. Ma questa per la cerchia del premier è l’unica notizia ‘buona’ in una giornata che porta molti dei suoi a riflettere sugli “errori commessi sulla riforma della scuola, errori di comunicazione e non solo”. E’ anche per questo che, da ieri, il senatore Andrea Marcucci, renziano della prima ora, si affretta a chiedere ai segretari confederali Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo di “venire in audizione in commissione al Senato”. Tentativo di dialogo, chissà se andrà a buon fine.

Oggi non si direbbe. E poi c’è da mettere nel conto, dicono dalla cerchia del premier, che “ormai si protesta non in base al merito ma perché si deve contestare”. Il riferimento è in particolar modo alla minoranza Pd, che in commissione al Senato è presente con Corradino Mineo e Walter Tocci. Il primo - si ricorderà – l’estate scorsa fu sostituito in commissione per ‘permettere’ l’esame del ddl costituzionale. Il secondo si è dimesso dopo aver votato il Jobs Act, dimissioni poi respinte dall’aula. Sono primi scogli all’orizzonte, tra i renziani c’è già chi parla di nuove sostituzioni in commissione, come è avvenuto alla Camera sull’Italicum. Si vedrà. Certo è che la ‘Buona scuola’ sarà il primo test vero per la maggioranza di governo in Senato dopo lo scontro sulla legge elettorale e prima delle riforme costituzionali, che arriveranno a Palazzo Madama solo nella seconda metà di giugno. “Renzi stai sereno della tua buona scuola ne facciamo a meno”, recita un cartello in piazza. Il premier non condivide ma stavolta sa che non può fare il ‘terminator’. Almeno fino alle amministrative del 31 maggio.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/05/05/renzi-scuola_n_7214480.html?1430852057&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 11, 2015, 09:49:53 am »

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Matteo Renzi sfrutta la lezione inglese: siamo sulla strada giusta.
Davide Serra: Il punto è governare, non destra o sinistra
Pubblicato: 08/05/2015 20:54 CEST Aggiornato: 09/05/2015 05:29 CEST
RENZI SERRA

“Lo dico sempre: per me la sinistra è quella che non si è resa conto che esiste internet e continua a usare matita e penna. Il punto è avere una marcia avanti o indietro. Chi crea posti di lavoro senza aumentare l’indebitamento deve governare: in alcuni casi sarà a destra, in altri sarà a sinistra. Qui lo ha fatto Cameron e infatti continua a governare”. Messa così, come ce la spiega al telefono da Londra Davide Serra, fondatore e Ceo di Algebris Investments, amico del premier, abitante della City nonché neo-commendatore della Repubblica italiana, si capisce bene perchè la vittoria del Conservatore David Cameron in Gran Bretagna possa essere un assist per il Dem Matteo Renzi. Nessuna contraddizione, è la sinistra che si confonde a destra, il partito della Nazione che si pregia della lezione inglese, il voto di Londra che qui in Italia, nella cerchia strettissima del premier, diventa automaticamente la controprova del: ‘siamo sulla strada giusta”.

“Il Labour che ripudia Blair, perde”, sostiene il renzianissimo Dario Parrini, qui al Palazzo della Regione a Firenze, guardando estasiato il suo leader, Matteo Renzi, che firma un accordo quadro per la riqualificazione del porto di Livorno accanto al candidato Pd per le regionali Enrico Rossi. Proprio qui, nella sede della Regione Toscana, Renzi si congratula al telefono con David Cameron. Ufficialmente non aggiunge altro. Ma tra i suoi è gara alla rivendicazione. Dal premio di maggioranza che consente a Cameron di ottenere 331 seggi con il 36 per cento dei consensi: chiaro il riferimento all’Italicum e al suo premio alla lista che raggiunga il 40 per cento dei voti al primo turno. Fino alle critiche alla leadership del Labour: Ed Miliband è spostato troppo a sinistra. Mentre “Cameron ha fatto bene - ci dice al telefono Serra - con il suo governo, in Gran Bretagna la disoccupazione è passata dal 10 per cento al 5-6 per cento, in Europa è al 12 per cento. Il pil è cresciuto dieci volte in più rispetto al resto d’Europa. In Gran Bretagna il governo che fa bene, rimane in carica”. E in più, aggiungono dall’entourage del premier, Cameron ha ottenuto due risultati con un colpo solo: è riuscito a impedire la secessione della Scozia e insieme a sconfiggere il Labour, messo in ginocchio dalla nascita dello Scottish National Party.

Il problema è il Labour, quello attuale. “Come dice Blair, quando il Labour si comporta in modo tradizionale, ottiene un risultato tradizionale. Cioè perde”, dice Parrini, segretario regionale Dem in Toscana, deputato, nonché esperto di sistemi elettorali, al momento dedicato all’opera di ‘divulgazione’ dell’Italicum all’estero. Per intendersi: c’è anche lui dietro l’articolo di ‘El Pais’ di elogio alla legge elettorale appena approvata alla Camera. “Com'è sempre accaduto dal 1979, quando a guidare i laburisti è un esponente della sinistra interna, i laburisti perdono le elezioni”, aggiunge Parrini su Facebook. “Siamo sicuri che per vincere in un paese a maggioranza moderata occorra un leader come Ed Miliband?”, si chiede un altro renziano di ferro, anche lui fiorentino, David Ermini. “Non era forse meglio David? Ed Miliband è stata una bella testimonianza ma in Europa si vince solo con leader come Blair, Schroeder, Renzi…”.

Il Labour non ha un ‘Renzi’. Elementare, Watson. I renziani se la giocano tutta così. Premier che in serata ha mostrato tutto il suo orgoglio rispondendo a suo modo alla provocazione di D'Alema, il quale si era detto preoccupato per il calo degli iscritti al Pd. "Vinceremo - ha attaccato - anche contro i nostalgici del 25%".

"Il Labour deve digerire ancora la lunga, molto lunga, stagione dei governi Blair e Brown che tanto ha dato ma ha lasciato anche alcune ferite”, ci dice Marco Piantini, consigliere di Renzi sugli affari europei, presente anche lui come Renzi a Firenze per la conferenza europea ‘State of the Union’. “Dopo Blair, c’è stata una transizione complicata”, ‘fratricida’ a tutti gli effetti. “Ed Miliband è stato eletto su una linea, poi ha oscillato molto. Per noi il punto essenziale – aggiunge Piantini - è come la futura leadership del Labour si rapporterà con l’Ue. Sarà riformista e innovatrice, quindi più pro-Ue, o tornerà nel limbo?”.

Da Londra Serra twitta:

    Farage, Clegg, Milliband hanno dato dimissioni in 2 ore dal risultato Elezioni. Sarebbe bello vederlo in Italia un giorno. Serietà e Coerenza

    — Davide Serra (@davidealgebris) 8 Maggio 2015

Quanto a Blair, Serra ci va più cauto dei politici renziani. Ma è sempre tranchant, per come la mette: “Il modello Blair non è replicabile perché aveva creato un alto indebitamento privato legato alle banche, una bolla. Quando è esplosa, è saltato tutto. Oggi invece governa chi riesce a creare posti di lavoro senza aumentare l’indebitamento, pubblico e privato”. Che sia di destra o di sinistra, poco importa. Ecco come l’avversario politico può diventare una conferma: Cameron conferma Renzi.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/05/08/matteo-renzi-inglese_n_7242798.html
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 29, 2015, 10:17:51 am »

Grecia, Alexis Tsipras fissa i paletti per proseguire: Mai premier con i vecchi partiti. Atene incrocia le dita disillusa

Angela Mauro, L'Huffington Post
Pubblicato: 27/08/2015 18:42 CEST Aggiornato: 27/08/2015 18:43 CEST

"Tsipras? Non penso che sarà premier di nuovo. Ho creduto in lui, ma non ha fatto quello che ha promesso e da Syriza si sono creati due partiti: uno pro Europa e uno contro... Un pasticcio...". Vagelis Palalologos, proprietario del Cafè Metro sulla piazza di Monastiraki ad Atene, allarga le braccia. È disilluso, come molti in città, rispetto alla nuova tornata elettorale di settembre. Strada tutta in salita per il premier dimissionario. Che proprio per questo, ancor prima di iniziare la campagna elettorale, fissa i suoi paletti rispetto alla possibilità di guidare anche il prossimo governo un Grecia. Alexis Tsipras anticipa, sterza, puntando all'unica mission possibile: sfondare da sinistra al centro, trasformando Syriza in una sorta di nuovo 'Partito della Nazione'.

"Non sarò premier di un governo sostenuto da Nea Demokratia, Pasok, To Potami...", ha messo in chiaro il premier dimissionario in un'intervista alla greca Alpha tv. Da un lato, la frase non desta sorprese: la necessità di non dipendere dai voti dei partiti del vecchio establishment è il motivo per cui Tsipras ha deciso di dimettersi e puntare al voto, dopo la scissione di Syriza. Dall'altro lato, le condizioni dettate da Tsipras disegnano il nuovo, inedito, orizzonte politico di Syriza: una scommessa da roulette russa. Della serie: Syriza deve conquistare una maggioranza sufficiente per governare da sola o al massimo con i voti di Anel (partito alleato nell'esperienza di governo appena conclusa) o dei Greci Indipendenti. Altrimenti Tsipras non sarà premier e il destino del partito sarà tutto da vedere.

Le dimissioni di Tsipras: "Chiedo un mandato più forte"
Prendere o lasciare, vita o morte. O Syriza riesce a sfondare in quell'elettorato di centro scontento sia di Nea Demokratia che dei socialisti del Pasok (crollati al minimo storico nei sondaggi tra il 3 e il 5 per cento). Oppure avrà perso la sua nuova ragion d'essere. Così la vede Tsipras, mentre dal partito continua l'emorragia a sinistra, tra chi ha seguito l'ex ministro dell'energia Panagiotis Lafazanis nella sua Unità popolare, chi se ne va senza lasciare tracce politiche (per esempio l'ex segretario Tasos Koronakis, dimessosi lunedì) e chi seguirà la presidente della Camera Zoe Konstantopoulou nella sua nuova avventura politica (l'annuncio è atteso nel weekend). Si sfarina la coalizione della sinistra radicale, insomma. E quel che resta di Syriza cambia pelle. "Del resto, la maggioranza dei greci sogna un nuovo Pasok, una sinistra moderata senza corruzione e senza bugie, che non trascini la Grecia fuori dall'euro ma che la metta in sicurezza dal punto di vista dei conti e della crescita", ci dice Vassilis, barista in centro, perfettamente a suo agio a parlare di politica nel suo locale. "Qui ad Atene nei bar si parla di politica", precisa.

Ed evidentemente è qui, anche nel cuore dei bar di Atene, che si annida l'embrione della nuova campagna elettorale di Tsipras. Pare voglia incentrarla contro gli oligarchi, contro la corruzione, contro il vecchio establishment. Appunto. Per distinguersi da "chi ha distrutto la Grecia", come dice sempre, convinto che le elezioni erano l'unica via possibile, convinto anche che la Grexit "sarebbe una catastrofe per la Grecia". Alla sede di Syriza, un comitato elettorale è al lavoro sullo slogan della campagna e sulla conferenza nazionale del weekend, quando al centro congressi Athinais della capitale sono chiamati a raccolta i membri del comitato centrale, i rappresentanti locali, i parlamentari. Mentre la commissione politica lavora al programma parallelo di sostegno ai poveri, da accompagnare alle misure previste dal memorandum firmato a metà luglio. Sempre che l'esperienza di Tsipras premier continui, naturalmente. Proprio per rafforzare la denuncia alla corruzione degli anni passati, proprio in questi giorni Syriza sta lavorando al dossier sulla banca dell'Agricoltura, ex banca di Stato privatizzata due anni fa, al centro di uno scandalo "che è costato alla comunità 5 miliardi di euro - ci dice Yanis Bournous della segreteria politica di Syriza - Avevano prestato soldi a gente legata al Pasok quando era al governo, senza chiedere garanzie in cambio".

La sfida è difficilissima. E ora che il presidente della Repubblica Prokopis Pavlopoulous ha affidato il mandato di formare un governo temporaneo alla presidente della Corte Suprema Vassiliki Thanou, prima donna alla guida dell'esecutivo in Grecia, le elezioni sono vicinissime: il 20 settembre. "Di certo Tsipras è aiutato dal fatto che non ha rivali: non ci sono altri leader in grado di competere con lui", ci spiega Nikos Argous, capo redattore all'Huffington Post Grecia. "Inoltre Tsipras ha argomenti validi nel sostenere che la minoranza interna doveva fare la scissione subito dopo la firma del memorandum del 13 luglio, se è vero che quell'accordo ha scatenato la rottura. E poi Unità Popolare è schiacciata ormai sulla scelta di tornare alla dracma. Cosa che i greci non vogliono: lo hanno detto col referendum di luglio. Chi vuole tornare alla dracma ha altre offerte politiche: il Kke o Antarsya". Ma, continua Argous, il punto debole di Tsipras sta nel fatto che "in questa nuova virata verso il centro è solo. Ha pochi collaboratori disposti a seguirlo, pochi uomini fidati, poche professionalità. Un rischio che potrebbe portare l'elettorato a fidarsi di forze che al centro hanno sempre navigato, come Nea Demokratia o i liberali di To Potami".

Ad Atene c'è anche chi non ce la fa a operare pensieri così elaborati. Al mercato centrale di Atene torniamo a parlare con Maria. La troviamo seduta come sempre alla cassa del suo banco del pesce, proprio come a gennaio nei giorni delle elezioni. È più sconfortata di sette mesi fa. "Ora dovrei votare Tsipras per fargli fare quello che ha promesso di fare e non ha fatto?". Si scalda. "Troppe aspettative, la delusione è pesante". Guarda le spigole dall'occhio vispo di pesce fresco in esposizione al banco, i calamari e tutto il ben di Dio in vendita. "Anche quest'estate non è andata benissimo, meglio dell'inverno ma ancora non ci siamo...no, no".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/08/27/grecia-alexis-tsipras-fissa-i-paletti-per-proseguire_n_8049402.html?1440693837&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 06, 2016, 11:32:15 pm »

Quello che Renzi non dice su Viggiano e sulle trivelle

Pubblicato: 04/04/2016 17:47 CEST Aggiornato: 5 ore fa

Angela Mauro

C'è un grande 'non detto' nella narrazione renziana su questa storia del petrolio. Matteo Renzi, parlando in tv e oggi anche alla direzione Pd, omette di spendere anche una sola parola sulla piaga forse più grave dell'inchiesta potentina sulle trivellazioni in Basilicata: l'ipotesi di disastro ambientale che ha portato al sequestro di una parte del Centro Oli di Viggiano, provincia di Potenza, in zona confinante con il Parco della Val d'Agri, per l'esattezza 'Parco nazionale dell'Appennino Lucano', istituito nel 2007 eppure evidentemente sfregiato da un presunto traffico e smaltimento illegale dei rifiuti prodotti dalle estrazioni. Cos'ha da dire su questo il presidente del Consiglio?

Perché va bene rivendicare le scelte del governo in materia di energia: condivisibili o meno, al governo c'è Matteo Renzi e fa bene a eliminare ogni ipocrisia sulle scelte che fa . Va bene dire che "da qualche parte l'energia bisogna pur prenderla dove c'è, invece che incrementare i portafogli dei russi". Va bene finanche rivendicare la scelta dell'emendamento che ha incastrato il ministro Guidi e l'ha portata alle dimissioni, emendamento che ha sbloccato i lavori di potenziamento dell'oleodotto di Viggiano per portare il petrolio dal nuovo giacimento di Tempa Rossa a Taranto e punta a sbloccare anche l'adeguamento della raffineria di Taranto. Ma tutto questo, se si decide di farlo, deve essere fatto in tutta sicurezza: per l'ambiente e per i cittadini.

Così non è in Basilicata, regione in cui sono nata. Così non è a Taranto, dove solo negli ultimi anni il richiamo del posto di lavoro offerto dall'Ilva ha ceduto il passo all'allarme della popolazione sulle morti e le malattie che quello e altri stabilimenti piazzati nel cuore della città hanno prodotto. In Basilicata sono antiche e da sempre inascoltate le denunce delle organizzazioni ambientaliste, dei cittadini di Viggiano, dei professori universitari che si sono dedicati alla questione, degli allevatori che hanno perso le greggi e degli agricoltori che hanno perso coltivazioni per inquinamento da petrolio. Sono i "quattro comitatini", così il presidente del Consiglio li derubricò in un'intervista al Corriere della Sera a luglio del 2014. Ora su quegli allarmi indaga la magistratura.

Di più. Solo lo scorso ottobre è stato il presidente della commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti, Alessandro Bratti del Pd, che certo non è un anti-renziano bensì un parlamentare della maggioranza Dem, a lanciare l'allarme. Ecco cosa ha detto sulla Basilicata: "La Basilicata, a fronte di introiti per 159 milioni, ha subito un'inquinamento dell'aria e delle falde acquifere preoccupante. Chiedo al governo di riconsiderare e quindi modificare, in tempi brevi, la Strategia Energetica Nazionale, promuovendo la produzione di energia da fonti rinnovabili e riducendo, al contempo, la produzione di energia da fonti fossili". E ha anche presentato un'interpellanza urgente per chiedere al governo di rivedere la strategia di estrazioni in regione. Ancora: Bratti, con una delegazione della commissione, sarà in Basilicata a luglio per un sopralluogo deciso in seguito alle "segnalazioni arrivate dal territorio" su episodi di smaltimento anomalo dei rifiuti prodotti al Centro Oli in Val d'Agri.

Sulla sicurezza delle estrazioni il presidente del Consiglio non parla. Dà per scontato che in Italia venga fatto tutto secondo le regole. Da una parte, lo Stato che vuole creare "posti di lavoro". Dall'altra, i "comitatini" che bloccano le opere pubbliche. In mezzo, nulla. Come se i danni alle falde acquifere e alla qualità dell'aria fossero il prezzo imposto dall'aspirazione ad avere un futuro. Quale futuro, presidente del Consiglio?

Da - http://www.huffingtonpost.it/angela-mauro/quello-che-renzi-non-dice-su-tempa-rossa-e-sulle-trivelle_b_9609858.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001
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« Risposta #14 inserito:: Giugno 08, 2016, 10:56:52 am »

Amministrative, l'errore di Renzi: considerare suoi i voti di Berlusconi.
Ecco cosa pensano gli esperti

Pubblicato: 07/06/2016 19:04 CEST Aggiornato: 07/06/2016 19:04 CEST

Angela MAURO

Non sarà che Matteo Renzi ha compiuto l’errore più madornale e cioè considerare i voti di Forza Italia già liberati dalla fine del berlusconismo e dunque a disposizione del ‘nuovo’ Pd o Partito della Nazione che dir si voglia? E’ la domanda che emerge da questa tornata di amministrative, visto che, come ammette lo stesso premier, “i voti di Berlusconi ci sono” e restano nel recinto di Forza Italia. Ci sono ancora e in maggioranza non vanno al Pd che ha calcolato male anche l’alleanza con Verdini a Napoli e Cosenza: non ha fruttato granché e anche questo Renzi lo ammette. Un quadro fosco che sembrerebbe mettere d’accordo diversi esperti, a grandi linee, con le dovute differenze.

Il primo turno delle amministrative 2016 lascia sul campo una “situazione complicata”, ci dice Giovanni Orsina, politologo e ordinario alla Luiss. “Se il modello di Renzi è quello di un Partito della Nazione che sfondi al centro, con i voti del centrodestra contro il populismo, si può dire che per ora gli elettori del centrodestra stanno opponendo resistenza. E allo stesso tempo, il modello di Renzi, vale a dire un misto di establishment e protesta, non funziona più. Perché dopo due anni che sei al governo non può più funzionare la strategia di fare l’antipolitico per sgonfiare l’altra antipolitica”. Insomma, il rischio è di non essere né carne, né pesce: “Dopo due anni al governo, vieni visto come il nemico da abbattere, come establishment anche se adotti delle politiche ‘aggressive’ contro la crisi”. Che fare? “Mi piacerebbe rispondere che Renzi dovrebbe puntare di più sulla serietà, piantarla con le battute e attenuare la narrazione trionfalistica. Però è anche vero che siamo di fronte ad un’Italia che vota con rabbia…”. Orsina consiglia di “aspettare i ballottaggi: se il Pd ne esce bene, vuol dire che i voti del centrodestra li prende seppure al secondo turno…”.

Antonio Noto invece è certo: “I voti in uscita da Forza Italia vanno al M5s non certo al Pd”. E quindi per il direttore di Ipr Marketing, Renzi avrebbe perso la sua scommessa. “Berlusconi è stato il primo premier di protesta, in fondo… - continua il sondaggista – E dirò di più: a Napoli, per dire, tanti ex Forza Italia hanno votato addirittura per De Magistris, non certo per il Pd”. Già, ma perché? “Perché Renzi si è isolato e questo all’elettore non piace. Basti pensare che in un solo anno, la percentuale di fiducia nel premier è scesa dal 50 per cento al 33 per cento”. Dunque che significa: dovrebbe uscire dall’isolamento e ricostruire i cantieri di centrosinistra, come chiede la minoranza Dem? “Gli elettori se ne fregano dei cantieri di centrosinistra – risponde Noto – ma non vogliono l’uno contro tutti. In quest’arte si è già provato Berlusconi. Renzi dovrebbe però riuscire a far percepire che la qualità della vita è cambiata. Lui dice di sì, ma se poi il cittadino medio si percepisce povero come l’anno scorso, allora è chiaro che non lo vota”. Dipende dalle politiche del governo? “Dipende anche dalle aspettative che vengono create con la comunicazione: le politiche per la crescita hanno bisogno di un arco temporale di 3-5 anni per vederne gli effetti. Se il premier continua a creare l’aspettativa che si migliora in un mese, è chiaro che non gli credono più”. Renzi è spacciato? “No, la partita si gioca al referendum e non è detto che tutti gli anti-Renzi di ora saranno contro di lui a ottobre”.

“E’ una grossa ingenuità pensare che con la crisi del centrodestra, l’elettorato di centrodestra sia pronto a cambiare cavallo”, ci dice Piero Ignazi, esperto di politica comparata e componente del comitato scientifico della ‘Rivista Italiana di Scienza Politica’. “I leader politici fanno presto a posizionarsi, mentre gli elettori impiegano più tempo, ammesso che lo vogliano fare”. Quanto a Renzi, “non ha capito cos’è il M5s, un movimento che ha delle basi solide nell’insoddisfazione dei cittadini italiani per il funzionamento del sistema istituzionale di questo paese. Quando il Pd si identifica con tutto il potere, visto che il centrodestra è in crisi, finisce per catturare tutto questo sentimento di critica, un magma che lo identifica col nemico. E così anche da destra il voto è di protesta”. Consigli per Renzi? “Potrebbe anche crescere… Non è detto che piacciano solo i ragazzi, ma anche gli uomini adulti. Renzi ha tutte le capacità intellettuali per cambiare registro e consiglieri, ammesso che li ascolti… Andando avanti così si è tornati al livello della ‘Ditta’ del 2011: un partito che non sfonda”.

Roberto D’Alimonte, esperto in flussi elettorali ed editorialista del Sole24ore, è più cauto. “Il fatto che il Pd non intercetti i voti di Berlusconi può essere vero ma non si dimostra con i dati delle amministrative”, ci dice. “Per esempio, a Torino Fassino ha ereditato molti voti in uscita da Forza Italia, anche se ne ha persi tanti verso la Appendino. E ne ha più persi verso il M5s che guadagnato dal centrodestra”. Però a livello nazionale la tesi che ‘Berlusconi ancora c’è’ e il Partito della Nazione non è ancora maturo “può essere credibile. Vanno cercati altri dati – conclude D’Alimonte – ma è un fatto che Renzi conti molto sulle politiche fiscali per far breccia sull’elettorato moderato di centrodestra…”.

Per il futuro, forse, non per il presente.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/06/07/amministrative-renzi_n_10336818.html
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